11 LA BATTAGLIA DI FARSALO
Gaio Crastino si muoveva fra i suoi uomini, controllando il loro equipaggiamento. Non era più capo centurione della Decima. Il ruolo era andato a un centurione più giovane l’anno prima, all’atto del suo congedo. Ma allorché Cesare lo aveva richiamato nell’esercito, gli aveva conferito il prestigioso grado di centurione di primo rango, ponendolo a capo dei centoventi volontari della prima coorte della Decima, proprio in prima linea. Ancora una volta, il condottiero intendeva piazzare la sua legione prediletta all’estremità dell’ala destra, l’ala d’attacco per antonomasia. Molto sarebbe dipeso dalla Decima, oggi.
Crastino assicurò i compagni che restava solo quest’ultima battaglia da combattere. Di sicuro, da quando era rientrato in servizio, non gli era sfuggito un solo cambiamento nell’umore dei soldati. Molti si lamentavano che Cesare li stava trattando alla stessa stregua dei novellini italici. Inoltre, non aveva mantenuto la promessa di trasformare la Decima nella sua guardia del corpo, preferendole la cavalleria germana.
Ormai quasi vicino alla quarantina, Crastino aveva servito il condottiero per dodici dei suoi diciassette anni da legionario, e gli era fanaticamente fedele. Di certo avrà ricordato ai suoi compagni che Cesare aveva selezionato proprio la Decima per accompagnarlo nella prima ondata d’invasione, e che ora li aveva scelti per il posto d’onore sull’ala destra. Ma, in realtà, non pochi nella Decima simpatizzavano con i connazionali della Settima, Ottava e Nona, la cui data di congedo era scaduta ormai da diciotto mesi, senza che Cesare dicesse una sola parola su quando sarebbero potuti tornare a casa.
A ogni modo, Crastino deve aver insistito su un concetto importante: «Ricordate quel che Cesare ci garantì a Brindisi, poco prima che ci imbarcassimo: un’ultima campagna, un’ultima battaglia!». Il centurione di primo rango è citato anche nelle memorie del condottiero, secondo le quali Crastino disse ai commilitoni: «Dopo la giornata di oggi, Cesare riprenderà il sopravvento, e noi la nostra libertà».
Era metà mattina del 9 agosto del 48 a.C. Prendendo posto all’estrema sinistra del suo reparto di prima linea, Crastino contemplò i campi oscillanti di grano maturo e, poco oltre, l’armata di Pompeo Magno che si dispiegava a circa quattrocento metri di distanza. Da quando gli avversari erano giunti nella piana di Farsalo alcune settimane prima, i due schieramenti si erano messi vicendevolmente alla prova con qualche scaramuccia di cavalleria. Questi scontri avevano comportato alcune perdite, sia da una parte che dall’altra, compreso uno dei due fratelli allobrogi che si erano uniti a Pompeo. Cesare, dopo aver disposto le sue truppe in formazione di battaglia fra i campi di grano, aveva più volte incoraggiato il nemico a farsi sotto. Inutilmente. Ogni volta Pompeo restava fermo. E ogni volta Cesare si avvicinava un po’ di più alle colline.
Quella mattina, il condottiero aveva lasciato presto i suoi accampamenti. Secondo Plutarco, intendeva marciare verso Scotussa. Lo stesso Cesare ricorda che aveva deciso di muoversi continuamente, per cercare viveri e sfiancare l’avversario finché non si presentasse l’occasione più propizia per dargli battaglia. Mentre le tende venivano ripiegate e caricate sulle salmerie, il condottiero fu raggiunto da un gruppo di esploratori, che gli riferì di alcuni movimenti nel campo pompeiano. A quanto sembrava, le forze nemiche stavano scendendo dalle colline in formazione di combattimento. Questa notizia fu confermata poco più tardi da un altro manipolo di esploratori. Evidentemente, i pompeiani avevano deciso di rinunciare al vantaggio tattico offerto dal terreno più elevato. Era un chiaro invito rivolto a Cesare, che accettò.
Il condottiero, nei suoi scritti, sostiene di aver quindi osservato: «I nostri spiriti sono pronti. Un’occasione come questa non si ripresenterà tanto facilmente». Senza perdere tempo, ordinò di innalzare il suo vessillo scarlatto come segnale di battaglia, ingiungendo di far ruotare l’esercito in modo che si schierasse nella pianura di fronte all’armata di Pompeo. Secondo Appiano e Plutarco, Cesare gridò ai suoi: «Il giorno che aspettavamo è finalmente arrivato. Guerra, uomini, non fame e carestia!».
Dopo aver convocato gli ufficiali anziani per un breve scambio di idee, il condottiero adottò uno schema che aveva utilizzato altre volte. Rivolgendosi al generale Publio Silla, che comandava i reparti dell’ala destra, gli disse di cercare i volontari della Decima per formare la prima linea e guidare la carica, conscio che le legioni dei novellini, piazzate al centro, sarebbero state ispirate dall’esempio della sua unità prediletta.
I centoventi uomini della prima coorte della Decima si presentarono subito. Naturalmente, tra loro c’era Gaio Crastino. L’Undicesima e la Dodicesima legione si schierarono a completamento dell’ala destra. Silla aveva già preso posizione, sempre sul fianco destro, con il suo stato maggiore.
Il centro di Cesare era guidato dal generale Domizio Calvino, che aveva comandato l’avanguardia delle forze d’invasione in Grecia orientale. Come d’uso, le truppe meno esperte prendevano posto proprio nel settore mediano. In questo caso, si trattava di tre delle nuove legioni arruolate in Italia l’anno precedente: la Venticinquesima, la Ventiseiesima e la Ventinovesima.
L’ala sinistra era agli ordini di Marco Antonio, di nuovo vicecomandante, forte delle collaudatissime legioni ispaniche che aveva traghettato in Grecia e condotto a Dyrrhachium. La Nona si trovava sulla punta estrema dell’ala, con gli ausiliari e i frombolieri che coprivano il lato verso il fiume Enipeo. L’Ottava era schierata vicino alla Nona. Entrambe le legioni erano state così indebolite dall’epidemia di influenza e dagli scontri sostenuti a Dyrrhachium, che Cesare si era risolto ad accorparle temporaneamente. Accanto alle due unità avevano trovato posto gli uomini della Settima, quasi a ridosso del settore mediano. A conti fatti, escludendo le due coorti di guardia al campo e alle salmerie – visto che la Ventisettesima e la Ventottesima si trovavano ancora distaccate nella Grecia del Sud al comando di Fufio, mentre altre otto coorti miste presidiavano tre città sulla costa ovest –, Cesare aveva portato in battaglia nove legioni suddivise in ottanta coorti, per un totale di 21000 fanti.
Per contrastare la cavalleria di Pompeo che si ammassava alla sua destra, il condottiero aveva piazzato in avanguardia i suoi mille cavalieri germani e galli, con i reparti ausiliari in funzione d’appoggio. Entrambi avevano già combattuto insieme contro la cavalleria pompeiana con buoni risultati, e Cesare sperava che si dimostrassero all’altezza anche oggi, in modo da poter attenuare la forte superiorità numerica dei cavalieri nemici.
Secondo le stime del condottiero, davanti a lui si erano schierati 40000 fanti e 7000 soldati a cavallo. Quella mattina, prima di abbandonare i rilievi collinari in favore della pianura, Pompeo aveva lasciato sette coorti (scorporate dalle legioni meno esperte) a guardia del suo campo, insieme a reparti di ausiliari traci e tessali. A suo tempo, il generale Afranio, che era fuggito dalla Spagna per unirsi alle forze lealiste, era stato severamente redarguito dai colleghi per aver perso sette legioni nella penisola iberica, nonostante avesse portato in Grecia 35000 soldati della Quarta e della Sesta. Forse fu anche per questo che a Farsalo si ritrovò a comandare, piuttosto modestamente, la difesa del campo con il quasi venticinquenne figlio maggiore di Pompeo, Gneo.
È probabile che il giovane Gneo non facesse salti di gioia all’idea di restare negli accampamenti, in compagnia di truppe di seconda scelta e migliaia di ausiliari. In fondo, aveva già dato buona prova di sé quell’inverno, comandando la flotta che dall’Egitto aveva distrutto i rifornimenti di Cesare lungo la costa adriatica. Con ogni probabilità, tuttavia, Pompeo intendeva proteggere l’erede di famiglia: un indizio, secondo alcuni, dei dubbi che ancora lo attanagliavano. Il suo stato maggiore, due giorni prima, lo aveva convinto a scendere in azione, eppure la sua scarsa fiducia nei riguardi della fanteria non era venuta meno.
Secondo Plutarco e Appiano, Pompeo era stato svegliato da un inconsueto clamore nel campo alle prime ore del mattino: prima dell’ultimo cambio di guardia, le sentinelle avevano visto una meteora dalla scia luminosa attraversare il cielo, proveniente dalla direzione dell’esercito di Cesare, e sparire dietro le colline alle spalle dei loro accampamenti. Una volta in piedi, Pompeo aveva confidato al suo stato maggiore di aver sognato che adornava il tempio di Venere vittoriosa a Roma. La famiglia di Cesare si vantava di discendere proprio dalla dea, perciò gli ufficiali di Pompeo si erano rallegrati di questo sogno, certamente foriero di vittoria. Ma il loro comandante non ne era poi così certo, visto che l’interpretazione di quell’esperienza onirica poteva tranquillamente essere ribaltata a favore del nemico.
All’insaputa di Pompeo, la sera prima Cesare aveva dato come parola d’ordine per il 9 agosto la frase «Venere, portatrice di vittoria», ancora ignaro del fatto che Pompeo avrebbe scelto di combattere proprio quel giorno.
Negli accampamenti romani, la parola d’ordine cambiava quotidianamente. Polibio riferisce che il comandante la decideva al tramonto per le successive ventiquattr’ore. Il tribuno della guardia la comunicava su tavolette cerate ai sergenti, che a loro volta la passavano alle sentinelle, con un sistema minuziosamente pianificato che richiedeva l’immediata restituzione delle tavolette. Chiunque avesse tentato di accedere a un campo legionario senza conoscere la parola d’ordine, si sarebbe ritrovato in grossi guai.
In battaglia, e specie nelle guerre civili dell’antichità, con eserciti armati ed equipaggiati allo stesso modo, e dove gli scontri notturni erano tutt’altro che infrequenti, non era raro il caso che fosse soltanto la parola d’ordine a permettere di riconoscere i propri compagni. Talvolta, addirittura, la parola d’ordine veniva cambiata pochissimo tempo prima di scendere in azione, per timore che i disertori potessero averla divulgata al nemico durante la notte.
In generale, la parola d’ordine poteva consistere in un unico vocabolo oppure in una frase. In epoca postrepubblicana, era sempre l’imperatore a comunicarla ai pretoriani (se si trovava a Roma) o al campo legionario (se si trovava con l’esercito). Claudio, per esempio, usava spesso versi tratti da poemi epici. Nerone escogitò la famosa parola d’ordine: «La migliore delle madri», in onore della madre che poi avrebbe fatto assassinare. Dione e Svetonio riportano che Caligola prendeva in giro un tribuno del pretorio particolarmente virile. Costui detestava i giorni in cui doveva presentarsi all’imperatore per chiedergli la parola d’ordine. Caligola, infatti, gli dava della femminuccia e gli affidava parole d’ordine quali «Amore» e «Venere» (la dea dell’amore, appunto). Dione riporta anche che nel 180 d.C., la notte prima di morire, Marco Aurelio diede come parola d’ordine per il giorno successivo la frase: «Vai verso il sole nascente, io sto già tramontando».
L’8 agosto del 48 a.C., Pompeo Magno, sapendo che il nuovo giorno avrebbe portato la battaglia che aveva evitato così a lungo, diede «Ercole Invitto» come parola d’ordine per il 9. Alla stregua del potente Ercole, anche lui non era mai stato sconfitto in combattimento, e sperava che questa tradizione non si interrompesse.
Ora che il giorno era arrivato, Pompeo, nonostante i dubbi che continuavano ad assillarlo, schierò le sue truppe con grande cura. Guidati dai centurioni, gli uomini della sua legione d’élite, la Prima, occuparono le loro posizioni come prima unità di fanteria pesante dell’ala sinistra. Simili in questo alla guardia imperiale di Napoleone 1860 anni più tardi, si consideravano la punta di diamante dell’intero esercito. Eppure, come Pompeo ben sapeva, la maggior parte di loro non aveva mai preso parte a uno scontro campale.
Vicino alla Prima legione era schierata l’ex Quindicesima di Cesare. Erano uomini con sei anni di esperienza, quattro dei quali trascorsi al servizio del condottiero in Gallia, e probabilmente costituivano le truppe più esperte del fronte pompeiano. Da quando il senato l’aveva assegnata a Pompeo due anni prima, la legione lo aveva servito fedelmente, al punto che adesso Cesare si rifiutava perfino di chiamarla ancora Quindicesima. Un po’ meschinamente, il condottiero si riferiva a essa come alla Terza, perché, sembra, proveniva dalla stessa zona della Gallia cisalpina della Terza, una delle legioni che Cesare aveva catturato in Spagna e poi disciolto. Ma nel suo intimo Pompeo deve essersi chiesto se, al momento del bisogno, avrebbe potuto fidarsi della Quindicesima, e se la sua antica vicinanza con Cesare non l’avrebbe condizionata nel corso dei combattimenti.
Vicino alla Quindicesima c’erano due delle nuove legioni reclutate da Pompeo in Italia l’anno precedente. Questi reparti, composti soprattutto da adolescenti, erano agli ordini di Domizio Enobarbo; lo stesso Domizio che aveva perso a Corfinium e a Massilia. Nondimeno, Pompeo era solito rispettare il rango, e Domizio sopravanzava di grado quasi tutti i suoi colleghi. Ecco perché Pompeo lo aveva confermato al comando nonostante i suoi trascorsi non particolarmente brillanti.
Il suocero di Pompeo, Scipione, comandava il centro con le sue due legioni italiche, arruolate cinque anni prima. Si trattava dei sopravvissuti di Carre, reduci da un periodo di servizio in Siria. Accanto a loro c’era un terzo dei «novellini» italici che erano fuggiti da Brindisi con la Prima e la Quindicesima.
Al comando della divisione sull’ala destra pompeiana si trovava il generale Lucio Lentulo, console l’anno prima e da lungo tempo risoluto oppositore di Cesare. Pompeo aveva schierato alcuni reparti di ausiliari e seicento frombolieri sul lato che guardava l’Enipeo. Le rive del fiume erano ripide come piccole scogliere, e non potevano essere scalate né da fanti né da cavalieri; di conseguenza, non sembrava necessario presidiarle con reparti di valore. I veterani delle sette coorti ispaniche della Quarta e della Sesta, fuggiti dalla Spagna per riunirsi a Pompeo, tenevano l’ala destra, ciascuno dietro il suo stendardo legionario ma in stretta collaborazione reciproca. Avrebbero dovuto combattere contro i connazionali dell’Ottava e della Nona, agli ordini di Antonio. Anche queste due unità erano state accorpate per mancanza di numero.
Le coorti ispaniche erano affiancate dalla Gemina, ovvero dalla legione «gemella», come l’aveva chiamata Pompeo dopo aver raggruppato le due legioni reclutate da Cicerone nel 51 a.C. Tali unità avevano servito in Cilicia, allorché Cicerone era diventato proconsole della provincia per un anno, dopodiché erano rimaste in quella zona dopo il suo ritorno a Roma nel 50 a.C. Tra la Gemina e le truppe di Scipione erano schierati i 7500 uomini della Ventiquattresima e della Ventottesima, ex legioni italiche di Gaio Antonio che erano passate a Pompeo col centurione Puleio e si erano comportate valorosamente a Dyrrhachium. Cesare, ferito da questa defezione, non si sarebbe mai riferito a loro per nome, chiamandole semplicemente «le vecchie truppe di Gaio Antonio».
Pompeo aveva richiamato altri duemila uomini, veterani in congedo che si erano stabiliti in Macedonia e sull’isola di Creta. Dapprima aveva valutato di inquadrarli in una nuova legione, ma poi si era reso conto che non erano più ragazzi, e che le loro doti marziali non erano più quelle di una volta. Di conseguenza, si era limitato a distribuirli fra le coorti delle varie unità.
Sulla carta, Pompeo disponeva di 12 legioni costituite da 110 coorti. Cesare, tuttavia, ne temeva solo alcune: la Prima, la Quindicesima, le coorti ispaniche della Quarta e della Sesta, forse la Gemina e le due legioni italiche che Scipione aveva portato dalla Siria. Quanto a Pompeo, a dispetto del suo imponente schieramento legionario, assegnava tutte le possibilità di successo esclusivamente alla cavalleria. Aveva confidato ai suoi ufficiali che questa gli avrebbe dato la vittoria ancora prima che i fanti dei due schieramenti arrivassero a contatto. Perché era proprio questo che voleva evitare, conscio della superiorità qualitativa della fanteria cesariana. E così, aveva disposto tutti i suoi 7000 cavalieri sull’ala sinistra, pronti alla manovra tattica che aveva in mente per loro.
Mentre Pompeo con il suo stato maggiore si preparava a prendere posizione dietro la Prima e la Quindicesima, Labieno raggiunse al trotto i contingenti di cavalleria sul fianco sinistro. Non si stupì di vedere la Decima legione allineata alla destra di Cesare, proprio di fronte a lui, e forse avrà persino pensato che il suo ex comandante stava diventando abitudinario. Ma non avrebbe preso la Decima alla leggera, dato che conosceva la sua altissima reputazione. Del resto, l’aveva personalmente guidata in Gallia, e sapeva benissimo di cosa fosse capace. Chi poteva dimenticare il giorno in cui l’aveva spedita attraverso il fiume Sambre per salvare Cesare dai nervi? E oggi, a Farsalo, sarebbe bastato metterla in crisi, per gettare nel panico l’intero fronte cesariano. Non a caso, secondo Plutarco, la cavalleria di Labieno aveva ricevuto una consegna molto chiara: tagliare fuori la Decima dal resto del suo esercito, e annientarla.
Dietro Labieno, inquadrati in file serrate, uomini e animali scalpitavano. I 2700 cavalieri galli e germanici dalle lunghe chiome formavano la spina dorsale della forza d’attacco. Altri 500 cavalieri italici erano arrivati per mare dall’Egitto assieme a Gneo Pompeo. Laggiù, avevano servito come guardie del corpo di re Tolomeo XIII e di sua sorella Cleopatra. Il re Deiotaro di Galazia aveva concesso a Pompeo seicento cavalieri. Gli altri provenivano da alcuni potentati dell’Oriente, ma la loro affidabilità era ancora tutta da verificare. A ogni modo, era proprio su queste truppe a cavallo che gravava la responsabilità della vittoria.
Come d’abitudine, Cesare prese posto all’ala destra, tradizionalmente il punto più pericoloso di ogni battaglia, il luogo dove si decidevano le sorti dello scontro. Raggiungendo la sua posizione, notò la cavalleria nemica che si disponeva dall’altra parte. Oltre le truppe a cavallo, scorse lo stesso Pompeo, accompagnato da seicento frombolieri e 3000 arcieri ausiliari, provenienti dagli stati orientali che si erano schierati al suo fianco. Forse il colonnello Pollione lo avvertì che Pompeo intendeva aggirarlo sul lato destro, ma Cesare lo aveva intuito, e stava già adottando le opportune contromisure.
«Prendete una coorte da ciascuna delle legioni della terza linea», ordinò. «Con queste formate una quarta linea dietro la Decima. Poi, quando vi darò l’ordine, gettatevi all’attacco della cavalleria nemica». Il condottiero illustrò la tattica che la quarta linea avrebbe dovuto adottare, quindi concluse affermando che la vittoria dipendeva dal valore di quegli uomini.
Ignoriamo quanti soldati furono presi dalla terza linea per formare la quarta. Dalle memorie di Cesare, sembra che nella manovra fossero coinvolte nove coorti, una da ogni legione. Plutarco parla di sei coorti, e sia lui che Appiano riferiscono un totale di 3000 uomini; ma ai loro tempi sei coorti a ranghi completi contavano appunto quasi 3000 effettivi – 2880, per la precisione –, e nessuna delle unità di Cesare si avvicinava minimamente a quel numero. Forse si trattava di 2000 legionari in tutto. Secondo Appiano, a costoro fu ordinato di stendersi a terra per non farsi vedere, proprio come avrebbe fatto il duca di Wellington nella battaglia di Waterloo del 1815, intimando alla sua guardia di giacere dietro un’altura e di aspettare il suo segnale prima di andare all’assalto delle truppe napoleoniche.
A quel punto, Crastino, che se ne stava con i suoi commilitoni in prima linea, sentì una voce ben nota che lo chiamava per nome.
«Che speranze abbiamo di farcela, Crastino? Che speranze mi dai?»
Sono alcune fonti classiche, incluse le memorie dello stesso Cesare, a riportarci questo episodio. Il centurione si volse di scatto, vedendo il condottiero che gli si avvicinava a cavallo con il suo stato maggiore. «La vittoria sarà tua», rispose. Secondo Plutarco, alzò il braccio destro in segno di saluto, aggiungendo: «Oggi conquisterai la gloria!».
Cesare avrà sorriso alle parole del centurione, e avrà augurato buona fortuna a lui e ai suoi soldati, prima di spronare il cavallo e allontanarsi al galoppo. Del resto, sappiamo dai suoi scritti come fosse abituato a trattenersi sulla prima linea per arringare i soldati. Erano discorsi brevi, che ribadivano insistentemente gli stessi concetti, ponevano l’accento sul passato glorioso di ogni singola legione al suo servizio, e terminavano con una formula ricorrente: «Miei soldati, mi appello a ognuno di voi perché siate testimoni di quante volte ho cercato la pace». A Farsalo, tale formula fu adattata alle circostanze, visto che il condottiero elencò tutti i tentativi falliti di raggiungere un compromesso con Pompeo, per poi concludere con questa affermazione: «Non ho mai voluto esporre le mie truppe a un inutile spargimento di sangue, tantomeno ho mai voluto privare la repubblica del mio esercito, o di quello che ci fronteggia dall’altra parte del campo. Ciò nonostante, non mi hanno lasciato scelta».
Terminata la sua arringa, Cesare impartì gli ordini di battaglia. Le prime due linee dovevano lanciarsi alla carica al suo segnale. La terza doveva attendere che lo stendardo del generale fosse abbassato due volte. I legionari della prima linea dovevano scagliare i giavellotti appena il nemico fosse stato a tiro, quindi estrarre le spade e avventarsi contro l’avversario. Ogni volta che scandiva un ordine, i legionari a portata d’orecchio rispondevano con un ruggito di approvazione.
Dall’altra parte del campo, Pompeo si comportava allo stesso modo con le sue truppe, esortandole, incoraggiandole, ripetendo le stesse parole reparto dopo reparto. Durante il consiglio di guerra di due giorni prima, aveva dichiarato che la battaglia decisiva era ormai alle porte, e che tutto sarebbe dipeso dal valore di ogni singolo uomo. Adesso, secondo Appiano, disse ai soldati: «Combattiamo nel nome della libertà, della patria, delle nostre istituzioni repubblicane, di tanti componenti dell’ordine equestre e senatorio, e dei nostri insigni trascorsi. Il nostro nemico è un singolo uomo che vuole impossessarsi di tutto il potere». Dopodiché ricordò il trionfo di Dyrrhachium, riscuotendo un’ovazione che squarciò l’aria di quella mattina d’estate.
Intanto, mentre tornava alla sua posizione sull’ala destra dello schieramento, Cesare passò ancora una volta davanti a Gaio Crastino. «Generale!», lo richiamò il centurione. «Oggi mi meriterò la tua gratitudine, o da vivo o da morto.»
Cesare rispose con un cenno della mano e andò oltre. Forse ripensò al sacrificio religioso che era stato celebrato poco tempo addietro, allorché il sacerdote lo aveva informato che le interiora della prima capra immolata indicavano che entro tre giorni la guerra sarebbe giunta a una svolta decisiva. Quindi, aveva aggiunto l’officiante, se adesso il condottiero riteneva di trovarsi in una posizione favorevole, avrebbe potuto aspettarsi il peggio; viceversa, se ora si sentiva in svantaggio, avrebbe potuto sperare in un rovesciamento della sorte.
Con il ritorno del comandante supremo dietro la sua unità, Crastino avrà rivolto lo sguardo ai nemici che aveva di fronte, i soldati della Prima legione, provenienti dalla Gallia cisalpina. E si sarà consolato del fatto che la Decima non si sarebbe scontrata direttamente con la Quarta o la Sesta. Non gli sarebbe piaciuto ammazzare altri ispanici. Invece con i galli non c’era problema: ai suoi tempi ne aveva già uccisi parecchi, e avrebbe continuato a farlo volentieri, anche se costoro possedevano la cittadinanza romana.
Mai prima di allora tante truppe di Roma si erano fronteggiate su un singolo campo di battaglia. Mai prima di allora due grandi condottieri romani si erano combattuti con tale ostinazione. Pompeo, cinquantasettenne, conquistatore dell’Oriente, personalità di primo piano da quando non aveva ancora trent’anni, multimilionario, eccellente organizzatore di eserciti, grande stratega. Giulio Cesare, conquistatore dell’Occidente, l’uomo che aveva celebrato il suo cinquantaduesimo compleanno tre settimane prima, in un mese destinato a prendere il suo nome; il generale che non si era mai distinto particolarmente prima dei quarant’anni, tattico provetto, genio dell’ingegneria, comandante brillante, alla mano, fortunato, con un esercito meno numeroso rispetto a quello avversario, ma assai più esperto.
Più tardi, Plutarco si lamentò che queste due personalità eccezionali avrebbero potuto unire i loro settantamila uomini e sottomettere la Partia, l’antica rivale di Roma, per poi marciare trionfalmente fino all’India. E invece, ecco che si preparavano a distruggersi a vicenda.
Forse a Crastino venne in mente che magari aveva conosciuto qualche collega della Prima legione; che magari aveva bevuto e giocato a dadi con lui. Forse osservò i centurioni della Prima mentre istruivano animatamente i loro uomini, impartendo ordini e dando consigli. Del resto, erano facili da riconoscere, con i loro cimieri posti di traverso sugli elmi; un dettaglio che li rendeva immediatamente identificabili. I centurioni erano la chiave del successo in battaglia. Crastino e Cesare lo sapevano entrambi. I sei tribuni della Decima si erano schierati sul retro, tra le file. Membri dell’ordine equestre, giovani, ricchi e viziati. Ben pochi di loro meritavano il rispetto dei soldati. C’era per esempio quel tribuno, Gaio Avieno. Costui non aveva fatto altro che lamentarsi da quando erano salpati da Brindisi. E perché? Perché Cesare non gli aveva permesso di portarsi dietro tutti gli schiavi.
A Farsalo, la battaglia sarebbe stata decisa dai centurioni e dai legionari, cioè dai soldati semplici e dai loro ufficiali, e Crastino, come aveva già annunciato a Cesare, avrebbe fatto la sua parte con onore. A poco meno di cinquecento metri di distanza, i soldati della Prima legione forse lo seguivano con lo sguardo, meditando di trasformare il suo elmo crestato in un trofeo di guerra. Il soldato che lo avesse portato al suo tribuno dopo la battaglia, preferibilmente con la testa di Crastino ancora dentro, avrebbe potuto aspettarsi un premio di tutto rispetto. Senza dubbio avevano l’aria fiera, i centurioni della Prima. Chissà, magari si ritenevano speciali, i favoriti di Pompeo. Bene, si disse Crastino, se ne sarebbe riparlato tra qualche ora.
Intorno al centurione gli uomini stavano diventando impazienti, sentendosi nelle ossa che oggi non sarebbe stato come le altre volte, quando, dopo essere rimasti schierati per ore nella vana attesa che il nemico si facesse sotto, erano tornati ai propri accampamenti sul far della sera. Quella mattina era come se l’aria vibrasse. La tensione si tagliava con il coltello.
All’improvviso, le trombe squillarono. Molti dei soldati pompeiani non riuscivano più a dominare il nervosismo, mentre i centurioni delle unità più recenti faticavano a tenere inquadrati i ranghi. E così, Pompeo decise di rompere gli indugi. Fino a un momento prima, migliaia di cavalli ammassati sull’ala sinistra del suo schieramento aspettavano inquieti, nitrendo, sgroppando, scavando con gli zoccoli. Ora, in mezzo a una cacofonia di urla guerresche, i cavalieri diedero di sprone. Entro pochi secondi, 7000 soldati a cavallo si avventarono contro il nemico.
Alle spalle di Crastino, le trombe di Cesare risposero a quelle di Pompeo. La cavalleria gallo-germana del condottiero si mosse in avanti, risoluta a intercettare la carica pompeiana. Per stare al passo, gli ausiliari della fanteria leggera si misero a correre. La battaglia di Farsalo era iniziata.
Dalla parte di Pompeo, i suoi 3600 arcieri e frombolieri emersero dalle file e si allinearono in campo aperto, dietro la cavalleria che caricava. A un ordine, gli arcieri scoccarono una miriade di frecce, che guizzarono sopra le teste dei cavalieri al galoppo, e colpirono la cavalleria cesariana che giungeva all’attacco.
La fanteria di entrambi gli schieramenti rimase ferma dov’era, disposta in ordine di battaglia. I fanti fissavano affascinati lo scontro di cavalleria a est. Era lo stesso Labieno a guidare la carica pompeiana, urlando ordini e facendo a pezzi qualunque nemico osasse avvicinarglisi.
Per un po’ la cavalleria cesariana riuscì a resistere, ma vedendo i compagni cadere uno dopo l’altro, cominciò a cedere. Durante i primi minuti dello scontro, rimasero sul campo, morti o feriti, almeno duecento dei suoi effettivi. A questo punto, Labieno si disse che era arrivato il momento di applicare la manovra progettata da Pompeo. Lasciando la cavalleria alleata a fronteggiare i cesariani (forse sotto il comando di Marco Petreio), condusse i suoi uomini intorno al perimetro del campo di battaglia, per scagliarsi contro il fianco esposto dello schieramento nemico e la retroguardia della Decima legione.
Gli ausiliari di Cesare si sparpagliarono al sopraggiungere della cavalleria di Labieno, e gli uomini della Decima, sull’estrema destra, furono costretti a voltarsi e ad affrontare la carica avversaria. Mentre Labieno, dopo aver ordinato ad altri squadroni di girare intorno alla Decima, si stava avvicinando sempre più alla terza linea, Cesare urlò un comando.
Le trombe squillarono, e le coorti della quarta linea si levarono in piedi all’improvviso, lanciandosi in avanti con i loro stendardi, avventandosi sui cavalieri nemici prima che questi potessero rendersi conto di cosa stava succedendo. Le coorti della quarta linea avevano ricevuto specifiche istruzioni di non scagliare i giavellotti, ma di usarli come lance, spingendole con il braccio alzato contro le facce dei cavalieri. Secondo Plutarco, Cesare aveva profetizzato in proposito: «Quei damerini non sopporteranno il lampo dell’acciaio davanti agli occhi. Scapperanno per salvare i loro bei visetti.»
Il condottiero aveva visto giusto. I giavellotti riconvertiti in lance cominciarono a fare strage dei galli e dei germani di Labieno, infliggendo loro orribili ferite al viso, facendoli cadere da cavallo, infilzandoli una volta a terra. La cavalleria pompeiana si fermò di colpo, premuta fra la retroguardia della Decima e le coorti della quarta linea. Circondati, sbigottiti, disorientati, gli aggressori si fecero massacrare senza quasi opporre resistenza.
Almeno un migliaio dei cavalieri di Labieno, tra i più esperti, rimase sul campo. Tra i ranghi pompeiani si scatenò il panico, che si diffuse rapidamente ai contingenti alleati alle loro spalle. Assistendo al massacro dei robusti germani dalle lunghe chiome che cadevano come birilli o indietreggiavano cercando di proteggersi il viso dai giavellotti, la cavalleria alleata si sganciò da quella nemica, fece dietrofront e abbandonò il campo di battaglia, fuggendo terrorizzata verso le colline.
La rotta dei reparti alleati consentì alla cavalleria di Cesare di unirsi alle coorti della quarta linea contro gli uomini di Labieno. Costoro non ressero all’urto. Ben presto, malgrado tutti i tentativi del generale di trattenerli, anche loro presero a fuggire su per i colli. Labieno non poté fare altro che seguirli, sperando di riorganizzarli più tardi.
Mentre la cavalleria cesariana rincorreva Labieno fino alle colline, il fianco sinistro di Pompeo rimase fatalmente esposto. Urlando di gioia, le coorti cesariane si scagliarono contro gli arcieri e i frombolieri nemici, ormai privi della protezione della cavalleria. I frombolieri erano armati solo di fionde. Al contrario, gli arcieri – gente di Creta, del Ponto, della Siria e di altre regioni orientali – erano provvisti anche di spada. Tuttavia non potevano competere nel corpo a corpo con i legionari, la cui specialità era proprio il combattimento a distanza ravvicinata. I frombolieri fuggirono. Gli arcieri cercarono di resistere, ma furono falciati come fieno.
A questo punto, Cesare diramò un altro ordine. Il suo stendardo scarlatto si inclinò. Le trombe della prima e della seconda linea suonarono la carica.
Nella primissima fila, a destra rispetto a Cesare, il centurione Crastino sollevò la mano destra afferrando un giavellotto, poi disse tuonando (è lo stesso Cesare a riferirlo): «Andiamo, uomini della coorte, seguitemi! Servite il vostro generale come promesso!».
Crastino si lanciò in avanti. Dietro di lui, tutta la prima linea cesariana si buttò all’attacco al grido di battaglia, tenendo sollevati i giavellotti in attesa dell’ordine di scagliarli.
Dall’altra parte, con grande sorpresa di Crastino e dei suoi, la prima linea di Pompeo non si mosse. Infatti, aveva ricevuto l’ordine di stare ferma e affrontare l’assalto della fanteria, anziché scattare a sua volta e partire all’attacco. Secondo Cesare, questa tattica era stata suggerita a Pompeo da Gaio Triario, uno dei suoi comandanti di marina. Pompeo, che si fidava poco della fanteria ed era ansioso di offrirle un vantaggio, si era aggrappato a quest’idea, che avrebbe costretto i cesariani a correre due volte più rapidamente e ad arrivare sfiancati al cospetto del nemico.
In seguito, Cesare ebbe solo parole di disprezzo per questa tattica. Al riguardo, il condottiero osservò che una buona carica eccita gli uomini al punto giusto, e che i generali dovrebbero sempre incoraggiarla, non reprimerla. In realtà, lo stratagemma «statico» di Pompeo aveva un senso, perché i suoi fanti avrebbero opposto una solida barriera di scudi ai soldati nemici, stanchi per la corsa e per di più sparpagliati sul terreno, dato che avevano rotto la formazione per gettarsi all’assalto. O meglio, simile stratagemma avrebbe funzionato contro truppe inesperte; il che non era proprio il caso della Decima legione. Difatti, nel bel mezzo della corsa, Crastino e i suoi pari grado ordinarono alle coorti di fermarsi. L’intera carica si interruppe. Per circa un minuto, i cesariani si concessero una pausa nel campo di grano, ripresero fiato, e poi, guidati da Crastino, ripartirono all’attacco con un ruggito.
Mentre stavano ancora correndo, scagliarono i giavellotti. Quasi contemporaneamente, i centurioni di Pompeo ordinarono: «Lanciare!». Gli uomini della prima fila pompeiana obbedirono, e lanciarono i loro giavellotti, tenendo alti gli scudi per difendersi da quelli nemici. Subito dopo, parecchi di loro, con gli scudi appesantiti dai giavellotti cesariani, li abbassarono di nuovo per formare una barriera contro la carica imminente. Con uno schianto, la fanteria di Cesare si abbatté contro quel muro, ma nonostante l’impatto i pompeiani ressero.
I legionari di Cesare, ormai faccia a faccia con il nemico, cercarono di aprirsi la strada a colpi di spada. Sull’ala destra del condottiero, Crastino si spostava da una coorte all’altra. Mentre i suoi uomini tentavano di sfondare la barriera dell’irriducibile Prima legione, il centurione li esortava ad alta voce, arrivando addirittura a sovrastare il frastuono della battaglia. A un certo punto, Crastino si avventò contro il muro pompeiano, mostrando come alzare il braccio per raggiungere la faccia del nemico al di sopra del suo scudo. Mentre dava questa dimostrazione, un colpo inatteso lo raggiunse alla tempia. Le sue forze vennero meno, e cadde in ginocchio. La testa prese a girargli. Stordito, continuò a incitare i suoi uomini.
Fu in quel momento che un soldato della Prima legione, proprio davanti a lui, spostò lo scudo a sinistra di quindici centimetri, aprendo una fessura attraverso la quale fece saettare la sua spada, che si infilò nella bocca aperta del centurione. Secondo Plutarco, la lama uscì addirittura dal retro del collo. Il soldato della Prima ritirò la spada insanguinata e richiuse lo spazio fra gli scudi. Fu un attimo. Senza dubbio, la rude esultanza degli uomini della Prima lì vicino accompagnò Crastino mentre rovinava sullo scudo di fronte a lui, per poi scivolare a terra.
La prima linea sembrava essere entrata in stallo. Nessuno faceva progressi. Ma le coorti sulla destra di Cesare, entusiaste della vittoria contro i frombolieri e gli arcieri pompeiani, stavano aggirando la retroguardia della Prima legione.
Pompeo aveva visto la carica della sua cavalleria neutralizzata in un attimo, e i cavalieri da cui dipendeva per la vittoria abbandonare il campo. Ora anche la Prima sembrava in difficoltà. Se crollava lei, crollava tutto. Senza una parola, girò il cavallo e tornò al galoppo verso il campo sulle colline. Una manciata dei suoi ufficiali lo seguì.
Plutarco racconta che quando Pompeo raggiunse la porta pretoria, pallido e sgomento, ordinò ai centurioni in carica: «Difendete il campo strenuamente se le cose dovessero mettersi male in battaglia. Vado a controllare le altre porte».
Invece di fare quel che aveva annunciato, si affrettò verso la sua tenda, e lì rimase. Non aveva voluto questo scontro campale, sospettando come sarebbe finito, specie se le fanterie dei due schieramenti fossero venute a contatto. Ma aspettarsi qualcosa e vederlo mentre si realizza davvero, sono due faccende diverse. Nella sua più che trentennale carriera militare, Pompeo Magno non era mai stato battuto. E probabilmente neanche una volta si era messo nei panni di coloro che aveva sconfitto, né sapeva cosa significasse perdere. Per questo faceva fatica ad accettare il suo fallimento.
Gli uomini della Prima, che ora combattevano su tre lati ed erano in inferiorità numerica, correvano il rischio di essere circondati e massacrati. Né c’erano ordini da Pompeo, visto che Pompeo sembrava sparito. Non arrivavano ordini neppure dal comandante di divisione, l’inutile Domizio. Pompeo non aveva accantonato alcuna riserva strategica da gettare in aiuto alla Prima se ce ne fosse stato bisogno. Senza speranze di soccorso, e lottando per la propria sopravvivenza, gli ufficiali della Prima decisero per una ritirata graduale, in ordine di battaglia. Si urlarono comandi, le trombe squillarono, gli stendardi furono inclinati all’indietro. Con l’orgoglio e la disciplina intatti, la Prima legione si ritirò passo dopo passo in perfetto ordine, inseguita dalla Decima e dalle coorti della quarta linea cesariana.
Anche la Quindicesima seguì l’esempio della Prima. Sull’ala destra, il generale Lentulo, assistendo alla ritirata dell’ala sinistra e alla rotta degli arcieri e dei frombolieri, ordinò ai suoi legionari di retrocedere ordinatamente, perché ogni resistenza avrebbe messo in pericolo il settore mediano, che, cedendo, avrebbe spinto l’ala destra contro il fiume Enipeo. Come i colleghi della Prima, i veterani ispanici della Quarta e della Sesta indietreggiarono mantenendo la formazione, pressati dai connazionali cesariani dell’Ottava e della Nona. Ma al centro, i giovani delle tre nuove legioni italiche, sostanzialmente inesperti, non ressero a lungo. Cercando di dominare il panico, si sforzarono di imitare i compagni anziani, ma le loro formazioni, come pure la disciplina, cominciarono a sgretolarsi.
A questo punto, Cesare impartì l’ennesimo ordine. Di nuovo il suo stendardo si abbassò. Di nuovo le trombe suonarono la carica. E gli uomini della terza linea, che aspettavano impazienti di unirsi alla mischia, si gettarono in avanti con un grido, mentre quelli della prima e della seconda si spostavano di lato per far loro spazio. L’impatto della seconda carica polverizzò quel che restava della coesione al centro dell’armata nemica. I novellini italici gettarono gli scudi, si voltarono e fuggirono verso il campo sui colli. Gli ausiliari fecero lo stesso, e il centro si dissolse. Era appena mezzogiorno, e la battaglia era già persa per Pompeo. Ora si trattava solo di capire chi sarebbe vissuto fino alla conclusione dello scontro.
Frattanto la Prima legione si rifiutava testardamente di rompere le righe, pur continuando ad arretrare attraverso la pianura sotto la pressione della Decima e delle coorti cesariane. In compenso, fu la Quindicesima a cedere definitivamente e a fuggire verso le colline. Ancora schierato nei pressi dell’Enipeo, il generale Lentulo abbandonò i suoi uomini e cercò di raggiungere al galoppo il campo pompeiano. La Quarta e la Sesta, tagliate fuori dagli altri reparti, si ritirarono in buon ordine, combattendo lungo la riva del fiume per assicurarsi di non poter essere attaccate da quel lato. Marco Antonio le inseguì con la Settima, l’Ottava e la Nona, riuscendo – sembra con il ricorso a una carica – a separare due coorti della Sesta dal resto della legione. Quest’ultime unità, ormai accerchiate, resistettero per un poco, dopodiché accettarono l’offerta di Antonio di arrendersi.
Intanto le due coorti della Sesta e altre tre della Quarta continuavano a fuggire lungo il fiume, con le aquile intatte. Antonio abbandonò l’inseguimento e raggiunse Cesare al campo di Pompeo. Le cinque coorti ispaniche riuscirono a trovare un guado, scivolarono giù per la riva, attraversarono il fiume e si arrampicarono sulla sponda opposta. Durante la notte occuparono un villaggio di greci terrorizzati, prima di proseguire la loro fuga il mattino successivo, diretti a ovest.
Al campo di Pompeo, i tribuni e i centurioni avevano riorganizzato migliaia di soldati della Quindicesima, della Gemina e delle due legioni siriache, per opporre resistenza fuori dalle mura. Ma intorno a loro si agitavano migliaia di sbandati e ausiliari, con i portabandiera che avevano abbandonato i vessilli e le legioni di Cesare sempre più vicine. Le truppe furono costrette ad abbandonare la posizione e a ritirarsi più in alto, mentre gli sbandati cominciavano a saccheggiare il loro stesso campo. Sembra che il generale Afranio, che avrebbe dovuto difendere l’insediamento, fosse già fuggito portandosi dietro il figlio di Pompeo, Gneo, forse in virtù di un accordo precedentemente stipulato con il padre.
Solo le coorti di guardia e i loro ausiliari della Tracia e della Tessaglia si ostinavano a opporre resistenza sui bastioni del campo, ma ben presto il numero preponderante dei nemici li costrinse a ritirarsi dalle mura. Mentre gli scontri si spostavano all’interno degli accampamenti, il giovane generale Marco Favonio scovò Pompeo nella sua tenda. Amico di Marco Bruto e ammiratore di Catone il Giovane, Favonio aveva servito con Scipione, era appena stato nominato generale, ed era un acceso sostenitore di Pompeo. Orripilato dallo spettacolo del suo eroe riverso su un giaciglio, cercò di scuoterlo: «Generale, il nemico è tra noi! Devi fuggire!».
Pompeo lo fissò inebetito. Tutti gli storici sono concordi nel riferire che la sua risposta fu: «Che cosa? Proprio qui?».
Favonio e il segretario capo di Pompeo – Filippo, un liberto greco – lo rimisero in piedi, gli tolsero il mantello scarlatto e glielo sostituirono con uno comune; dopodiché lo fecero uscire. Cinque cavalli erano in attesa accanto alla tenda. Plutarco sostiene che tre dei quattro uomini che accompagnarono Pompeo fuori dalla porta posteriore del campo poco prima che arrivassero le truppe di Cesare erano i generali Favonio, Lentulo (comandante dell’ala destra) e Spintere. Forse il quarto era il segretario Filippo.
I cinque galopparono a nord verso la città di Larisa (l’odierna Larissa), loro alleata. Lungo la strada incrociarono un gruppo di trenta cavalieri. Mentre già estraevano le spade per difendere Pompeo, i generali riconobbero uno degli squadroni di Labieno, intatto, in salute, e disperso. Felici di riunirsi al comandante in capo e di potergli garantire una guardia del corpo (sia pure ridotta ai minimi termini), tutti e trentacinque ripresero la fuga.
Nel frattempo, molti dei soldati all’interno del campo pompeiano, non potendo resistere oltre alle truppe di Cesare, si erano precipitati fuori ed erano corsi verso il monte Dogandzis, dove un contingente dei loro commilitoni si stava già attestando. Quanto alla Prima legione, sembrò ritirarsi verso est. Mentre Cesare richiamava la Decima affinché lo appoggiasse negli scontri dentro il campo, la Prima continuò ad allontanarsi. Durante la notte cambiò direzione, dopodiché, ancora sostanzialmente integra e con le aquile intatte, prese a dirigersi a ovest, verso la costa e la flotta di Pompeo all’ancora.
Lasciando il generale Silla a liquidare le ultime sacche di resistenza nel campo pompeiano, Cesare convocò quattro legioni veterane – la Settima, l’Ottava, la Nona e la Decima – e si mise sulle tracce degli uomini di Pompeo che erano corsi sul monte Dogandzis. Erano circa 20 000, quasi tutti armati e agli ordini di ufficiali esperti. Di conseguenza, costituivano una minaccia che non poteva essere ignorata. I suoi esploratori gli riferirono tuttavia che questo robusto contingente aveva lasciato la montagna per dirigersi verso Larisa. Dopo aver riflettuto un istante, Cesare decise di intercettarli prima che potessero raggiungere la relativa sicurezza della città.
Il condottiero prese una scorciatoia. Nel tardo pomeriggio, dopo una marcia di sole sei miglia, le quattro legioni agganciarono i fuggitivi e si disposero in formazione di battaglia. Notando i movimenti delle truppe nemiche, i pompeiani si attestarono su una collina. Alla base del pendio scorreva un fiume, e Cesare fece scavare alle truppe, ormai stremate, una trincea lungo le sue sponde, così da interdire al nemico l’accesso all’acqua. I pompeiani – esausti, affamati, assetati, e con molti feriti al seguito – inviarono una delegazione per discutere la resa. Cesare la rispedì indietro, dopo averle detto che era disposto ad accettare solo una capitolazione incondizionata. Quindi si preparò a passare la notte all’aperto.