22 OBIETTIVO: GERUSALEMME

Mentre si accingeva a lasciare Antiochia nella tarda primavera del 67 d.C., per riunirsi alle sue forze a Tolemaide, il generale Vespasiano venne a sapere da alcuni informatori scappati dalla capitale ebraica che a Gerusalemme era scoppiata una lotta di potere tra le tre principali fazioni della città. Ogni fazione aveva occupato un quartiere, e ora si dedicava a combattere spietatamente le altre due. I malcapitati che cercavano di lasciare Gerusalemme per sfuggire a quella follia, avevano solo due alternative: o salvare la pelle cedendo il proprio oro, oppure venire uccisi dai membri di uno dei tre gruppi.

Lo stato maggiore di Vespasiano lo esortò a marciare direttamente sulla capitale ebraica, ma il burbero, volgare Vespasiano era anche un uomo riflessivo e prudente. Del resto, se non fosse stato tale, non sarebbe sopravvissuto al servizio di tre imperatori lunatici. Così, decise di lasciare che gli ebrei di Gerusalemme continuassero ad ammazzarsi tra loro: considerato che presto o tardi si sarebbero stancati, era inutile sprecare tempo, soldi e legionari per farli smettere. Inoltre, c’era anche la possibilità che prima o poi una delle tre fazioni ebraiche si schierasse dalla parte di Roma. Per il momento, era meglio limitarsi a sottomettere il territorio a nord di Gerusalemme.

Era giugno allorché l’esercito romano lasciò Tolemaide. La Decima legione marciava all’avanguardia della colonna. Molti dei suoi uomini avevano calpestato la sabbia dell’arena di Cordova tre anni prima, quando erano ancora reclute inesperte. I membri delle coorti anziane erano stati reclutati nel 44 d.C., e avevano conosciuto i metodi di Corbulone. In breve tempo, erano diventati il nocciolo duro dell’unità, come ben sapevano i parti.

Vespasiano rastrellò l’entroterra, risoluto a espugnare metodicamente tutte le roccaforti ebraiche della Galilea, una dopo l’altra. Gabara, nella Galilea sudoccidentale, appena oltre il confine con la Siria, non resistette un giorno all’offensiva romana.

Al contrario, Iotapata (l’odierna Jefat) si rivelò un osso duro. Il capo della resistenza ebraica nella regione era Giuseppe, un uomo sulla trentina che più tardi avrebbe acquisito il nome romanizzato di Giuseppe Flavio. Dobbiamo ai suoi scritti quasi tutte le nostre conoscenze sulla guerra giudaica. Dopo aver lasciato Gerusalemme, dove vivevano ancora i suoi genitori, dapprima Giuseppe si era recato a Tiberiade. Dopodiché, messo in allarme dai movimenti delle truppe romane, si era allontanato precipitosamente dalla città e aveva raggiunto Iotapata un pomeriggio di giugno, poco prima che il luogo fosse circondato dalle avanguardie di Vespasiano, che avevano costretto più di 40000 ebrei a rifugiarsi all’interno della cinta muraria.

Iotapata si prestava bene a essere difesa, con i suoi costoni naturali su tre lati e una robusta muraglia sul quarto. Arrivato sul luogo con il grosso dell’esercito, Vespasiano fece circondare la collina da due linee di fanteria e da un’altra, più esterna, di cavalleria. Nel frattempo, gli arcieri e i frombolieri tenevano sotto pressione i bastioni della città. Eppure, per ben cinque giorni di fila le incursioni all’esterno dei partigiani di Giuseppe, in stile «mordi e fuggi», infastidirono non poco gli attaccanti.

Valutata la situazione, Vespasiano ordinò di allestire un terrapieno di fronte alle mura, che sarebbe servito da piattaforma per ben centosessanta congegni balistici. Presto ebbe inizio un autentico bombardamento di sfere metalliche, pietre, frecce, tizzoni ardenti. Iotapata rimase sotto l’incessante tiro romano per intere ore. Tuttavia, il contrattacco ebraico non tardò a scatenarsi. All’improvviso, i resistenti si scagliarono in massa fuori dalla città e si avventarono contro la piattaforma nemica, facendo fuggire i serventi ai pezzi. Solo a stento i romani ripresero il controllo dell’area. Ma intanto, in una disperata corsa contro il tempo, gli assediati avevano aumentato l’altezza delle mura di quasi una ventina di metri.

Poiché queste ultime mal si prestavano a un attacco di massa, Vespasiano era impossibilitato a usare tutte le sue unità contemporaneamente. Di conseguenza, l’assedio fu affidato solo a due legioni, scelte con cura. Prima di essere assegnata in Egitto, la Quindicesima legione aveva lasciato la sua base nei Balcani per servire sotto Corbulone durante la seconda campagna armena. I suoi uomini, provenienti dalla Gallia cisalpina, erano noti per la loro durezza e affidabilità. Quanto ai tagliagole siriaci della Terza Augusta, non vedevano l’ora di vendicarsi degli ebrei. Peraltro, nelle prime fasi della rivolta, i loro ranghi avevano subìto molte perdite proprio a causa dei resistenti locali. Di conseguenza, Vespasiano preferì tenerli di riserva come truppe di assalto.

Secondo Giuseppe, a quei tempi sia la Decima che la Quinta erano legioni «famose in tutto il mondo». La Quinta era anche conosciuta ai quattro angoli dell’impero come l’unità che aveva sconfitto gli elefanti di Scipione a Tapso, e sebbene il suo attuale bacino di reclutamento si trovasse in Mesia (l’odierna Bulgaria), l’elefante era rimasto come simbolo legionario, tramandando la reputazione del reparto. Quanto alla Decima, era stata la legione prediletta di Giulio Cesare e aveva dato buona prova di sé, agli ordini di Corbulone, contro i parti: tanto bastava. E così, furono proprio la Quinta e la Decima a sobbarcarsi gran parte del duro peso dell’assedio di Iotapata.

Entrambe le legioni costruirono torri d’assedio e plutei (piccoli ripari mobili a tre ruote). Le macchine furono poi accostate alle mura della città, mentre gli arieti si mettevano al lavoro contro i bastioni. A un certo punto, le torri della Quinta furono raggiunte da alcune frecce incendiarie, che costrinsero gli assedianti a trascinarle via. Dopo aver spento le fiamme, i romani protessero lo scheletro ligneo delle loro macchine d’assedio con uno strato di terra; dopodiché, le rimisero in posizione.

In un’altra occasione, gli ebrei rovesciarono olio bollente sugli attaccanti della Quinta e della Decima che si davano da fare sotto le mura, protetti dalla formazione «a testuggine». Molti legionari subirono gravissime ustioni. Per inciso, siamo di fronte al primo esempio storicamente documentato di uso di olio bollente durante un assedio; una pratica che verrà largamente utilizzata in epoca medievale. Certo che, se pure lo avessero saputo, i soldati ustionati della Decima non avrebbero affatto gradito un simile modo di entrare nella Storia. Ma chi avrebbe potuto immaginarlo, a Cordova, soltanto tre anni prima?

Poco dopo, lo stesso Vespasiano fu ferito a un piede da una freccia incendiaria scagliata dalle mura. Il primo ad accorrere fu suo figlio Tito, seguito immediatamente dalle guardie del corpo e dallo stato maggiore. Per fortuna, come ci si accorse presto, la ferita non era grave, e Vespasiano poté rimettersi in piedi quasi subito.

Consapevoli che gli assedianti avevano poche scorte d’acqua, i romani sospesero gli assalti per qualche settimana, confidando che ci pensasse la sete a far capitolare Iotapata. Ma la testardaggine degli ebrei mandò a monte questa speranza, costringendo Vespasiano a riaprire le ostilità. Al quarantasettesimo giorno d’assedio, dopo un furioso tiro di sbarramento durato parecchie ore, le legioni lanciarono un attacco notturno. Al comando di Tito, i soldati sciamarono sulle mura della città e annientarono i difensori.

Dopo la caduta di Iotapata, si contarono 40000 cadaveri ebrei e 1200 prigionieri. Tra questi ultimi c’era anche il capo della resistenza, Giuseppe. Più tardi, si sostenne che Giuseppe aveva avuto salva la vita perché aveva profetizzato sia a Vespasiano che a Tito la loro futura ascesa al trono imperiale. A ogni modo, l’ex partigiano ebraico accompagnò l’esercito di Roma per il resto della campagna, fornendo preziose informazioni sul movimento di resistenza.

Malgrado fosse solo metà agosto, e probabilmente dietro suggerimento di Giuseppe – convinto che fosse solo questione di tempo prima che le tre fazioni finissero per distruggersi a furia di scannarsi a vicenda –, Vespasiano ritirò il grosso del suo esercito a Cesarea, progettando di trascorrervi l’inverno per riprendere le ostilità a primavera. Per tre settimane, si godette l’ospitalità di re Erode Agrippa II di Calcide, suo alleato e pronipote del celebre Erode il Grande. Con l’aiuto di Roma, Erode Agrippa aveva fondato un piccolo regno, che comprendeva (in termini moderni) parte del Libano e del settentrione di Israele. Fu proprio nella sua capitale, Cesarea di Filippo – nei dintorni delle sorgenti del Giordano –, che Vespasiano fu raggiunto da una notizia allarmante. A quanto sembrava, un forte contingente partigiano si stava radunando a Tiberiade, sulla punta meridionale del mar di Galilea (meglio conosciuto ai giorni nostri come lago di Tiberiade), mentre la vicina città di Magdala aveva chiuso le sue porte. Se le cose stavano così, non c’era tempo da perdere; occorreva riprendere subito le operazioni militari.

Le truppe romane calarono su Tiberiade e la circondarono rapidamente, ma non prima che i suoi difensori riuscissero a fuggire a Magdala. Di conseguenza, le legioni si diressero verso questo secondo obiettivo. Alla loro testa, forte di uno squadrone di cavalleria, galoppava il giovane Tito. Il figlio di Vespasiano espugnò la città dopo sanguinosi combattimenti, che contemplarono persino scontri a bordo di chiatte sul mar di Galilea.

Liquidata Magdala, Tito si diresse a nord verso Antiochia, con ordini segreti destinati al generale Muciano, governatore della Siria, mentre Vespasiano penetrava nel deserto giordano, a est del mar di Galilea, per attaccare la città di Gamala, situata – come riferisce Giuseppe – su una collina a forma di gobba di cammello. Peraltro, i suoi progressi furono lenti. Un primo attacco della Terza Augusta andò clamorosamente male. Le loro macchine d’assedio rovinarono giù dalla collina, disfacendosi come un castello di carte.

A questo punto, Tito, tornato da Antiochia, guidò un’incursione notturna con l’obiettivo di liquidare le sentinelle ebree da una sezione delle mura cittadine. L’iniziativa ebbe successo, aprendo la strada al grosso delle truppe romane e determinando la rapida conquista della città.

Ormai era arrivato dicembre. Vespasiano tornò sulla costa con quasi tutto il suo esercito. Tito, invece, si diresse con la cavalleria alla volta di Giscala, l’ultima roccaforte della resistenza ebraica in Galilea. Anche questa città fu rapidamente espugnata, ma il suo comandante in capo, Giovanni di Giscala, riuscì comunque a scappare a Gerusalemme.

Adesso, tutta la Galilea era tornata sotto il controllo di Roma.

Nella primavera del 68 a.C., con le fazioni ebraiche che ancora si combattevano l’un l’altra a Gerusalemme, ma senza dar mostra di voler capitolare all’autorità di Roma, Vespasiano diede ordine alle legioni di scendere di nuovo in campo. Durante l’inverno, la sua armata aveva subìto il trasferimento in Mesia, disposto dal Palatino, delle sei coorti della Terza Augusta, allo scopo di rinforzare le due legioni di stanza lassù, permettendo loro di reggere alla crescente pressione delle razzie dei barbari provenienti dall’area danubiana – di queste incursioni ne avevano già fatto le spese migliaia di uomini della Settima Claudia e dell’Ottava Augusta. Vespasiano, tuttavia, non si era preoccupato eccessivamente della perdita delle sei coorti, giacché riteneva di avere comunque forze sufficienti a finire il lavoro in Giudea.

In marzo, il generale diresse la cerimonia di purificazione delle insegne legionarie, quindi diede l’ordine di partenza. Appena ebbe lasciato Cesarea, dirigendosi a sud lungo la costa con la Quinta e la Quindicesima legione, ricevette l’annuncio che Giulio Vindice, governatore di una delle province della Gallia, si era ribellato contro l’imperatore Nerone. Secondo Giuseppe, questa notizia lo spronò ad accelerare la campagna contro la resistenza ebraica, così da liberare l’impero da almeno una delle sue spine nel fianco.

Forse le cose andarono davvero così, o forse no. È possibile che Vindice avesse scritto a Vespasiano prima di scatenare la sua ribellione, allo scopo di ottenerne l’appoggio. Del resto, lo aveva fatto anche con Servio Galba, governatore della Spagna citeriore. L’anno precedente, la missione segreta del giovane Tito ad Antiochia poteva essere stata suggerita da una lettera del genere. In passato, il generale Muciano, governatore della Siria, aveva avuto rapporti piuttosto tesi con Vespasiano; però Tito gli piaceva. Secondo Svetonio, Muciano, omosessuale, era attratto da lui, al punto da gradirne la presenza come mediatore. Con ogni probabilità, il governatore della Siria, che comandava le quattro legioni di stanza nella provincia, era stato contattato anche da Vindice, e Vespasiano aveva inviato suo figlio per discutere se lui e Muciano, con i loro reparti, avessero dovuto appoggiare o meno la rivolta contro Nerone. A ogni modo, qualunque cosa pensasse della congiura di Vindice, Vespasiano alla fine preferì tenersi le legioni e condurle a sud, in Giudea.

Mentre il grosso della spedizione romana avanzava lungo la costa, la Decima legione prese una strada diversa. Dopo aver trascorso l’inverno nella città amica di Scitopoli, sulle rive del Giordano – un luogo abitato da coloni di origine greca, torrido d’estate ma mite d’inverno –, attraversò il fiume all’altezza di Gerico, distruggendo ogni villaggio sul suo cammino. Giunta di fronte a Gerico, la cinse d’assedio. La città non aveva la forza militare né le risorse materiali per resistere a lungo come Iotapata. Certo, poteva contare sulla vecchia fortezza di Cipro, risalente ai tempi di Erode, ma era ben poca cosa di fronte alla potenza degli attaccanti. Difatti, la roccaforte fu espugnata dalla Decima a maggio. Tra i resistenti ebraici che caddero sul campo, vi fu anche Giovanni ben Simone, comandante in capo delle forze partigiane dell’area.

La caduta di Gerico e della fortezza di Cipro diede una particolare soddisfazione all’unità romana. Infatti, era stato proprio in quei dintorni che i ribelli, un anno prima, avevano massacrato cinquecento legionari della Terza Augusta. La vendetta di Roma non era necessariamente rapida, però arrivava sempre.

Quanto al grosso dell’esercito di Vespasiano, avanzando celermente lungo la costa raggiunse Antipatride, Lod e Jamnia; dopodiché si diresse nell’entroterra, fra le colline che attorniavano la strada di Beth Horon (di triste memoria), fino a Emmaus.

Qui, i legionari allestirono una serie di fortificazioni, così da bloccare l’accesso a Gerusalemme dalla costa. Dopo aver lasciato la Quinta di stanza a Emmaus, il resto dell’esercito si diede al saccheggio della zona orientale del distretto di Idumea, prima di riguadagnare la litoranea.

Ma l’operazione non era ancora finita. Con l’ennesima giravolta, le legioni tornarono sulle colline, devastarono ogni villaggio che si trovasse sulla loro strada, e infine ridiscesero a Gerico, dove, a cinque miglia dal fiume Giordano e a sedici da Gerusalemme, si ricongiunsero al generale Traiano e alla Decima legione. Mentre i soldati di quest’ultima unità allestivano il campo per l’inverno, i reparti delle forze ausiliarie si schierarono sulle colline per tagliare qualunque via di fuga a sud di Gerusalemme. A questo punto, la capitale ebraica era virtualmente circondata.

Vespasiano continuò la sua marcia e raggiunse il Mar Morto, a solo un giorno di distanza da Gerusalemme, ma più per curiosità personale che per ragioni tattiche. Il Mar Morto, infatti, era conosciuto in tutto il mondo civile per le sue singolarissime caratteristiche naturali e morfologiche.

Il taciturno generale contemplò a lungo le scure acque di quel mare interno. Per testare la sua celebre galleggiabilità, vi fece gettare alcuni prigionieri ebrei con le braccia legate, rimanendo molto colpito dal fatto che non affondassero. Non è improbabile che queste cavie involontarie provenissero dalla comunità essena di Qumran, custode dei cosiddetti «rotoli del Mar Morto». Il monastero di Qumran, a picco sullo specchio d’acqua, era stato bruciato di recente dalla cavalleria ausiliaria romana, che poi aveva installato tra le macerie un piccolo presidio militare. Diciannove secoli più tardi, nel 1947, i rotoli del Mar Morto, nascosti in undici caverne dai sacerdoti della setta essena prima che arrivassero i romani, sarebbero tornati alla luce nel corso di uno scavo archeologico.

Nello stesso mese di maggio, un dispaccio da Roma informò Vespasiano che il governatore ribelle della Gallia, Giulio Vindice, non apparteneva più al mondo dei vivi. Il suo tentativo di ribellione era stato spietatamente represso, in soli due mesi, dalle legioni di stanza sul Reno, e Vindice si era tolto la vita. Ma le novità non finivano qui. Infatti, nonostante il fallimento della rivolta nelle Gallie, il generale Galba, di stanza in Spagna, si era autodichiarato imperatore, e ora stava arruolando nuove truppe per poi marciare sull’Italia e spodestare Nerone. In tutte le province dell’impero, per di più, si erano già levate molte voci, sia civili che militari, a sostegno della sua iniziativa. In poche parole, si stava profilando lo spettro di una nuova guerra civile.

L’impero era in tumulto, ma Vespasiano preferì badare alla sua missione. Era tarda primavera, e alla resistenza ebraica rimanevano soltanto Gerusalemme e qualche fortezza negli immediati dintorni, come Masada. Gerusalemme era completamente circondata. Secondo Giuseppe, che era presente, a quell’epoca la città contava più di un milione di abitanti. Secondo Tacito, che non era presente ma la cui attendibilità di storico non può essere messa in dubbio, questa cifra deve essere ridotta a seicentomila. In ogni caso, le bocche da sfamare erano davvero tante. Vespasiano, per di più, sapeva che le tre fazioni della resistenza non avevano accantonato i loro sanguinosi dissidi interni. I primi eroi della lotta antiromana erano stati uccisi, oppure si erano rifugiati a sud, presso gli zeloti di Masada. Mentre la gente di Gerusalemme pativa la fame, si era aperta la lotta intestina per assicurarsi il controllo della Città santa.

Al contrario, Vespasiano aveva a disposizione viveri in abbondanza, e tutto il tempo che voleva. Nonché la pazienza. Avrebbe potuto far capitolare Gerusalemme per fame, senza muovere un dito. Peraltro, in quei mesi la sua mente non era in Giudea, bensì a Roma. Chi avrebbe vinto la lotta per il trono? Nerone o Galba? E da quale parte sarebbe convenuto schierarsi? Per il momento, il generale si tenne fuori dai giochi: ufficialmente, era in attesa di ulteriori ordini dalla capitale. Di conseguenza, decise di sospendere l’offensiva antiebraica, ritirando la Quindicesima legione a Cesarea (la sua base operativa) e lasciando la Decima e la Quinta a presidiare Gerico ed Emmaus.

Ma presto sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe profondamente scosso sia Vespasiano che tutto l’impero.

Nella seconda metà di giugno, un messaggero raggiunse il quartier generale di Vespasiano a Cesarea con la sbalorditiva notizia che il trentenne Lucio Domizio Enobarbo Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, imperatore di Roma, era morto suicida il 9 giugno, in una villa a quattro miglia da Roma. Ufficialmente, Nerone era solo scomparso, ma in realtà, come riporta Svetonio, si sapeva che l’imperatore, abbandonato sia dal senato che dalla guardia pretoriana, si era tolto la vita con l’aiuto del suo segretario greco, Epafrodito. Atte, sua liberta cristiana, si era occupata delle esequie, cremandone i resti. Vespasiano era a conoscenza da fonti di prima mano che Nerone meditava già da qualche tempo di lasciare le redini dell’impero; e adesso, sia pure in modo drammatico, lo aveva fatto.

L’anziano Galba aveva raggiunto in fretta Roma alla testa della sua nuova unità ispanica, la Settima Galbiana. Più tardi questo contingente, nato da una costola della Settima Claudia, si sarebbe trasformato nella Settima Gemina, accorpandosi con un’altra legione creata da Galba. Dopo essere arrivato nella capitale, il generale, con l’appoggio del senato e della guardia pretoriana, si era insediato sul trono.

Intanto a Cesarea i mesi passavano, e gli ordini da Roma non arrivavano mai.

Approfittando di questa pausa forzata dell’esercito romano, uno dei capi ebraici di Masada, Simone bar Giora, diede avvio a un’offensiva contro gli abitanti della regione. Ventimila partigiani ebrei si scatenarono contro le città e i villaggi della Giudea meridionale e dell’Idumea, arrivando a occupare l’antica città di Hebron, poco più a sud di Gerusalemme, dopo averne scacciato il piccolo presidio romano. Per inciso, Hebron era tradizionalmente considerata il luogo di sepoltura di Abramo, la figura biblica che più tardi sarebbe stata adorata da tutte le più grandi religioni monoteiste del mondo: ebraismo, cristianesimo e islam.

La mossa successiva di Simone fu di penetrare a Gerusalemme e di farsi nominare, a suon di omicidi, nuovo capo della Città santa. Lui e i suoi seguaci avrebbero finalmente riunificato le fazioni in lotta.

Nel frattempo, a Cesarea, Vespasiano si era stancato di attendere gli ordini di Galba. Così, agli inizi del nuovo anno, appena i venti stagionali furono favorevoli alla navigazione, si risolse a spedire a Roma suo figlio Tito ed Erode Agrippa, con l’incarico di portare i suoi rispetti a Galba e di sollecitarne le direttive. Nel febbraio del 69 d.C., mentre stavano ancora navigando verso la capitale, i due inviati vennero a sapere in un porto greco che Galba era stato assassinato a gennaio; che il trentenne Marco Otone era salito al trono con l’appoggio della guardia pretoriana; e che le legioni del Reno, lungi dal riconoscere la legittimità di Otone, avevano dichiarato imperatore il loro comandante, Aulo Vitellio. Il quarantunenne Erode Agrippa decise di raggiungere comunque Roma, per porgere i dovuti omaggi a Otone, mentre Tito preferì invertire precipitosamente la rotta e tornare a Cesarea, così da aggiornare suo padre degli ultimi sviluppi.

Mentre Tito tornava a Cesarea il più rapidamente possibile, Vespasiano, infastidito dai sanguinosi maneggi di Simone bar Giora, decise di stringere la morsa dell’esercito romano su Gerusalemme. All’arrivo della primavera, lasciò il suo quartier generale con la Quindicesima legione e procedette a occupare i borghi sulle colline a nord della Città santa. Fatto questo, spedì il generale di brigata Sesto Ceriale, di stanza a Emmaus con un distaccamento della Quinta, a presidiare il fianco sud del teatro delle operazioni. Dopo aver incendiato una città e avere accettato la resa di un’altra, Ceriale arrivò a Hebron. Qui scagliò le sue truppe contro l’abitato, avendo facilmente ragione degli zeloti che lo difendevano. Hebron fu data alle fiamme. Il cappio attorno alla Città santa si stava stringendo sempre di più.

Fuori Gerusalemme, adesso i ribelli potevano disporre solo di Masada, Herodion e Macheronte; tre fortezze isolate tra loro. Non ci sarebbero stati altri episodi eclatanti come le incursioni sanguinarie di Simone bar Giora nella Giudea meridionale. Mentre Vespasiano ancora esitava a lanciare un attacco in grande stile contro la Città santa, suo figlio Tito attraccò nel porto di Cesarea con le notizie della morte di Galba, dell’ascesa al trono di Otone, e delle pretese imperiali di Vitellio. Secondo Plutarco, sia Vespasiano che Muciano si affrettarono a inviare lettere a Roma per assicurare la loro fedeltà a Otone.

Nella stessa primavera del 69 d.C., il generale Vitellio ordinò a due armate di stanza sul Reno di marciare alla volta dell’Italia. Nei loro ranghi c’erano anche molti veterani in congedo della Decima legione, che si erano stabiliti sulle rive del grande fiume tedesco. A metà aprile, a Bedriacum (nei pressi dell’odierna Cremona), le forze di Vitellio sconfissero quelle di Otone. Il giovane neoimperatore preferì suicidarsi, consentendo a Vitellio di entrare trionfalmente a Roma – si era ormai a luglio – e di ascendere al trono.

Vespasiano, che aveva deliberatamente congelato l’offensiva in Giudea per vedere come si sarebbe sviluppata la situazione politica a Roma, cominciò a ricevere pressioni da parte della sua cerchia più intima – compreso suo figlio Tito – affinché valutasse l’opportunità di mettersi in corsa per diventare imperatore. Da principio, il generale resistette a tale lusinga. Del resto, secondo Dione, non era tipo da condotte azzardate. Eppure, nel pieno dell’estate, con il pretesto di una visita a un santuario religioso, eccolo incontrarsi segretamente sul monte Carmelo (poco più a nord di Cesarea) con il generale Muciano, che era giunto apposta da Antiochia. I due uomini stipularono un accordo verbale molto semplice: se Vespasiano avesse voluto tentare la scalata al trono, Muciano lo avrebbe sostenuto.

Il generale poteva godere anche dell’appoggio di Tiberio Alessandro, prefetto d’Egitto. Se costui non era stato presente all’incontro segreto sul monte Carmelo, di certo ne era stato informato, e ne aveva approvato le conclusioni.

E fu proprio Alessandro a compiere il primo passo per propiziare il movimento «spontaneo» a favore di Vespasiano imperatore. Il 1° luglio del 69 d.C., indusse le sue truppe di stanza in Egitto – la Diciassettesima legione e quattro coorti della Diciottesima – a salutare nel generale il nuovo reggitore dell’impero.

Le tre legioni in Giudea si comportarono allo stesso modo qualche giorno più tardi. Iniziò la Quindicesima a Cesarea, poi vennero la Decima a Gerico e la Quinta a Emmaus. A metà luglio si aggiunsero tutte le legioni di Muciano: la Sesta Victrix, la Dodicesima e, con ogni probabilità, la Ventitreesima e la Ventiquattresima.

Vespasiano si precipitò a Beirut, dove si incontrò con Muciano e le delegazioni di molti potentati locali. Con l’appoggio delle nove legioni d’Oriente, Muciano si sarebbe arrogato il grado di feldmaresciallo e avrebbe condotto in Italia l’élite delle sue truppe – a partire dalla Sesta Victrix – per insediare il generale sul trono. Dopo l’incontro, mentre Vespasiano tornava a sud, Muciano riunì il suo stato maggiore, allo scopo di avviare il ritorno in servizio di 13000 legionari che si erano stabiliti in Siria dopo il congedo, e che ora, rientrando nei ranghi dell’esercito, sarebbero diventati a tutti gli effetti degli evocati (cioè, in termini moderni, dei «richiamati»). Inoltre, bisognava pensare alle armi, alle munizioni, all’acquisto di animali da soma, e a battere moneta per potersi permettere tutto questo.

Vespasiano affidò il comando delle legioni in Giudea a suo figlio Tito, con la consegna di prendere Gerusalemme la primavera seguente. Dopodiché, trasferì il suo quartier generale ad Alessandria, da dove avrebbe potuto controllare le forniture di grano dirette a Roma – la linfa da cui dipendeva la sopravvivenza della capitale.

Il generale di divisione Traiano, intanto, si era separato dalla Decima legione a Gerico, probabilmente dopo aver riunito le truppe in assemblea e averle ringraziate per il coraggio e la lealtà che avevano dimostrato sotto il suo comando. Sembra che Traiano abbia poi raggiunto Alessandria, allo scopo di conferire con lo stato maggiore di Vespasiano e valutare una possibile invasione della provincia d’Africa (in termini moderni, la Tunisia e parte della Libia) mediante l’unica legione ancora intatta che era rimasta in Egitto, la Diciassettesima. In questo modo, i congiurati si sarebbero assicurati la gestione dei carichi di grano provenienti da quella provincia.

Peraltro, questa operazione fu presto resa superflua dai rapidi sviluppi in Europa. Una volta che fosse diventato imperatore, Vespasiano avrebbe nominato Traiano console per l’anno 70, e nel giro di qualche anno lo avrebbe piazzato al vertice del potere in Siria, e poi in Asia. Quanto alla Decima legione, al posto di Traiano sarebbe subentrato il generale di brigata Larcio Lepido.

Il figlio di Vespasiano, nonché suo successore in Giudea – il ventinovenne Tito, balzato di colpo, nei fatti, dal grado di colonnello a quello di feldmaresciallo – restò momentaneamente a disposizione del padre ad Alessandria. A questo punto, Vespasiano decise di aggregare al suo stato maggiore sia Tito che Tiberio Alessandro, prefetto d’Egitto. Il secondo (un uomo sulla cinquantina, di grande esperienza) avrebbe svolto le funzioni di consigliere del primo. Due decenni addietro, l’ebreo convertito Alessandro aveva servito come procuratore di Giudea per molti anni; inoltre, aveva partecipato da una posizione di responsabilità alle campagne armene di Corbulone. Non c’era uomo migliore, per conoscenza e competenza, da affiancare a Tito.

Il figlio di Vespasiano e il prefetto d’Egitto lasciarono Alessandria e tornarono a Cesarea. Tacito ci dice che con loro c’erano contingenti della Diciottesima legione e della Terza Augusta, più quattro nuove coorti di reclute africane aggregate alla Diciottesima e la coorte della Terza Augusta di stanza ad Ascalona, sulla costa a sud di Gerusalemme. Come possiamo dedurre dallo storico, nel 66 d.C. la Diciottesima legione era stata trasferita dall’Egitto al Reno. Fin dal 42 a.C., le reclute di questa unità erano state arruolate nell’Illirico, ma Tacito riferisce che per la leva del 67 d.C., il Palatino aveva individuato due nuovi bacini di arruolamento: l’Africa e la Gallia Narbonense. Allo stesso tempo, l’unità sorella della legione, la Diciassettesima, aveva subìto un processo analogo: il suo bacino di reclutamento era stato spostato dall’Illiria all’Asia. Le coorti reclutate in Gallia avevano raggiunto la Diciottesima sul Reno, mentre quelle reclutate in Africa si trovavano ancora in Egitto nel tardo 66 d.C., in attesa di ordini da parte di Vespasiano.

Secondo Giuseppe, queste cinque coorti, provenienti dalla Diciassettesima e dalla Diciottesima, erano sotto l’autorità del colonnello Eternio Frontone. Lo storico ebreo ci informa che Tito e Frontone erano vecchi amici, e che probabilmente avevano comandato i reparti ausiliari della Seconda Augusta quando si trovavano entrambi in Britannia, all’inizio delle loro carriere.

Comunque sia, Tito si diede da fare con zelo per rilanciare l’offensiva antiebraica. All’inizio della primavera del 70 d.C., la Dodicesima legione lasciò la sua base di Rafanea, in Siria, sotto la guida del suo vicecomandante; mentre 3000 legionari della Ventitreesima e della Ventiquattresima si spostavano dall’Eufrate per acquartierarsi nei dintorni di Cesarea.

In aprile, le operazioni romane in Giudea si misero concretamente in moto. Col mantello scarlatto di comandante in capo che suo padre aveva indossato prima di lui, Tito fece marciare la Dodicesima e la Quindicesima (più le coorti della Diciottesima e della Terza Augusta) alla volta delle colline che attorniavano Gerusalemme. Allo stesso tempo, si premurò di spedire corrieri presso la Quinta a Emmaus e la Decima a Gerico, con l’ordine alle due unità di dirigersi verso la Città santa.

Le legioni al comando diretto di Tito furono le prime a raggiungere Gerusalemme, per disporsi immediatamente sulle colline a nord dell’abitato. Cavalcando alla testa dei suoi soldati e avvalendosi di una scorta di seicento cavalieri, il figlio di Vespasiano raggiunse la vetta del monte Scopus (ottocento metri sul livello del mare), dalla quale si godeva una vista panoramica dell’intera città. Da lassù, dove adesso si trovano un ospedale e un’università, studiò attentamente le caratteristiche del territorio che gli si apriva davanti. Gerusalemme sorgeva su un’area collinare, a più di settecento metri sul livello del mare. Era dotata di tre cinte murarie: quella più esterna era alta sei metri; quella più interna sfiorava i dieci metri di altezza ed era spessa quattro metri e mezzo. L’intero perimetro delle mura era intervallato da torri di difesa: novanta sul terzo muro, quattordici sul secondo muro, sessanta sul primo muro (o muro antico). Dato inquietante, sui bastioni non si scorgeva un solo difensore.

Dopo essersi accorto che le mura erano sguarnite, Tito montò a cavallo e andò a dare un’occhiata più da vicino, facendosi accompagnare soltanto dai suoi aiutanti e da qualche guardia del corpo. Raggiunta la base del monte Scopus, avanzò guardingo tra i campi coltivati. All’improvviso, migliaia di resistenti ebrei si riversarono fuori dalla cosiddetta «porta delle donne», incassata nel terzo muro, quello più esterno.

Urlando selvaggiamente, gli aggressori tagliarono la strada al manipolo romano, e ci mancò poco che la carriera del giovane generale finisse proprio quel giorno di primavera, tra la polvere e la sabbia. Tito e i suoi uomini cercarono di aprirsi una via di fuga armi in pugno, ma i partigiani ebrei gli resero la vita difficile. Una guardia del corpo del generale, sbalzata da cavallo, fu sgozzata senza pietà; un’altra, che era smontata di sella per affrontare quella massa urlante, subì la stessa sorte. Alla fine, comunque, Tito riuscì a cavarsela, traendo da quell’episodio una lezione di grande significato: a Gerusalemme, niente andava preso sottogamba.

Quella notte, i traci della Quinta legione arrivarono da Emmaus. Il mattino successivo, la Dodicesima e la Quindicesima legione allestirono il campo sulle pendici del monte Scopus, mentre la Quinta faceva lo stesso a circa seicento metri di distanza alle loro spalle. Più tardi quel giorno, giunse anche la Decima, proveniente da Gerico. Tito le ordinò di allestire il proprio accampamento sul monte degli Ulivi, a est della città, tra la valle del Cedron e l’abitato.

Il generale Lepido, nuovo comandante della Decima, non aveva visto con i propri occhi cosa era accaduto al generale supremo il giorno prima; tantomeno era a conoscenza delle tattiche guerrigliere dei ribelli ebrei. Così, incautamente, non predispose alcun servizio di guardia, mentre gli uomini della Decima lavoravano alle loro fortificazioni sul monte degli Ulivi. Durante il pomeriggio, i legionari erano ancora all’opera con vanghe e picconi, e le mura della città apparivano come al solito desolatamente deserte, quando migliaia di partigiani ebrei sciamarono all’esterno e attraversarono di corsa la valle del Cedron. Dopo aver superato il ruscello che tagliava la pianura, si diressero verso il campo in costruzione della Decima.

Colti di sorpresa e armati solo delle loro spade e dei loro attrezzi, gli uomini della Decima arretrarono disordinatamente verso le balze del monte. Fu solo un caso che Tito si trovasse negli immediati dintorni. Il generale si precipitò sul luogo dell’attacco e riuscì a riorganizzare le truppe. Dopo averle inquadrate di nuovo nelle loro coorti di appartenenza, le scagliò risolutamente contro gli aggressori, costringendoli a riguadagnare le mura della città.

Traendo l’ennesima lezione da quello spiacevole episodio, Tito disse a Lepido che d’ora in avanti avrebbe dovuto schierare un robusto cordone di soldati in assetto di guerra attorno ai legionari impegnati in qualunque lavoro di fortificazione. Tuttavia, non fece quasi in tempo a emanare tale direttiva, che gli ebrei scatenarono un secondo attacco a sorpresa. Ancora una volta, i ribelli dilagarono per il campo; e ancora una volta, gli uomini della Decima corsero a rifugiarsi sui pendii. Ma Tito non si mosse. Sguainò la spada e ordinò agli ufficiali che lo attorniavano di fare altrettanto.

I partigiani circondarono rapidamente il generale e il suo gruppo, ma i centurioni della Decima stavano già provvedendo a dotare i soldati di scudi e a riorganizzare le loro coorti. Appena i legionari piombarono giù dai pendii per soccorrere il loro comandante, Tito e i suoi ufficiali si lanciarono alla carica contro i ribelli. Quest’ultimi, alla fine, dovettero riattraversare la valle del Cedron e rientrare a Gerusalemme.

Alla fine di quella giornata, le truppe della Decima avevano ormai compreso una cosa: quegli astuti guerriglieri non assomigliavano ad alcun nemico che avessero affrontato in passato. Di conseguenza, avrebbero dovuto tenersi costantemente pronti. A tutto.

Tito convocò lo stato maggiore per un consiglio di guerra. Qualcuno propose di assediare Gerusalemme, così da farla cadere per fame. Era la soluzione che avrebbe adottato il prudente Vespasiano, se fosse stato al comando delle operazioni. Ma Tito desiderava una vittoria in tempi brevi, che gli avrebbe permesso di tornare a sostenere il padre nella sua corsa verso il trono. Dopo aver raccolto le opinioni dello stato maggiore, il generale annunciò che aveva deciso di lanciare una massiccia offensiva contro diversi settori della città. Un attacco in forze e ben coordinato avrebbe stroncato qualunque resistenza.

A causa della natura del territorio, gli eserciti che in passato erano andati all’assalto di Gerusalemme, avevano dovuto necessariamente farlo partendo da nord. Tito aveva le sue idee. Ma anzitutto aveva bisogno di sfondare il terzo muro, che era stato completato solo di recente. Scelse così un punto specifico dove concentrare l’attacco (poco più a nord dell’odierna porta di Giaffa); dopodiché fece preparare il terreno e ordinò di tagliare il maggior numero possibile di alberi nei dintorni, così da assicurarsi il legname necessario alla costruzione delle macchine da guerra. Allo stesso tempo, stabilì di rafforzare le difese dei campi legionari, per scoraggiare le incursioni del nemico. Infine, dopo averlo spostato più volte, insediò il suo quartier generale in un punto a ovest della Città Vecchia, più o meno dove adesso sorge il King David Hotel.

Intanto, all’interno delle mura, due delle tre fazioni rivali, che fino ad allora si erano combattute sanguinosamente per l’egemonia di Gerusalemme, si accordarono per una tregua e decisero di coalizzarsi per respingere i romani. Quanto alla terza, preferì adottare un’altra soluzione: mentre avrebbe lottato contro gli invasori, non avrebbe smesso di combattere le altre due.

Nonostante le precauzioni prese da Tito, i raid guerriglieri all’esterno della città continuarono a creare grossi problemi all’esercito romano, costringendolo a distaccare molti soldati a difesa dei lavori di costruzione. A un certo punto, ci si accorse che le truppe occupate in questo compito erano più numerose di quelle destinate all’assedio. Tutto attorno alle mura di Gerusalemme, fanti, cavalieri, arcieri proteggevano gli uomini che scavavano, abbattevano, rimuovevano, edificavano.

Il completamento delle opere difensive e offensive richiese intere settimane. Alla fine, però, Tito poté dirsi soddisfatto. Le macchine da guerra erano in posizione. Le truppe di prima linea attendevano solo l’ordine di partire all’attacco. Quando i soldati andarono a dormire la notte del 9 maggio, tutto era pronto.