16 L’ULTIMA BATTAGLIA DI CESARE
Giulio Cesare tornò a Roma alla fine di luglio del 46 a.C., dopo aver sbaragliato l’opposizione pompeiana in Tunisia e avervi lasciato quattro legioni. Nella capitale si rimise al lavoro, e poté godere dell’adulazione delle folle in una serie di trionfi. Del resto, le sue vittorie in Egitto, nel Ponto, in Nord Africa e nelle Gallie meritavano i più alti riconoscimenti. Dato che un trionfo poteva essere celebrato solo contro nemici stranieri, la battaglia di Tapso fu spacciata per un successo contro re Giuba di Numidia.
Ben presto, tuttavia, alcune notizie preoccupanti raggiunsero il condottiero. I figli di Pompeo erano arrivati in Spagna ulteriore, e le due legioni cesariane di stanza laggiù – la Seconda e l’Indigena, entrambe ex unità pompeiane – avevano disertato in loro favore, sottraendosi al comandante di Cesare, il generale Trebonio, e unendosi all’unico contingente sfuggito al disastro del Nord Africa, la Prima legione.
Per far fronte a questi sviluppi, Cesare richiamò Trebonio a Roma. Le sue tre legioni di stanza nella Spagna citeriore – la Ventunesima, la Trentesima e la Terza, quest’ultima arruolata nella Gallia cisalpina e all’epoca al comando del generale Pedio (un parente di Cesare che aveva già servito il condottiero nelle Gallie) e dal generale Quinto Fabio Massimo – ricevettero l’ordine di non attaccare i figli di Pompeo finché Cesare non fosse sopraggiunto con i rinforzi.
Nel frattempo, Gneo e Sesto si erano impossessati di Cordova e stavano occupando l’Andalusia. Godendo di forti appoggi locali, non avevano incontrato difficoltà ad arruolare altri soldati. D’altro canto, il defunto Pompeo era ancora molto popolare in Spagna.
Cesare reagì alle iniziative dei due fratelli con una serie di movimenti di truppe. La Quinta, la Settima, l’Ottava, la Nona, la Decima e la Tredicesima erano tutte rientrate dalla Tunisia e ora si trovavano di stanza nell’Italia meridionale. La Ventottesima, forte soltanto di cinque coorti, era stata spedita in Siria. Secondo Appiano, il condottiero aveva già in mente un’operazione contro l’antico nemico dell’Est, la Partia. Questa offensiva sarebbe scattata dopo la fine delle ostilità contro i pompeiani, e si sarebbe avvalsa proprio della Ventottesima. Le altre sei legioni reduci dal Nord Africa ricevettero l’ordine di marciare verso la Spagna. Quanto alle due coorti della Sesta, che avevano combattuto così valorosamente per Cesare in Egitto e nel Ponto, furono subito richiamate in azione.
Il condottiero lasciò Roma verso la fine di dicembre. Appiano racconta che raggiunse la Spagna in ventisette giorni. Quando arrivò, a gennaio, era accompagnato solo dal suo stato maggiore e dagli attendenti. Quasi certamente aveva evitato i Pirenei, imbarcandosi a Marsiglia per approdare a Tarragona; una scelta che lo aveva costretto a lasciare indietro la sua fedele guardia del corpo germanica. Per ovviare a tale assenza, aveva spedito un corriere ai generali Pedio e Fabio, affinché gli inviassero un distaccamento di cavalleria da usare come guardia personale una volta che fosse sbarcato in Spagna. Allorché si accampò a est del fiume Guadalquivir (l’antico Baetis), il corriere aveva appena raggiunto i generali.
Senza aspettare una nuova scorta, o il grosso della cavalleria – ancora in viaggio dall’Italia sotto il generale Nonio Asprenate –, Cesare si affrettò verso sud e raggiunse le legioni accampate sul confine fra la Spagna citeriore e quella ulteriore. La sua fretta dipendeva dalle notizie sconvolgenti che aveva appreso a Tarragona: dopo aver marciato attraverso l’Italia e la Francia del Sud, tre dei suoi contingenti più esperti si erano uniti ai figli di Pompeo.
Il condottiero aveva sbagliato a far tornare nella penisola iberica le legioni ispaniche. Queste truppe aspettavano il congedo da quattro anni, erano stanche di promesse truffaldine, e non intendevano schierarsi contro altri ispanici. Forse influenzate dalla defezione della Seconda e dell’Indigena, l’Ottava e la Nona decisero di abbandonare il campo cesariano e di passare dall’altra parte. Avrebbero combattuto per la loro gente e la loro terra. La Tredicesima, che aveva attraversato il Rubicone con il condottiero, fece lo stesso. Il perché, non è chiaro. Mancavano ancora tre anni al congedo; forse questi legionari del Nord Italia erano stanchi delle vuote promesse di Cesare. Quanto alla Decima e alla Settima, restarono fedeli al condottiero, senza dubbio con suo grande sollievo.
Gli stessi figli di Pompeo furono sorpresi da tali defezioni. Per sicurezza, il più giovane tra i due, il ventiduenne Sesto, tenne con sé a Cordova la Nona e la Tredicesima. Solo l’Ottava raggiunse il fratello Gneo sul campo.
Nel tardo gennaio del 45 a.C., Cesare attraversò il Guadalquivir e si addentrò nell’Andalusia con la Terza, la Quinta, la Sesta, la Settima, la Decima, la Ventunesima e la Trentesima. Accanto a queste unità c’erano alcuni squadroni di cavalleria locale. I pompeiani, dopo aver cercato di ostacolare l’avanzata nemica, iniziarono a ritirarsi lentamente verso Cordova, la capitale provinciale di Cesare sedici anni prima, il teatro del suo primo comando, e il luogo dove aveva arruolato la Decima legione.
A sudest della città, nella valle del fiume Salso, Gneo Pompeo e il generale Labieno – comandante irrefrenabile fin dai tempi delle campagne d’Albania, Grecia e Nord Africa – tentarono di fermare il nemico attestandosi nelle cittadine collinari di Ategua e Ucubi, dopo aver fatto eseguire una serie di opere difensive lungo il fiume. Mentre nella valle infuriavano gli scontri, Cesare cinse d’assedio Ategua. Gli abitanti della città risposero sgozzando tutti i prigionieri cesariani; dopodiché, gettarono i loro cadaveri dalle mura. Il conflitto tra il condottiero e i figli di Pompeo stava diventando sempre più feroce. Ma Cesare mantenne la pressione, e il 19 febbraio la città si arrese.
Gneo Pompeo e Labieno, consapevoli di avere il nemico sempre più alle calcagna, spostarono il loro campo più vicino a Ucubi. Ogni giorno c’era chi disertava, da una parte e dall’altra, benché i numeri cominciassero a pendere in favore di Cesare. Qualche legionario dell’Ottava tornò da lui. Poi si scatenò un feroce scontro per il possesso di una collina che dominava la valle, a cinque miglia da Ucubi. Questo rilievo non aveva un nome, oppure non ci è stato tramandato. Era come una collina in Corea o in Vietnam nel XX secolo: non rivestiva alcun valore strategico, ma era là, ed entrambe le parti la volevano per sé. Il 5 marzo, la lotta per conquistare questo anonimo rilievo della Spagna sudoccidentale raggiunse il suo culmine. Le forze del giovane Gneo Pompeo presero la vetta e la difesero contro gli attacchi cesariani. Entrambi gli schieramenti accusarono più di cinquecento perdite. Alla fine prevalsero i pompeiani: un buon auspicio per le loro iniziative future.
Cavalcando all’ala destra, Cesare si sporse dalla sella e diede una lunga occhiata sopra gli elmi degli uomini della Decima, davanti a lui, nella tiepida, tranquilla alba del 17 marzo. Soddisfatto che le unità pompeiane dall’altra parte avessero raggiunto le loro posizioni definitive, si rivolse al generale Asprenate, giunto nel frattempo dall’Italia con 8000 cavalieri gallo-germanici e ispanici; il più grosso contingente di soldati a cavallo che Cesare avesse mai portato in campo. Il condottiero disse ad Asprenate che intendeva fare ruotare l’ala sinistra del nemico usando la Decima legione, e gli ingiunse di tenersi pronto con la cavalleria. Asprenate assentì e si diresse verso i suoi reparti.
Nelle ultime due settimane, Gneo Pompeo aveva continuato a ritirarsi, mettendo a ferro e fuoco alcune città mentre perdeva terreno. Il giorno prima si era accampato nella pianura non lontano da Munda. Cesare lo raggiunse dopo il tramonto, e piantò le tende a cinque miglia di distanza. Nelle prime ore del mattino, i suoi aiutanti lo svegliarono con la notizia che Gneo stava disponendo le sue truppe in formazione di combattimento. Il condottiero notò che il nemico aveva scelto la festa del dio Libero – il Liberale – come giorno per la battaglia. Questo era il giorno in cui i giovani romani indossavano per la prima volta la toga virilis. Forse Gneo sperava di raggiungere l’età adulta da generale vittorioso. Ma Cesare avrebbe fatto di tutto per impedirglielo.
Eppure Gneo Pompeo non sembrava aver paura di affrontare un avversario così temibile. Era conscio che alla sua età suo padre si era già fatto un nome. Figlio e nipote di generali, il giovane Gneo aveva già mostrato di possedere coraggio e doti militari. Pochi anni prima, per esempio, era stato al comando della flotta che aveva distrutto le navi trasporto cesariane nei porti dell’Adriatico; un’azione che aveva isolato l’avversario in Grecia. Gneo era un ragazzo maturo, e ne aveva abbastanza delle inconcludenti scaramucce che logoravano i soldati e mettevano a rischio la lealtà degli indigeni. Trent’anni più tardi, il poeta Orazio avrebbe scritto: «Cogli l’attimo presente, e fidati poco del domani». Costretto sulla difensiva, e con sempre più città ispaniche restie a credere che i figli di Pompeo fossero davvero in grado di sconfiggere il miglior stratega dei loro tempi, Gneo decise di afferrare al volo l’occasione di uno scontro in campo aperto, prima di perdere l’appoggio dei locali.
Cesare raccolse la sfida senza alcuna esitazione. Fece issare il suo stendardo, mentre le trombe suonavano l’allarme per tutto il campo. Naturalmente, non si scordò di impartire la parola d’ordine per quel giorno: «Venere». Non a caso, si trattava di una parola d’ordine molto simile a quella adottata a Farsalo («Venere, portatrice di vittoria»). Chissà, forse gli avrebbe portato di nuovo fortuna. Da parte sua, Gneo aveva scelto la parola d’ordine: «Pietà».
Come sempre, la Decima legione si schierò sull’ala destra. A differenza dell’Ottava e della Nona, era rimasta fedele a Cesare. D’altro canto, un conto era insistere per venire pagati o comunque ricompensati; un altro era passare al nemico. Secondo l’autore della Guerra ispanica – probabilmente un giovane ufficiale cesariano; forse un centurione (ma non scordiamoci che il testo fu rivisto da Irzio e Balbo prima di essere pubblicato) –, gli effettivi della Decima si erano fortemente ridotti. Quanto alle unità che erano passate al campo pompeiano (l’Ottava, la Nona e la Tredicesima), La guerra ispanica non si sofferma sulle circostanze della loro defezione. Anche qui, lo zampino di Irzio pare evidente: nel testo, le unità in oggetto sembrano materializzarsi di colpo nello schieramento di Gneo Pompeo.
La Decima legione, il cui congedo era previsto proprio per quel mese, era forse al 50 per cento della sua antica forza. Le campagne galliche e il conflitto civile ne avevano falcidiato i ranghi. Senza dubbio, i veterani superstiti – forse 2000, fra i trentatré e i trentasei anni d’età – speravano che si trattasse davvero dell’ultima battaglia, come aveva assicurato loro il centurione Crastino tre lunghi anni prima.
Il fianco sinistro dello schieramento cesariano era occupato dalla Quinta, che nel frattempo era diventata «la famosa Quinta», grazie alle sue gesta contro gli elefanti di Scipione. Dopo la battaglia di Tapso, Cesare aveva concesso all’unità di usare l’elefante come simbolo legionario. Secondo Appiano, la celebrità della «famosa Quinta» sarebbe stata ancora viva due secoli dopo la vittoria di Tapso. E per tutto quel tempo, la legione avrebbe continuato ad adornare scudi e stendardi con il profilo dell’elefante.
Accanto alla Quinta c’erano le reclute della Terza legione, arruolate nella Gallia cisalpina. Le altre quattro legioni cesariane occupavano lo spazio fra la Terza e la Decima. I fianchi dello schieramento erano protetti dalla cavalleria e da diverse migliaia di ausiliari. Tuttavia, parecchie coorti erano a ranghi ridotti. La Sesta, per esempio, poteva schierare solo poche centinaia di uomini; gli ultimi gloriosi sopravvissuti di Farsalo, di Alessandria, del delta del Nilo e di Zela. A conti fatti, il totale dei soldati di Cesare non superava le 30000 unità.
Tutt’intorno alla pianura ondeggiavano colline, ma qui nella valle il terreno era piatto, ottimo sia per le manovre di fanteria che di cavalleria. Tuttavia, le truppe di Cesare avevano un po’ di strada da fare prima di raggiungere il nemico. Infatti, erano separate dall’esercito avversario da un ruscello che divideva la valle. Lontano sulla loro destra, il corso d’acqua si trasformava in una palude. L’autore della Guerra ispanica, testimone oculare degli eventi, racconta che lui e i suoi compagni erano sicuri che Gneo Pompeo sarebbe sceso dalla collina per incontrarli nel mezzo della pianura. Se non lo avesse fatto, sarebbe toccato a Cesare andarlo a prendere lassù, dopo aver attraversato il corso d’acqua e un’altra distesa di terra piatta e arida.
Avendo la possibilità di scegliere il campo di battaglia, il giovane Pompeo si era naturalmente assicurato il terreno più elevato. Inoltre, la città alleata di Munda sorgeva sul colle alle sue spalle, circondata da alte mura e torri di difesa. Anche questo era un vantaggio non da poco.
Saggiamente, Gneo aveva schierato le sue truppe – dai 50000 agli 80000 uomini – sui pendii che si innalzavano verso Munda. Forti della loro esperienza, la Prima e l’Ottava probabilmente occupavano le due ali, con la Seconda e l’Indigena in funzione di appoggio. Al centro, invece, si trovavano nove legioni di «novellini» ispanici e portoghesi; ragazzi privi d’esperienza e addestrati in modo sommario. I fianchi della formazione erano ulteriormente presidiati da squadroni di cavalleria, con il sostegno di 6000 fanti e altrettanti ausiliari. E a comandare il tutto c’era Gneo Pompeo in persona, con Labieno come suo vice e Publio Varo responsabile dell’ala sinistra, proprio di fronte alla Decima.
L’autore della Guerra ispanica racconta come gli animi dei cesariani fossero divisi tra due sentimenti contrastanti: soddisfazione per essere finalmente arrivati allo scontro decisivo; preoccupazione per quel che sarebbe successo nelle prossime ore.
Prima di dare inizio alla battaglia, i comandanti dei due eserciti pronunciarono i loro discorsi di prammatica. Anche se non ne conosciamo le parole esatte, sembra che Cesare abbia raccomandato ai suoi di mantenere le posizioni assegnate e di non partire alla carica senza il suo permesso, com’era accaduto a Tapso. Dopodiché, il condottiero impartì l’ordine di procedere. Il suo stendardo fu inclinato in avanti, e le trombe diedero il segnale dell’avanzata a passo di marcia.
Le legioni cesariane tennero il passo attraverso la pianura, mentre la cavalleria procedeva ai loro fianchi. Lo stesso condottiero e il suo stato maggiore cavalcavano tra le file della Decima. Davanti a loro, le truppe pompeiane non si mossero di un millimetro. Sembrava che il giovane Gneo volesse ricalcare le orme paterne a Farsalo. Le truppe di Cesare attraversarono il corso d’acqua, sollevando schizzi al loro passaggio.
Quando la prima linea raggiunse le pendici della collina, improvvisamente Cesare ordinò l’alt. L’avanzata si arrestò. Mentre i suoi aspettavano di lanciarsi all’assalto, e il nemico sui pendii si riposizionava per contrastarli, il condottiero comandò alle coorti di stringersi l’un l’altra, così da concentrare le proprie forze su un unico punto d’attacco. Le truppe obbedirono. Per qualche minuto non successe nulla. I soldati stavano già cominciando a mormorare d’impazienza, quando Cesare ordinò la carica. Con un urlo assordante, ottanta coorti si avventarono su per la collina.
Urlando altrettanto forte, i pompeiani scagliarono i loro giavellotti. Una salva di dardi fendette l’aria e si abbatté sulle file cesariane, falcidiandole. Un’altra raffica annerì l’azzurro del cielo. Poi ne arrivò un’altra, e un’altra ancora. Gli attaccanti, senza più fiato e ancora lontani dal nemico, furono costretti a fermarsi, mentre i cadaveri dei loro commilitoni crescevano a vista d’occhio. Anche la seconda linea, alle loro spalle, si arrestò di colpo. L’intero sforzo offensivo di Cesare venne meno.
Smontando rapidamente da cavallo, il condottiero afferrò lo scudo di uno stupito legionario della Decima e si fece strada fra le truppe, su per la collina, fino alla primissima fila, seguito dal suo stato maggiore che faticava a tenergli dietro. Strappandosi l’elmo dalla testa e gettandolo perché tutti riconoscessero chi era, si mise alla testa dei suoi uomini.
Secondo Plutarco, Cesare additò i giovanissimi soldati dello schieramento avversario, urlando: «Non vi vergognate a permettere che il vostro generale venga sconfitto da quei ragazzini?». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Il condottiero continuò a incitare i legionari – sudati, ansimanti, feriti –, senza smettere di incoraggiarli, insultarli, blandirli. Eppure nessuno si mosse. A quel punto, stando al racconto di Appiano, Cesare si rivolse al suo stato maggiore e disse: «Se oggi falliremo, sarà la fine della mia vita, come pure delle vostre carriere». Dopodiché, estrasse la spada e, in perfetta solitudine, avanzò risolutamente su per la collina, verso le linee nemiche.
I pompeiani risposero al suo gesto di sfida con l’ennesima salva di giavellotti. I soldati della Decima osservarono la scena trattenendo il respiro. Nessuno poteva sopravvivere a un simile tiro di sbarramento, neppure un uomo notoriamente fortunato come Giulio Cesare.
Il condottiero scansò alcuni dardi, ne ricevette altri sullo scudo. Secondo Appiano, almeno duecento giavellotti tentarono di abbatterlo. Ma, incredibilmente, non ci riuscirono. A un certo punto, Cesare si voltò verso le sue truppe in lontananza e gridò loro: «Beh, che cosa aspettate?».
«Andiamo!», urlò uno degli ufficiali cesariani, con ogni probabilità il colonnello Pollione. Tutto lo stato maggiore strappò gli scudi ai legionari della Decima e ai cadaveri che giacevano ai loro piedi, e volò verso Cesare, per proteggerlo.
Questo esempio ridiede impeto e coraggio alla prima linea. Con un ruggito, le truppe del condottiero tornarono all’assalto. I soldati della Decima corsero oltre Cesare e il suo stato maggiore, superando l’ultimo tratto che li separava dal nemico. Con uno schianto di scudi, i due fronti vennero a contatto. Premuta da quanti salivano da dietro, l’avanguardia cesariana poteva solo andare avanti.
Presto si creò uno stallo, senza vantaggio per uno schieramento o per l’altro, tranne che per l’ala destra di Cesare. Lo stesso Cesare era nel mezzo della mischia con la Decima, menando fendenti ed esortando i suoi. Quei soldati avevano una reputazione da difendere, e con il condottiero fra loro, che li spingeva a sforzi sovrumani nel combattimento faccia a faccia, scudo contro scudo, fecero di tutto per dimostrarsi all’altezza della loro fama. Un sanguinoso passo per volta, le truppe pompeiane cominciarono ad arretrare.
Per controbattere all’assalto nemico e rinforzare il fianco sinistro che stava cedendo, Gneo diede ascolto ai consigli di Labieno (che aveva maturato una lunga esperienza in fatto di tattiche cesariane, soprattutto in Gallia) e ordinò che una delle sue unità si spostasse sull’ala opposta.
Avendo intuito la manovra dell’avversario, Cesare ingiunse a un ufficiale del suo stato maggiore di rintracciare Asprenate, il comandante della cavalleria, e di dirgli di concentrare l’attacco sul fianco nemico che appariva meno presidiato. Il giovane colonnello si fece strada in un mare di legionari fino alle pendici del colle. Qui trovò Asprenate e gli riferì le nuove direttive. Il generale si mise alla testa di un robusto contingente di cavalieri e si avventò contro l’ala destra di Gneo Pompeo.
Intanto, mentre la legione pompeiana si spostava da destra a sinistra, i soldati del settore mediano, privi di esperienza, non capirono il significato strategico del movimento, scambiandolo per una ritirata. In breve tempo, fuorviati da questo errore, cominciarono a correre a rotta di collo giù per la collina. Molti di loro gettarono le armi. Il panico si diffuse rapidamente tra le reclute pompeiane. Il settore mediano si disgregò. Migliaia di uomini presero a fuggire, chi verso Munda, chi verso la pianura.
Alcune unità come la Prima legione, veterana di Farsalo e Tapso, restarono ad affrontare il nemico, anche se presto si ritrovarono accerchiate. A quel punto, ebbero solo una scelta: arrendersi o morire sul posto. Quasi tutti scelsero di morire. Anticipando il destino della guardia napoleonica a Waterloo, la Prima legione cadde con le armi in pugno. Nel corso degli scontri, quando gli ufficiali cesariani offrivano loro di avere salva la vita in cambio della resa, è probabile che i veterani della Prima rispondessero con un detto proverbiale dell’esercito: Abi in malam crucem! («Impìccati!»).
Si stima che quel giorno 30000 legionari e 3000 ufficiali di Gneo Pompeo persero la vita. Tra i caduti vi fu anche il bellicoso Labieno: circondato e separato dal suo cavallo, morì davanti a Munda combattendo fino all’ultimo. Quanto a Publio Varo, andò incontro alla stessa sorte. Entrambi furono sepolti sul campo di battaglia, tranne le teste, che secondo Appiano furono presentate a Cesare. Per quel che riguarda le perdite di quest’ultimo, ammontarono a circa mille unità. Molti perirono probabilmente nelle fasi iniziali degli scontri, quando le fortune erano ancora incerte.
Per molti versi, Munda fu per Cesare quello che Waterloo fu per Wellington: una vittoria ottenuta per un pelo. Secondo Appiano e Plutarco, il condottiero, dopo la battaglia, rivelò ai suoi ufficiali e amici la seguente confessione: «Ho sempre combattuto per la vittoria, ma questa è la prima volta che ho combattuto per la vita».
Ferito, Gneo Pompeo riuscì a fuggire con una guardia del corpo di centocinquanta fanti e cavalieri. Quel che restava del suo esercito si rifugiò entro le mura di Munda. Mentre in pianura si spegnevano gli ultimi scontri, Cesare ordinò che Munda venisse circondata da una serie di trincee. Nel tentativo di convincere i 14000 assediati ad arrendersi, il condottiero fece ammassare davanti ai terrapieni i cadaveri dei pompeiani caduti in battaglia, formando una grigia muraglia intorno alla città. Per rendere ancora più orrido lo spettacolo, fece mozzare le teste ai morti; dopodiché diede ordine che venissero esibite di fronte ai bastioni, infilzate sulla punta delle spade. Una volta adottate queste misure, Cesare lasciò una piccola unità a guardia di Munda e si diresse alla volta di Cordova, per finire il lavoro.
Intanto Gneo Pompeo si affrettava a sud verso il porto di El Rocadillo, allora chiamato Carteia, non lontano dall’odierna Gibilterra, dove poteva contare su una flotta e una guarnigione. Ma era stato ferito alla spalla e alla gamba, e aveva una caviglia slogata. Troppo debole per cavalcare, e incapace di camminare, si trovava a otto miglia dalla destinazione quando non poté più proseguire. I suoi aiutanti fecero arrivare da El Rocadillo una lettiga, e fu in questo modo che Gneo entrò in città.
Pochi giorni dopo, il figlio di Pompeo salpava con dieci navi, ma già dopo tre giorni fu costretto a riavvicinarsi alla costa per rifornirsi di acqua e provviste. Intrappolati dall’ammiraglio cesariano Gaio Didio, Gneo e i suoi seguaci fuggirono nell’entroterra. Didio lo inseguì con gli equipaggi dei suoi vascelli, riuscendo a bloccarlo in una gola. A quel punto, i due gruppi passarono alle vie di fatto. Durante lo scontro, Gneo, immobilizzato dalle ferite, rimase tagliato fuori. Grazie alle informazioni di un prigioniero, i marinai di Didio lo scoprirono mentre cercava di nascondersi in un crepaccio. Lo uccisero sul posto. La testa decapitata del coraggioso ma sfortunato figlio maggiore di Pompeo fu poi esibita in pubblico a Siviglia.
Ironicamente, l’ammiraglio Didio, il principale responsabile della morte di Gneo, fu a sua volta ucciso dai pompeiani superstiti. Questi ultimi continuarono a combattere per qualche giorno, causando danni e distruzione, prima che Cesare li eliminasse.
Poco più tardi, il condottiero espugnò Cordova, presidiata da un paio delle sue antiche legioni, la Nona e la Tredicesima. La Tredicesima continuò a difendere la città, mentre la Nona tornò nei ranghi cesariani all’ultimo minuto e si unì alla lotta contro gli assediati. Alla fine, le truppe del condottiero ebbero la meglio. Le perdite dei pompeiani a Cordova ammontarono a ben 22000 uomini. Sesto Pompeo riuscì a fuggire dalla città prima che capitolasse; ma se credeva di poter radunare i suoi sostenitori per una nuova offensiva, si sbagliava di grosso. Ormai l’iniziativa era passata definitivamente nelle mani di Cesare, e la resistenza pompeiana si ridusse ai minimi termini. Una alla volta, le città ispaniche ostili al condottiero furono assalite e costrette alla resa. Anche Munda depose le armi. Cesare, magnanimo, risparmiò la vita dei suoi 14000 difensori.
Dopo la morte di Gneo, suo fratello Sesto scomparve nell’entroterra con una manciata di seguaci, deciso a continuare la lotta e inseguito dal colonnello Pollione. Grazie a un accordo di pace redatto da Marco Antonio l’anno successivo, il senato avrebbe pagato cinquanta milioni di sesterzi alla famiglia di Pompeo per risarcirla della perdita delle sue proprietà, e affidato a Sesto il comando della flotta romana. Così, la famiglia di Pompeo sparì dalla scena della storia. Ma non per molto. Con il tempo, Sesto avrebbe usato la flotta a suo vantaggio, diventando un pirata e una spina nel fianco dell’amministrazione romana. Peraltro, la sua carriera non lo avrebbe portato lontano. Un generale di Antonio lo avrebbe ucciso mentre cercava di rifugiarsi in Oriente, dieci anni dopo la battaglia di Munda.
Nell’estate del 45 a.C., la fine della resistenza pompeiana in Spagna determinò la conclusione della guerra civile; un conflitto che era costato la vita a centinaia di migliaia di cittadini romani e provinciali. Adesso, Giulio Cesare aveva in mano tutte le leve del potere.
Alla fine dell’estate, i legionari della Decima ebbero il loro congedo, peraltro con qualche mese di ritardo rispetto alla scadenza prevista. Come tutti coloro che avevano sostenuto Cesare, ricevettero sostanziose ricompense. Secondo Svetonio, ogni soldato fu premiato con 24000 sesterzi: i 20000 promessi all’inizio della guerra civile, più i 4000 promessi a Roma l’anno prima. E, con il denaro, arrivarono anche le concessioni fondiarie in Spagna. L’autunno precedente, Cesare aveva fatto approvare dal senato un progetto di legge ad hoc, e adesso la distribuzione di terra ai veterani poté avere inizio.
Finalmente soddisfatte le richieste dei suoi reduci, il condottiero ordinò una nuova leva per rimpinguare i ranghi sempre più ridotti della Decima e delle altre legioni. Secondo Plutarco, questa direttiva si inquadrava nella preparazione della prossima campagna militare, l’invasione della Partia, in via di allestimento per vendicare la morte di Crasso e delle sue truppe a Carre otto anni prima. Inoltre, sembra che Cesare avesse qualche mira anche sull’India.
Obbedendo ai dettami del condottiero, gli ufficiali reclutatori presero a percorrere la Spagna occidentale e ad arruolare nuovi coscritti. Tra costoro vi furono anche alcuni veterani della Decima, alquanto a disagio con zappe e aratri. Piuttosto che continuare la vita del contadino, preferirono raffermarsi per altri sedici anni. In un certo senso, tornarono a casa, nelle tre coorti di punta della loro vecchia unità. In futuro, questa collocazione sarebbe diventata un’abitudine: i raffermati avevano diritto a un posto in prima fila.
Mentre si procedeva all’arruolamento e all’addestramento dei coscritti, la Decima rimase in Spagna. Presto avrebbe ricevuto un nuovo comandante, nella persona del generale di corpo d’armata Marco Lepido. Costui, l’anno prima, aveva diviso il consolato con Cesare; dopodiché era diventato governatore della Spagna citeriore, con quattro legioni ai suoi ordini.
Quanto a Cesare, si stava apprestando a tornare a Roma. Secondo Appiano, allorché gli amici gli consigliarono di riprendere «le sue coorti ispaniche come guardia del corpo», intendevano riferirsi alla Settima legione, che era appena rientrata in Italia per partecipare alla campagna contro i parti, e che gli aveva già guardato le spalle nel 47 a.C., durante l’ammutinamento della Decima, della Nona e dell’Ottava. Ma il condottiero rifiutò il consiglio, sostenendo che non c’era destino peggiore del vivere perennemente sotto scorta, perché significava dimostrare di aver paura. Nel corso dei secoli, molte personalità al vertice del potere avrebbero espresso lo stesso giudizio.
Cesare lasciò il colonnello Pollione in Spagna con due legioni, incaricandolo di continuare la caccia a Sesto Pompeo. Anche se non si dimostrò all’altezza del compito, il colonnello fu promosso generale di divisione nel 44 a.C. Più tardi, nel 40 a.C., sarebbe diventato console. In seguito, nel 39 a.C., avrebbe condotto una vittoriosa campagna contro le tribù dei Balcani. Dopodiché, avrebbe vissuto fino a settantotto o settantanove anni d’età, per poi morire nel 4 d.C. Il cordoglio per la sua scomparsa sarebbe stato unanime: con lui, Roma aveva perso un ottimo generale, un insigne statista e un eccellente scrittore.
Cesare raggiunse la capitale nel settembre del 45 a.C. Avendo ormai in pugno il senato, non gli fu difficile farsi nominare dittatore a vita. Adesso gli ideali repubblicani dovevano fare i conti con l’egemonia di un uomo solo. Non bastava che il condottiero evitasse accortamente di ammantarsi di attributi regali. Per molti era un autentico sovrano. E non ne erano felici.
Sei mesi dopo, alla metà di marzo del 44 a.C., alla fine dei preparativi per la campagna di Partia, Cesare convocò un’assemblea del senato. L’incontro doveva aver luogo nella sala di un complesso teatrale fatto costruire da Pompeo Magno sul Campo di Marte, e doveva essere l’ultimo prima della partenza del condottiero quattro giorni più tardi, quando avrebbe preso il comando delle sei legioni che lo aspettavano in Siria per l’operazione contro i parti.
Agli eventi successivi assistettero sessanta senatori, tra i quali alcuni degli aiutanti più stretti di Cesare: il generale Trebonio, Servio Galba (che aveva combattuto con lui nelle Gallie) e l’ammiraglio in capo Decimo Bruto Albino (futuro governatore della Gallia transalpina). Accanto a costoro c’erano anche alcuni ex pompeiani tornati nelle grazie del condottiero, come l’ammiraglio Gaio Cassio.
Attorno alle dieci di mattina del 15 marzo, Cesare uscì dalla sua residenza sulla via Sacra e si avviò in lettiga verso il Foro, diretto all’aula di Pompeo per incontrare il senato. A quell’epoca la città era presidiata da una legione – probabilmente la Settima –, acquartierata su un isolotto del Tevere e in presumibile attesa di partire con il suo comandante alla volta della Siria. Quest’ultimo, restio a farsi proteggere da una guardia del corpo, quel giorno aveva al fianco solo ventiquattro littori, che gli aprivano la strada con i loro fasci.
Al foro, Cesare fu raggiunto da Marco Antonio. Come era già accaduto in passato, il condottiero, dimentico delle manchevolezze del suo sottoposto, lo aveva ripreso con sé. Antonio era stato il primo a dargli il benvenuto sulla via Aurelia quando era tornato dalla Spagna, e Cesare lo aveva fatto eleggere console per il 44 a.C.
Secondo Appiano, il condottiero si fermò lungo il percorso mentre i magistrati sacrificavano una capra e ne esaminavano le interiora per trarne auspici, come era costume prima degli incontri con il senato. Quando si capì che i presagi non erano favorevoli, Cesare ordinò un secondo sacrificio. Ma anche questo diede esito negativo. Ignorando tali responsi, e impaziente di finire gli affari di stato per tornare ai piani militari, riprese il cammino.
Quando scese dalla lettiga fuori della sala, Antonio fu distratto da Albino e Trebonio, che lo coinvolsero deliberatamente in un fitto chiacchiericcio. Alcuni congiurati avevano pensato di farlo partecipare alle «Idi di marzo» – come sarebbero state chiamate in seguito –, ma i più avveduti tra loro avevano sostenuto che per ottenere l’appoggio popolare dovevano agire da soli, così da apparire agli occhi di tutti come gli autentici difensori della democrazia. In caso contrario, la loro azione sarebbe stata interpretata alla stregua di una mera vendetta di ex pompeiani nei riguardi del dittatore, e ciò avrebbe scatenato la furibonda reazione delle legioni a lui fedeli.
Cesare, ammantato in una porpora quasi regale, entrò da solo, portando con sé un fascio di petizioni che gli erano state affidate da alcuni postulanti mentre saliva i gradini. In cima a queste richieste c’era una lettera scritta da Artemidoro di Cnidia, un insegnante greco di logica. Mentre Cesare gli passava davanti, Artemidoro lo fermò un istante, sussurrandogli di leggere la missiva in privato. La lettera conteneva i dettagli della congiura per ucciderlo, completa dei nomi di alcuni cospiratori. Ma il condottiero non la aprì, visto che il senato lo stava aspettando. Per quanto riguarda lo svolgersi degli eventi successivi, ci vengono in aiuto i resoconti di Plutarco, Appiano e Svetonio.
I senatori si alzarono in piedi, quando il dittatore entrò e si diresse verso il trono d’oro e avorio che fronteggiava l’emiciclo. Mentre stava prendendo posto, dopo aver affidato a un segretario le petizioni dei postulanti (compresa la lettera di Artemidoro), un gruppo di senatori gli si affollò intorno. Il senatore Tillio Cimbro, appoggiato da alcuni colleghi, gli presentò un’altra petizione, con la supplica di far rientrare suo fratello dall’esilio. Cesare rispose impaziente che ora non aveva tempo per tali faccende, e che i senatori avrebbero fatto meglio ad accomodarsi sui loro scranni. Fu in quel momento che Cimbrio afferrò il dittatore per il mantello di porpora e gli immobilizzò le braccia.
Secondo Svetonio, Cesare, stupito, esclamò: «Ma questa è prevaricazione!».
Accanto a Cimbrio, il senatore Publio Servilio Casca estrasse un pugnale e colpì il dittatore al collo, ferendolo di striscio.
Stando a Plutarco, Cesare inveì contro Casca («Vigliacco!»), quindi si liberò dalla stretta di Cimbro e afferrò il pugnale per non farsi colpire una seconda volta, aggiungendo: «Ma cosa significa tutto questo?».
Disorientato dalla reazione della sua vittima, Casca cercò con gli occhi il fratello, anch’egli senatore, urlandogli: «Fratello, aiutami!».
Quest’ultimo non si fece attendere. Scostò una falda della propria toga ed estrasse una lama, imitato da altri colleghi. Costoro si avventarono su Cesare con i pugnali alzati. Ventitré congiurati affondarono le loro lame nel corpo del dittatore. Anche Marco Bruto partecipò all’aggressione. Era lo stesso Bruto che Cesare aveva trattato come un figlio, risparmiandogli la vita dopo la battaglia di Farsalo.
Secondo Svetonio (che si basa su altre fonti), quando Bruto lo colpì, Cesare gemette in greco: «Anche tu, figlio mio?». Una frase destinata a diventare celebre, che ispirò persino Shakespeare.
Nella frenesia dell’attentato, alcuni congiurati finirono con il ferirsi a vicenda. Sempre secondo Svetonio, Cesare si alzò in piedi, cercò di evitare i fendenti e di rispondere alle pugnalate con il suo stilo, poco più appuntito di un pennino. L’autopsia che seguì, condotta dal medico Antistio, rivelò che il colpo mortale gli era stato vibrato al petto, probabilmente per mano – ipotizza Svetonio – di Marco Bruto. Appiano, invece, afferma che Bruto colpì Cesare a una gamba.
A detta di Plutarco e Appiano, mentre gli astanti abbandonavano la sala in preda al panico, il dittatore cadde ai piedi della statua di Pompeo. E, come Pompeo, cercò di coprirsi il volto con il mantello negli ultimi istanti della sua vita. Fu così che Giulio Cesare incontrò la morte, nel suo cinquantacinquesimo anno di età, e quasi diciassette anni dopo aver costituito la Decima legione, con la quale aveva iniziato la sua scalata al potere.