19 NEL NOME DELL’IMPERATORE

Ottaviano si sarebbe dimostrato il più grande amministratore della storia romana. Nel 27 a.C., avendo ottenuto dal senato il titolo con cui lo conosciamo – Augusto, ovvero «il riverito» –, diede avvio a una vasta opera di riforma di ogni aspetto della vita civile e militare. Del resto, aveva iniziato a occuparsi dell’esercito già da qualche anno. Al tempo della battaglia di Filippi (42 a.C.) erano in servizio su fronti contrapposti ben cinquantanove legioni. Ottaviano le aveva ereditate tutte, ma aveva capito che erano troppe e troppo costose da mantenere. Così, nel 31 a.C., aveva inaugurato un programma di riduzione dei reparti, rimandando a casa tutti gli italici cui spettava il congedo. La maggior parte delle loro unità di appartenenza era stata ufficialmente abolita, e alla morte di Antonio, l’anno seguente, Ottaviano aveva continuato la ristrutturazione accorpando diverse legioni.

Alla fine, Augusto si ritrovò con ventotto legioni, numerate a I a XXVIII e composte da cittadini di tutto l’impero, con l’eccezione dell’Italia a sud del Po. Fino al regno di Nerone un secolo dopo, quando questi avrebbe arruolato la Prima Italica nell’Italia vera e propria, le sole truppe provenienti da quest’area sarebbero stati i militi della guardia pretoriana. Tutte le vecchie legioni ispaniche restarono in servizio: la Quinta, la Sesta, la Settima, l’Ottava, la Nona e la Decima, alle quali si affiancò una nuova unità, la Ventunesima Rapax. Sembra che si trattasse dell’antica Indigena di Pompeo – detta pure Rapax, o «rapace» –, e che avesse ereditato il numero Ventunesima dalla vecchia legione italica andata in congedo.

Ottaviano non stravedeva per la Decima. Dopotutto, la legione prediletta di Giulio Cesare si era schierata dalla parte di Antonio e aveva combattuto contro di lui. Così, quando giunse l’ora di congedare i suoi effettivi nel 29 a.C., pensò bene di trattenerli in servizio ancora un po’. Secondo Svetonio, i soldati della Decima non accettarono pacificamente la decisione dell’imperatore, sicché Augusto si risolse a congedarli tutti con disonore.

Non fu comunque la fine per la Decima legione. Come unità non italica, avrebbe continuato a servire nell’esercito augusteo. Non a caso, l’imperatore ordinò subito una nuova leva nel tradizionale bacino di arruolamento della Spagna.

Ottaviano era deciso a rendere le sue legioni macchine da guerra agili e feroci. Nel 29 a.C., mentre gli ufficiali reclutatori battevano la Spagna occidentale in cerca di reclute per la Decima, intervennero dei cambiamenti basilari. Gli effettivi di tutte le legioni furono ridotti. Le coorti subirono un taglio dei ranghi, attestandosi a quattrocentottanta uomini ciascuna (ai tempi di Cesare erano seicento). Inoltre, la prima coorte di ogni contingente divenne «doppia». Ciascuna legione fu dotata di una piccola unità di cavalleria per la ricognizione, composta da centoventi legionari suddivisi in quattro squadroni di trenta cavalieri, agli ordini di quattro decurioni, ognuno con un optio (sergente maggiore) come vicecomandante. Il ruolo vero e proprio della cavalleria sarebbe passato ad ausiliari costituiti in alae, alcune di cinquecento cavalieri, altre di mille.

La legione contava ancora sessanta centurioni – cinquantanove suddivisi in dieci gradi, oltre al primus pilus, il centurione capo –, ma gli incarichi dei sei tribuni subirono una profonda trasformazione. Ottaviano aveva visto con i propri occhi come le legioni fossero guidate in battaglia dai centurioni, e quanto i soldati disprezzassero i giovani e ricchi colonnelli a capo delle coorti. Di conseguenza, decise che d’ora in avanti cinque dei sei tribuni sarebbero stati cadetti, tribuni «con la fascia stretta» (angusticlavi). In quanto ufficiali di stato maggiore, avrebbero lavorato al quartier generale come responsabili dei turni di guardia e aiutanti del comandante legionario, senza però svolgere alcun ruolo direttivo nel corso delle battaglie. Servendo come aspiranti ufficiali per un periodo di sei mesi a partire dai diciotto anni, questi tenenti colonnelli avrebbero poi salito la scala gerarchica una promozione alla volta.

Quando Claudio divenne imperatore nel 41 d.C., la riforma dei tribuni era ormai un fatto compiuto. Dopo sei mesi come tribuni juniores, questi giovani dell’ordine equestre sarebbero diventati prefetti, ovvero colonnelli, a capo delle truppe ausiliarie. Una volta raggiunta quella posizione, avrebbero potuto aspirare al comando di un’ala di cavalleria ausiliaria, o di un’unità mista di fanteria e cavalleria.

Dopo aver avuto agli ordini un’unità di cavalleria, il prefetto poteva essere promosso al grado di tribuno seniore, o «con la fascia larga» (laticlavio); una carica che lo avrebbe autorizzato a svolgere le funzioni di vicecomandante di una legione. Il percorso da tribuno junior a tribuno seniore prevedeva di solito dieci o dodici anni. Il tribuno seniore era detto «tribuno militare», per distinguerlo dal tribuno civile, o tribuno della plebe. I nomi delle unità con cui aveva servito potevano essere elencati sulla sua pietra tombale; un privilegio concesso ai tribuni «con la fascia larga», ma non a quelli «con la fascia stretta».

Ottaviano stabilì inoltre che ogni legione dovesse avere un comandante di alto livello gerarchico, ovvero un legato (corrispondente grosso modo al moderno generale di brigata). Di norma, costui era un giovane membro dell’ordine senatorio che aveva raggiunto il grado di tribuno seniore prima di entrare nel senato all’età di trent’anni. Sotto Augusto, il comando di una legione durava da uno o due anni. In seguito, con altri imperatori, il periodo di servizio sarebbe arrivato fino a quattro anni.

Vi era poi un ulteriore grado gerarchico, quello di pretore, che implicava un’attività stanziale a Roma come magistrato o pubblico ministero. Dato che il rango civile di pretore equivaleva a quello militare di generale di divisione, il magistrato poteva poi confluire nell’esercito e diventare persino console (con un’autorità equivalente a quella di un moderno generale di corpo d’armata), nonché, in seguito, governatore di una provincia, al comando di tutte le unità militari di stanza nel suo territorio.

Non conosciamo il nome del generale di brigata che fu il primo comandante permanente della Decima, ma sappiamo che la legione fu sdegnosamente lasciata in Asia da Ottaviano dopo il suicidio di Antonio e Cleopatra, insieme ad altre tre di stanza in Siria, tra cui la Quarta. Nel 29 a.C., mentre le nuove reclute della Decima marciavano dalla Spagna per unirsi alle truppe in Siria, Augusto diede avvio a una campagna militare sui monti della Cantabria (Spagna settentrionale), guidando personalmente sette legioni – tutte di provata fedeltà – in un’offensiva che aveva lo scopo di portare finalmente tutta la penisola iberica sotto il controllo di Roma. Nei suoi piani, doveva trattarsi di un’operazione di breve durata. Invece, anche se alla fine fu coronata dal successo, andò avanti per dieci anni.

Quanto alla Decima, si vide assegnare come campo invernale stabile Cyrrhus (l’odierna Cirro), nella Siria del Nord, non lontano dalla Commagene e dall’Eufrate. Da laggiù, avrebbe vigilato sul vecchio nemico orientale di Roma, l’impero dei parti.

In Siria, la legione visse tempi relativamente tranquilli. La maggior parte dei veterani arruolati da Cesare a Cordova nel 61 a.C. aveva lasciato il servizio «con disonore» nel 29 a.C., ma parecchi centurioni erano stati richiamati per un terzo arruolamento. Di età compresa tra i quarantanove e i cinquantadue anni, costoro avevano un’incredibile storia alle spalle: la campagna di Gallia, due invasioni della Britannia, la spedizione di Cesare in Spagna durante la prima guerra civile, le battaglie di Dyrrhachium, Farsalo, Tapso, Munda, Filippi, Azio. Eppure, non erano ancora stanchi di servire sotto le armi. Le fonti citano il caso di un centurione della Prima Italica: era a metà della sua terza rafferma, quando morì all’età di sessantasei anni.

La Decima era ancora di stanza in Siria nell’inverno del 14-13 a.C., pronta all’imminente congedo e a un nuovo arruolamento. Durante quei mesi, i legionari ispanici in congedo si stabilirono nella città che sarebbe diventata la moderna metropoli di Beirut, allora compresa nella provincia di Siria. Fin dai tempi dell’Antico Testamento, la città – il cui nome cananita era Be’erot, «il luogo dei pozzi» – sorgeva sulle sponde del Mediterraneo, fra colline e falde acquifere sotterranee. Il sito ricevette la qualifica ufficiale di colonia romana proprio nel 14 a.C., allorché accolse i veterani della Decima. Augusto dedicò la colonia a sua moglie Livia – o meglio, all’imperatrice Livia Giulia Augusta – e rinominò la città Colonia Julia Augusta Felix Berytus: la «fertile colonia di Beirut appartenente a Giulia Augusta».

Dieci anni dopo, nel 4 a.C., alla morte di Erode il Grande, il regno di Giudea fu scosso da una serie di tumulti. Ad Antiochia, il governatore della Siria – generale Publio Quintilio Varo – raccolse tre delle sue quattro legioni, fra cui la Decima, e marciò su Gerusalemme per riportare l’ordine nella regione. Una volta domata la rivolta, Varo lasciò la Decima a presidiare la Città santa, agli ordini del suo vicecomandante, il procuratore Sabino. Dopodiché, se ne tornò in Siria con il resto delle truppe.

Ben presto, tuttavia, scoppiarono altre sommosse, scatenate da partigiani ebrei ed ex soldati dell’esercito di Erode. Gli uomini della Decima e tremila miliziani locali che erano rimasti fedeli a Roma si ritrovarono sotto assedio nella fortezza Antonia, vicino al tempio di Gerusalemme, insieme al procuratore Sabino. Dopo che costui riuscì a far svicolare nottetempo dei messaggeri, affinché raggiungessero la Siria al galoppo e lanciassero l’allarme, il generale Varo mise insieme una forza di soccorso costituita dalla Quarta (ora nota come Quarta Macedonica), dalla Sesta Victrix (l’originaria Sesta ispanica, che si era guadagnata il soprannome di «conquistatrice» durante la guerra cantabrica del 25 a.C.) e dalla Dodicesima, più alcuni reparti di fanteria ausiliaria e quattro squadroni di cavalleria.

Mentre Varo e le sue legioni si avvicinavano a Gerusalemme bruciando ogni villaggio sul loro cammino, i rivoltosi che assediavano la fortezza Antonia si dileguarono, e il generale poté riunirsi alla Decima senza difficoltà. Malgrado questo brutto incidente, Varo stabilì che la Decima continuasse a presidiare la Città santa.

Nel 4 d.C., quando la Decima entrò nel periodo di congedo e rafferma, le nuove reclute ispaniche dovettero firmare un contratto che le impegnava a servire nell’esercito non più per sedici anni, bensì per venti. Nel 6 a.C., Augusto aveva deciso di allungare la ferma a tutte le sue ventotto legioni, con le nuove regole che si applicavano a ciascuna unità man mano che arrivava il suo periodo di congedo.

L’età minima per entrare nell’esercito fu portata a vent’anni (ai tempi di Cesare era diciassette). I legionari avrebbero ricevuto sempre la stessa paga – novecento sesterzi all’anno –, ma del resto parliamo di un periodo storico in cui l’inflazione era inesistente. Basti pensare che i prezzi dei beni e dei servizi rimasero stabili per un intero secolo.

La Decima legione restò a Gerusalemme fino al 6 d.C., quando la Giudea divenne ufficialmente una provincia romana. Venendo incontro agli abitanti di Gerusalemme, che non avevano affatto gradito la presenza in loco di quell’unità per quasi un decennio, Augusto rimandò la Decima in Siria e la sostituì con la Dodicesima, con un ribaltamento di ruoli che vide gli italici settentrionali della Dodicesima dirigersi dalla Siria alla Giudea, e acquartierarsi nella nuova capitale della provincia, Cesarea. In proposito, rinvio all’appendice L’unicità dei comandi legionari in Egitto e Giudea.

Nell’inverno del 18 d.C., in Siria arrivò il nuovo comandante in capo dello scacchiere orientale. Era Germanico Cesare, nipote di Marco Antonio e, per molti versi, il John Fitzgerald Kennedy dei suoi tempi. Figlio adottivo ed erede di Tiberio – l’allora imperatore (che aveva preso il posto di Augusto alla morte di quest’ultimo, nel 14 d.C.) –, nonché bisnipote dello stesso Augusto, Germanico era un carismatico, genialoide generale di corpo d’armata di trentatré anni, celebre in tutto l’impero per le sue gesta spettacolari durante il conflitto pannonico del 6-9 d.C. e, in tempi più recenti, per la sua «guerra lampo» in Germania (peraltro durata tre anni) contro il capo ribelle Arminio (o Hermann, come lo chiamavano i suoi seguaci).

Oltre al valore militare, l’avvenenza e la simpatia personale, Germanico era anche un poeta e drammaturgo di talento. E non solo vantava vincoli di parentela con Marco Antonio e Giulio Cesare, ma aveva anche al suo fianco una moglie intelligente e devota come Agrippina maggiore, figlia di Marco Agrippa – il grande generale e ammiraglio di Augusto – e nipote di Augusto stesso.

Ma, più di ogni altra cosa, Germanico era noto per aver restituito ai romani il loro orgoglio imperiale. Nel 9 d.C., Arminio aveva sterminato tre intere legioni – la Diciannovesima, e probabilmente la Venticinquesima e la Ventiseiesima – nella foresta di Teutoburgo, a est del Reno. I reparti romani massacrati dai barbari erano agli ordini di quello stesso generale Varo che aveva comandato la Decima, in qualità di governatore della Siria, un decennio prima. Teutoburgo aveva rappresentato la più grande disfatta romana dopo Carre. Germanico, partito con otto legioni per recuperare le aquile delle tre unità, aveva ripetutamente sconfitto i germani, facendogli pagar cara l’onta di Teutoburgo. E adesso, nell’anno 18 d.C., eccolo avviarsi al suo nuovo quartier generale in Siria. Tiberio gli aveva affidato il comando supremo dell’Oriente.

La fama di Germanico era tale che perfino i temuti parti si affrettarono a inviargli dei messi, latori di una formale proposta di pace. Il suo potere nello scacchiere orientale non avrebbe avuto limiti; ma ancora prima di raggiungere la Siria, si trovò invischiato in un aspro conflitto, non con gli stranieri, bensì con il governatore locale, Gneo Calpurnio Pisone.

Pisone, più che sessantenne, console nel 7 d.C., era un generale di corpo d’armata irascibile e spocchioso. Risoluto a difendere la sua superiorità, decise immediatamente di rendere la vita difficile al nuovo venuto. Secondo molti contemporanei, si comportò così anche su suggerimento di Tiberio, che era geloso del brillante nipote, essendo stato forzato ad adottarlo da Augusto. Pisone ignorò l’ordine di Germanico di trasferire in Armenia alcune legioni di stanza in Siria, comprese la Decima e la Sesta Victrix, per fargli da scorta nella prevista incoronazione del nuovo re di quella terra.

Accompagnato solo dal suo stato maggiore, Germanico raggiunse comunque l’Armenia, una regione che Roma e la Partia si contendevano da lungo tempo. Lassù, nella capitale Artaxata, con la sua autorità garantita solo dalla fama personale, incoronò un re filoromano, Zenone, figlio del sovrano del Ponto, dandogli il nome di Artaxias. Per questo, e per aver inserito la Cappadocia e la Commagene nel quadro delle province romane, il senato gli tributò una «ovazione»; un trionfo minore in cui il condottiero sfilava per le strade di Roma non su una quadriga, bensì a cavallo. D’altro canto, Germanico aveva già celebrato un trionfo il maggio precedente, in virtù delle sue vittorie sui germani.

Installatosi in Siria pochi mesi prima di Germanico, Pisone aveva fatto il giro delle quattro legioni locali per guadagnarsi il loro appoggio, rimuovendo i tribuni e i centurioni più severi, e sostituendoli con uomini che erano in debito con lui o che si sarebbero fatti comprare per accontentarlo. Pisone lasciò che la disciplina delle legioni si allentasse, permettendo ai soldati di stanza in Siria di darsi alla bella vita fuori e dentro i campi fortificati. I più dissoluti fra i legionari cominciarono a chiamarlo «padre delle legioni», e soprattutto gli uomini della Sesta gli accordarono un grande favore.

Intanto Germanico aveva portato a termine la sua missione in Armenia e stava marciando alla volta della Siria, dopo aver informato Pisone che desiderava incontrarlo alla base invernale della Decima. Arrivato a Cyrrhus (in seguito Cirro), Germanico si accorse che la scalcinata legione di stanza laggiù non aveva niente a che vedere con la famosa unità d’élite dei tempi di Cesare.

Il comandante in capo e il governatore della Siria presero posto all’interno del campo di Cyrrhus per quello che doveva essere un incontro amichevole. In realtà, a porte chiuse, Germanico pretese di sapere perché Pisone avesse disobbedito agli ordini. I due si separarono freddamente, e i loro rapporti da allora in poi andarono solo peggiorando.

Antiochia, nuovo centro operativo di Germanico, era la terza città più grande dell’impero dopo Roma e Alessandria, con una popolazione di diverse centinaia di migliaia di abitanti, compresi quarantamila ebrei. All’incrocio fra oriente e occidente, era uno snodo commerciale, una metropoli prosperosa con splendidi edifici in mattoni, pietra e marmo, ampi viali e lussureggianti giardini. Dato che non poteva abbellire a suo piacere le città della Giudea a causa dei vincoli religiosi dell’ebraismo, re Erode aveva apportato ad Antiochia innumerevoli migliorie, arrivando addirittura a far dorare la pavimentazione delle strade.

Anche il governatore della Siria aveva la sua residenza ad Antiochia. All’epoca, nel 18 d.C., il suo palazzo offriva ospitalità all’ex re di Armenia, Vonone. Costui era un parto educato a Roma mentre si trovava nella capitale come ostaggio; il re Artabano di Partia lo aveva espulso dall’Armenia qualche anno prima; e ora coltivava l’ambizione di riconquistare il trono. Vonone coprì la moglie di Pisone, Plancina, di regali costosi, e complottò con il marito per riconquistare il potere nella sua terra di origine. I loro piani, tuttavia, furono sventati da Germanico. Il nuovo comandante in capo non solo insediò il figlio del re del Ponto sul trono di Armenia, ma si assicurò anche che Vonone venisse esiliato in Cilicia e tenuto agli arresti domiciliari. Quest’ultimo provò a scappare, ma sulla sua strada incontrò un vecchio legionario in pensione, che lo uccise.

Pisone, ovviamente, non la prese bene, a maggior ragione quando Germanico lo destituì dalla carica di giudice supremo del distretto siriaco. In proposito, Tacito racconta che il governatore era solito assistere alle udienze celebrate dal suo rivale con una perenne smorfia di disgusto sul viso.

L’odio crescente di Pisone nei confronti di Germanico esplose durante un banchetto organizzato dal re di Nabatea. In quell’occasione, il sovrano offrì a Germanico e Agrippina delle corone d’oro massiccio, riservando a Pisone e ai suoi funzionari doni assai meno prestigiosi. Dopo aver gettato a terra la sua corona di poco conto, Pisone sbraitò che quello era un banchetto per il nipote di un imperatore romano, non per il re di Partia, dopodiché prese a inveire contro i costumi decadenti del suo anfitrione. Germanico lo ascoltò con pazienza; un atteggiamento che con ogni probabilità lo fece imbestialire ancora di più.

Agli inizi del 19 d.C., Germanico visitò privatamente l’Egitto, come un turista qualsiasi. Il suo viaggio di piacere fece però scalpore tra i cortigiani di Tiberio a Roma, giacché violava la legge di Augusto secondo la quale i senatori non potevano recarsi in Egitto senza un’espressa autorizzazione da parte dell’imperatore. Sembra che anche Tiberio non risparmiasse critiche al suo ingombrante nipote.

Rientrato ad Antiochia, Germanico scoprì che tutti i suoi decreti riguardanti il governo provinciale e le attività legionarie erano stati deliberatamente ignorati o modificati da Pisone. Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Per una volta tanto, il mite Germanico perse le staffe. Era chiaro che prima o poi uno dei due avrebbe dovuto andarsene. In un modo o nell’altro.

Nonostante tutto, il nipote di Tiberio fece un ultimo sforzo per riconciliarsi con il governatore, invitandolo a un banchetto nel suo palazzo di Epidaphna fuori Antiochia, nel corso del quale gli offrì il posto d’onore accanto a lui. Poco dopo la cena, tuttavia, Germanico cadde gravemente malato. La notizia arrivò presto a Roma, portata da alcuni mercanti. L’impatto fu violentissimo, paragonabile all’angoscia che attanagliò l’America subito dopo l’attentato di Dallas al presidente Kennedy. In tutto l’impero i cittadini trattennero il fiato, salvo poi sospirare di sollievo quando si seppe che Germanico si era ristabilito.

Ma presto l’amato comandante in capo dello scacchiere orientale ebbe una ricaduta. Secondo i medici, l’illustre paziente presentava tutti i sintomi di un avvelenamento. Disgraziatamente, ogni cura si rivelò inefficace. Germanico morì tra atroci sofferenze. Al suo capezzale, la moglie e gli amici giurarono di vendicarlo. Poco prima di morire, Germanico fece in tempo a destituire Pisone dalla carica di governatore, forse per punirlo – così pensarono tutti – di essere stato il mandante del suo avvelenamento. A ogni modo, quando il generale spirò, Pisone e la moglie erano già per mare, in viaggio alla volta dell’Italia. La coppia venne a sapere della morte del loro avversario grazie ad alcuni fedeli centurioni delle legioni siriache, durante una sosta sull’isola greca di Cos. Di certo, non si dispiacquero. Pisone arrivò addirittura al punto di festeggiare pubblicamente, convinto di poter tornare in Siria e riprendere il comando. A tale scopo, inviò ad Antiochia un suo amico, il generale Domizio Celere, affinché gli spianasse la via. Ma appena Celere mise piede in Siria, fu arrestato dal comandante della Sesta Victrix. A questo punto, Pisone decise di riprendersi il potere con la forza. Dopo essere sbarcato sulle coste della Cilicia, nella Turchia meridionale, si insediò nella fortezza di Celenderis e mise frettolosamente insieme un esercito.

Armò i propri schiavi, reclutò ausiliari locali, si spinse persino a sequestrare un gruppo di reclute dirette ai loro reparti in Siria (con ogni probabilità, coscritti greci o ispanici della Quarta Macedonica e della Sesta Victrix). Alla fine, Pisone poté contare su 5000 uomini. Tuttavia, mentre era intento a costituire la sua piccola armata, il generale Gneo Sentio – un caro amico di Germanico, che era con lui durante i suoi ultimi giorni di vita e aveva assunto il comando in Siria dopo la sua morte – raggiunse Celenderis con un corpo di spedizione che comprendeva la Sesta Victrix, quasi certamente la Decima, e forse anche elementi della Quarta Macedonica. Dopo un breve scontro sotto le mura della fortezza, Pisone si arrese. L’ex governatore della Siria fu spedito a Roma, in vista del suo processo per l’assassinio di Germanico.

Un anno più tardi, mentre il processo era ancora in corso, Pisone si tolse la vita. Quanto a Plancina, che da tempo era diventata intima di Giulia Augusta – la madre dell’imperatore –, poté godere della sua intercessione per essere perdonata. Rimase però il sospetto, condiviso da Tacito, che Tiberio avesse fatto «suicidare» Pisone per metterlo a tacere prima che rivelasse il suo coinvolgimento nella morte di Germanico.

Su Germanico si può dire di tutto tranne che fosse un individuo ambizioso. In seguito, Cassio Dione avrebbe scritto che era stato uno dei pochi uomini nella storia che non aveva peccato contro la propria fortuna, tantomeno ne era stato guastato. Eppure, dopo la sua morte, non sembrò opportuno vantare legami con lui. Entro pochi anni quasi tutti i suoi amici sarebbero stati liquidati da Tiberio o dal prefetto del pretorio Seiano, oppure costretti ad allontanarsi dalla famiglia del defunto per salvarsi la vita. Ma la gente comune non dimenticò mai il suo eroe, e con il tempo trasferì il proprio affetto ai suoi discendenti. Dopo la morte di Tiberio, avvenuta diciotto anni più tardi, il figlio di Germanico (Gaio, che passerà ai posteri con il nome di Caligola), suo fratello Claudio e suo nipote Nerone sarebbero successivamente saliti al trono di Roma. Ma per quanto i romani potessero sperarci, nessuno di loro si mostrò uguale a Germanico.