4 ALLA CONQUISTA DELLA GALLIA
Per gli uomini della Decima era stata una campagna breve ma proficua. Avevano spogliato dei loro beni migliaia di cadaveri elvetici e germani. Ne avevano saccheggiato gli accampamenti e le salmerie. E tutto con pochissime perdite. In autunno si erano attestati in un grande accampamento in Alsazia, non lontano dall’odierna Besançon, preparandosi a svernare prima che Cesare li guidasse in primavera verso altre avventure in Gallia. Il condottiero si era recato in Nord Italia per espletare le sue funzioni di supremo magistrato in quella provincia, lasciando il comando delle truppe al generale Labieno. Con l’arrivo dell’inverno, tuttavia, Labieno cominciò a inviare a Cesare messaggi che riferivano come le tribù della Gallia settentrionale – i belgi – pianificassero di attaccare i romani per impedire loro di avanzare ulteriormente in quella regione. Cesare disponeva di spie all’interno delle tribù, e quando queste confermarono i rapporti di Labieno, ruppe ogni indugio.
Dopo aver reclutato due legioni nell’Italia settentrionale – la Tredicesima e la Quattordicesima –, Cesare tornò in Gallia per affrontare le tribù ribelli. Radunò le sei legioni che svernavano in Alsazia e marciò con questo esercito rinforzato verso l’odierna regione della Champagne-Ardenne, a nordest di Parigi, territorio dei remi, alleati di Roma, con capitale l’attuale Reims. Si stima che le tribù belgiche potessero contare su ben 260000 uomini, benché il numero che in effetti si schierò lungo il fiume Aisne a nord di Reims ammontasse forse a un terzo di quella cifra.
Dopo che i due schieramenti avevano cercato di superarsi vicendevolmente in astuzia, Cesare sconfisse i belgi utilizzando soltanto la cavalleria e gli ausiliari. Di conseguenza, le tribù si ritirarono in disordine nei rispettivi territori. Questo permise al condottiero romano di marciare contro di loro individualmente e di sconfiggerle una alla volta nelle settimane successive, sovente accettandone la resa dopo aver posto d’assedio le loro città. In tal modo, Cesare riuscì a sottomettere senza spargimento di sangue i suessioni e i bellovaci – le due tribù belgiche più numerose –, nonché gli ambiani, penetrando poi nel territorio dei nervi, a est della Schelda (Belgio centrale).
I nervi erano un popolo di guerrieri valorosi, originari della Germania, che proibivano la vendita di vino nelle loro terre reputando che rendesse gli uomini imbelli. È quasi inutile aggiungere che non avevano alcuna intenzione di accettare l’autorità di Roma. Grazie all’opera di alcune spie, riuscirono a scoprire l’ordine di marcia legionario – Cesare era solito procedere con ogni legione separata dall’altra dai carri delle salmerie – e scorsero l’opportunità di assalire parte della colonna prima che le altre legioni potessero correre in aiuto. I nervi, disponendo di poche truppe a cavallo, avevano da lungo tempo sbarrato i loro campi con alte siepi, per rallentare la cavalleria nemica; questo stratagemma faceva sperare loro di poter affrontare i romani senza temere l’intervento dei cavalieri di Cesare. Il re dei nervi, Boduognato, convinse i suoi vicini belgici delle tribù degli atrebati e dei viromandui a unirsi ai suoi guerrieri per preparare un’imboscata sulle rive del fiume Sambre.
Cesare, tuttavia, fu avvertito dai suoi esploratori dei movimenti nemici lungo il fiume. Messo sull’avviso, il condottiero cambiò l’ordine di marcia man mano che si avvicinava alla Sambre, disponendo in avanguardia la Decima e le cinque legioni più esperte, seguite dalle salmerie al completo, mentre le due legioni costituite più di recente sarebbero rimaste nella retroguardia. Vedendo piccoli drappelli della cavalleria nemica sull’altra sponda, il condottiero fece guadare le sue truppe a cavallo dove il fiume era profondo appena tre piedi (poco meno di un metro), e ordinò ai legionari di cominciare ad allestire un campo fortificato sul fianco della collina che digradava verso il corso d’acqua. La Decima e la Nona legione, agli ordini di Labieno, furono assegnate al fianco sinistro del campo. La Settima e la Dodicesima presero posizione a destra, mentre l’Ottava e l’Undicesima si piazzarono al centro.
La cavalleria dei nervi si ritirò a distanza di sicurezza, in un bosco che si affacciava sulla riva scoscesa della Sambre, senza per questo rinunciare a qualche sortita contro i cavalieri romani. Nel frattempo, deposti zaini, scudi e giavellotti, i legionari si misero a lavorare alacremente all’allestimento del campo. Poco più tardi, sia pure a passo di lumaca, arrivarono le salmerie. Ma era proprio questo il momento atteso dalle tribù belgiche, che si erano accordate per gettarsi all’assalto solo dopo l’arrivo dei bagagli romani. Ignorando che adesso si sarebbero trovati di fronte ben sei legioni, e non solo una, i nervi si scagliarono a decine di migliaia fuori dal bosco. Cesare avrebbe poi stimato in 60 000 il numero dei guerrieri affrontati sulla Sambre. Davanti a quella muraglia di uomini urlanti, la cavalleria romana, presa alla sprovvista, si sparpagliò in ogni direzione, e i nervi raggiunsero il fiume.
I belgi lo stavano già attraversando quando Cesare si rese conto della manovra. A quel punto, il condottiero impartì solo gli ordini strettamente necessari: fece alzare lo stendardo e suonare l’allarme. I legionari corsero a raggiungere le loro posizioni, mentre il condottiero galoppava verso gli uomini della Decima alla sua sinistra. Costoro abbandonarono gli attrezzi, afferrarono le armi e corsero a formare le coorti sotto la trincea che avevano appena iniziato a scavare. I loro scudi erano ancora coperti dalle fodere di cuoio; presi dalla fretta molti non ebbero il tempo di mettersi l’elmo, tantomeno il cimiero o le decorazioni.
«Uomini della Decima!» tuonò Cesare. «Vi chiedo di tenere fede alla vostra tradizione di coraggio. Tenete i nervi saldi, attaccate il nemico con audacia, e la vittoria sarà nostra!»
I legionari della Decima gridarono un evviva, scuotendo i giavellotti. Fiducioso che la sua unità preferita si sarebbe dimostrata all’altezza della situazione, Cesare rivolse un cenno a Labieno e partì al galoppo per organizzare le difese negli altri punti strategici.
La riva scoscesa, le siepi e l’attacco a sorpresa contribuirono a dividere l’esercito romano. La Decima e la Nona si trovarono separate dalle altre unità quando i guerrieri atrebati emersero dal guado e si avventarono lungo la riva contro di loro. Labieno attese con calma che si avvicinassero, poi diede ordine alla prima linea di lanciare i giavellotti. Una pioggia di dardi si abbatté sugli atrebati. Con il fiato mozzo, mentre molti dei loro compagni crollavano a terra morti o feriti, i barbari interruppero l’assalto.
Adesso fu il turno del comandante romano di ordinare l’attacco. Con le spade sguainate e Labieno in testa, i legionari della Decima e della Nona si precipitarono giù dalla collina e sbaragliarono il nemico. I barbari delle ultime file fecero dietrofront e corsero verso il fiume, inseguiti dai romani che li massacrarono mentre fuggivano in preda al panico. Presto la Sambre pullulò di corpi sanguinanti e mutilati. La Decima e la Nona incalzarono gli atrebati fino in cima alla scoscesa riva opposta, e poi ancora oltre, fino alle soglie del bosco da cui erano usciti per gettarsi all’attacco.
Sull’ala destra di Cesare, la Settima e la Dodicesima legione erano state quasi circondate dai nervi di Boduognato. Qui, il caos in cui versavano i romani – specie quelli della meno esperta Dodicesima, i cui centurioni erano stati in buona parte uccisi o feriti – rischiava di provocare una disfatta. La quarta coorte, che aveva subìto l’urto peggiore, non contava più alcun centurione, tantomeno il portabandiera. Quando Cesare giunse sulla scena, trovò gli uomini che si stringevano impauriti dietro le insegne. Il condottiero smontò da cavallo, afferrò lo scudo di un legionario delle ultime file, e avanzò verso il nemico urlando: «Avanti! Sparpagliatevi! Datevi spazio per combattere!».
Si rivolse per nome ai pochi centurioni superstiti, rincuorando loro e i loro sottoposti. Incoraggiati dall’arrivo del generale, gli uomini della Dodicesima si scossero e reagirono. Scorgendo là vicino la Settima ugualmente in difficoltà, Cesare chiamò a gran voce i tribuni di quella legione, ordinando loro di unirsi alla Dodicesima per formare un unico grande quadrato. Questa manovra riuscì ad arrestare lo slancio di Boduognato, ma Cesare e i suoi erano ancora circondati su tre lati da compatte falangi nemiche.
Intanto, sulla riva opposta, Labieno e le sue due legioni non solo avevano ricacciato gli atrebati nei boschi, ma ne avevano anche scoperto il campo, dove i belgi si erano attestati per giorni in attesa dell’arrivo della colonna romana. Dopo aver liquidato velocemente le poche sentinelle, Labieno occupò l’accampamento e si spinse fino alla cima del colle. Da lassù, gettando uno sguardo verso il fiume, si accorse di come la Settima e la Dodicesima si trovassero in difficoltà. Così, ordinò subito alla Decima di correre in aiuto di Cesare prima che i nervi ne sfondassero le linee.
Mentre i soldati della Decima attraversavano di nuovo il fiume, le due legioni di retroguardia – la Tredicesima e la Quattordicesima – si erano trincerate in cima all’altura. Da lassù, le reclute provenienti dall’Italia settentrionale videro che i belgi erano penetrati nell’accampamento in costruzione, e ora stavano saccheggiando le salmerie, mentre i cavalieri e gli ausiliari romani fuggivano per salvarsi. Videro anche che al piede della collina Cesare e le sue legioni erano nei guai. Vicine alla retroguardia romana c’erano le truppe a cavallo della tribù germanica dei treveri – Cesare avrebbe poi affermato che i cavalieri di quella tribù erano i migliori e i più numerosi di tutta la Gallia. Costoro si convinsero che la battaglia era perduta e si allontanarono al galoppo per poi raccontare, qualche giorno più tardi mentre rientravano nella loro capitale, Treviri sulla Mosella, che Cesare e il suo esercito erano stati sbaragliati dai nervi.
Intanto, sull’ala destra, Boduognato e i suoi uomini, disposti a ranghi serrati, avevano occhi solo per Cesare e le sue unità intrappolate. Non si accorsero del ritorno della Decima legione finché le sue prime coorti non piombarono su di loro a passo di carica. La Decima era in svantaggio numerico, eppure il suo arrivo mutò le sorti della battaglia. I legionari combatterono accanitamente per salvare Cesare, dimostrando – come in seguito scrisse Plutarco – un coraggio semplicemente sovrumano. Presi in contropiede dalla furia della Decima, i nervi dovettero arretrare verso il fiume; il che permise a Cesare di raccogliere la Settima e la Dodicesima e di condurle a riunirsi con la sua legione prediletta.
Al centro, l’Ottava e l’Undicesima riuscirono a fronteggiare l’attacco dei viromandui, respingendoli implacabilmente verso la Sambre. Una volta che i viromandui si diedero alla fuga, l’Ottava e l’Undicesima poterono ricongiungersi alle altre tre legioni e scagliarsi contro i nervi. Questi ultimi opposero una fiera resistenza, combattendo fra mucchi di cadaveri e rifiutando di arrendersi. Ma il prezzo che dovettero pagare fu altissimo. Caddero a migliaia, e altrettanti vennero fatti prigionieri dalla cavalleria romana che batteva la campagna. Solo in pochi riuscirono a salvarsi.
Cesare valutò che solo cinquecento nervi erano ancora in grado di portare le armi dopo la battaglia. Gli eventi successivi avrebbero dimostrato che si trattava di un’esagerazione, ma non c’è dubbio che quel giorno sulle rive della Sambre cadde il fiore della loro tribù. Quanto a Boduognato, di lui non si seppe più nulla. Con ogni probabilità, morì assieme ai suoi uomini. Tre consiglieri anziani dei nervi sopravvissuti alla battaglia – in origine il consiglio era formato da seicento membri – inviarono ambasciatori a Cesare per implorare la pace. Il condottiero la concesse, a condizioni clementi.
Intanto gli atuatuci, vicini belgici dei nervi, stavano accorrendo in loro aiuto quando furono raggiunti dalla notizia della disfatta sul fiume Sambre. Fecero dietrofront e si attestarono in una fortezza, probabilmente sul monte Falise. Cesare spedì il giovane generale Publio Crasso con la Settima legione, affinché impedisse alle tribù della costa atlantica francese di entrare in guerra, mentre lui stesso marciava contro gli atuatuci con la Decima e altre unità. Dopo un breve assedio, i barbari si arresero. Cesare ne vendette 53000 come schiavi. Coloni romani sarebbero presto arrivati dal Sud e si sarebbero sparsi per il territorio recentemente conquistato, rilevando le case e le fattorie delle tribù debellate.
Nello stesso periodo, lungo la costa, Crasso e la Settima costringevano sette tribù galliche alla resa. Quando ricevette i messaggi di Cesare che descrivevano le sue grandi vittorie in Gallia e in Belgio, il senato romano, convinto che avesse conquistato l’intero territorio gallico, gli dedicò quindici giorni di ringraziamento pubblico. Lo stesso condottiero, più tardi, si vantò del fatto che nessuno fino ad allora aveva ricevuto un simile onore. Ma la guerra in Gallia non era ancora finita.
Durante i tre anni che seguirono, Cesare spedì Crasso e la Settima a conquistare l’Aquitania, mentre lui stesso sbaragliava le tribù della Britannia, grazie soprattutto a una battaglia navale lungo la costa, in cui i suoi legionari si trasformarono in fanti di marina e assalirono con successo i legni avversari, affondandoli. Nell’inverno del 56-55 a.C. due tribù germaniche, gli usipeti e i tenteri, attraversarono il Reno all’altezza della sua foce in Olanda, e occuparono parte della Gallia settentrionale. Cesare, che svernava nel Nord Italia come al solito, si affrettò a risalire in Gallia per andare con le sue legioni a combattere contro i germani.
Dopo qualche sporadico scontro di cavalleria, i capi germani si recarono all’accampamento romano per discutere la pace, ma Cesare infranse tutte le regole comunemente accettate prendendoli prigionieri; un atto che gli attirò molte critiche. Plutarco racconta che Catone il Giovane, arringando il senato, descrisse tale tattica come «folle e dissennata», invitando a consegnare Cesare ai germani per la sua grave infrazione. Quanto al condottiero, nei suoi scritti non offre alcuna giustificazione plausibile. Si trattò semplicemente di uno stratagemma volto a permettergli di far avanzare le sue legioni verso il campo avversario, a otto miglia di distanza, e di sconfiggere gli invasori privi dei loro comandanti.
Molti germani furono uccisi; altri affogarono cercando di salvarsi a nuoto attraverso il Reno. Plutarco sostiene che in tutto ne morirono 300000. Per sgomentare ancora di più i nemici, Cesare fece costruire un ponte sul fiume, presso l’odierna città di Coblenza. Era largo quaranta piedi (più di dodici metri), e secondo le sue memorie ci vollero appena dieci giorni per terminarlo. Quindi attraversò il Reno e si mise a distruggere le città e le fattorie germaniche a est del fiume per i successivi diciotto giorni, prima di tornare indietro e demolire gran parte del ponte.
Finalmente, la Gallia era in pace. Ma era ancora estate. A ovest, oltre i porti del canale della Manica che i romani avevano conquistato sulla costa francese, c’era la più grande isola nota ai latini, la Britannia. Cesare aveva a disposizione gli uomini, il tempo e le navi: alcune fornite dai nuovi alleati gallici, altre catturate alle tribù bretoni l’anno precedente. Il condottiero mise dunque in cantiere un’ambiziosissima operazione anfibia.