23 LA CADUTA DELLA CITTÀ SANTA
All’alba del 10 maggio del 70 d.C., le truppe romane scatenarono il loro possente assalto a Gerusalemme. I lati meridionale, orientale e sudoccidentale della città erano circondati da strapiombi profondi un centinaio di metri; così, il giovane comandante romano scelse di concentrarsi sul cosiddetto «terzo muro», a nordovest. Mentre le truppe romane, disposte nella formazione a testuggine, cercavano di fare breccia nella cinta muraria con l’aiuto di arieti e torri d’assedio, i dispositivi balistici delle legioni martellavano gli spalti nemici per tenervi lontani i difensori.
Simone bar Giora, responsabile della resistenza ebraica in questo settore, cercò di contrastare gli sforzi dei romani con le sue trecentoquaranta macchine da lancio e con improvvise sortite di piccoli gruppi guerriglieri oltre le mura. Ironicamente, gli «artiglieri» ebrei usavano congegni balistici romani, sottratti alla Terza Augusta, alla Dodicesima e alla Ventiduesima Primigeneia quattro anni prima, durante la presa della fortezza Antonia e la battaglia di Beth Horon.
Peraltro, gli ebrei non possedevano né le doti né l’esperienza dei loro avversari, e la balistica della Decima legione giocò un ruolo decisivo nell’assalto al terzo muro. In proposito, Giuseppe Flavio sottolinea come la Decima possedesse le ballistae e gli «scorpioni» più potenti dell’intero schieramento romano. Giuseppe, ex resistente ebreo ora passato nelle file di Tito, rimarca l’incredibile capacità di tiro rapido che caratterizzava la Decima, e racconta come le sue macchine da guerra più grandi – probabilmente onagri, catapulte di origine greca – potessero scagliare proiettili di pietra pesanti parecchi chili a quasi quattrocento metri di distanza, uccidendo non solo gli uomini della prima linea, ma anche quelli delle retrovie. Lo storico ebreo ricorda anche il caso di un difensore che ebbe la testa tranciata di netto da un colpo nemico ben assestato. La testa fu ritrovata più tardi, a centinaia di metri dal busto. E ancora prima, durante l’assedio di Jefat, una singola salva di dardi «sparata» da uno «scorpione» aveva infilzato parecchi difensori ebrei in un colpo solo.
In generale, l’artiglieria romana non colpiva in modo casuale o approssimativo, e questo vale anche per la Decima legione. L’antica scienza della balistica – come la chiameremmo oggi – traeva origine dalla catapulta, il primo vettore di lancio della storia. Per conferire ai tiri la massima precisione possibile, gli artiglieri della Decima e delle altre legioni misuravano la distanza tra la piattaforma di lancio e le mura di Gerusalemme avvalendosi di fili di piombo.
Giuseppe riferisce come, al culmine dell’assalto al terzo muro, le vedette ebree sulle torri di osservazione fossero in grado di lanciare avvertimenti ai loro compagni dislocati in qualche settore, affinché si mettessero al riparo dai macigni romani che stavano per sfracellarsi sulle loro teste. La formula con cui venivano espressi simili avvisi era: «Bambino in arrivo!».
Sapendo che il «bambino» stava arrivando, i resistenti avevano qualche possibilità di mettersi in salvo. Il loro compito era reso più facile dal fatto che i congegni balistici romani usavano pietre della Giudea, facilmente individuabili per il loro colore chiaro, quasi bianco. A un certo punto, al fine di ovviare a tale inconveniente, gli attaccanti presero a rivestire di pece i loro proiettili, così da renderli meno identificabili.
Sotto il costante tiro di sbarramento avversario, le legioni riuscirono a collocare tre imponenti torri d’assedio a ridosso del terzo muro. Ciascuna torre era stata costruita da una legione – la Quinta, la Dodicesima e la Quindicesima –, e mentre la Decima metteva a buon frutto la sua perizia balistica, le tre unità si misero in competizione per vedere chi sarebbe stata la prima a violare le difese nemiche.
Ogni torre, provvista di tre piani, era protetta da una serie di piastre metalliche. Sull’ultimo piano, arcieri e frombolieri tenevano a bada i difensori, tempestandoli di frecce e pietre. Al secondo piano, le catapulte lanciavano proiettili in continuazione. Al primo piano, squadre di legionari si davano da fare con gli arieti. L’ariete consisteva in una pesante testa metallica collocata all’estremità di una lunga asta, che veniva fatta oscillare avanti e indietro, per poi essere scagliata contro la base delle mura. Il suo nome derivava dalla circostanza che la testa metallica in cima all’asta era simile a quella di un ariete.
Il clangore provocato dall’azione incessante dei tre arieti contro il terzo muro, non indusse all’ottimismo i difensori, ma quantomeno costrinse le tre fazioni ebraiche ad accantonare temporaneamente i loro dissidi e a unirsi in uno sforzo comune. Così, la reazione degli assediati si focalizzò soprattutto sulla zona delle torri nemiche. Ma a parte qualche piccolo danno strutturale inflitto dall’ariete della Quindicesima, i romani non riuscirono a fare alcun progresso per tutta la prima settimana di assedio.
A un certo punto, gli attaccanti decisero di ritirare i reparti di cavalleria che proteggevano le loro torri d’assedio. Cogliendo al volo questa occasione, un contingente di zeloti condotto da Giovanni l’Idumeo – un comandante anziano della resistenza – si precipitò fuori da un ingresso nascosto e appiccò il fuoco a una delle torri. Fu uno squadrone a cavallo comandato da Tito in persona a ricacciarli indietro. L’incursione costò cara ai difensori. Giovanni l’Idumeo restò sul campo, colpito da una freccia. L’incendio alla torre fu presto domato.
Intanto il martellamento degli arieti proseguiva senza sosta. Il loro frastuono accompagnava gli assediati quando si coricavano (senza spogliarsi della corazza) e gli accoglieva al loro risveglio.
Il 25 maggio, a quindici giorni dall’inizio dell’attacco, le mura cominciarono a cedere sotto l’azione dei tre arieti. Le coorti delle truppe d’assalto raggiunsero le loro posizioni. Quando il muro accanto alla porta della città si sbriciolò, i legionari irruppero dalle macerie e sciamarono all’interno come tante formiche, trucidando chiunque sbarrasse loro il passo e aprendo i cancelli a migliaia di commilitoni.
I difensori furono costretti a ripiegare sul secondo muro, costruito ancora prima del 37 a.C., piu alto e robusto del terzo. Questa seconda cinta non possedeva lo stesso numero di torri della muraglia più esterna, ma incorporava i bastioni del tempio, a est, e il palazzo di Erode, a ovest.
L’offensiva romana entrò nella sua seconda fase. Dopo aver lasciato l’accampamento della Decima legione dove stava, Tito spostò rapidamente la Quinta, la Dodicesima e la Quindicesima alla periferia occidentale della città, acquartierandole nel cosiddetto Campo degli Assiri, che prendeva il nome dall’esercito assiro di re Sennacherib, il quale aveva cinto d’assedio Gerusalemme nel 701 a.C. A quel tempo, Sennacherib aveva rinunciato ai suoi intenti bellicosi nei riguardi della città grazie al pagamento di un enorme riscatto. Ma stavolta Gerusalemme non avrebbe avuto eguale fortuna.
Mentre le truppe si sistemavano nei loro nuovi accampamenti, Tito mantenne l’iniziativa ordinando alle sue macchine da guerra di mettere sotto pressione il lato settentrionale del secondo muro, e di spostare una delle torri d’assedio a ridosso dei bastioni centrali della stessa cinta muraria. Le sporadiche incursioni all’esterno da parte dei difensori furono prontamente neutralizzate dalla cavalleria e dalla fanteria di supporto.
Dopo pochi giorni dall’inizio dell’offensiva, un ebreo di nome Castore, accompagnato da dieci correligionari, fece segno dai bastioni di volersi arrendere. Tito sospese le operazioni di assedio e fece sapere agli undici ebrei che garantiva loro l’incolumità, se fossero usciti dalla cinta muraria. Poco più tardi, tuttavia, ci si accorse che quegli uomini si stavano accappigliando; evidentemente, qualcuno non era poi così intenzionato a deporre le armi. Un arciere romano scoccò una freccia che colpì Castore al naso. Questo episodio placò il conflitto che dilaniava gli undici ebrei. Castore estrasse la freccia che lo aveva ferito, e protestò con i romani. Tito chiese al collaborazionista Giuseppe Flavio di parlare con lui, ma Giuseppe rifiutò, sostenendo che quel gruppo stava tramando qualcosa. Quando Tito inviò sotto le mura un disertore ebreo di nome Enea, protetto da una scorta legionaria, affinché parlamentasse con gli undici correligionari, Castore gli gettò un sasso. Il tiro mancò Enea, ma centrò e ferì un legionario della scorta. Allorché Enea e i soldati fecero marcia indietro, Castore e i suoi compagni cominciarono a irridere i romani. A quel punto, Tito ordinò agli arieti di tornare in azione contro la torre della cinta muraria. Grazie ai loro potenti colpi, il bastione collassò in breve tempo. Castore e i suoi compagni appiccarono il fuoco alle rovine, dopodiché si suicidarono gettandosi tra le fiamme.
Dall’alba al crepuscolo i legionari continuarono il loro assalto contro il secondo muro. Come ogni romano, gli uomini delle legioni si alzavano prima dell’alba, così da sfruttare fino in fondo tutte le ore di luce. I soldati dormivano con le uniformi addosso, e spesso persino con la corazza. La loro giornata, dalla sveglia all’ultimo turno di guardia, era scandita da segnali di tromba.
A cinque giorni dall’inizio dell’offensiva contro il secondo muro, il 30 maggio, una sezione della cinta muraria adiacente alle rovine del bastione collassato non resse agli arieti e si sbriciolò. I difensori ebrei arretrarono fino al primo muro, ignorando il diktat di Tito, che aveva intimato loro di uscire allo scoperto e di combattere come veri soldati, oppure di arrendersi. Chiunque avesse deposto le armi, sarebbe stato trattato con onore e avrebbe conservato i suoi beni. Gli assediati non solo rifiutarono l’offerta, ma arrivarono a minacciare di morte le centinaia di migliaia di profughi che si erano rifugiati in città, se solo avessero tentato di consegnarsi ai romani.
I legionari cominciarono a sciamare attraverso la breccia del secondo muro. Dopo essere penetrati nel cuore di Gerusalemme, si ritrovarono in un labirinto di vicoli fiancheggiati da muri e case con le porte sbarrate. All’improvviso, i cancelli del primo muro si aprirono e migliaia di partigiani ebrei si riversarono per le strade. Le avanguardie legionarie furono circondate e massacrate. Il grosso delle truppe romane arretrò precipitosamente verso il varco che gli arieti avevano aperto nel secondo muro. Fu una rotta disordinata e frenetica, che causò molte perdite. In preda all’esultanza, gli ebrei riguadagnarono il controllo della situazione e si convinsero che Dio stava dalla loro parte. L’Altissimo non avrebbe consentito che i romani prevalessero.
A questo punto, Tito ricorse ancora agli arieti, disponendo che tornassero a concentrare la loro potenza contro il secondo muro. Tre giorni più tardi, il 2 giugno, i legionari si riversarono attraverso le nuove brecce che si erano aperte nel frattempo, costringendo gli assediati a ritirarsi di nuovo dietro il primo muro. Stavolta Tito diede l’ordine di demolire ogni edificio tra le due cinte murarie. Ben presto quell’area urbana si trasformò in un polveroso spazio aperto.
Ottenuto quello che desiderava, il generale sospese l’assedio. Allo scopo di intimidire i difensori, fece sfilare in parata le sue legioni, in alta uniforme e con tutto l’equipaggiamento al seguito; e per i successivi quattro giorni procedette cerimoniosamente al pagamento dei soldati, mentre la popolazione di Gerusalemme, accalcata sulle mura e assiepata alle finestre, assisteva a quell’insolito spettacolo. Uno alla volta, i legionari si fecero avanti per ricevere il soldo. Quanto ai cavalieri, dovettero adornare i loro animali con tutte le decorazioni possibili.
Quando si accorse che neppure questo espediente sembrava aver prodotto qualche effetto sul morale degli assediati, Tito incaricò Giuseppe Flavio di trattare con i difensori la resa della città. Giuseppe, del resto, aveva un buon motivo per desiderare la capitolazione di Gerusalemme, visto che i suoi genitori erano tra i profughi all’interno delle cinte murarie. Stando al riparo nei pressi del primo muro, l’inviato di Tito richiamò i suoi amici ebrei e assicurò loro che Roma avrebbe trattato dignitosamente chiunque si fosse arreso.
Non ci fu una risposta immediata, ma nel corso dei giorni successivi molti abitanti cercarono di fuggire dalla città e di raggiungere le linee romane. Altri, in gran segreto, mercanteggiarono con i soldati nemici all’esterno per ottenere cibo. Approfittando della notte, costoro calarono ai legionari sotto le mura cesti pieni di oro. Quando li recuperarono, aspettandosi di trovarli colmi di viveri, si accorsero che contenevano solo paglia. Probabilmente i legionari si divertirono un mondo; i possessori dei cesti, assai meno. Nelle file ebraiche, la percentuale di diserzione crebbe rapidamente, arrivando a toccare le cinquecento defezioni al giorno. Ma persino a questo ritmo, sarebbero occorsi anni per prosciugare dall’interno le forze degli assediati.
Per invogliare gli ebrei a disertare, le truppe romane presero ad arrostire capre sotto le mura. Quando il profumo del cibo, portato dal vento, cominciò a diffondersi per la città, molti rifugiati, che stringevano penosamente la cinghia, sembrarono uscire di senno. A quanto pare, una donna arrivò persino a cucinare e mangiare il proprio bambino. Bande armate si aggiravano per i vicoli in cerca di depositi segreti di cibo, uccidendo chiunque cercasse di fermarle. Molte famiglie si contendevano ferocemente i pochi avanzi alimentari; i genitori strappavano qualche misero boccone dalla bocca dei figli. Quando la vedova del sommo sacerdote Gionata si accorse che neppure le sue cospicue ricchezze erano sufficienti per comprare dei viveri, prese tutto l’oro che aveva e, in preda al disgusto, lo gettò per strada. La gente moriva di fame persino quando assisteva ai funerali di amici e congiunti.
Gli ebrei catturati mentre si aggiravano fuori dalle mura in cerca di cibo, furono frustati e poi crocefissi. Ben presto il numero delle vittime superò quello delle croci a disposizione; di conseguenza, i romani adottarono un altro sistema: prima di rispedirli indietro, tagliavano ai prigionieri le mani.
Dopo che i termini di resa furono respinti dai capi della resistenza ebraica, Tito si risolse a dare inizio alla terza fase dell’offensiva. Il generale assegnò un settore differente a ciascuna delle sue quattro legioni di punta, forse memore di un’osservazione di Ovidio, secondo il quale un cavallo non corre mai così veloce come quando deve raggiungere e superare altri cavalli. Tito, in altre parole, faceva affidamento sul tradizionale spirito di competizione delle legioni, per chiudere la partita in tempi brevi.
Da ufficiali come il colonnello Alessandro, che nella sua antica veste di amministratore della Giudea aveva conosciuto molto bene Gerusalemme, Tito apprese quali fossero i punti di forza della città, e quali bastioni avrebbe dovuto espugnare per garantirsi la vittoria. Inoltre, poteva contare sulle informazioni di prima mano della Terza Augusta, che in passato era stata distaccata proprio a Gerusalemme. Ben presto, il generale concluse che doveva concentrare i suoi sforzi sulla fortezza Antonia e il tempio lì vicino, nonché, a ovest, sul possente castello che costituiva il palazzo di Erode.
Alla Decima legione fu assegnato un settore all’angolo nordorientale del primo muro, confinante con l’Amygdalon (la «vasca delle mandorle»), non lontano dal palazzo di Erode. La Quindicesima si posizionò a una quindicina di metri di distanza, di fronte al monumento al sommo sacerdote. La Quinta si incaricò del bastione nordoccidentale della fortezza Antonia. La Dodicesima si attestò dieci metri più in là. Ciascuna legione ricevette l’incarico di allestire un terrapieno a ridosso della cinta muraria, alta quasi venti metri. Ogni terrapieno, di pendenza modesta, sarebbe stato ampio abbastanza da accogliere una torre d’assedio con i suoi arieti.
Occorsero quindici giorni per erigere i terrapieni. Le quattro legioni, in gara tra loro, assolsero alla consegna quasi contemporaneamente. I difensori della città, tuttavia, non si limitarono a stare alla finestra. Uno dei comandanti ebraici, Giovanni (che era scappato a Gerusalemme da Giscala), fece scavare ai suoi uomini una galleria che dalla fortezza Antonia passava sotto il primo muro, usando come punto di partenza le condutture sotterranee dell’acqua. Gli improvvisati minatori puntellarono il tunnel con assi di legno. Non appena i romani terminarono i due terrapieni sopra la galleria, i partigiani ebrei spalmarono le assi di pece e bitume, dopodiché, prima di ritirarsi, le diedero fuoco. Quando le fiamme ebbero finito di consumare i supporti di legno, la galleria franò, trascinando con sé i due terrapieni, con sommo orrore delle truppe romane, che stavano per piazzarvi sopra le macchine da guerra.
Quanto agli uomini della Decima e della Quindicesima, apparentemente furono più fortunati, visto che riuscirono a collocare le torri d’assedio sulle loro rampe. Mentre si stavano congratulando a vicenda per il buon esito della missione, un gruppo d’assalto ebraico emerse da una porta lì vicino e li sopraffece, dopodiché diede fuoco alle palizzate che circondavano le torri.
Accorsero subito dei rinforzi per domare l’incendio. Ma mentre i legionari della Decima si sforzavano di trascinare le torri, rivestite di placche metalliche, lontano dalle palizzate in fiamme, i partigiani cercavano di fare esattamente il contrario, anche a costo di afferrare con le mani il metallo rovente. Alla fine furono quest’ultimi a prevalere. I legionari non ebbero altra scelta che allontanarsi, mentre l’incendio divorava la struttura lignea delle due torri.
Incoraggiati dal successo, gli ebrei passarono all’offensiva e ricacciarono le truppe romane fino al Campo degli Assiri. Qui, i legionari di picchetto ressero l’urto finché non ricevettero rinforzi. I resistenti dovettero indietreggiare e riassestarsi sul Primo Muro. A ogni modo, sotto il profilo psicologico, per gli assedianti fu una giornata disastrosa. L’idea di chiudere la partita contro gli ebrei in fretta e bene era stata clamorosamente smentita dai fatti.
Di fronte a una inaspettata sconfitta, Tito convocò il suo stato maggiore per discutere un cambiamento di tattica. Come lo scrittore e aforista Publilio Siro aveva osservato un secolo prima, un piano che non ammette modifiche è un pessimo piano. A questo punto, Tito era aperto a ogni suggerimento. Alcuni ufficiali sostennero l’opportunità di un attacco frontale su vasta scala che investisse il primo muro lungo tutto il suo perimetro. Altri suggerirono semplicemente di continuare l’assedio, in attesa che gli insorti morissero di fame o si arrendessero. Il prudente padre di Tito avrebbe senz’altro scelto quest’ultima soluzione, e adesso suo figlio parve mettersi nella stessa ottica, rassegnandosi a un lungo assedio ma senza rinunciare all’idea di assaltare contemporaneamente il primo muro in punti diversi.
Tito ordinò dunque che i legionari circondassero con un vallo fortificato l’intero perimetro di Gerusalemme. Del resto, uno dei punti di forza dell’esercito romano nel corso dei secoli era sempre stato la sua perizia ingegneristica. Cesare aveva svettato come ingegnere tanto quanto come soldato, e i suoi successori non avevano mai dimenticato il primo aspetto. La nuova muraglia fu progettata per sigillare gli ebrei all’interno della città, così da mettere fine alle loro audaci scorrerie contro gli assedianti; una vera spina nel fianco del dispositivo bellico romano.
Tito non aveva idea di quanti insorti ci fossero ancora a Gerusalemme, tantomeno di quanti combattenti potessero schierarsi sulle cinte murarie. Sulla base delle sue informazioni, il numero complessivo degli attuali abitanti della città sembrava oscillare tra 600000 e 1200000. Molti di costoro erano profughi, ma anche un profugo poteva lanciare pietre. Certo, i ribelli stavano morendo di fame; ciò nonostante erano riusciti a scavare una galleria e a incendiare le torri d’assedio. Di conseguenza, non si poteva escludere che, mentre la popolazione civile languiva, i gruppi dei resistenti potessero contare su depositi segreti di cibo. D’altro canto, neppure i prigionieri e i disertori avevano mai delineato con sufficiente chiarezza la situazione all’interno della città.
C’era poi la questione delle linee di collegamento. Qualunque cosa servisse ai romani, doveva percorrere molte miglia prima di giungere a destinazione. Le truppe di Tito avevano già abbattuto tutti gli alberi nel raggio di dodici miglia; di conseguenza, persino la legna per cucinare doveva arrivare da fuori. Ma in cima alle priorità restava l’acqua. All’interno di Gerusalemme c’erano copiose riserve idriche; all’esterno della mura, neanche una goccia per molte miglia. Pertanto, Tito si trovò a dover assicurare i rifornimenti idrici giornalieri per sessantamila soldati, e forse altrettanti non combattenti, avvalendosi unicamente di centinaia di carri cisterna. E questo valeva anche per il cibo e le munizioni.
La principale base di approvvigionamento era a Cesarea, sul Mediterraneo; sicché, durante i mesi dell’assedio, la strada che si inerpicava dal mare verso Gerusalemme dev’essere stata un autentico inferno di carri, convogli e bestie da soma; tutti impegnati in una duplice consegna: rifornire gli assedianti ed evacuare i feriti. Nelle cave alle spalle delle linee romane, la bianca pietra di Giudea veniva incessantemente frantumata, arrotondata e poi spedita verso il fronte di battaglia, così da soddisfare l’insaziabile sete di munizioni dell’artiglieria.
Le difficoltà logistiche facevano sì che le forze di Tito fossero vulnerabili, soprattutto di fronte a nemici che conoscevano alla perfezione l’arte della guerriglia. Se gli insorti ebrei, asserragliati a Gerusalemme, avessero spedito fuori un robusto contingente con l’incarico di tagliare le vie di approvvigionamento romane, Tito si sarebbe ritrovato nei guai: un’ulteriore ottima ragione per sigillare i ribelli dentro i loro bastioni.
Così, le legioni si misero subito all’opera per erigere la muraglia che avrebbe circondato Gerusalemme. Gli uomini di Tito riuscirono a stupire gli ebrei approntando un vallo lungo cinque miglia e provvisto di tredici fortini in soli tre giorni. Questa impresa costituì un primato anche per l’esercito romano; neppure Giulio Cesare era mai arrivato a tanto in così poco tempo. Non c’è da stupirsi che il «muro di Tito» fosse destinato a diventare una leggenda. Per raggiungere simili risultati, il comandante supremo fece appello per l’ennesima volta al tradizionale spirito di competizione delle truppe romane. A ogni legione venne assegnato un tratto di vallo da costruire, e Tito in persona si incaricò di condurre ispezioni notturne per lodare, incoraggiare e ricompensare i suoi uomini.
Il terzo muro di Gerusalemme, ormai violato (e del quale è visibile qualche traccia ancora oggi), contribuì a fornire il materiale per la costruzione del vallo romano. Quest’ultimo lambiva per duecento metri il primo e il secondo muro, seguiva la valle di Hinnom a sud, si snodava ai piedi del monte degli Ulivi a est e all’interno del terzo muro a nord, tagliando in due l’area di Bethesda (la cosiddetta «città nuova»). Sul lato occidentale di Gerusalemme, il vallo si spingeva oltre la «vasca dei serpenti», sfiorando il quartier generale di Tito al Campo degli Assiri.
All’interno della città assediata, il morale dei civili crollò, mentre le fazioni della resistenza riprendevano a combattersi a vicenda. Giovanni di Giscala assassinò Eleazar lo Zelota. Sulla cinta muraria, sotto gli occhi dei romani, Simone lo Zelota giustiziò Mattatia – uno dei sommi sacerdoti –, non prima di aver ucciso davanti ai suoi occhi i suoi tre figli. Quando Giuda, aiutante di Simone, cominciò a parlare di resa, Simone uccise anche lui.
Approfittando dei dissidi interni che dilaniavano il fronte ebraico, Tito inviò nuovamente Giuseppe per chiedere la resa della città. Secondo il suo stesso racconto, stavolta Giuseppe fu colpito al capo da una pietra lanciata dalle mura, con la deliberata intenzione di ucciderlo. I ribelli si rallegrarono, pensando di aver eliminato il traditore. Una pattuglia di resistenti uscì per raccoglierne il corpo, ma Tito aveva già spedito un manipolo di legionari in soccorso del suo emissario. Giuseppe, privo di sensi, fu riportato nelle linee romane e fatto rinvenire. Poco dopo, il collaborazionista ebreo fece un nuovo tentativo, che si rivelò altrettanto infruttuoso. I partigiani, stizziti dal fatto che fosse ancora vivo, lo cacciarono in malo modo.
A questo punto, Tito decise di concentrare tutti gli sforzi offensivi contro la fortezza Antonia. Le quattro legioni ai suoi ordini presero a erigere un vallo di fronte al muro settentrionale del complesso fortificato. I lavori furono ostacolati dalla penuria di legname: era difficile puntellare a dovere i terrapieni, visto che mancava la necessaria materia prima. Per la prima volta, lo spirito dei legionari vacillò. La loro ingrata consegna era ormai entrata nel suo terzo mese.
Il 20 luglio, nonostante il tiro di sbarramento dei ribelli, i romani riuscirono a collocare quattro torri d’assedio a ridosso della fortezza Antonia. Giovanni di Giscala guidò un’altra sortita all’esterno: provvisto di materiale infiammabile, sperava di replicare il successo ottenuto giorni prima contro le torri della Decima e della Quindicesima legione. Ma stavolta gli assedianti non si fecero cogliere di sorpresa. A ranghi serrati e con gli scudi alzati, crearono una barriera impenetrabile attorno alle loro macchine da guerra. Nel frattempo, le catapulte romane facevano a pezzi gli uomini di Giovanni, costringendo i pochi superstiti a ritirarsi nel primo muro. Presto, gli arieti cominciarono a entrare in azione contro le mura settentrionali della fortezza Antonia.
Tuttavia, questo imponente complesso fortificato, che dominava il tempio come il tempio dominava la città, dimostrò di saper resistere all’assalto degli arieti. Di conseguenza, una testudo della fanteria romana si fece sotto e indebolì parte del muro, rimuovendo con strumenti di fortuna quattro enormi blocchi di pietra. I soldati non lo sapevano, ma si trovano esattamente sopra una galleria scavata tempo addietro da Giovanni di Giscala. Durante la notte, la galleria franò sotto i loro piedi, trascinando con sé la sezione del muro settentrionale dell’Antonia che avevano già eroso. Dunque, quasi per miracolo, si aprì una breccia; ma all’alba, le truppe di Tito si accorsero che gli ebrei avevano sfruttato le macerie per innalzare un’altra muraglia all’interno del primo muro. Le legioni avrebbero dovuto ricominciare tutto daccapo.
Consapevole di quanto una simile prospettiva sconfortasse le truppe, Tito convocò in assemblea le sue unità d’élite, ordinando ai generali di portargli i soldati più combattivi di ciascuna legione. Appena costoro si furono seduti sul terreno polveroso di fronte a lui, Tito, assiso sul tribunal, diede inizio al suo discorso. Era presente anche Giuseppe, che lo ascoltò e ne tramandò le parole.
«Soldati di Roma!», esordì Tito, «sarebbe scandaloso che dei romani – e per di più dei legionari, che in tempo di pace si sono addestrati alla guerra, e in tempo di guerra si sono abituati alla vittoria –, si facessero umiliare in coraggio e determinazione da quegli ebrei asserragliati lassù. Sappiate che ormai la vittoria è vicina, e non dimenticate: Giove è dalla nostra parte!»
Tito proseguì affermando che la morte in battaglia era una fine gloriosa; e che le anime dei soldati caduti in combattimento avrebbero dimorato tra le stelle. La conquista della fortezza Antonia sarebbe stata senza dubbio un’impresa rischiosa, ma lui non avrebbe insultato i soldati di Roma chiedendo loro di esporsi al pericolo, visto che quello era il loro pane quotidiano. In fondo, si trattava soltanto di finire il lavoro. E, a opera compiuta, la ricompensa sarebbe stata nettamente superiore agli sforzi. Tito concluse chiedendo dei volontari per dare l’assalto al nuovo muro.
A quel punto, un legionario siriaco di una coorte della Terza Augusta, tale Sabino, si inginocchiò di fronte al comandante in capo. La sua unità vantava notoriamente pochi rivali quanto a coraggio e risolutezza. Le sei coorti della Terza Augusta inviate di recente dalla Giudea all’Europa, si erano coperte di gloria non appena avevano messo piede in Mesia, sbaragliando in un giorno solo – un freddo giorno d’inverno – ben 10000 cavalieri sarmati che avevano attraversato il Danubio, e oltretutto accusando perdite irrisorie. In seguito, le stesse coorti erano state in prima linea nell’inesorabile, sanguinosa marcia attraverso l’Italia che era culminata con la presa di Cremona e Roma, contribuendo in modo decisivo all’affermazione finale di Vespasiano.
Eppure, secondo la testimonianza di Giuseppe, il piccolo, olivastro, raggrinzito legionario siriaco che ora stava davanti a Tito, sembrava tutto tranne che un soldato. Doveva avere cinquant’anni, e quasi certamente si era raffermato con la Terza Augusta nel 40 d.C. Ispirati dal suo esempio, altri undici legionari di diverse unità si prostrarono ai piedi di Tito offrendosi di seguire il compagno in quella che si annunciava come una missione suicida.
Giuseppe riferisce che Sabino dichiarò testualmente: «Anche se fallirò, generale, sarò andato incontro alla morte con gli occhi aperti».
All’alba di quel giorno, il coraggioso legionario – come ogni uomo della Terza Augusta ai quattro angoli delle province romane – deve aver rispettato l’abitudine quotidiana di inchinarsi al sorgere del sole, indirizzando lodi e preghiere a Baal, la sua divinità protettrice. Tacito descrive come l’anno precedente, all’epoca della battaglia di Cremona, i siriaci delle sei coorti della Terza Augusta fossero soliti ritrarsi all’alba dalla scena degli scontri, per salutare il sole che sorgeva prima di tornare a combattere. Evidentemente, i loro precetti religiosi venivano prima di qualunque altra considerazione. Per tornare a Gerusalemme, è probabile che quel giorno Sabino abbia chiesto al suo Dio di proteggerlo e assisterlo. E, senza dubbio, mentre i compagni lo aiutavano ad allacciarsi la corazza e a impugnare lo scudo, deve avere rivolto un’altra preghiera silenziosa ai numi, affinché propiziassero il buon esito della missione. Al legionario non sarebbe dispiaciuto onorare Baal anche all’alba dell’indomani.
Forse un commilitone siriaco di Sabino, meno incline a cedere all’eccitazione del momento, potrebbe aver dato voce al secolare disprezzo dei soldati per il volontariato. Offrirsi volontari era una sciocchezza, sempre e comunque; ma offrirsi volontari per quella missione era semplice follia. E chissà, magari avrà ricordato al suo amico un vecchio proverbio latino, secondo il quale «I saggi imparano dagli errori degli altri, gli sciocchi si accontentano dei propri». Quel giorno, Sabino rischiava di commettere un errore semplicemente fatale. Ma il piccolo legionario della Terza Augusta era già con la mente alla missione che lo attendeva, e niente gli avrebbe fatto cambiare idea.
Poco prima di mezzogiorno, seguiti dagli sguardi ansiosi dei soldati della prima linea, Sabino e i suoi uomini si avventarono armi in pugno contro il bastione nemico. I difensori, asserragliati più in alto, li accolsero con una tempesta di dardi. Mentre i suoi compagni venivano colpiti e cadevano sotto una pioggia di giavellotti, frecce e pietre, Sabino, ancora illeso, si inerpicò sulle macerie del muro. Giuseppe racconta che il piccolo legionario continuò a salire con l’agilità di una scimmia e senza farsi un graffio. Di fronte a tale spettacolo, i resistenti ebrei pensarono che Sabino fosse una specie di superuomo. Presi dal terrore, si diedero alla fuga, consentendo al solitario nemico di approdare alla sommità della muraglia.
Giunto in cima, Sabino volse lo sguardo verso le linee romane e, sogghignando, alzò lo scudo e la spada in segno di vittoria. È probabile che la sua impresa sia stata salutata da migliaia di «urrà». Essere il primo a scalare le mura di una città nemica equivaleva a meritarsi la corona muralis («corona muraria»), uno dei massimi riconoscimenti al valore militare dell’antica Roma; qualcosa di molto simile, come importanza, alla Medaglia d’Onore del Congresso americano o alla Victoria Cross dell’esercito inglese.
Questa corona di oro massiccio, merlettata a imitazione delle mura di una città, attestava che il suo possessore era un soldato eccezionale. Secondo Polibio, coloro che avevano ottenuto un simile onore – o uno equivalente, come la corona vallaris (per atti di eroismo all’interno di un accampamento nemico) o la corona navalis (per il coraggio dimostrato nel corso di una battaglia navale) – potevano godere di un posto privilegiato durante le processioni religiose (una volta tornati alla vita civile), ed erano altresì autorizzati ad appendere il trofeo in bella vista sulla parete della propria casa, così che tutti potessero vederlo. Lo storico greco sostiene che i romani di tutte le classi nutrivano un interesse quasi ossessivo nei confronti delle onorificenze militari, assegnando loro un’importanza immensa. Di conseguenza, aggiunge Polibio, non sorprende che i cittadini di Roma emergessero «con una brillante affermazione da qualunque guerra in cui fossero stati coinvolti».
Era proprio questa ricerca della gloria che aveva spinto il legionario Sabino a scalare le mura della fortezza Antonia. Mentre era lassù, il piccolo siriaco avrebbe potuto tranquillamente immaginare di trovarsi di fronte all’intero esercito romano schierato per rendergli onore. Il generale Tito Flavio Vespasiano, figlio dell’imperatore, avrebbe letto ad alta voce la motivazione dell’onorificenza; dopodiché gli avrebbe personalmente apposto la corona sulla testa, tra gli applausi e gli evviva di decine di migliaia di suoi commilitoni. E chissà quali feste lo avrebbero accolto al suo ritorno a casa, forse a Beirut (che secondo Giuseppe era la città natale di molti soldati della Terza Augusta), tra dieci anni, quando il suo periodo di rafferma sarebbe giunto al termine. Naturalmente, la sua fama lo avrebbe preceduto. Il legionario non si sarebbe scordato di scrivere una lettera alla famiglia (magari affidandone la stesura, dietro pagamento, a un commilitone istruito); quindi, dopo averla chiusa in una busta, l’avrebbe consegnata a un corriere dell’efficentissimo cursus publicus, il servizio postale romano. Come sarebbero stati orgogliosi, a Beirut, del piccolo Sabino, che aveva conquistato la corona muraria, e di tutta la sua famiglia!
Invece, al culmine dell’euforia, il coraggioso legionario perse improvvisamente l’equilibrio. Sotto gli sguardi inorriditi delle truppe romane, Sabino cadde dall’altra parte del muro. Il tonfo, amplificato dal clangore metallico della sua corazza, fece accorrere i resistenti. Il piccolo siriaco, contuso, cercò di rialzarsi su un ginocchio, mentre gli ebrei lo circondavano. Sabino levò lo scudo per difendersi, ma le sue braccia furono subito tempestate da una miriade di colpi. Lo scudo gli cadde di mano, e il legionario fu fatto a pezzi.
Non era abitudine dell’esercito romano conferire riconoscimenti postumi. Una delle rare eccezioni si era verificata quando Cesare aveva sepolto il centurione capo Crastino, della Decima legione, dopo la battaglia di Farsalo. La morte di Sabino, quindi, lo derubò della possibilità di essere riconosciuto ufficialmente come eroe.
Quanto agli altri volontari che avevano accompagnato il legionario, tre furono uccisi e otto furono feriti prima che potessero raggiungere la sommità delle mura. Mentre i resistenti ebrei rioccupavano la cima, le truppe romane riuscirono a raccogliere i feriti e a evacuarli, avviandoli al più vicino ospedale da campo dietro le linee.
Due notti più tardi, un nuovo reparto di volontari – venti legionari e il portainsegne della Quinta, più due soldati a cavallo e un trombettiere – si inerpicarono silenziosamente sulle macerie e sopraffecero le sentinelle di guardia. A quel punto il trombettiere soffiò con forza nel suo strumento. Questo segnale scatenò il panico tra le altre sentinelle, convinte che l’intero esercito romano stesse per irrompere nella fortezza Antonia. In effetti, quel segnale era destinato alle truppe di Tito in attesa nell’oscurità. Quando i legionari sciamarono al di là delle mura senza incontrare resistenza, Tito e gli ufficiali più alti in grado erano con loro. I difensori ebrei si ritirarono nel tempio, utilizzando una galleria, scavata da Giovanni di Giscala, che lo collegava alla fortezza Antonia.
Così, i romani si impossessarono del complesso fortificato, e lo fecero con una facilità che nessuno avrebbe mai potuto immaginare solo poche settimane o giorni prima. Questo successo segnò l’inizio della fine per i difensori di Gerusalemme; eppure molto sangue sarebbe stato ancora versato.
Attraverso la fortezza Antonia, i legionari entrarono nel santuario del tempio. Qui furono accolti da gruppi combattenti delle diverse fazioni ebraiche, che, spalla contro spalla, li impegnarono in un furibondo corpo a corpo; uno scontro destinato a protrarsi fino al pomeriggio del giorno seguente.
Mentre la mischia infuriava, Giuliano, un centurione della Bitinia (nell’odierna Turchia settentrionale), cercò di incoraggiare con l’esempio le sue truppe ormai allo stremo. Senza alcun aiuto, prese a spingere i resistenti ebrei verso il cortile esterno del tempio. A un certo punto, tuttavia, scivolò sul pavimento insanguinato e cadde a terra, di schiena. Gli avversari non persero tempo a circondarlo. Incredibilmente, Giuliano riuscì a uccidere sette dei suoi assalitori, prima di essere trucidato. Rincuorati da questo effimero successo, gli ebrei ripresero l’iniziativa e costrinsero gli invasori ad arretrare verso l’Antonia. Di conseguenza, le mura della fortezza divennero la nuova prima linea.
Tito ordinò di distruggere l’Antonia, così da creare un ampio ingresso al tempio dall’esterno del primo muro. La demolizione si protrasse per una settimana, nel corso della quale Giuseppe, su ordine di Tito, cercò per l’ennesima volta di convincere gli ebrei ad arrendersi. In lacrime, implorò i suoi correligionari di salvare se stessi e la città. Come sempre, le sue parole non trovarono ascolto.
Pochi eminenti cittadini di Gerusalemme (soprattutto sacerdoti) decisero però di fuggire dal Tempio e consegnarsi ai romani. Tito li spedì nella città di Gophna, a dodici miglia di distanza in direzione nord. Occupata da Vespasiano all’inizio della campagna, adesso Gophna fungeva da campo di prigionia, quasi certamente sotto il controllo delle inesperte quattro coorti della Diciottesima legione. Allorché Giovanni di Giscala, nel tentativo di scoraggiare ulteriori diserzioni, mise in giro la voce che i romani massacravano tutti quelli che si consegnavano loro, Tito fece riportare i prigionieri a Gerusalemme, ordinando che sfilassero lentamente sotto le mura, così che tutti potessero sincerarsi delle loro condizioni.
Una volta aperta la strada attraverso l’Antonia, Tito diede al colonnello Sesto Vettuleno il compito di condurre un massiccio attacco notturno, con l’obiettivo di penetrare il più possibile nel cortile esterno del tempio. In questa occasione, tuttavia, le sentinelle ebree non si fecero cogliere di sorpresa. Così, appena l’attacco romano scattò, fecero affluire immediatamente dei rinforzi. Il cortile esterno divenne teatro di una furibonda battaglia. Vettuleno e i suoi uomini, disponendosi a «testuggine», scatenarono una serie di violente cariche. Gli scontri divamparono fino al sorgere del nuovo giorno, ma alla fine i legionari furono costretti a ritirarsi nell’Antonia.
A questo punto, Tito stabilì di allestire in punti diversi della fortezza quattro nuove piattaforme, che sarebbero servite da altrettante basi di partenza per gli assalti contro il tempio. Il suo obiettivo principale era il santuario, che sorgeva sull’altro lato della cosiddetta «corte dei gentili», l’unica area del tempio tradizionalmente aperta ai non ebrei. Grazie al legname fatto arrivare dalla costa, i lavori procedettero rapidamente.
Ciò nonostante, le incursioni ebraiche all’esterno del primo muro non vennero meno. Un giorno, poco prima del tramonto, un robusto contingente partigiano raggiunse il monte degli Ulivi per sferrare un attacco al campo della Decima legione. Memori di due precedenti assalti guerriglieri, gli uomini della Decima si fecero trovare preparati. La battaglia infuriò per tutto il campo, finché le coorti della legione non riuscirono a ricacciare gli attaccanti verso le prime balze del monte degli Ulivi.
I fanti della Decima, appoggiati da reparti di cavalleria, presero a inseguire i guerriglieri. Un soldato di nome Pedanio, sporgendosi dalla sella, riuscì ad agguantare e catturare un giovanissimo ebreo. Più tardi, costui fu portato al cospetto di Tito, che, per nulla impressionato dalla sua giovane età, lo fece giustiziare.
Dopo aver tentato, senza successo, di incendiare i portici orientali che collegavano il tempio all’Antonia, il 15 agosto i difensori di Gerusalemme ricorsero all’ennesima astuzia. I partigiani di presidio sul tetto del portico occidentale inscenarono una falsa ritirata, così da indurre il nemico a occupare la posizione. Le truppe romane abboccarono all’amo. Ma allorché si furono riversate sul tetto, gli ebrei diedero fuoco alla pece e al bitume con cui in precedenza avevano spalmato le travi. Alcuni soldati, per sfuggire al fuoco, saltarono dalla parte delle linee romane, ma altri finirono dalla parte opposta, dove furono massacrati. Altri ancora, che non avevano osato buttarsi dal tetto, perirono tra le fiamme.
Il 16 agosto, i romani bruciarono il portico settentrionale. Cinque giorni più tardi, gli arieti ripresero a percuotere le robuste pareti di marmo del santuario, allo scopo di crearvi una breccia. Il 27 agosto, irritato dagli scarsi progressi dell’offensiva, Tito ordinò di assaltare con scale e rampini i portici che circondavano il santuario. Ma anche questo attacco, pur causando forti perdite ai difensori, si risolse in un fallimento.
Con l’ostinazione che gli era tipica, il comandante romano diede l’ordine di dare alle fiamme le porte del santuario. Le decorazioni in argento che le adornavano si sciolsero per il calore, ma le enormi porte rimasero quasi intatte. L’incendio si diffuse ai portici vicini, per spegnersi soltanto il giorno dopo.
Sempre più frustrato, Tito convocò a rapporto i suoi ufficiali anziani: il colonnello Alessandro, capo di stato maggiore; il generale Lepido della Decima, il generale Ceriale della Quinta; il generale Tito Frigio della Quindicesima; il colonnello Frontone della Diciottesima (più il distaccamento della Terza Augusta), e il colonnello Antonio Giuliano, facente funzione di procuratore di Giudea. Giuseppe non cita alcun comandante in capo per la Dodicesima legione, il che ci fa sospettare che fosse rappresentata dal suo tribuno anziano. Più tardi, alla discussione si unirono i colonnelli delle unità legionarie e gli ufficiali che erano stati designati procuratori per la Galilea e l’Idumea. Tra le altre cose, si dibatté se il tempio, considerato con i suoi marmi bianchi uno degli edifici più belli del mondo antico, dovesse essere risparmiato nel corso dell’assalto finale.
Ci sono rimasti due resoconti di quel consiglio di guerra. Giuseppe ci riferisce che Tito, intenzionato a preservare il tempio, riuscì a portare gli altri sulla stessa linea di pensiero. Questa testimonianza va presa con le molle. Senza dubbio lo storico ebreo era presente all’incontro, ma in seguito avrebbe fatto di tutto per dipingere Tito, che nel frattempo era diventato il suo protettore, come un uomo magnanimo e ispirato da alti principi. Al contrario, uno scrittore cristiano del IV secolo, Sulpicio Severo, basandosi su un passo di Tacito che non ci è pervenuto, sostiene che Tito era favorevole alla distruzione del tempio, in quanto simbolo principe della resistenza ebraica. Da un lato, Tito aveva la reputazione di uomo onesto e gentile, e come tale era ben voluto; ma dall’altro, non esitava a far giustiziare i prigionieri di guerra, sicché non doveva poi essere un insuperabile campione di mitezza e bontà. La versione di Tacito, sempre che sia stata riportata correttamente da Sulpicio Severo, ci sembra quindi la più attendibile.
A ogni modo, Tito ordinò di aggredire le porte parzialmente combuste del santuario con arieti, asce e spade; dopodiché sarebbero entrati in azione i legionari. Il combattimento che seguì non ebbe né vincitori né vinti. Le truppe romane si ritirarono dalla zona del santuario, e Tito andò a dormire. Poco più tardi, tuttavia, gli ebrei scatenarono un’incursione contro le linee nemiche. I legionari di guardia, sia pure a fatica, contennero l’attacco e costrinsero gli assalitori a rifugiarsi nel santuario. Secondo Giuseppe, un soldato romano gettò un tizzone ardente attraverso le porte, scatenando un incendio all’interno del luogo.
Tito fu convocato in tempo per vedere il santuario in fiamme. Secondo Giuseppe, diede ordine alle truppe di spegnere l’incendio, ma, nel fracasso e nella confusione, o le sue parole non giunsero ai soldati, oppure – com’è più probabile – furono deliberatamente ignorate. Molti legionari, infatti, smaniavano all’idea di ridurre in cenere quel luogo per loro così nefasto.
Tito e la sua guardia del corpo si fecero strada all’interno del santuario. Entrarono nella «corte delle donne», e poi nella «corte di Israele»; proseguirono lungo una scala di quindici gradini fino alla «corte dei sacerdoti» e all’«altare dell’olocausto»; passarono sotto un arco imponente, e infine, dopo aver salito un’altra scala di dodici gradini, si fermarono di fronte a una porta d’oro massiccio. Gli uomini della guardia del corpo la sfondarono con delle mazze di legno.
A questo punto, il comandante in capo delle forze romane penetrò nel cosiddetto «luogo sacro», dove soltanto i sommi sacerdoti ebraici avevano diritto di accesso. Un soffitto piatto si innalzava per quarantacinque metri. Di fronte a Tito si ergevano «l’altare dell’incenso», la «tavola del pane dell’offerta», e il simbolo per eccellenza del giudaismo, il candeliere a sette braccia (con ciascun braccio a rappresentare il Sole, la Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Il generale di Roma si spostò poco più in là, attraverso un atrio coperto da tende, fin dentro il «santo dei santi», la dimora di Dio, dove persino il sommo sacerdote poteva accedere solo nel «giorno dell’espiazione». Il giorno in cui cadde il tempio, Tito scoprì che questa camera era ancora vuota.
Tempo addietro, un altro illustre generale romano aveva violato il tempio di Gerusalemme. Era stato Pompeo Magno, nel 63 a.C., nel corso della sua conquista dell’Oriente assieme – tra le altre – alla Prima e alla Seconda legione. Anche Pompeo era entrato nel sancta santorum, ma lo aveva lasciato intatto.
Adesso, mentre le fiamme fagocitavano gran parte del tempio, i legionari si diedero al saccheggio degli oggetti più preziosi, passando al setaccio ogni angolo, ogni fessura del complesso, e minacciando con le armi chiunque cercasse di impedirglielo. I soldati non trascurarono nulla: oro, argento, le porte di ottone, tutti gli oggetti più venerati della religione ebraica (a partire dai candelabri dorati), e l’ingente tesoro che gli abitanti di Gerusalemme avevano nascosto in quel luogo sacro.
Stregati dalla brama di bottino, molti legionari lasciarono scappare qualche ebreo che si era rifugiato nel tempio (a meno che non avesse indosso oggetti di valore); altri invece si diedero a uccidere freneticamente, scavalcando mucchi di cadaveri per proseguire nella loro opera di morte. Il sangue cominciò a fluire sul lastricato del tempio come fosse acqua. Il tumulto degli scontri, il fumo, il calore, lo schiantarsi delle parti lignee, le urla eccitate dei legionari, i latrati dei centurioni che impartivano ordini, le invocazioni delle vittime e i gemiti dei moribondi; tutto questo deve essere stato semplicemente assordante.
Approfittando della confusione, alcuni capi della resistenza si mischiarono tra i profughi e scapparono dal cuore dell’abitato, raggiungendo, attraverso le condutture dell’acqua, la «città alta». Intanto, gli zeloti pregavano con fervore, certi che i vaticini dei vecchi profeti si sarebbero avverati, e Dio avrebbe fermato la mano pagana dei romani e salvato gli ebrei. Ma le loro preghiere non vennero ascoltate, le loro aspettative non vennero soddisfatte.
Le fiamme non si diffondevano abbastanza in fretta per alcuni legionari, che si diedero ad appiccare nuovi incendi. I romani ammassarono in un portico ancora integro seimila uomini, donne e bambini, tutti profughi ebrei; poi, per vendicarsi degli stratagemmi mortali che i resistenti avevano usato nei loro riguardi, diedero fuoco alla struttura. Tutti i seimila rifugiati furono arsi vivi.
Finalmente, il tempio era caduto. Era il 30 agosto. Ma persino nei giorni successivi, mentre gli incendi si spegnevano poco a poco e i conquistatori offrivano sacrifici di ringraziamento ai loro dei, l’assedio di Gerusalemme andò avanti. Restava ancora qualche sacca di resistenza nel palazzo di Erode e, a ovest, nella «città alta».
A questo punto, tuttavia, furono due capi della resistenza ebraica – Giovanni di Giscala e Simone l’Idumeo – a invocare una conferenza di pace. Quando incontrarono Tito alle mura che si affacciavano sulla spianata del tempio, il comandante romano offrì loro di aver salva la vita se si fossero arresi. Era la stessa proposta che aveva ripetutamente avanzato nei mesi e nelle settimane precedenti. I partigiani ribatterono che sarebbero stati disposti a cessare le ostilità solo a una condizione: il permesso di attraversare incolumi le linee nemiche e allontanarsi nel deserto con le proprie famiglie. Tito però perse le staffe, e, secondo Giuseppe, replicò furibondo: «I vinti non possono dettare i termini della loro resa!». E così, il colloquio di pace si interruppe bruscamente.
Archiviato questo episodio, il comandante romano concentrò i suoi sforzi sulla «città alta», ancora in mano ai resistenti. Tito decise di sfruttare la conformità del terreno per attaccare da ovest, scatenando le truppe dal vicino Campo degli Assiri. L’8 settembre, i legionari cominciarono a costruire terrapieni a ridosso dei blocchi di marmo bianco delle mura orientali del palazzo di Erode. Ci vollero diciassette giorni per completare i lavori.
Consapevoli della situazione, molti partigiani si persero d’animo e si sottrassero all’assedio, dileguandosi attraverso passaggi sotterranei. Coloro che rimasero, invece, si asserragliarono in una delle tre torri del palazzo, alta più di quaranta metri. Era il luogo dove Simone l’Idumeo aveva stabilito il suo quartier generale. Ben presto, quattro arieti romani cominciarono a percuotere il muro occidentale, creando una breccia e dando via libera all’assalto legionario. Giovanni, Simone e gli ultimi resistenti pensarono di bruciare il palazzo, aprirsi la strada con la forza e fuggire. Ma i loro tentativi di dare fuoco al complesso non diedero frutti. Venuta meno la premessa della fuga, si rifugiarono nei sotterranei.
Presto gli stendardi scintillanti delle legioni fecero la loro comparsa sulla sommità della torre. Un sonoro evviva risuonò lungo la valle, appena le truppe romane capirono che l’assedio era finito. Adesso Gerusalemme era loro. Gran parte di ciò che era rimasto in città fu consumato dal fuoco, compresi 97000 prigionieri. I capi e i sostenitori della resistenza, una volta riconosciuti, furono giustiziati. Altri settecento ribelli furono esibiti a Roma l’anno successivo, durante il trionfo di Tito e Vespasiano per le strade della capitale. Altri ancora, tra i più giovani e robusti, vennero spediti nelle miniere egizie. I bambini furono venduti come schiavi. Molti adulti finirono ai quattro angoli dell’impero, costretti a combattere contro animali selvaggi nelle arene. Secondo alcune fonti, le vittime dell’assedio di Gerusalemme furono un milione: chi ucciso dai romani, chi liquidato dai suoi compatrioti, chi stroncato dai morsi della fame. Non abbiamo una stima ufficiale, nero su bianco, delle vittime romane, ma sicuramente, tra morti e feriti, si contarono migliaia di caduti.
Ormai in possesso completo della città, le legioni sfilarono in parata tra le macerie. Tito lodò le truppe per la loro vittoria, dopodiché premiò i soldati che si erano particolarmente distinti nel corso dei combattimenti. Fu un profluvio di corone civiche, corone murarie, corone al valore, torque d’oro, lance dorate in miniatura, stendardi d’argento, citazioni al merito. Molti legionari ricevettero una promozione, e si videro riconoscere una maggiorazione nella loro quota di bottino. Del resto, le regole del saccheggio parlavano chiaro: Gerusalemme era stata presa con la forza, e mentre la gran parte degli oggetti più preziosi sarebbe stata destinata al tesoro imperiale, tutto il resto sarebbe stato diviso tra i soldati.
Assiso sul tribunal, Tito annunciò le nuove destinazioni delle legioni. La Quinta e la Quindicesima lo avrebbero accompagnato nel prosieguo della campagna in Oriente, dopodiché sarebbero tornate con lui in Egitto l’anno successivo. Dopo la rafferma dell’80 d.C., che si sarebbe svolta in Macedonia, la Quinta sarebbe stata destinata alla Mesia, mentre la Quindicesima avrebbe raggiunto un nuovo presidio in Cappadocia. Quanto ai veterani dell’unità posti in congedo, ottocento tra loro sarebbero rimasti in Giudea, dopo aver ricevuto appezzamenti di terra nei dintorni di Emmaus. La Dodicesima si sarebbe spostata a nord, fino a raggiungere Melitene, sempre in Cappadocia, non lontano dall’Eufrate. La Decima, infine, sarebbe restata in Giudea come legione stanziale della provincia.
Qualche giorno più tardi, Giovanni di Giscala fu catturato nel suo rifugio sotterraneo. Tito gli risparmiò la pena capitale, condannandolo al carcere a vita. Simone bar Giora fu arrestato dai soldati della Decima e condotto in catene al cospetto del generale, che nel frattempo era rientrato a Cesarea. Entrambi i capi della resistenza furono esposti al lubridio del popolo romano durante il trionfo del 71 d.C., alla fine del quale, come da triste abitudine, Simone fu prima frustato e poi strangolato. Quanto al capo della terza fazione ebraica, Eleazar, era morto nella difesa del tempio.
Dopo alcuni mesi trascorsi a esibire i prigionieri in lungo e in largo per la Giudea – e spesso a farli combattere contre le fiere, o l’uno contro l’altro, nelle arene della provincia –, all’inizio del nuovo anno Tito si imbarcò ad Alessandria e fece vela alla volta di Roma in compagnia del padre, il nuovo imperatore Vespasiano, per riunirsi a suo fratello minore, il litigioso Domiziano, che si trovava già nella capitale con il maresciallo di campo Muciano. L’ex governatore della Siria aveva raggiunto l’Italia assieme alle sue truppe – tra cui la Sesta Victrix – per radunare le legioni balcaniche fedeli a Vespasiano, sconfiggere l’esercito di Vitellio e occupare Roma. In seguito Vespasiano nominò Tito comandante della guardia pretoriana; un incarico che avrebbe ricoperto fino alla morte del padre, nel 79 d.C. Dopodiché, Tito sarebbe assurto al trono imperiale, per regnare poco più di due anni, quando la sua morte prematura avrebbe catapultato Domiziano al vertice assoluto del potere. Il figlio maggiore di Vespasiano sarebbe stato rimpianto da tutte le genti dell’impero. Ma non dagli ebrei.
Nel settembre del 70 d.C., poco prima di lasciare la Giudea, Tito nominò il colonnello Terenzio Rufo nuovo procuratore della provincia, con autorità anche su Gerusalemme. Rufo fu incaricato di distruggere ogni prova che la città fosse mai esistita, sebbene Tito avesse voluto risparmiare le torri superstiti del palazzo di Erode. Le coorti della Decima si sarebbero acquartierate su un lato di Gerusalemme, aggiungendosi alla legione di stanza a Cesarea. Mentre distruggevano pietra su pietra gran parte del vecchio abitato ebraico, gli uomini della Decima riciclavano il materiale da costruzione per erigere le loro fortezze.
Intenti alle loro opere ingegneristiche, tuttavia, i legionari della Decima non trascurarono di tenere gli occhi bene aperti, alla ricerca dei tesori che gli ebrei avevano nascosto durante l’assedio. Agli inizi del 71 d.C., reduce dalla sua trionfale campagna in Siria, che lo aveva portato fino a Zeugma sull’Eufrate (base della Sesta Victrix), dove emissari dei parti gli si erano presentati di fronte con corone d’oro per celebrare la sua vittoria, Tito, prima di procedere alla volta di Alessandria, si fermò qualche giorno a Gerusalemme. Qui, fu molto divertito nel constatare quanto gli uomini della Decima fossero soddisfatti di loro stessi. Infatti, alcuni prigionieri ebrei avevano rivelato l’ubicazione di un nascondiglio pieno d’oro, che i legionari avevano prontamente confiscato.
Più in generale, l’oro di Gerusalemme venne sottratto in tali quantità, che quando fu venduto, creando una spaventosa eccedenza nell’offerta, il prezzo dell’oro in Siria si dimezzò di colpo. Quanto ai legionari superstiti della Decima, emersero dall’assedio della Città santa assai più ricchi di quanto fossero stati solo pochi mesi prima. Che l’oro della Siria perdesse pure metà del suo valore di mercato! A loro non importava; il buon oro della Giudea era più che sufficiente.
Ma la Decima legione non aveva del tutto finito con la resistenza ebraica. Sulle sponde del Mar Morto, restava ancora una piccola noce che i soldati di Roma avrebbero dovuto schiacciare. Questa noce aveva un nome, Masada.