Prima Parte
Paradigmi e principi
- Inside-out
Non esiste al mondo vera eccellenza che possa essere separata da un retto vivere.
David Starr Jordan
In oltre venticinque anni trascorsi tra uomini d’affari, colleghi dell’ambiente universitario e situazioni matrimoniali e familiari, sono venuto in contatto con un gran numero di persone che hanno raggiunto apparentemente un livello eccezionale di successo ma hanno dovuto fare i conti con un gran vuoto interiore, con un profondo bisogno di coerenza, di efficacia e di relazioni interpersonali più sane e più solide.
Immagino che alcuni dei problemi che mi hanno confidato siano comuni anche a voi che mi state leggendo.
Io mi sono posto obiettivi di carriera e li ho raggiunti: nella mia professione sto godendo di un successo invidiabile. Ma a costo della mia vita personale e familiare. Non riconosco più mia moglie e i miei figli. Non sono neanche più sicuro di conoscere me stesso e di sapere che cosa è veramente importante per me. Avrei dovuto chiedermi: ne vale la pena?
Ho cominciato una nuova dieta... per la quinta volta quest’anno. So di essere sovrappeso, e voglio tornare veramente in forma. Leggo tutte le novità in fatto di diete, mi fisso degli obiettivi, mi impongo un atteggiamento positivo e mi ripeto che posso farcela. Invece, niente da fare. Dopo poche settimane ci ricasco. Pare proprio che non riesca a mantenere una promessa fatta a me stesso.
Ho seguito un’infinità di corsi sull’efficacia manageriale. Mi aspetto molto dai miei dipendenti e lavoro molto per trattarli nel migliore dei modi. Ma non sento da parte loro nessuna lealtà nei miei confronti. Credo che, se dovessi restare a casa malato per un giorno, loro passerebbero la maggior parte del tempo a chiacchierare davanti al distributore del caffè. Perché non sono capace di insegnare loro a essere indipendenti e responsabili..., o di trovare dei dipendenti che possano esserlo?
Mio figlio è un adolescente ribelle e si droga. Qualsiasi cosa io tenti, non mi dà ascolto. Cosa posso fare?
C’è così tanto da fare! E non c’è mai tempo abbastanza! Mi sento sempre sotto pressione, senza un attimo di respiro, tutto il giorno, tutti i santi giorni, sette giorni alla settimana. Ho frequentato seminari sulla gestione del tempo e ho provato cinque o sei sistemi diversi di pianificazione. Sono migliorato leggermente, però non ho ancora la sensazione di vivere la vita felice, produttiva e serena che vorrei vivere.
Voglio insegnare ai miei figli il valore del lavoro. Ma per ottenere da loro un qualsiasi risultato devo seguirli passo passo... e stimolarli continuamente con lamentele ad ogni loro azione. E tanto più semplice sbrigarsela da solo. Perché mai i figli non possono fare il loro lavoro volentieri, senza che gli si stia sempre con il fiato sul collo?
Io sono uno occupato, molto occupato. Ma certe volte mi chiedo se tutto quello che faccio quotidianamente produrrà dei risultati, cambierà le cose, sul medio periodo. Vorrei poter pensare che la mia vita abbia avuto un senso, che qualcosa è cambiato perché io c’ero.
Quando vedo amici o parenti che hanno successo o ricevono qualche riconoscimento, naturalmente sorrido e mi congratulo con loro. Ma dentro, in realtà, mi rodo il fegato. Perché devo sentirmi così?
Io ho una personalità estremamente forte. Sono certo che, quasi in qualsiasi situazione, posso avere tutto sotto controllo. La maggior parte delle volte posso persino influenzare gli altri nel modo che voglio. Il più delle volte riesco a ottenere ciò che voglio proprio influenzando gli altri, in modo che suggeriscano esattamente la soluzione che voglio. Rifletto molto su ogni situazione e ho la netta sensazione che le idee che mi vengono siano di solito le migliori in assoluto. Eppure mi sento fuori posto, non a mio agio. Non sono mai sicuro di quello che gli altri pensano davvero di me e delle mie idee.
Il mio matrimonio è una noia mortale. Non posso dire che litighiamo, o ci siano problemi gravi: semplicemente non ci amiamo più. Siamo stati da un consulente matrimoniale, abbiamo tentato molte cose diverse, ma pare proprio che non riusciamo a riaccendere il sentimento di una volta.
Questi sono problemi profondi, problemi angosciosi: problemi che non si possono risolvere in quattro e quattr’otto.
Qualche anno fa, mi trovai con mia moglie Sandra a dover affrontare una di queste situazioni. Uno dei nostri figli aveva grosse difficoltà a scuola. Il suo rendimento era davvero basso; non riusciva neppure a seguire le indicazioni per affrontare i test, neanche lontanamente riusciva a passarli. Nei rapporti con gli altri era immaturo, spesso era causa di imbarazzo per chi lo circondava. Anche da un punto di vista fisico non era sicuramente forte: piccolo, gracile, incapace di coordinare bene i movimenti; per esempio, quando giocava faceva roteare la mazza da baseball prima ancora che gli venisse lanciata la palla. Gli altri gli ridevano dietro.
Sandra e io cercavamo in tutti i modi di aiutarlo. Eravamo convinti che se il “successo” era un aspetto importante nella vita, a maggior ragione lo era nel nostro ruolo di genitori. Così lavorammo sui nostri atteggiamenti e sul nostro comportamento e cercammo di fare questo stesso lavoro su di lui. Tentammo di cambiare il suo carattere usando tecniche per far emergere un atteggiamento mentale positivo. “Forza, figliolo! Dai, che puoi farcela! Lo sai che puoi. Impugna la mazza un po’ più in su e tieni ben d’occhio la palla. Non vibrare la mazza finché la palla non è a tiro”. E quando faceva un po’ meglio lo lodavamo e incoraggiavamo in tono entusiastico: “Bel colpo, ragazzo, continua così”. Quando i suoi compagni gli ridevano dietro li sgridavamo: “Lasciatelo in pace. Non stategli addosso. Sta solo imparando”. E nostro figlio si metteva a piangere e insisteva che sarebbe sempre stato una schiappa e che, del resto, il baseball non gli piaceva.
Qualsiasi cosa facessimo sembrava inutile, ed eravamo seriamente preoccupati. Era davvero evidente l’effetto che questa situazione aveva sul suo livello di autostima. Ci sforzammo ancora di più, lo incoraggiammo, cercammo di dargli una mano con un atteggiamento positivo, ma dopo ripetuti fallimenti decidemmo di soprassedere e cercammo di considerare la situazione sotto un’ottica diversa.
In quel periodo mi stavo occupando di sviluppo della leadership. Stavo preparando dei seminari sul tema della comunicazione e della percezione per un programma di formazione rivolto ai dirigenti dell’IBM.
Durante il lavoro di analisi e di progettazione, mi nacque un interesse particolare per come le percezioni vengono a formarsi, come governano il nostro modo di vedere e come il nostro modo di vedere determina il nostro modo di comportarci. Questo mi portò ad approfondire la teoria dell’aspettativa e delle profezie che si autoavverano, il cosiddetto “Effetto Pigmalione”, e a rendermi conto di quanto siano profondamente radicati i nostri modi di percepire. Questo m’insegnò che noi dobbiamo considerare e prendere in esame anche la lente attraverso cui vediamo il mondo, oltre che il mondo che vediamo, e che la lente stessa modifica il nostro modo d’interpretare il mondo.
Non appena Sandra e io cominciammo a parlare di questi concetti e della nostra particolare situazione, cominciammo a renderci conto che quanto stavamo facendo per aiutare nostro figlio non si armonizzava col modo in cui lo vedevamo realmente. Quando esaminammo onestamente i nostri sentimenti più profondi capimmo che quanto percepivamo era che fondamentalmente egli era inadeguato, in un certo qual modo “diverso”. Per quanto lavorassimo sul nostro atteggiamento e comportamento, i nostri sforzi erano inefficaci perché, nonostante le nostre azioni e le nostre parole, quello che veramente gli comunicavamo era: “Tu non sei capace. Tu devi essere protetto”.
Cominciammo a comprendere che se volevamo cambiare la situazione dovevamo prima di tutto cambiare noi stessi. E, per cambiare noi stessi veramente, dovevamo per prima cosa cambiare le nostre percezioni della realtà.
Carattere etico ed etica della personalità
Nello stesso tempo, oltre a compiere ricerche sulla percezione, ero coinvolto da uno studio approfondito della letteratura sulle tecniche per il conseguimento del successo pubblicata negli Stati Uniti a partire dal 1776. Leggevo e scorrevo centinaia di libri, articoli e saggi su temi quali: il miglioramento di sé, la psicologia popolare e l’autoaiuto. Avevo sottomano la summa di quello che un popolo libero e democratico considerava la ricetta per vivere una vita di successo.
Ripercorrendo due secoli di letteratura sul successo, notai una costante che mi sconcertava. Considerando quanto ci era accaduto e la nostra personale e dolorosa vicenda, alla luce di altre situazioni difficili analoghe che avevo incontrato nel corso degli anni, si fece sempre più netta in me la sensazione che gran parte della letteratura sul successo degli ultimi cinquant’anni fosse veramente superficiale. Ricca solo dell’importanza dell’immagine pubblica, di tecniche e di rimedi sbrigativi quasi miracolistici: cerotti e aspirine sociali destinati a problemi acuti, rimedi temporanei che a volte sembrano risolvere le situazioni, ma che non vanno neppure ad intaccare i problemi cronici di fondo, che riaffiorano, poi, più forti che mai.
In netto contrasto, quasi tutta la letteratura dei precedenti 150 anni sottolineava invece, come fondamento del successo, quello che potrebbe essere definito “carattere etico”: integrità, umiltà, fedeltà, temperanza, coraggio, giustizia, pazienza, laboriosità, semplicità, modestia. Un classico esempio di questa letteratura è l’autobiografia di Benjamin Franklin. La storia dello sforzo di un uomo per interiorizzare determinati principi e regole.
Il carattere etico porta a pensare che esistono principi fondamentali per la realizzazione della vita, e che le persone possono ottenere il successo reale e una felicità duratura solo se imparano a integrare questi principi nel loro carattere.
Poco dopo la prima guerra mondiale, però, la concezione fondante del successo si spostò dal carattere etico a ciò che potremmo definire 1’“etica della personalità”. Il successo diventò più una funzione della personalità, dell’immagine pubblica, di atteggiamenti e comportamenti, capacità e tecniche, che rendono più fluidi i processi di relazione interpersonale. L’etica della personalità prese essenzialmente due direzioni: una fu quella delle tecniche delle pubbliche relazioni, e l’altra quella dell’atteggiamento mentale positivo (PMA). Parte di questa filosofia si esprimeva in massime ispiratrici e a volte valide quali “Il tuo atteggiamento determina il tuo stato (di benessere)”, “Conquisterai più amici col sorriso che con una espressione severa” e “Qualsiasi cosa l’uomo possa concepire e in cui possa credere, può ottenerla”.
Altre parti dell’approccio basato sulla personalità erano chiaramente manipolatone, addirittura mistificanti, in quanto incoraggiavano a servirsi di tecniche per arrivare a piacere al prossimo, a fingere interesse per i passatempi degli altri per ottenere da loro quanto desiderato, a usare il potere dell’immagine, del look, o a conquistare uno spazio a scapito degli altri.
Parte di questa letteratura riconosceva il carattere come un ingrediente del successo, ma tendeva a considerarlo solo come un fattore a sé anziché riconoscerlo come fondamentale e catalizzante. I riferimenti al carattere etico diventavano più che altro omaggi di facciata; l’accento veniva posto sulle tecniche per influenzare gli altri, sulle strategie di potere, sulle capacità di comunicazione e sugli atteggiamenti positivi.
Cominciai a rendermi conto che questa etica della personalità era la fonte inconscia delle soluzioni che Sandra e io stavamo cercando di usare con nostro figlio. Nel riflettere più profondamente sulle differenze fra l’etica della personalità e il carattere etico, compresi che io e mia moglie avevamo ottenuto dai nostri figli un buon comportamento secondo i canoni convenzionali e che, ai nostri occhi, questo figlio semplicemente non si mostrava all’altezza dei nostri sforzi e delle nostre aspettative. La nostra immagine di noi stessi, e del nostro ruolo di bravi genitori, di genitori che avevano a cuore la riuscita dei figli, era ancora più profondamente radicata della vera immagine di nostro figlio, e forse la influenzava. Molto più complesso e importante della nostra preoccupazione per il bene di nostro figlio era il nostro modo di vedere e di affrontare il problema.
Le nostre discussioni ci permisero di renderci dolorosamente conto della poderosa influenza del nostro carattere, delle nostre motivazioni e del nostro modo ili percepire nostro figlio; di capire che il continuo confronto con i canoni della società non si armonizzavano con i nostri valori più profondi e che avrebbero potuto portare ad un amore condizionato, finendo col compromettere l’autostima di nostro figlio. Decidemmo perciò di concentrare i nostri sforzi su noi stessi: non sulle nostre tecniche, ma sulle nostre motivazioni più profonde e sul nostro modo di percepire nostro figlio. Invece di cercare di cambiarlo, cercammo di metterci in disparte: di separarci da lui e di avvertire la sua identità, la sua individualità, la sua peculiarità e il suo valore.
Attraverso una profonda riflessione e l’esercizio della fede e della preghiera, cominciammo a vedere nostro figlio nella prospettiva della sua unicità. Vedemmo in lui molteplici potenzialità che si sarebbero realizzate secondo il suo passo e la sua velocità. Decidemmo di rilassarci e di smettere di stargli addosso, per lasciar emergere la sua personalità. Capimmo il nostro ruolo naturale di genitori che dovevano incoraggiarlo, apprezzarlo e stimarlo. Inoltre lavorammo molto approfonditamente sulle nostre motivazioni e cercammo di crearci sicurezze interne a noi stessi, non legate al comportamento più o meno accettabile, secondo i canoni della società, dei nostri figli.
Nella misura in cui il nostro vecchio modo di percepire nostro figlio si attenuava e si andavano sviluppando motivazioni basate su valori, cominciarono a emergere nuovi sentimenti. Potevamo apprezzarlo semplicemente per il fatto che fosse nostro figlio invece di confrontarlo o giudicarlo continuamente. Smettemmo di cercare di “clonarlo” a nostra immagine o di misurarlo con il metro delle aspettative sociali. Non ci sforzammo più di manipolarlo, seppure con delicatezza, per renderlo adatto ad uno schema sociale accettabile. E siccome cominciammo a vederlo assolutamente adeguato ad affrontare la vita, smettemmo di proteggerlo dagli altri.
Era stato cresciuto sotto una campana di vetro, per cui all’inizio fu dura per lui, ci espresse il suo disagio, ma non intervenimmo più. “Non c’è bisogno che ti proteggiamo”, era il tacito messaggio. “Fondamentalmente sei a posto”.
Con il passare delle settimane e dei mesi, egli cominciò a sviluppare un gran senso di fiducia in se stesso. Letteralmente sbocciò, certo, con la sua velocità e il suo passo, ma sbocciò. Raggiunse risultati stupefacenti, se misurati in base ai criteri sociali convenzionali - dal punto di vista del rendimento scolastico, nei rapporti interpersonali e in campo atletico - e con un progresso incredibile, ben al di là dei processi di sviluppo cosiddetti naturali. Con il passare degli anni è stato eletto alla guida di molte associazioni studentesche, è diventato un atleta riconosciuto e ha cominciato a ricevere a scuola il massimo dei voti. Ha sviluppato una personalità coinvolgente e aperta che gli ha permesso di relazionarsi in maniera rilassata con ogni genere di persone. Io e mia moglie siamo convinti che i risultati “socialmente formidabili” di nostro figlio siano stati un’espressione, determinatasi spontaneamente, di quanto provava per se stesso piuttosto che uno sforzo volto ad ottenere una qualche riconoscibilità sociale. Si è trattato di un’esperienza straordinaria per me e mia moglie, e di un’esperienza molto istruttiva per il nostro modo di comportarci con gli altri figli e in altri ruoli. Ci ha fatto comprendere ad un livello molto intimo la differenza sostanziale tra l’etica della personalità e il carattere etico nel processo di raggiungimento del successo. Queste parole dei Salmi bene esprimono la nostra convinzione: “Cerca nel tuo cuore con la massima diligenza, poiché è da esso che provengono le soluzioni della vita”.
Grandezza di primo e secondo livello
L’esperienza con mio figlio, lo studio del fenomeno della percezione e le letture dei testi sul successo si fusero insieme a creare una di quelle esperienze “Aha!” che si hanno nella vita quando, di colpo e come per miracolo, tutte le tessere si sistemano al loro posto. Improvvisamente fui in grado di vedere il forte impatto dell’etica della personalità e di capire chiaramente quelle discrepanze sottili, e spesso non chiare a livello conscio, fra quanto io sapevo essere vero, certe cose che mi erano state insegnate molti anni addietro da bambino, cose che facevano parte del mio sistema di valori - e le filosofie mordi e fuggi da cui mi trovavo circondato ogni giorno. Capii veramente perché, spesso, lavorando con persone di ogni tipo e insegnando loro cose che ritenevo essere veramente efficaci, mi ero trovato spesso a dover combattere contro le mode del momento.
Non voglio dire che gli elementi dell’etica della personalità o sviluppo della personalità, la formazione sulle tecniche di comunicazione, l’apprendimento delle strategie “pensa positivo” o la retorica non siano di aiuto, anzi qualche volta sono addirittura essenziali per raggiungere il successo; ma sono elementi di contorno, secondari, non determinanti. Forse nel corso dei secoli ci siamo focalizzati così tanto sul processo di costruzione, da dimenticarci il nostro punto di partenza, le fondamenta stesse su cui costruire: abbiamo mietuto così tanto senza seminare, che ci siamo dimenticati del bisogno di farlo. Se cerco di usare strategie e tattiche per convincere gli altri a fare quello che voglio, a lavorare in maniera più motivata, a piacersi, mentre il mio stesso modo di essere denuncia chiaramente doppiezza ed insincerità, non posso pensare di avere un successo duraturo. Il mio essere “doppio” genererà inevitabilmente sfiducia, ed ogni cosa, anche supportata dalle migliori tecniche manageriali, sarà percepita come un tentativo di manipolazione. Non farà alcuna differenza la mia capacità nell’usure la tecnica, non farà alcuna differenza quanto buone siano le mie intenzioni, se non esiste fiducia, o è molto scarsa, non ci sono le basi per un reale successo.
Concentrarsi solo sulla tecnica è come basare la propria vita scolastica esclusivamente sugli esami. In questo modo si è promossi, magari anche con buoni voti, ma se non si lavora, giorno dopo giorno, non conosceremo mai veramente quanto abbiamo studiato né potremo sviluppare una vera istruzione.
Non avete mai pensato quanto sarebbe assurdo adottare un metodo del genere in una fattoria: dimenticarsi di seminare in autunno, non fare nulla per tutto l’inverno e la primavera, e poi sfacchinare in estate per racimolare un po’ di raccolto? Una fattoria è un sistema naturale. Il prezzo dev’essere pagato e il processo seguito. Si raccoglie sempre quanto si è seminato; non ci sono scorciatoie.
Questo principio è vero, in ultima analisi, anche nel comportamento umano, nelle relazioni. Anche questi sono sistemi naturali basati sulla legge del raccolto. Nel breve, in un sistema sociale artificiale come una scuola, si può andare avanti se s’impara come manipolare le regole fatte dall’uomo, a “giocare il gioco”. Nella maggior parte delle interazioni occasionali o di breve respiro, è possibile servirsi dell’etica della personalità per ottenere risultati e per fare un’impressione favorevole grazie a modi accattivanti e persuasivi, fingendo di essere interessati alle cose degli altri. Si possono imparare tecniche rapide e facili in grado di funzionare in situazioni a breve termine. Ma nelle relazioni a lungo termine i tratti secondari da soli, non portano lontano. Alla fine, se non ci sono una profonda integrità e una vera forza di carattere, le sfide della vita porteranno alla superficie le motivazioni reali e il fallimento del rapporto prenderà il posto di un successo a breve termine.
Molte persone dotate di una grandezza di tipo secondario - vale a dire il riconoscimento sociale per i loro talenti - sono prive dei valori fondanti, quali la bontà di carattere. Prima o poi questo si evidenzierà in ogni relazione importante, sia con un socio d’affari, il coniuge, un amico o un figlio adolescente in crisi d’identità. È il nostro carattere la cosa che comunica in modo più forte.. Come una volta disse Emerson: “Quello che tu sei mi grida così forte nelle orecchie che non posso udire quel che dici”.
Ci sono, naturalmente, situazioni in cui le persone possiedono forza di carattere ma non sono capaci di comunicare, e questo, senza dubbio, si ripercuote anche sulla qualità delle relazioni. Ma gli effetti sono in ogni caso secondari.
In ultima analisi, quello che noi siamo esprime di noi stessi molto più di qualsiasi cosa noi diciamo o facciamo. Tutti noi lo sappiamo. Ci sono persone di cui ci fidiamo ciecamente perché conosciamo il loro carattere. Che siano bravi comunicatori oppure no, che siano più o meno esperti nelle varie tecniche di gestione delle relazioni, in ogni caso noi abbiamo fiducia in loro, e lavoriamo con loro alla grande.
Come disse William George Jordan: “Ciascun individuo ha ricevuto nelle proprie mani un meraviglioso potere, sia usato nel bene o nel male: la silenziosa, inconsapevole, invisibile influenza sulla propria vita. Questo è semplicemente il riflesso costante di quello che l’uomo è realmente, non di quello che appare o finge di essere”.
Il potere di un paradigma
“Le sette regole per avere successo” include molti dei fondamentali principi dell’efficacia: principi fondamentali, primari. Le regole stesse rappresentano l’applicazione dei principi corretti su cui si basano felicità e successo reali, duraturi.
Prima di poter realmente comprendere queste sette regole dobbiamo capire i nostri “paradigmi” e imparare a fare un “salto di paradigma”.
Il carattere etico e l’etica della personalità sono esempi di paradigmi sociali. La parola paradigma viene dal greco; in origine era un termine scientifico, ma oggi è usato comunemente per indicare un modello, una teoria, un modo di percepire, un prospetto o un sistema di riferimento. In senso più generale, è il modo in cui noi “vediamo” il mondo: non nei termini del senso fisico della vista ma nei termini del percepire, comprendere, interpretare.
Un modo semplice di comprendere i paradigmi è di vederli come mappe. Noi sappiamo bene che “la mappa non è il territorio”. Una mappa è semplicemente una rappresentazione di certi aspetti del territorio: ed è esattamente quello che fa un paradigma. È una teoria, una spiegazione, un modello di qualcos’altro.
Ipotizziamo di voler raggiungere Piazza Velasca a Milano. Una cartina, una mappa sicuramente sarebbe di grande aiuto per giungere a destinazione. Supponiamo che la cartina sia sbagliata. A causa di un errore tipografico la cartina indicata come “Milano” è in realtà una pianta di Roma. Cercheremmo di arrivare a destinazione senza riuscirci. Avete un’idea della frustrazione che può provocare una situazione come questa?
Potremmo lavorare sul comportamento: aumentare gli sforzi, essere più attento, raddoppiare la velocità. Tutto questo avrebbe come unico risultato quello di farci arrivare più in fretta nel posto sbagliato.
Potremmo lavorare sull’atteggiamento: pensare in modo più positivo. Anche in questo caso non arriveremmo a destinazione, ma forse non ce ne importerebbe. L’atteggiamento sarebbe così positivo che saremmo felici dovunque ci capitasse di finire.
Il punto è che ci saremmo persi, in ogni caso. Il problema fondamentale non ha niente a che vedere con il comportamento o l’atteggiamento. Il problema è la cartina sbagliata.
Solo con la cartina corretta, il comportamento diventa importante; se ci dobbiamo scontrare con imprevisti lungo il percorso, interruzioni, deviazioni, in questo caso l’atteggiamento può contare davvero molto... Ma il primo e più importante requisito è la precisione della mappa.
Ciascuno di noi ha, nella propria testa, molte moltissime mappe, che possono essere divise in due categorie principali: mappe di come le cose sono (mappe della realtà) e mappe di come le cose dovrebbero essere (mappe dei valori). Noi interpretiamo tutto quello che percepiamo attraverso queste mappe mentali. Raramente mettiamo in discussione la loro precisione, di solito non siamo neppure consapevoli di averle. Semplicemente presumiamo che il modo in cui vediamo le cose sia il modo in cui esse siano o in cui dovrebbero essere.
I nostri atteggiamenti e comportamenti nascono proprio da queste credenze. Il modo in cui vediamo le cose è la fonte del nostro modo di pensare e del nostro modo di agire.
Vorrei ora proporti un’esperienza intellettuale ed emotiva. Gira la pagina e guarda per pochi secondi la figura 1 che vi è rappresentata.
Adesso gira ancora una pagina e descrivi accuratamente quello che vedi nella figura 2.
Vedi una donna? Che età pensi abbia? Che aspetto ha? Cosa indossa? Cosa fa nella vita?
Probabilmente descriverai la donna nel disegno sui venticinque anni, molto carina, abbastanza elegante, con un grazioso nasino e forse un po’ timida o civettuola, magari ti piacerebbe portarla fuori a cena o, se fossi uno stilista, potresti assumerla come indossatrice.
Ma se ti dicessi che hai preso un abbaglio? Se ti dicessi che quella è l’immagine di una donna di circa settant’anni, dall’aria triste, con un gran naso e sicuramente non adatta a fare l’indossatrice? Una donna che probabilmente aiuteresti ad attraversare la strada?
Quale delle due è la realtà? Guarda di nuovo la figura 2. Riesci a vedere la vecchia? Se non ci riesci, riprova. Adesso lo vedi il suo gran naso a becco? Il suo scialle?
Se tu ed io stessimo parlando a quattr’occhi, potremmo discutere del disegno. Tu potresti descrivermi quello che vedi, e io potrei parlarti di quello che vedo. Potremmo continuare a comunicare finché tu non mi mostrassi chiaramente ciò che vedi nell’illustrazione e io non ti mostrassi chiaramente ciò che ci vedo io.
Ahimè non possiamo farlo. Vai alla fine di questo capitolo, osserva bene la figura 3 e poi toma a guardare la figura 2. Adesso riesci a vedere la vecchia? È importante che tu la veda prima di continuare la lettura.
La prima volta che vidi questo esercizio fu molti anni fa alla Harvard Business School. Il docente lo utilizzava per dimostrare in modo chiaro ed evidente che due persone possono vedere la stessa cosa, non trovarsi d’accordo eppure avere ragione entrambe. Non è logica, è psicologia.
Un giorno portò in aula un mazzo di grosse carte, metà avevano il disegno della giovane donna della figura e l’altra metà il disegno della vecchia della figura 3. Le distribuì ai suoi studenti, la figura della giovane a coloro che sedevano nel lato sinistro dell’aula e la figura della vecchia all’altro. Ci chiese di guardare le carte, di concentrarci su di esse per una decina di secondi e poi di riconsegnarle. Dopo di che proiettò sullo schermo la figura 2, che combinava entrambe le immagini, e chiese agli allievi di descrivere quello che vedevano. Quasi tutti quelli che prima avevano visto sulle loro carte l’immagine della giovane donna videro la giovane anche nella figura proiettata. E quasi tutti quelli che prima avevano visto sulle loro carte l’immagine della vecchia videro la vecchia anche nella figura sullo schermo.
Il professore chiese poi a uno studente di spiegare quello che vedeva a un altro che si trovava al lato opposto dell’aula. Non appena cominciarono si verificarono problemi di comunicazione.
“Come sarebbe a dire, ‘una vecchia’? Ma se non avrà più di vent’anni, ventidue al massimo!”.
“Ma va là. Vorrai scherzare. Avrà settant’anni... magari ottanta!”.
“Senti, sei cieco o stai dando i numeri? È una donna giovane e bella. La inviterei volentieri a cena. È uno schianto”.
“Uno schianto? Una vecchia megera, vorrai dire”.
La discussione andò avanti, con ciascuno dei due sicuro di quello che diceva e assolutamente irremovibile. Il fatto incredibile è che gli studenti avevano un enorme vantaggio: la maggior parte di loro sapeva fin dall’inizio della dimostrazione che esisteva un altro punto di vista, cosa che molti di noi non sarebbero mai disposti ad ammettere. Malgrado ciò, all’inizio, solo pochi studenti cercarono di vedere quell’immagine secondo un altro schema.
I due continuarono per un po’ a scambiarsi le loro impressioni senza arrivare a nessuna conclusione; poi uno di loro si avvicinò allo schermo e indicò una linea del disegno: “Questa è la collana della ragazza”. L’altro lo rimbeccò: “No, è la bocca della vecchia”. Gradualmente cominciarono a discutere con calma di specifici punti di differenza e alla fine, uno dopo l’altro, improvvisamente riuscirono a mettere a fuoco l’immagine vista dal collega e a riconoscerla. Grazie a un costante, calmo, rispettoso e preciso scambio di impressioni, alla fine ciascuno di noi fu in grado di vedere dal punto di vista di un altro. Ma la maggior parte di noi, quando distoglieva lo sguardo per riportarlo sullo schermo, vedeva immediatamente l’immagine che era stato condizionato a vedere all’inizio dell’esercizio.
Utilizzo spesso questa dimostrazione dei fenomeni della percezione nel mio lavoro sia con privati che con aziende perché aiuta a mettere a fuoco molte profonde verità relative al concetto di efficacia sia a livello personale che interpersonale. Dimostra, prima di tutto, quanto sia forte l’effetto del condizionamento sulle nostre modalità di percezione, sui nostri paradigmi. Se dieci secondi possono avere quel tipo d’impatto sul nostro modo di vedere le cose, che dire del condizionamento di una vita intera? Le influenze che abbiamo subito durante le nostre vite - famiglia, scuola, chiesa, ambiente di lavoro, amici, colleghi e paradigmi sociali del momento tipo l’etica della personalità - hanno esercitato su di noi il loro inconscio e silenzioso impatto e contribuito a conformare i nostri schemi mentali, i nostri paradigmi, le nostre mappe.
Inoltre dimostra anche che tali paradigmi sono la fonte dei nostri atteggiamenti e comportamenti. Noi non possiamo agire in modo coerente al di fuori di essi. Semplicemente non possiamo mantenere la nostra integrità se agiamo in maniera diversa da come vediamo. Se appartenete al 90% di coloro che vedono la giovane donna nell’immagine, indubbiamente avreste qualche difficoltà a visualizzarvi mentre l’aiutate ad attraversare la strada. Sia il vostro atteggiamento che il vostro comportamento nei suoi confronti sarebbero necessariamente funzionali a come la vedete.
Questo fatto mette in luce una delle principali lacune dell’etica della personalità. Cercare di cambiare gli atteggiamenti e comportamenti superficiali non ha un grande effetto sul lungo periodo, se non si analizzano i paradigmi fondamentali da cui tali atteggiamenti e comportamenti nascono.
Questa dimostrazione mostra, inoltre, con quale forza i nostri paradigmi influenzino il modo d’interagire con gli altri. Per quanto chiaramente e obiettivamente noi crediamo di vedere le cose, ci stiamo cominciando a rendere conto che altri vedono le stesse cose in modo diverso, in base a un proprio punto di vista, altrettanto chiaro e obiettivo. “Da che parte stiamo dipende da dove siamo seduti”.
Ciascuno di noi è portato a pensare di vedere le cose così come sono, di essere obiettivo. Ma la verità è un’altra. Noi vediamo il mondo non come esso è, ma come noi siamo, come siamo condizionati a vederlo. Quando descriviamo quello che vediamo, in realtà descriviamo noi stessi, le nostre percezioni, i nostri paradigmi. Quando altri non sono d’accordo con noi, immediatamente pensiamo che in loro ci sia qualcosa che non va. Semplicemente, come la dimostrazione rivela, persone sincere e analitiche vedono le stesse cose diversamente, ciascuna guardando attraverso le lenti uniche della propria esperienza.
Questo non significa che non esistano fatti. Durante la dimostrazione, due individui che all’inizio sono stati influenzati da diverse figure, guardano insieme la terza immagine. Ora guardano entrambi gli stessi identici fatti: linee nere e spazi bianchi, ed entrambi sono disposti a riconoscerli come fatti. Ma l’interpretazione di questi fatti da parte di ciascuno dei due si basa su esperienze precedenti, e i fatti non hanno alcun significato se sono avulsi dall’interpretazione.
Quanto più noi siamo consapevoli dei nostri paradigmi, mappe o sistemi di riferimento, del modo in cui siamo stati influenzati dalla nostra esperienza, tanto più possiamo assumerci la responsabilità di questi paradigmi, esaminarli, testarli nella realtà, prestare ascolto ad altre persone ed essere aperti alle loro percezioni, ottenendo un quadro più ampio e una visione molto più obiettiva.
Il potere di un “salto di paradigma”
Forse la più importante scoperta che si ottiene dalla dimostrazione descritta è il salto di paradigma, ovvero l’esperienza in cui qualcuno finalmente “vede” in un modo diverso la figura. Più una persona è condizionata inizialmente, più è forte l’esperienza. È proprio come se improvvisamente si accendesse una lampadina nella mente.
Il termine “salto di paradigma” fu introdotto da Thomas Kuhn nel suo autorevolissimo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Kuhn dimostra come quasi tutte le importanti innovazioni nel campo della ricerca scientifica rappresentino in primo luogo una rottura con la tradizione, con vecchi moduli di pensiero, con vecchi paradigmi.
Per il grande astronomo egiziano Tolomeo la terra era il centro dell’universo. Ma Copernico determinò un salto di paradigma (combattendo contro molta resistenza e ostilità) ponendo il sole al centro. Improvvisamente, tutto ebbe una diversa interpretazione.
Il modello newtoniano della fisica era considerato un paradigma perfetto ed è ancora la base dell’ingegneria moderna. Ma era parziale, incompleto. Il mondo scientifico fu rivoluzionato dal paradigma einsteiniano, il paradigma della relatività, che aveva un valore predittivo ed esplicativo di gran lunga superiore.
Prima che venisse elaborata la teoria dei batteri, un’elevata percentuale di donne e di bambini morivano durante il parto, senza che nessuno riuscisse a comprendere i motivi. Durante le battaglie, erano più gli uomini che morivano per piccole ferite o per malattie che per ferite da prima linea. Quando fu sviluppata la teoria delle infezioni batteriche, un paradigma totalmente nuovo, un modo migliore e più preciso di comprendere la realtà rese possibile un rivoluzionario progresso della medicina.
Gli Stati Uniti di oggi sono il frutto di un salto di paradigma. Per secoli il concetto tradizionale di governo era stato quello di monarchia, basato sul divino diritto dei sovrani. Poi fu sviluppato un paradigma diverso: il governo del popolo, attraverso il popolo e per il popolo. Nacque così una democrazia costituzionale, che creò le condizioni per lo sviluppo di un formidabile potenziale di energia e ingegnosità umana e la creazione di un livello di vita, di libertà e d’indipendenza intellettuale, che non ha eguali nell’intera storia dell’umanità.
Non tutti i salti di paradigma avvengono in direzioni positive. Come abbiamo osservato, il passaggio dal carattere etico all’etica della personalità ci ha allontanati dalle radici che alimentano successo e felicità.
Ma sia che ci proiettino in direzioni positive o negative, sia che avvengano improvvisamente o attraverso un processo di sviluppo, i salti di paradigma ci spostano da un modo di vedere il mondo a un altro. E questi salti determinano enormi mutamenti. I nostri paradigmi, corretti o scorretti, sono le fonti dei nostri atteggiamenti e comportamenti e, in definitiva, dei nostri rapporti con gli altri.
Ricordo un piccolo salto di paradigma che sperimentai una domenica mattina in metropolitana a New York. I passeggeri sedevano tranquillamente, leggendo il giornale, assorti nei loro pensieri oppure riposando a occhi chiusi. Era un momento sereno, tranquillo.
Poi, ad una fermata, un uomo entrò nello scompartimento con i suoi figli. I bambini erano così chiassosi e irrequieti che l’intera atmosfera cambiò.
L’uomo prese posto accanto a me e chiuse gli occhi, apparentemente non curante della situazione. I bambini scorrazzavano avanti e indietro, urlando, tirandosi degli oggetti, perfino strappando i giornali dalle mani della gente. Era difficile mantenere la calma e non sentirsi furibondo. Eppure l’uomo che mi sedeva di fianco non faceva nulla.
Non riuscivo a credere che quell’uomo potesse essere così maleducato da permettere ai suoi figli di fare quel putiferio senza intervenire, senza assumersi la minima responsabilità. Era evidente che anche gli altri passeggeri erano alterati. Così alla fine, con tutta la pazienza e l’autocontrollo possibile, mi voltai verso di lui e gli dissi: “Signore, i suoi figli stanno disturbando tutti noi. Non potrebbe dir loro di starsene un po’ calmi?”.
L’uomo sollevò lo sguardo come se stesse realizzando la situazione solo in quel momento e rispose in tono spento: “Oh, lei ha ragione. Ho idea che dovrei intervenire in qualche modo. Stiamo tornando dall’ospedale dove la loro madre è morta un’ora fa. Io non so come reagire, e credo che anche per loro non sia semplice”.
Riuscite a immaginare che cosa provai in quel momento? Il mio paradigma cambiò. Tutt’a un tratto vidi le cose in modo diverso, e poiché vidi in modo diverso pensai in modo diverso, sentii in modo diverso, mi comportai in modo diverso. La mia irritazione svanì. Non dovetti preoccuparmi di controllare il mio atteggiamento o il mio comportamento; il mio cuore si riempì del dolore dell’uomo. Fui completamente sommerso da comprensione e compassione. “Sua moglie è morta da poco? Oh, come mi dispiace! Le va di parlarmene? C’è qualcosa che posso fare?” In un attimo cambiò tutto.
Molte persone sperimentano un analogo cambiamento importante nel modo di pensare quando si trovano a dover affrontare una situazione di crisi che minaccia la loro vita e improvvisamente vedono le loro priorità sotto una luce diversa, o quando assumono improvvisamente un ruolo nuovo, come quello di marito o di moglie, di genitore o di nonno, di dirigente o di capo. Potremmo passare settimane, mesi o anche anni tentando di cambiare i nostri atteggiamenti e comportamenti con l’etica della personalità; ma non riusciremmo neppure ad accostarci a quel fenomeno che avviene spontaneamente quando vediamo le cose in modo diverso.
È evidente che, se vogliamo fare cambiamenti relativamente modesti nella nostra vita, forse possiamo focalizzarci in modo appropriato sui nostri atteggiamenti e comportamenti. Ma se vogliamo operare un cambiamento importante, rivoluzionario, dobbiamo lavorare sui nostri paradigmi fondanti.
Come disse Thoreau: “Per ogni mille persone che colpiscono le foglie dell’albero del male, ce n’è una sola che ne aggredisce la radice”. Noi possiamo ottenere miglioramenti decisivi nella nostra vita solo se smettiamo di colpire le foglie (l’aspetto di manifestazione) e ci mettiamo a lavorare alla radice, cioè ai paradigmi che sono l’origine di queste foglie.
Vedere ed essere
Naturalmente, non tutti i salti di paradigma sono immediati. Contrariamente al salto di paradigma nella metropolitana, l’esperienza vissuta da me e Sandra, mia moglie, con nostro figlio fu un processo lento, difficile e voluto. L’approccio che in un primo tempo avevamo assunto con lui era la conseguenza di anni di condizionamento e di esperienza basati sull’etica della personalità. Era il risultato di paradigmi profondamente radicati in noi, legati al nostro successo come genitori nonché alla misura del successo dei nostri figli. E fu solo quando cambiammo questi paradigmi basilari, quando vedemmo le cose in modo diverso, che fummo in grado di effettuare un cambiamento radicale in noi stessi e nella situazione.
Per poter vedere nostro figlio in modo diverso, Sandra ed io dovemmo essere in modo diverso. Il nostro nuovo paradigma fu creato quando investimmo nella crescita e nello sviluppo del nostro carattere.
I paradigmi sono inseparabili dal carattere. Nella dimensione umana, essere è vedere. Quello che noi vediamo è profondamente correlato a quello che noi siamo. Non possiamo andare molto lontano nel cambiare il nostro modo di vedere senza contemporaneamente trasformare il nostro modo di essere, e viceversa.
Anche nella mia esperienza di salto di paradigma avvenuta quella mattina nella metropolitana, il mio mutamento di visione, limiti compresi, fu frutto del mio carattere di base.
Sono certo che esistono persone che, pur comprendendo la situazione, avrebbero avvertito solo una punta di rammarico o un vago senso di colpa, continuando a sedere in un imbarazzato silenzio accanto all’uomo affranto e confuso. Del resto, sono ugualmente sicuro che altri sarebbero stati da subito molto più sensibili, avrebbero potuto capire che esisteva un problema più profondo e si sarebbero attivati prima di quanto abbia fatto io per comprendere e aiutare.
I paradigmi sono forti perché creano le lenti attraverso cui vediamo il mondo. La forza di un salto di paradigma è il potere essenziale del cambiamento radicale, indipendentemente dal fatto che tale mutamento sia istantaneo e casuale oppure un processo lento e volontario.
Il paradigma centrato sui principi
Il carattere etico si fonda sull’idea chiave che esistono dei principi che governano l’efficacia; leggi naturali, reali, immutabili e indiscutibilmente presenti quanto lo sono, nella dimensione fisica, leggi come quella della gravità.
Un’idea della realtà di questi principi - e del loro impatto - può essere tratta da un’altra esperienza di salto di paradigma, raccontata da Frank Koch in “Proceedings”, la rivista del Naval Institute.
Due navi da guerra, utilizzate per attività di formazione, erano state per molti giorni al largo per esercitarsi in manovre in condizioni difficili. Io prestavo servizio sulla nave di comando ed ero di guardia notturna, sul ponte. La visibilità era scarsa, con banchi di nebbia, e così il capitano rimase con noi sorvegliando le varie attività dell’equipaggio. Poco dopo l’imbrunire, l’uomo di vedetta gridò: “Luce a tribordo!”. “Ferma o in allontanamento?” gridò il capitano. “Ferma, capitano,” rispose la vedetta. Questo significava che eravamo su una pericolosa rotta di collisione con quella nave. Allora il capitano ordinò al segnalatore: “Segnala a quella nave: siamo in rotta di collisione, vi consiglio di correggere la rotta di 20 gradi”. Giunse di rimando questa segnalazione: “È opportuno che siate voi a correggere la rotta di 20 gradi”. Il capitano disse: “Trasmetti: io sono un capitano, correggete la rotta di 20 gradi”. “Io sono un marinaio di seconda classe”, fu la risposta. “Fareste meglio a correggere la rotta di 20 gradi”. Il capitano era furente. “Trasmetti,” ringhiò “sono una nave da guerra: correggete la rotta di 20 gradi”. Rispose la luce lampeggiante: “Io sono un faro”. Cambiammo rotta.
Il salto di paradigma avvertito dal capitano - e da noi nel leggere questo racconto - pone la situazione in un’ottica totalmente diversa. Noi possiamo vedere una realtà che è oscurata dal modo limitato in cui viene percepita: capire questo fatto è di importanza vitale per noi, nella nostra vita quotidiana, come lo fu per quel capitano in mezzo alla nebbia.
I principi sono come i fari. Sono leggi naturali che non possono essere infrante. Cecil B. de Mille osservò, a proposito dei principi contenuti nel suo film I dieci comandamenti: “Ci è impossibile distruggere la legge. Possiamo solo infrangerci contro la legge”.
In realtà spesso le persone vedono la propria vita come interazioni in termini di paradigmi o mappe frutto di esperienza e di condizionamenti, ma queste mappe non sono il territorio. Sono una “realtà soggettiva”, soltanto un tentativo di descrivere il territorio.
La “realtà oggettiva”, il territorio, è l’insieme di principi “faro” che governano la crescita e la felicità dell’uomo: le leggi naturali sono state il fondamento stesso di ogni società civile nel corso della storia, sono le radici di ogni famiglia e istituzione che abbiano prosperato. Il grado con cui le nostre mappe mentali descrivono il territorio non cambia la sua esistenza.
La realtà di questi principi o leggi naturali è evidente a chiunque rifletta sui cicli della storia dell’uomo. Questi principi affiorano alla superficie più e più volte; e la misura in cui le persone li riconoscono e vivono in armonia con loro li guida verso la sopravvivenza e la stabilità, o al contrario verso la disintegrazione e la distruzione.
I principi a cui mi riferisco non sono idee esoteriche, misteriose o “religiose”. Non c’è un solo principio insegnato in questo libro che appartenga esclusivamente a una particolare fede o religione, compresa la mia. Questi principi fanno parte di tutte le principali religioni, di tutte le filosofie e di tutti i sistemi etici. Sono autoevidenti e possono essere facilmente riconosciuti da ciascuno di noi, come facenti parte della condizione umana, della coscienza. Sembrano esistere in tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla classe sociale e dal loro rispetto, anche se possono essere indubbiamente oscurati da situazioni di mancanza di lealtà o disonestà.
Mi riferisco, per esempio, al principio d’imparzialità, da cui si sviluppa il nostro concetto di equità e di giustizia. I bambini piccoli sembrano avere un senso innato dell’imparzialità anche indipendentemente da esperienze condizionanti di segno opposto. Esistono molte differenze nei modi in cui l’imparzialità è definita e raggiunta, ma esiste una consapevolezza quasi universale dell’idea.
Altri esempi sono la coerenza e l’onestà: creano il fondamento della fiducia, elemento essenziale per la cooperazione e la crescita personale e interpersonale a lungo termine.
Un altro principio è quello della dignità umana. Il concetto fondamentale espresso nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti definisce questo valore o principio: “Noi sosteniamo queste verità come indiscutibili: che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”.
Un altro principio è quello di servizio, ovvero l’idea di lasciare un contributo. Un altro è quello di qualità o eccellenza.
C’è poi il principio di potenziale, l’idea che siamo come in un bozzolo e possiamo crescere e svilupparci, manifestare sempre maggiormente il nostro potenziale, sviluppare sempre più i nostri talenti. In stretto rapporto con il potenziale è il principio di crescita - il processo di liberazione del potenziale e di sviluppo del talento - con la necessità correlata di principi come quelli di pazienza, sollecitudine e incoraggiamento.
I principi non sono modalità. Una modalità è un’azione specifica, una serie di attività. Una modalità che funziona in una circostanza non funzionerà necessariamente in un’altra, come possono facilmente testimoniare quei genitori che abbiano cercato di educare il secondo figlio esattamente come educarono il primo.
Mentre le modalità sono specifiche, legate alle situazioni, i principi sono verità profonde e fondamentali che hanno un’applicazione universale. Valgono per singoli individui, coppie, famiglie, organizzazioni private e pubbliche di ogni tipo. Quando queste verità sono interiorizzate in regole, mettono in condizione gli individui di creare un’ampia varietà di modalità che permetta loro di affrontare con successo diverse situazioni.
I principi non sono valori. Una banda di ladri può condividere dei valori, ma questi sussistono in violazione dei principi fondamentali di cui stiamo parlando. I principi sono il territorio. I valori sono mappe. Quando noi costruiamo il nostro sistema di valori su principi corretti, abbiamo la verità: una conoscenza delle cose così come esse sono.
I principi sono linee guida per gli esseri umani che hanno dimostrato di avere un valore duraturo, permanente. Sono le fondamenta. Sono essenzialmente indiscutibili perché la loro validità è autoevidente, non necessita di dimostrazioni.
Un modo di capire velocemente l’evidenza dei principi consiste semplicemente nel considerare l’assurdità di tentare di vivere una vita basata sui loro opposti. Dubito che qualcuno considererebbe seriamente l’ingiustizia, la falsità, la bassezza, l’inutilità, la mediocrità o la degenerazione come un solido fondamento per la felicità e il successo di lunga durata. Anche se si può discutere su come questi principi siano definiti, si manifestino o siano realizzati, sembra che ci siano una coscienza e una consapevolezza innate della loro esistenza.
Maggiormente le nostre mappe, o paradigmi, sono allineati con questi principi, leggi naturali, tanto più accurati e funzionanti saranno.
Mappe corrette esercitano un impatto enorme sulla nostra efficacia personale e interpersonale, un impatto molto maggiore di qualsiasi nostro sforzo per cambiare i nostri atteggiamenti e comportamenti.
Principi di crescita e di cambiamento
Il fascino dell’etica della personalità, il suo essere così allettante, è dovuto alla rapidità e facilità con cui offre apparentemente qualità alla vita - efficacia personale e relazioni interpersonali ricche e profonde - senza attraversare il processo naturale di lavoro e di crescita che rende possibile questo risultato.
L’etica della personalità è simbolo senza sostanza. È il progetto “come arricchirsi in fretta” che promette “benessere senza lavoro”. E potrebbe sembrare anche riuscire... Ma ciò non toglie che il progetto sia campato in aria.
L’etica della personalità è illusoria e ingannevole. E cercare di ottenere risultati di alta qualità con le sue tecniche e le sue soluzioni miracolistiche è efficace più o meno come cercare di raggiungere un indirizzo di Milano usando una mappa di Roma.
Così scrive Erich Fromm, grande osservatore delle radici e dei frutti dell’etica della personalità:
Oggi ci imbattiamo in un individuo che si comporta come un automa, che non conosce né comprende se stesso, e l’unica persona che conosca è la persona che presume di essere, il cui bla bla insensato ha sostituito la comunicazione, il cui sorriso stereotipo ha soppiantato una sana risata, e il cui senso di sorda disperazione ha preso il posto del dolore autentico. Su questo individuo si possono fare due considerazioni. Una è che egli soffre di difetti di spontaneità e d’individualità che possono sembrare incurabili. Nello stesso tempo si può dire di lui che egli non differisce essenzialmente dai milioni di altri suoi simili che camminano su questa terra.
Durante la nostra vita ci sono stadi successivi di crescita e di sviluppo. Un bambino impara a girarsi, a sedersi, a gattonare e poi a camminare e a correre. Ogni passo è importante e ciascuno richiede tempo. Nessuno può essere saltato. Questo è vero in tutte le fasi della vita, in tutti i campi di sviluppo, si tratti d’imparare a suonare il pianoforte o di comunicare in modo efficace con un collega di lavoro. E vale per gli individui, coppie, famiglie e organizzazioni.
Noi conosciamo e accettiamo questo fatto o principio del processo nell’area della crescita fisica o fisiologica, ma comprenderlo in quello delle emozioni, delle relazioni umane e addirittura nell’ambito del carattere è meno immediato e più difficile. E, anche se lo comprendiamo, accettarlo e vivere in armonia con questa idea è ancora meno comune e più difficile. Di conseguenza, a volte cerchiamo una scorciatoia, aspettandoci di riuscire a saltare alcuni di questi passi d’importanza vitale per risparmiare tempo e fatica pur con il risultato desiderato.
Cosa succede quando cerchiamo di aggirare con una scorciatoia un processo naturale nella nostra crescita e nel nostro sviluppo? Se un tennista di medio livello decide di giocare a un livello superiore per fare un’impressione migliore, cosa accadrà? Forse che il pensiero positivo gli permetterà da solo di competere efficacemente con un professionista? E cosa succederebbe se convincesse i suoi amici di essere in grado di suonare il pianoforte in una sala da concerto, quando, per il momento, non è che un principiante?
Le risposte sono ovvie. E semplicemente impossibile violare, ignorare o evitare questo processo di sviluppo. E contrario alla natura; e il tentativo di ricorrere a una scorciatoia non può che sfociare in delusioni e frustrazione.
Posta una scala di dieci punti, se in un qualsiasi campo mi trovo al livello due e desidero salire al livello cinque devo prima arrivare al livello tre. “Un viaggio di mille miglia comincia con il primo passo” e richiede né più né meno che un passo alla volta.
Se voi non permettete a un insegnante di sapere a che livello vi trovate - facendo una domanda o rivelando la vostra ignoranza - non imparerete e non crescerete. E non potrete fingere a lungo: alla fine la verità emergerà. Un’ammissione d’ignoranza è spesso il primo passo nella nostra educazione. “Come possiamo”, insegnò Thoreau, “ricordare la nostra ignoranza, come la nostra crescita richiederebbe, quando usiamo di continuo la nostra conoscenza?”.
Ricordo che una volta due ragazze, figlie di un mio amico, vennero da me in lacrime, lamentandosi della severità e della mancanza di comprensione del loro padre. Non se la sentivano di confidarsi con i loro genitori per paura delle conseguenze. Eppure avevano un disperato bisogno del loro amore, della loro comprensione e della loro guida.
Parlai con il padre e trovai che a livello razionale era consapevole di quanto stava accadendo. Ma, pur ammettendo che perdeva le staffe troppo facilmente, si rifiutò di assumersi la responsabilità di questo difetto di carattere e di accettare onestamente il fatto che il suo livello di sviluppo emotivo era basso. Compiere il primo passo verso un mutamento era più di quanto potesse permettergli il suo orgoglio.
Per relazionarci in modo valido con nostra moglie, nostro marito, con i nostri figli, amici o colleghi, dobbiamo imparare ad ascoltare. E ciò richiede forza emotiva. Ascoltare richiede pazienza, apertura e il desiderio di comprendere: qualità di un carattere altamente evoluto. È tanto più facile operare da un basso livello emotivo e dare consigli di alto livello!
Il nostro livello di sviluppo è molto evidente quando si tratta di abilità non simulabili, come giocare a tennis o suonare il pianoforte. Non altrettanto è nei campi del carattere e dello sviluppo emotivo. Noi possiamo “essere attori” e “fingere” per uno sconosciuto o un collega. Possiamo simulare. E per un certo tempo possiamo anche riuscirci, almeno in pubblico. Possiamo addirittura ingannare noi stessi. Ma io sono convinto che la maggior parte di noi sa esattamente come stanno le cose, e lo sanno anche molti di coloro con cui viviamo e lavoriamo.
Ho assistito spesso alle conseguenze del tentativo di aggirare questo processo naturale di crescita nel mondo degli affari, dove certi manager cercano di “comprare” una nuova cultura di maggior produttività, qualità, etica, miglior servizio clienti con discorsi ad effetto, esercitazioni su come sorridere e interventi esterni, oppure con fusioni, acquisizioni più o meno concordate. Non si preoccupano, però, per nulla del clima di scarsa fiducia creato da questo tipo di manovre. Quando questi metodi non funzionano, si cercano altre tecniche dell’etica della personalità, continuando a ignorare e a violare i principi e i processi naturali su cui si fonda una cultura della fiducia.
Ricordo di non aver rispettato io stesso questo principio come padre, molti anni fa. Un giorno tornai a casa durante la festa per il terzo compleanno di mia figlia. La trovai in un angolo del salotto, mentre teneva stretti con le sue manine, con aria di sfida, tutti i suoi regali per impedire che gli altri bambini li prendessero per giocarci. La prima cosa che notai fu che molti genitori stavano vedendo questa dimostrazione di egoismo. Ne ero imbarazzato, tanto più che in quel periodo tenevo all’università dei corsi sulle relazioni umane. E sapevo, o quanto meno percepivo, che cosa si aspettassero tutti quei genitori che stavano guardando.
L’atmosfera nella stanza era veramente tesa: i bambini assediavano mia figlia con le mani tese, chiedendo di giocare con i regali che avevano portato, e lei si rifiutava ostinatamente. “Sicuramente”, mi dissi, “dovrei insegnare a mia figlia a condividere. Il valore della condivisione è una delle cose fondamentali in cui crediamo”.
Così, prima tentai con una semplice richiesta: “Per favore, tesoro, non vuoi dividere con i tuoi amichetti i giocattoli che ti hanno regalato?”.
“No” fu la secca risposta.
Il mio secondo metodo fu quello di usare un po’ di ragionamento. “Ma, tesoro, se tu impari a condividere i tuoi giocattoli con loro quando sei qui, quando andrai a casa loro condivideranno i loro giocattoli con te”.
“No!” rispose di nuovo senza esitazione.
Il mio imbarazzo cresceva perché era evidente che non avevo alcuna influenza. Il terzo metodo fu la corruzione. Molto sottovoce dissi: “Tesoro, se fai come ti ho detto ho una sorpresa speciale. Ti darò una caramella”.
“Non voglio nessuna caramella!” urlò lei.
Mi stavo veramente arrabbiando. Il quarto tentativo si basò sulla paura e sulla minaccia. “Se non fai giocare gli altri bambini con i tuoi regali, sarà peggio per te!”.
“Non fa niente!” strillò. “Questi sono i miei giocattoli”.
Alla fine ricorsi alla forza. Semplicemente presi alcuni dei giocattoli e li diedi ai suoi amichetti: “Ecco, bambini, giocate con questi”.
Forse mia figlia aveva bisogno dell’esperienza di possedere le cose prima di poterle dare (in effetti, finché non possediamo qualcosa come possiamo arrivare a darlo?). E aveva bisogno di me come padre per raggiungere un livello superiore di maturità emotiva che le permettesse di avere quell’esperienza. Ma in quel momento io diedi più peso all’opinione degli altri genitori nei miei confronti che alla crescita e allo sviluppo di mia figlia e al nostro rapporto. Mi limitai a dare un giudizio iniziale secondo cui io avevo ragione; lei doveva condividere i suoi regali, e aveva torto a non farlo.
Forse avevo nei suoi confronti indebitamente un’aspettativa di livello troppo elevata, semplicemente perché nella mia stessa scala mi trovavo ad un livello basso. Io ero incapace di offrire pazienza o comprensione, o non ero disposto a offrirla, e quindi pretendevo che fosse lei a donare. Nel tentativo di compensare la mia mancanza, mi facevo forza della mia posizione e autorità, e la costringevo a fare ciò che volevo facesse.
Ma l’uso della forza genera debolezza. Genera debolezza in chi la usa, perché rafforza la dipendenza da fattori esterni nel portare a termine delle azioni. Genera debolezza nella persona costretta a subire, perché ostacola lo sviluppo del modo di ragionare indipendente, della crescita e della disciplina interiore. E, per finire, indebolisce il rapporto. La paura subentra alla collaborazione, ed entrambe le persone coinvolte diventano sempre più irrazionali e diffidenti.
Cosa accade quando la fonte della forza è la stazza o la forza fisica, la posizione, l’autorità, credenziali di varia natura, condizione sociale, imponenza o successi precedenti e questa viene meno, o diminuisce di intensità?
Se fossi stato più maturo, avrei potuto affidarmi alla mia forza interiore - la mia comprensione dell’atto stesso della condivisione e del processo di crescita e la mia capacità di amare e di mostrare sollecitudine - e avrei permesso a mia figlia di operare una scelta libera fra il condividere e il non condividere. Magari, dopo aver cercato di ragionare con lei, avrei potuto dirigere l’attenzione dei bambini su un altro gioco interessante, alleggerendo così mia figlia di tutta quella pressione emotiva. Ho imparato che, dopo aver provato un senso di reale possesso, i bambini condividono molto naturalmente, liberamente e spontaneamente.
La mia esperienza è stata che ci sono momenti per insegnare e momenti per non insegnare. Quando i rapporti sono tesi e l’atmosfera è carica di emotività, un tentativo d’insegnare è spesso recepito come una forma di giudizio e di rifiuto. Ma quando si prende il bambino in disparte, con calma, quando il rapporto è buono, e si discute con lui, pare che l’insegnamento o il valore abbia una presa molto maggiore. Può darsi che la maturità emotiva necessaria per un intervento del genere fosse in quel periodo al di là del mio livello di pazienza e di controllo.
Forse è necessario che si crei un senso di possesso prima di un senso di genuina condivisione. Forse molte persone che, nelle loro situazioni matrimoniali e nel loro ambito familiare, danno in modo automatico o, al contrario, si rifiutano di condividere non hanno mai provato cosa significhi possedere il senso di se stessi, avere un senso d’identità e di amor proprio. Forse aiutare i nostri figli a crescere può significare anche essere abbastanza pazienti da permettere loro di sviluppare il senso di possesso e abbastanza saggi da insegnare loro il valore della condivisione e da fornirgliene noi stessi l’esempio.
Il nostro modo di vedere il problema: questo è il problema
La gente rimane affascinata dai successi ottenuti dalle persone, da famiglie e aziende, che si basano su solidi principi. Ammira questa forza e maturità personale, questa unità familiare e capacità di lavoro di gruppo, questa cultura organizzativa, questa capacità di adattamento e di sinergia.
E la domanda che il collega, il vicino, l’amico immediatamente pone, rivela molto bene il suo paradigma fondamentale: “Come fate? Insegnatemi le tecniche”. Quello che in realtà dice è: “Datemi un consiglio o una soluzione di pronto intervento, che diminuisca la sofferenza che sto provando”.
Troverà persone che soddisferanno le sue richieste e gli insegneranno queste cose; e forse per un certo tempo le capacità e le tecniche apprese sembreranno funzionare. Elimineranno, forse, alcuni problemi più o meno superficiali come fanno l’aspirina e i cerotti.
Il problema cronico, però, rimane, e alla fine compariranno nuovi sintomi gravi. Più le persone ricorrono a rimedi rapidi e si concentrano sui problemi immediati e sul dolore, più questo stesso approccio contribuirà ad aggravare la malattia cronica di fondo.
Il nostro modo di vedere il problema: questo è il problema.
Torniamo a considerare alcuni dei problemi presentati all’inizio di questo capitolo e l’impatto del pensiero basato sull’etica della personalità.
Ho seguito una gran quantità di corsi di formazione sull’efficacia. Mi aspetto molto dai miei dipendenti e lavoro veramente tanto, per trattarli nel migliore dei modi. Tuttavia non percepisco da loro nessun tipo di lealtà verso di me. Credo che, se dovessi restare a casa malato per un giorno, loro passerebbero la maggior parte del tempo a chiacchierare al distributore del caffè. Perché non riesco a trasmettere loro il concetto di indipendenza e responsabilità..., perché non riesco a trovare persone che possano esserlo?
L’etica della personalità suggerisce che potrei ricorrere a qualche iniziativa forte - riorganizzare l’azienda, licenziare delle persone - in modo da scrollare i miei collaboratori e fare in modo che apprezzino ciò che hanno. Potrei anche provare con qualche programma di formazione di tipo motivazionale per ottenere maggiore impegno. Potrei anche assumere nuove forze in grado di lavorare meglio.
E possibile che i miei collaboratori, apparentemente non coinvolti e sleali, in realtà abbiano la sensazione che sia io a non agire per i loro interessi? Sentono, forse, di essere trattati come strumenti? Siamo certi che non ci sia un fondamento di verità in questo?
Come li vedo io, veramente? Non è per caso che il modo in cui vedo i miei collaboratori sia parte integrante del problema?
C’è così tanto da fare! E non c’è mai tempo abbastanza! Mi sento sempre sotto pressione, senza un attimo di respiro, tutto il giorno, tutti i santi giorni, sette giorni alla settimana. Ho frequentato mille corsi sulla gestione del tempo e ho provato cinque o sei sistemi diversi di pianificazione. Mi hanno un po’ aiutato, ma non ho ancora la sensazione di vivere la vita felice, produttiva e serena che vorrei.
L’etica della personalità mi dice che deve esserci qualcosa là fuori - l’ultimo tipo di palmare o il corso intensivo di grido - che può aiutarmi a gestire tutte le pressioni cui sono sottoposto, in modo più efficiente.
E se l’efficienza non fosse la risposta? Fare la differenza significa portare a termine più cose in minor tempo o questo meccanismo non fa altro che aumentare la pressione, creando un circolo vizioso?
Potrebbe esserci qualche altra ragione, qualcosa che ho bisogno di capire in maniera più profonda, magari un mio paradigma che condiziona il mio modo di vedere il tempo, la vita, la mia stessa natura?
Il mio matrimonio è diventato piatto. Non posso dire che litighiamo o ci tiriamo i piatti: semplicemente non ci amiamo più. Siamo anche stati da uno psicologo, abbiamo tentato una gran quantità di cose, ma pare proprio che non riusciamo a riaccendere la fiamma di un tempo.
L’etica della personalità mi dice che deve esserci qualche libro, o uno di quei seminari dove i partecipanti fanno emergere tutte le loro angosce, che possa aiutare mia moglie a capirmi meglio. Forse, invece, è tutto inutile, solo una nuova relazione mi darà l’amore di cui ho bisogno.
È possibile che il vero problema non sia mia moglie? Magari sto incoraggiando le debolezze di mia moglie e conduco la mia vita in funzione del modo in cui sono trattato.
Il mio problema non sarà per caso alimentato da un mio paradigma fondamentale su mia moglie, sul mio matrimonio, sulla natura stessa dell’amore?
Cosa ne dite? Non è forse impressionante il modo in cui i paradigmi basati sull’etica della personalità influenzano il nostro modo di vedere i problemi e il modo stesso in cui tentiamo di risolverli?
Molte persone provano un senso di delusione per le vuote promesse dell’etica della personalità. Durante i miei viaggi per il mondo e lavorando con diverse aziende ho avuto modo di incontrare un gran numero di manager o dirigenti che sono veramente stufi di tecniche di psicologia spicciola e “corsi motivazionali” che non offrono niente altro che storielle d intrattenimento mischiate a banalità.
C’è bisogno di sostanza; ci vuole un processo di sviluppo, qualcosa di più di semplici aspirine e cerotti. Vogliono risolvere i problemi cronici delle loro aziende e concentrare i loro sforzi verso principi che procurino risultati a lungo termine.
Un nuovo livello di pensiero
Albert Einstein osservò che: “I problemi importanti che dobbiamo affrontare non possono essere risolti allo stesso livello di pensiero a cui noi ci trovavamo quando li abbiamo creati”.
Cominciando a guardare intorno a noi e dentro di noi possiamo riconoscere i problemi creati dal vivere secondo gli schemi dell’etica della personalità, e renderci conto che si tratta di problemi di base, che non possono essere risolti al livello superficiale a cui sono stati creati.
Per risolvere queste situazioni profonde abbiamo bisogno di un nuovo livello, un livello di pensiero più evoluto, un paradigma basato sui principi che descrivono accuratamente il territorio di un’esistenza e di relazioni efficaci.
Questo nuovo livello di pensiero è l’argomento di “Le Sette Regole per Avere Successo”. Si tratta di un approccio all’efficacia personale e interpersonale, fondato sui principi, sul carattere e sul concetto di “Inside-Out”.!
“Inside-Out” significa iniziare da noi stessi, anzi dalla parte più profonda, intima di noi stessi, dai nostri paradigmi, dal nostro carattere e dalle nostre motivazioni.
“Inside-Out” significa che se si vuole avere un matrimonio felice bisogna essere il tipo di persona che crea energia positiva, diminuendo quella negativa. Se si vuole avere un figlio adolescente più coinvolto e portato a collaborare, bisogna essere un genitore più comprensivo, empatico, coerente e amorevole. Se si vuole avere più libertà, più possibilità d’iniziativa nel proprio lavoro, bisogna essere un collaboratore responsabile, dalle mille risorse. Se si vuole avere la fiducia degli altri, bisogna esserne degni. Se si vuole ottenere quella grandezza di secondo livello, che è il riconoscimento del proprio talento, ci si deve concentrare prima di tutto sulla grandezza di primo livello, quella relativa al carattere.
Il principio “Inside-Out” ci dice che le vittorie private precedono le vittorie pubbliche, che fare promesse a noi stessi e mantenerle viene prima del far promesse agli altri e mantenerle. Ci dice che è inutile anteporre la personalità al carattere, cercare di migliorare le relazioni con gli altri senza migliorare noi stessi.
“Inside-Out” è un processo, un continuo processo di rinnovamento, fondato sulle leggi naturali che governano la crescita ed il progresso umano. È una spirale di crescita che conduce a forme sempre più elevate d’indipendenza responsabile e di efficace interdipendenza.
Io ho avuto l’opportunità di lavorare con molte persone: persone meravigliose, di talento, persone che si impegnano veramente per raggiungere la felicità e il successo, persone che cercano, persone che soffrono. Ho lavorato con importanti uomini d’affari, studenti universitari, gruppi religiosi e laici, famiglie e coppie sposate: in tutta la mia esperienza non ho mai visto soluzioni durature ai problemi, o felicità e successo veri, trovate con un processo dall’esterno verso l’interno.
Quello che ho visto scaturire dal paradigma “Outside-In” è l’infelicità di persone che si sentono vittime e paralizzate, che si concentrano sulle debolezze degli altri e sulle circostanze, che secondo loro sono responsabili della loro situazione di immobilità. Ho visto matrimoni infelici, dove ciascuno dei coniugi vuole che sia l’altro a cambiare, ciascuno confessa i “peccati” dell’altro e si sforza di modellare l’altro. Ho assistito a discussioni in ambito professionale, in cui si sono spese energie e tempo nel tentativo di creare una serie di regole che costringessero la gente ad agire in modi preordinati, come se davvero esistessero le basi della fiducia.
Alcuni membri della mia famiglia hanno vissuto in tre dei punti più “caldi” del globo - Sudafrica, Israele e Irlanda - e io credo che la fonte dei problemi tuttora irrisolti in ciascuno di questi paesi sia stata la dominanza del paradigma sociale “Outside-In”. Ogni gruppo è convinto che il problema sia “là fuori” e se “loro” (ovvero gli altri) cambiassero politica, oppure si togliessero immediatamente dai piedi, il problema sarebbe risolto.
“Outside-In” è un salto di paradigma estremamente forte per la maggior parte delle persone, in larga misura per via del forte condizionamento e del paradigma sociale così in auge dell’etica della personalità.
In base alla mia esperienza, però, - personale e acquisita lavorando con migliaia di altre persone - e in base ad una approfondita analisi delle ragioni del successo nel corso della storia, relativamente ad individui o gruppi, sono convinto che molti dei principi discussi in questo libro siano già presenti in ciascuno di noi, nella nostra coscienza e nel nostro comune buonsenso. Per riconoscerli e svilupparli e per servircene nell’affrontare i nostri problemi più gravi, abbiamo bisogno di pensare in modo diverso, di spostare i nostri paradigmi a un livello nuovo, più profondo: quello dell’azione che parte dall’interiorità per trasformare la realtà esterna.
Quando cercheremo sinceramente di comprendere e di integrare nella nostra vita questi concetti, scopriremo e riscopriremo, ne sono convinto, la verità di questa massima di T.S. Eliot:
Noi non dobbiamo cessare di esplorare, e il fine di tutta la nostra esplorazione sarà quello di arrivare là dove cominciammo e di conoscere quel posto per la prima volta.