21 ORDINI IMPERIALI

Durante una di quelle giornate oziose del gennaio del 67 d.C., nel campo della Decima legione a Cyrrhus, le sentinelle di guardia sulle torri della porta decumana videro un corriere che si avvicinava al galoppo da sud, lungo la strada per Antiochia.

La base di Cyrrhus era un’installazione permanente. Già nel 30 a.C., Augusto aveva ordinato l’allestimento in tutto l’impero di campi invernali stabili per il proprio esercito, precisando che ciascun campo non avrebbe potuto ospitare più di due legioni, sebbene il geografo greco Strabone ci riferisca che la principale base legionaria in Egitto – Babylon Fossatum, dove oggi sorge Il Cairo –, all’epoca della sua visita nel 25 a.C., era occupata da tre legioni. Ma probabilmente una di queste era solo di passaggio, diretta a ovest o a nordest, verso la sua assegnazione definitiva.

Nel 67 d.C., gli edifici di Cyrrhus avrebbero potuto assomigliare a un fortino del West americano: terrapieni, palizzate di legno, torri di guardia. Non si può escludere, tuttavia, che l’intera struttura fosse stata edificata in pietra, secondo la tradizione locale. Del resto, prima che il I secolo d.C. fosse trascorso, tutte le nuove basi legionarie dell’impero – o meglio, tutte le nuove basi permanenti – sarebbero state costruite utilizzando proprio la pietra. Queste installazioni, pur conservando la planimetria tradizionale dei vecchi «campi di marcia», sarebbero risultate assai meno spartane di quelle precedenti, visto che avrebbero compreso granai e persino luoghi di svago come le terme.

A ogni modo, quel gennaio del 67 d.C., il praetorium della Decima a Cyrrhus era occupato da un colonnello facente funzione di vicecomandante; con ogni probabilità un tribuno anziano, vicino alla trentina. Come molte altre legioni, anche la Decima aveva visto partire il suo comandante l’anno precedente – vuoi per un’altra assegnazione in provincia, vuoi per un incarico di qualche tipo a Roma –, e adesso era in attesa di un rimpiazzo, nell’imminenza della nuova campagna che sarebbe iniziata a primavera.

Il colonnello della Decima poteva ricevere notizie di rilievo in vari modi. Il più regolare consisteva negli Acta Diurna, l’equivalente romano del Daily News; il primo quotidiano informativo mai apparso al mondo. Istituiti da Giulio Cesare nel 59 a.C., quando era console, in epoca imperiale gli Acta venivano redatti da una schiera di segretari in un apposito ufficio del Palatino. Le loro copie manoscritte erano poi distribuite agli ufficiali romani in ogni angolo dell’impero dai corrieri del cursus publicus, l’efficientissimo servizio statale di posta. Gli Acta contenevano una vasta messe di notizie: decreti imperiali, promozioni in ambito militare, nascite, decessi, matrimoni, corse delle bighe, scontri tra gladiatori, aggiornamenti sul traffico e gli incendi nella capitale.

È probabile che i comandanti legionari, dopo averli letti, appendessero gli Acta da qualche parte nel campo, così da renderli disponibili ai soldati. Persino nella lontana Giudea, le notizie degli Acta arrivavano con un modesto ritardo rispetto ai fatti narrati. Cambiando i cavalli alle stazioni di posta ogni sei o dieci miglia lungo le arterie militari che si incrociavano per tutto l’impero, i corrieri del cursus publicus potevano coprire qualcosa come centosettanta miglia al giorno. Come si vede, siamo molto vicini alle centottanta miglia giornaliere del mitico, per quanto effimero, Pony Express americano del 1860-1861. C’erano poi gli ispettori del cursus, che si assicuravano scrupolosamente dello stato delle strade e del mantenimento delle stazioni di posta.

Le notizie che riguardavano più da vicino la Decima legione, provenivano, tramite corrieri dell’esercito, dal quartier generale di Antiochia. Fin dall’epoca repubblicana, era tradizione che i messaggeri recanti buone notizie, come una vittoria sul campo di battaglia, adornassero i loro giavellotti con alloro. Quel giorno di gennaio del 67 d.C., le sentinelle che videro il corriere smontare da cavallo di fronte alla porta decumana – infatti era proibito persino ai generali romani o ai re stranieri di cavalcare all’interno di un campo – devono aver sperato in qualche successo delle truppe imperiali contro i ribelli in Giudea, le cui incursioni stavano creando forti imbarazzi all’esercito romano fin dalla primavera precedente. Tuttavia, il giavellotto del corriere era privo di alloro.

Il nuovo venuto sapeva benissimo dove dirigersi. La planimetria di un campo legionario era sempre la stessa da secoli; si poteva raggiungere il praetorium letteralmente a occhi chiusi. Dopo aver superato un picchetto di quattro guardie – come riferisce Polibio, sempre attento a particolari di questo genere –, il messaggero sarebbe entrato nel padiglione del quartier generale; avrebbe estratto il messaggio dalla sua custodia, e infine lo avrebbe deposto nelle mani del colonnello incaricato.

Quasi certamente il dispaccio avrebbe recato il Sardonychis, ovvero il sigillo di cera con il profilo dell’imperatore Augusto. Questo sigillo sarebbe stato usato da ogni imperatore romano fino al III secolo d.C., forse persino oltre. A tale consuetudine avrebbe fatto eccezione solo Galba, l’effimero imperatore del 68-69 d.C., che avrebbe imposto il suo sigillo di famiglia, raffigurante un cane che guarda il mare dalla prua di una nave.

Dopo aver preso in consegna il messaggio, il colonnello avrebbe rotto il sigillo e dispiegato il documento. A questo punto, avrebbe avuto sotto gli occhi un testo composto su due colonne parallele, vergate fittamente in latino da un segretario dell’imperatore.

Mentre il colonnello prendeva conoscenza del messaggio, i suoi ufficiali avrebbero probabilmente affollato il praetorium, in attesa di ricevere le loro consegne. Senza dubbio, si trattava di qualcosa che aveva a che fare con gli ultimi avvenimenti verificatisi a sud. L’anno precedente, gli ebrei di Gerusalemme avevano assediato l’unica coorte della Terza Augusta di stanza in città, e, dopo qualche giorno di feroci combattimenti, avevano trucidato tutti i suoi uomini – molti dei quali dopo che si erano arresi – tranne il loro comandante, il prefetto del campo Metallo. Quasi contemporaneamente, un folto gruppo di seguaci della setta degli zeloti era penetrato con l’inganno nella fortezza di Masada, sul Mar Morto, e aveva massacrato un’altra coorte della Terza Augusta, di presidio alla roccaforte. La stessa sorte era toccata alla fortezza di Cipro, che dominava la città di Gerico. Dopodiché, i ribelli si erano sparpagliati in massa per il territorio, occupando di fatto la Giudea e quasi tutta l’Idumea e la Galilea meridionale. Una coorte della Terza Augusta era riuscita a fuggire dalla fortezza di Macheronte e a raggiungere la capitale della provincia, Cesarea. Un’altra unità della Terza Augusta, di presidio alla città portuale di Ascalona, aveva tenuto testa agli aggressori, ma si era ritrovata completamente tagliata fuori dalle linee amiche.

A questo punto, era d’obbligo una spedizione punitiva contro gli ebrei, e l’uomo giusto per dirigerla sembrava essere il feldmaresciallo Corbulone. Però c’era un problema. Corbulone, infatti, era stato recentemente richiamato a Roma. Su di lui gravavano molti sospetti. Suo genero, il generale di brigata Viniano Annio – o Vinciano, secondo alcuni autori classici –, comandante della Quinta Moesia all’epoca delle spedizioni armene di Corbulone, si era lasciato stupidamente trascinare in una congiura contro l’imperatore.

D’altro canto, i complotti contro Nerone erano all’ordine del giorno. L’anno precedente, la ben nota «congiura di Pisone» aveva coinvolto persino il capo segretario a riposo dell’imperatore, il celebre scrittore e filosofo Seneca, che era stato costretto a togliersi la vita proprio per il suo appoggio alla cospirazione. (Tra i congiurati, per inciso, c’era anche suo nipote, il poeta Lucano.) E adesso era toccato a Viniano, la cui condanna a morte aveva fatalmente danneggiato la reputazione del suocero. Ben presto, Corbulone fu costretto a suicidarsi. Roma perse uno dei suoi generali più preparati nel momento peggiore.

Il sostituto di Corbulone come governatore della Siria, il generale di corpo d’armata Cestio Gallo, era stato promosso a quella carica solo per la sua anzianità, non certo per la sua intraprendenza. Dopo un ritardo di tre mesi e con estrema riluttanza, Gallo si era deciso a scendere in azione con una forza di 28000 uomini, allo scopo di ripristinare il controllo romano sulla Giudea. Tra le unità che aveva scelto per la missione, c’erano quattro coorti di legionari siriaci della Terza Augusta e quattro della Ventiduesima Primigeneia (un legione tradizionalmente reclutata a nord, in Galazia). Ma la punta di diamante del suo esercito era costituita dalle otto coorti della Dodicesima legione. Quest’ultima era in procinto di concludere il suo periodo di servizio ventennale – gli effettivi più giovani avevano ormai trentanove anni, mentre quelli delle coorti anziane arrivavano a cinquantanove –, ma il generale Gallo era convinto che quando la Dodicesima fosse passata alle vie di fatto, la resistenza ebraica si sarebbe sciolta come neve al sole.

I fatti dimostrarono subito quanto Gallo avesse torto. Dopo aver disceso senza fretta il territorio della Galilea, bruciando ogni cosa trovasse sul suo cammino, il generale comparve alle porte di Gerusalemme a novembre, con l’inverno ormai vicino. Dopo uno svogliato assedio durato cinque giorni, Gallo diede l’incomprensibile ordine di levare le tende e tornare alla base. Nella valle di Beth Horon, mentre cercava di ritrovare la strada verso Lod e la costa che aveva percorso solo una settimana prima, la colonna romana fu spazzata via quasi completamente da un’imboscata dei partigiani ebrei. Fu solo grazie al sacrificio di quattrocento volontari che Gallo riuscì a salvare il resto delle truppe. Quando il corpo di spedizione raggiunse barcollando Cesarea, all’appello mancavano 6000 uomini e numerosi stendardi, compresa l’aquila della Dodicesima legione. Tra i soldati rimasti sul campo c’era anche il generale Prisco, comandante della Sesta Victrix e, per l’occasione, capo di stato maggiore di Gallo. Lo stesso Gallo sarebbe morto di lì a poco, forse per la vergogna. Di fatto, la Giudea restava saldamente nelle mani degli ebrei.

Per tornare al messaggio arrivato a Cyrrhus nel gennaio del 67 d.C., il documento rendeva noto al colonnello della Decima che l’imperatore aveva nominato il generale di corpo d’armata Gaio Licinio Muciano nuovo governatore della Siria. Il dispaccio rivelava anche che Nerone aveva incaricato il generale di corpo d’armata Tito Flavio Vespasiano – o semplicemente Vespasiano, come sarebbe stato chiamato dagli storici nella sua futura veste di nono imperatore di Roma – di guidare un corpo di spedizione contro i ribelli della Giudea. Quanto alla Decima legione, avrebbe dovuto mettersi subito in marcia verso sud, con la consegna di riunirsi alle forze di Vespasiano – la Terza Augusta, la Quinta Moesia, la Quindicesima, alcuni reparti forniti dagli alleati locali di Roma e diverse unità di ausiliari –, che si stavano radunando a Tolemaide (l’odierna Acri), sulla costa del Mediterraneo, poco più a nord di Cesarea.

Infine, il dispaccio informava il colonnello che Nerone aveva scelto il nuovo comandante in capo della Decima legione. Si trattava del generale di divisione Marco Ulpio Traiano, padre di un altro futuro imperatore di Roma.

A dicembre, Nerone stava visitando la Grecia quando era stato raggiunto dalla notizia del disastro di Gallo. Durante quel viaggio, al seguito dell’imperatore c’era anche il generale Vespasiano. Figlio di un esattore delle imposte e nipote di un soldato che aveva combattuto per Pompeo a Dyrrhachium e Farsalo, Vespasiano era stato al comando della Seconda Augusta allorché l’imperatore Claudio, nel 43 d.C., aveva invaso la Britannia. Si era trattato del primo ritorno romano in Inghilterra da quando la Decima legione, nel 54 a.C., vi aveva messo piede. Ma stavolta gli invasori non se ne sarebbero andati. Vespasiano aveva agito brillantemente con la Seconda Augusta, operando una serie di incursioni nella Britannia sudoccidentale. Per i suoi atti di coraggio e temerarietà, Claudio lo aveva premiato con tutte le più alte decorazioni al valor militare, nominandolo suo consigliere speciale; un incarico che il futuro imperatore avrebbe svolto anche sotto Nerone.

Console nel 51 d.C. (all’età di quarantuno anni) e governatore della provincia d’Africa nel 63 d.C., Vespasiano era amato e rispettato dai soldati semplici delle legioni, perché proveniva dal basso come loro e sapeva fare benissimo il suo mestiere. Nella veste di amministratore pubblico era molto oculato, persino troppo; ma quando si trattava di gestire i propri affari personali, era come un pesce fuor d’acqua. Aveva investito molti soldi in alcuni allevamenti di muli destinati all’esercito, e stava persino ottenendo il diritto di coniare moneta. Ma gli amministratori del suo commercio non si erano rivelati all’altezza, e Vespasiano era andato in bancarotta. Per ripianare i debiti e mantenere il seggio al senato, si era visto costretto a ipotecare la casa di famiglia al fratello maggiore, Flavio Sabino.

I rovesci finanziari di Vespasiano non avevano intaccato la sua reputazione militare. Si trattava ancora dell’uomo migliore per liquidare la rivolta in Giudea: un generale solido, intelligente, preparato, che avrebbe tirato fuori il meglio dai suoi uomini. E Nerone lo sapeva. Secondo Svetonio, durante il viaggio in Grecia, Vespasiano si era addormentato mentre l’imperatore declamava le sue poesie. Stizzito, Nerone lo aveva cacciato dalla corte. Il generale si era ritirato in un tranquillo angolino del paese, quando era stato raggiunto dal suo richiamo in servizio.

Nel frattempo la Decima legione, con il suo nuovo comandante Traiano, era in marcia verso Tolemaide, sul confine tra la provincia della Siria e quella della Giudea, grosso modo nell’attuale Libano. Nato a Italica nella Spagna citeriore – la regione che aveva dato i natali alla Decima –, anche Traiano, con ogni probabilità, era stato al seguito di Nerone in Grecia. Sulla quarantina, capace e affidabile, piaceva molto agli uomini della Decima, anche perché – caso molto raro per un comandante legionario – proveniva dalle loro stesse terre. A quell’epoca, suo figlio, il futuro imperatore Traiano, aveva solo quattordici anni e quasi certamente viveva ancora in Spagna, dov’era nato.

Era abbastanza insolito, sebbene non inaudito, che un generale di divisione comandasse una legione; un incarico che di regola spettava a un generale di brigata. Ma del resto, a quel tempo, nelle provincie orientali dell’impero i generali esperti e qualificati si contavano sulle dita di una mano. Con la morte del comandante Prisco, per esempio, la Sesta Victrix (di stanza a Zeugma sull’Eufrate, non lontano dalla base della Decima a Cyrrhus), sarebbe stata guidata per anni dal suo tribuno anziano, il colonnello Gaio Minicio, che aveva assunto questo incarico nel 67 d.C., all’età di ventisette anni, dopo aver servito nelle unità ausiliarie. Stesso discorso per la Dodicesima legione, posta temporaneamente sotto l’autorità di un vicecomandante.

Il nuovo generale supremo dello scacchiere orientale – Vespasiano – raggiunse presto, via terra, la sua base operativa ad Antiochia, dedicandosi alla preparazione della campagna in Giudea prima ancora di incontrare le truppe. Nel frattempo, il suo figlio maggiore, Tito, si era imbarcato su una fregata veloce in Grecia e, per ordine del padre, stava navigando alla volta di Alessandria. Il ventottenne Tito aveva servito nell’esercito come colonnello di un’unità ausiliaria, ma poi era tornato alla vita civile, esercitando la professione di avvocato a Roma. E adesso, eccolo di nuovo in divisa.

La Quindicesima legione – una delle unità che sarebbero state impiegate nell’imminente offensiva – era di stanza in Egitto fin dai tempi dell’ultima campagna armena di Corbulone, e Tito aveva ricevuto l’ordine di raggiungerla. La vecchia legge augustea proibiva ancora a un membro del senato di mettere piede in Egitto, ma il figlio di Vespasiano era ancora troppo giovane per accedere a un seggio senatoriale, sicché poteva entrarvi senza problemi. Mentre la Decima arrivava al punto di raccolta a Tolemaide, Tito lasciava l’Egitto e si metteva in viaggio con la Quindicesima lungo la costa. Contemporaneamente, sei coorti della Terza Augusta uscivano da Cesarea, determinate a vendicare il massacro di Beth Horon. Anche la Quinta legione aveva lasciato la sua base nel Ponto e si dirigeva a tappe forzate verso la Giudea. A fine primavera, il numero totale delle truppe romane, compresi i reparti ausiliari e i contingenti forniti dai sovrani alleati, ammontava a 45000 uomini. Tutti impazienti di scendere in azione.