6 RIVOLTA E VENDETTA
Su ordine di Cesare, i generali Sabino e Cotta condussero la Quattordicesima legione e cinque coorti non identificate appartenenti ad altre unità (forse di recente formazione) alla volta del Belgio orientale. Durante l’inverno del 54-53 a.C., le truppe si accamparono ad Atuatuca, sul fiume Geer, a nordovest dell’odierna Liegi, dove poi sarebbe sorta la città di Tongeren, la più antica del Belgio. Con il nome di Atuatuca Tungrorum, in futuro sarebbe stata la capitale della tribù dei tungri, venuti dalla Germania, ma a quell’epoca, quando vi giunsero le quindici coorti legionarie guidate dal generale Sabino, era suolo vergine nel territorio degli eburoni, un gruppo tribale originario della zona.
Poche settimane dopo l’insediamento legionario ad Atuatuca, gli eburoni, guidati dal loro capo Ambiorige, si ribellarono, decisi a scacciare i nuovi venuti. Costui si alleò con i germani al di là del Reno, per poi assediare il campo degli invasori con decine di migliaia di guerrieri. Nel corso di una tregua, offrì a Sabino e alle sue truppe di aver salva la vita, se si fossero ritirati dal territorio. Il vice di Sabino – il generale Cotta – e la maggior parte degli ufficiali di stato maggiore sostennero che accettare l’offerta del barbaro sarebbe equivalso a trasgredire gli ordini di Cesare. Inoltre, non si fidavano della parola di Ambiorige. Ma Sabino, temendo che le truppe fossero costrette ad arrendersi per fame, decise di accettare l’offerta dei belgi. Molti legionari avevano una bassa opinione di questo generale, ciò nonostante la sua volontà era legge. Così, il giorno successivo, marciarono con lui fuori dal campo.
Mentre attraversavano una foresta a due miglia da Atuatuca, la Quattordicesima legione e le cinque coorti di scorta caddero in un’imboscata. Poche centinaia di uomini riuscirono a fuggire, aprendosi con le armi la strada verso il campo; tutti gli altri, compresi Sabino e Cotta, furono circondati e massacrati. A nulla valse la loro disperata resistenza, e a nulla valse rinserrarsi nell’orbis, lo schieramento circolare che si usava nei casi più disperati. Quella notte, i sopravvissuti che presidiavano ancora il campo, privi di munizioni, cibo e speranza, si accordarono per togliersi la vita. Fra la foresta e l’accampamento, quel giorno perirono più di ottomila legionari.
Questo insperato successo ispirò altre tribù ad attaccare le forze occupanti romane. La legione di Quinto Cicerone, fratello minore del famoso oratore, fu assediata nel suo campo presso la Sambre da una forza nemica che contava sessantamila uomini. Non sappiamo quale unità fosse; ma a giudicare dalla sua resistenza, si trattava probabilmente di una delle legioni ispaniche più esperte, forse la Settima. Al contrario di Sabino, Cicerone tenne i suoi uomini al sicuro dietro le mura del campo fortificato.
Per più di una settimana gli assediati resistettero senza poter inviare alcuna richiesta di aiuto, ma finalmente un indigeno leale ai romani riuscì ad attraversare le linee e a raggiungere Cesare, a ottanta miglia di distanza. Il condottiero inviò immediatamente tre legioni in soccorso di Quinto Cicerone, e lui stesso intervenne con la cavalleria. Sicuramente tra queste tre legioni c’era la Decima. Il generale Labieno comunicò che i barbari si stavano radunando a tre miglia dal suo campo, e che non osava lasciare con le truppe la protezione delle mura; di conseguenza, le forze di soccorso si ridussero a un unico contingente, la Decima, più la cavalleria, per un totale di settemila uomini.
Un messaggero doveva portare il dispaccio di Cesare a Cicerone, scritto in greco perché il nemico non potesse decifrarlo se fosse caduto nelle sue mani. Ma il messo non riusciva a passare. Finse allora di essere uno degli attaccanti, si unì all’ultima sortita, e scagliò nel campo un giavellotto con il messaggio legato all’asta. Il giavellotto colpì la murata in legno di una delle torri di guardia, e per due giorni non fu notato, finché una sentinella lo scorse, lo aprì, e lo consegnò a Cicerone.
Cesare racconta che Cicerone, radunate le sue truppe ormai allo stremo, lesse il messaggio a voce alta: «Cesare sta per arrivare con le legioni», annunciò. «Ci esorta a resistere e a mettercela tutta!»
Mentre i legionari di Cicerone non riuscivano a trattenere l’esultanza, i soldati di guardia urlarono che si scorgeva del fumo all’orizzonte, segno che le truppe romane in avvicinamento avevano messo a ferro e fuoco le fattorie nemiche.
Quando si resero conto dell’arrivo di Cesare, i belgi lasciarono l’assedio e si rivolsero contro di lui. Con solo cinquemila fanti e duemila cavalieri, il condottiero era in forte svantaggio numerico; così scelse il miglior luogo possibile dove far allestire in tutta fretta trincee e terrapieni. Quando doveva fronteggiare un nemico, Cesare si dimostrava sempre originale e innovativo. Stavolta fece innalzare a ridosso delle porte del campo un terrapieno dello spessore di un mattone. Visto dall’esterno, sembrava uno sbarramento invalicabile, e i barbari non provarono nemmeno ad avventarcisi contro, anche perché l’area delle porte era tradizionalmente la zona meglio difesa di un campo legionario. Scartata questa ipotesi, gli attaccanti decisero di assalire le mura in diversi punti.
Assediato da sessantamila belgi e dai loro alleati germanici, Cesare impartì gli ordini del caso. Il suo stendardo si inclinò, e le trombe suonarono il segnale convenuto. Le porte si aprirono di colpo, e la cavalleria romana eruppe alla carica del fitto schieramento nemico. Fu un’autentica strage. I barbari stavano ancora fuggendo allorché sopraggiunse la sera.
Cesare e la Decima riuscirono quindi a riunirsi alla legione di Cicerone. Quando gli assediati marciarono in parata davanti a lui, il condottiero si accorse che nove legionari su dieci erano feriti. Allora lodò le truppe, i centurioni e i tribuni, per aver resistito lungamente a forze così preponderanti. Era così che nascevano e si alimentavano le leggende dell’esercito. Purtroppo non sappiamo a quale legione andasse il credito per tale eroismo.
Cesare e il suo stato maggiore trascorsero il resto dell’inverno spegnendo fuochi di rivolta lungo il Reno e le regioni limitrofe. Durante quel periodo, che il condottiero passò per la prima volta in Gallia a causa della situazione così volatile, tre legioni furono costituite nell’Italia settentrionale e nell’odierna Svizzera. Per l’esattezza, si trattò di un nuovo reclutamento per la Quattordicesima, così da rimpiazzare le coorti perdute in Belgio con Sabino, e della creazione ex novo di due unità, la Quindicesima e la Sedicesima. Ora Cesare aveva sotto il suo comando ben dieci legioni; l’esercito in campo più numeroso che Roma avesse mai visto.
In occasione della campagna di guerra del 53 a.C., il condottiero utilizzò tutte le truppe a sua disposizione, assemblandole in un’unica forza combattente con cui avrebbe distrutto ogni focolaio di resistenza nella Francia del Nord, in Belgio, nell’Olanda meridionale e nelle regioni germaniche a ovest del Reno. La campagna culminò con il suo secondo attraversamento di quest’ultimo fiume, una breve incursione per ammonire con la forza delle armi la tribù dei suebi, che era penetrata nel territorio degli ubi, alleati di Roma. Peraltro, il primo atto di Cesare fu di marciare fino al fiume Geer, allo scopo di punire gli eburoni colpevoli del massacro di Sabino e dei suoi uomini. Mentre il condottiero avanzava nel loro territorio facendo terra bruciata, le nuove reclute della Quattordicesima e i feriti delle altre unità furono lasciati con il generale Cicerone nel vecchio campo di Atuatuca, dove i loro compagni erano periti l’inverno precedente. Intanto Cesare liquidava metodicamente tutto ciò che di vivo gli si parava davanti, inseguendolo, catturandolo o uccidendolo. Gli edifici della regione, costruiti in legno, costituirono un’autentica calamita per le torce romane. I soldati distrussero con il fuoco ogni villaggio e ogni fattoria degli eburoni.
Tuttavia, il forte di Atuatuca continuò a essere perseguitato dalla malasorte. Infatti, durante l’assenza di Cesare, le coorti della nuova Quattordicesima legione, inviate all’esterno da Quinto Cicerone per raccogliere provviste, furono assalite da un folto gruppo di cavalieri germanici. Un altro migliaio di giovani soldati della Quattordicesima rimase sul campo, prima che le coorti riuscissero a riguadagnare la sicurezza del forte, mentre i germani si ritiravano al di là del Reno trascinandosi dietro le bestie da soma romane come bottino.
Alla fine dell’estate, Cesare – ormai autorità assoluta dell’intera regione – convocò un’assemblea di tutte le tribù galliche sottomesse a Roma. I capitribù si incontrarono a Reims, capitale dei remi. Nel corso del raduno, si celebrò un processo contro il capo della tribù dei senoni, accusato di aver istigato la prima rivolta antiromana dell’anno. Riconosciuto colpevole dai suoi pari, fu prima fustigato e poi decapitato pubblicamente.
Le legioni si accamparono per l’inverno ormai alle porte. Quanto a Cesare, aveva imparato quanto potesse risultare disastroso disperdere le proprie forze. A ogni modo, due legioni si acquartierarono presso Treviri, in Germania, e due nella zona di Digione, nella Francia centrale. Le altre sei legioni allestirono un enorme accampamento a Sens, sessantacinque miglia a sud del villaggio di Lutezia, sorto su un’isola della Senna, che con il tempo sarebbe cresciuto fino a trasformarsi nella città di Parigi. Dai loro campi invernali, le unità romane avrebbero potuto muoversi in massa in qualunque direzione, qualora inaspettati sviluppi lo avessero richiesto. E fu esattamente quel che accadde.
Vercingetorige era un giovane nobile della tribù degli arverni, sita nella Francia centromeridionale. Durante l’inverno del 53-52 a.C., si trovava a Gergovia, la capitale della tribù, circa quattro miglia a sud dell’odierna Clermont-Ferrand, su un altipiano a trecentocinquanta metri sopra il livello del mare, all’estremità settentrionale di una catena montuosa. Una moneta coniata nel 52 a.C. lo raffigura come un bell’uomo sulla ventina, con riccioli fino alle orecchie e grandi occhi. Era figlio del defunto capo degli arverni, che tempo addietro aveva tentato di sottomettere tutte le tribù belgiche della Gallia, solo per essere messo a morte dai capitribù a causa delle sue mire autocratiche. Notoriamente, gli indigeni della Gallia non sopportavano che qualcuno si arrogasse la pretesa di imporre il suo dominio su di loro.
Vercingetorige detestava l’occupazione romana, e nel gennaio del 52 a.C. si entusiasmò alla notizia che i carnuti, più a nord, avevano massacrato i coloni romani che si erano appena installati nella loro capitale, Orléans. Il giovane cominciò a parlare apertamente di ribellione; una condotta che impaurì suo zio e gli anziani della tribù, spingendoli a espellerlo da Gergovia.
Durante le settimane successive, Vercingetorige girò di villaggio in villaggio, fomentando la rivolta e radunando sostenitori ovunque andasse. Assunto il ruolo di capo carismatico, poté tornare a Gergovia, da cui scacciò suo zio e gli altri anziani, autonominandosi capotribù. Subito dopo, inviò alcuni emissari ai gruppi tribali vicini, esortandoli a unirsi agli arverni per scalzare i romani dalla Gallia. Da Parigi al golfo di Biscaglia, le tribù indigene, più volte umiliate dalle legioni di Roma, non aspettavano altro che di coalizzarsi contro gli invasori. Di conseguenza, garantirono a Vercingetorige il loro sostegno e lo nominarono comandante in capo della nuova ribellione.
Dopo aver radunato una notevole forza combattente sulle montagne, Vercingetorige e il suo vicecomandante Lutterio penetrarono nei territori delle tribù fedeli a Roma, e presto giunsero a minacciare direttamente la provincia romana della Francia meridionale, quella che più tardi sarebbe diventata la Gallia Narbonense.
Messo in allarme da questi inquietanti sviluppi, Cesare lasciò i suoi quartieri invernali nel Nord Italia e reclutò un esercito nel sud della Francia, affidandolo a uno dei suoi futuri assassini, Decimo Bruto. Poi, dichiarando che sarebbe tornato presto, sviò le spie del nemico dirigendosi a nord lungo sentieri innevati con una piccola scorta di cavalieri, fino a raggiungere le due legioni acquartierate a Digione. Da lì richiamò le restanti otto legioni, quindi si mise in marcia per intercettare l’esercito di Vercingetorige, sempre più numeroso, delegando alle due unità appena costituite – la Quindicesima e la Sedicesima – la sorveglianza delle salmerie pesanti.
Per mettere in sicurezza le linee di rifornimento, Cesare assediò la città senona di Montargis (o Vellaunoduno, com’era chiamata dai romani). Dopo due giorni, i senoni, terrorizzati, inviarono messi per negoziare la resa. Lasciando Labieno a occuparsene, Cesare si spinse verso Orléans, dove arrivò un paio di giorni più tardi. Le porte della città erano sbarrate, mentre le mura pullulavano di guerrieri carnuti. Si era fatto troppo tardi per sferrare un attacco immediato; così, Cesare si accampò con due legioni. Quest’ultime restarono in preallarme per tutta la notte. A mezzanotte, gli abitanti di Orléans cominciarono a evacuare l’abitato, riversandosi in massa sul ponte che univa le due sponde della Loira. Una volta aperte le porte cittadine, Cesare fece entrare le due legioni, prendendo possesso di Orléans e saccheggiandola senza pietà.
Una volta conquistata la città, le truppe del condottiero attraversarono la Loira e andarono incontro all’esercito nemico. Strada facendo, espugnarono anche Novioduno. Finalmente, la cavalleria di Vercingetorige si fece avanti; ma quando si scontrò con quella Cesare, furono i fanti romani a trovarsi nei guai. Per raddrizzare la situazione, il generale gettò nella mischia i quattrocento mercenari germanici della sua scorta personale, che con una carica misero in fuga i barbari.
Più a sud, Vercingetorige e gli altri capitribù si incontrarono per un consiglio di guerra, nel corso del quale decisero di mettere a frutto la tattica della terra bruciata, distruggendo borghi e villaggi pur di non consegnarli a Cesare, e di organizzare la difesa di Avarico, l’odierna Bourges, sessanta miglia a sudest di Orléans. Vercingetorige, che sulle prime era stato contrario alla protezione della città, ora spedì diecimila dei suoi guerrieri ad aiutare i quarantamila abitanti di Bourges a difendersi. Mentre le porte cittadine venivano sbarrate e i difensori ammassavano armi e scorte vicino alle solide mura, il capo degli insorti si accampò con il grosso del suo esercito a diciotto miglia di distanza.
Cesare non aspettava altro che attaccare Bourges. Per tre settimane le sue legioni mantennero l’assedio sotto un’incessante pioggia invernale. Due legioni vegliavano di notte e riposavano di giorno, mentre le altre sfruttavano le ore di luce per mettere all’opera arieti e torri di assedio, nel tentativo di aprire una breccia nei bastioni e sfondare le porte. Tuttavia, neppure gli assediati se ne stettero con le mani in mano. Bourges ospitava parecchi minatori, che vennero impiegati per scavare gallerie, allo scopo di sabotare gli sforzi delle truppe romane e delle loro macchine da guerra.
Ma alla fine, nel corso di una notte di pioggia, le legioni riuscirono a sfondare. Soltanto ottocento abitanti ebbero la possibilità di fuggire e raggiungere, protetti dall’oscurità, il campo di Vercingetorige. Tutti gli altri – decine di migliaia – furono massacrati nelle strade di Bourges.
Costretto a rinviare la sua prossima mossa per dirimere un problema «costituzionale» dei suoi alleati edui, Cesare divise le legioni fra sé e Labieno. Delle due unità più affidabili, tenne la Decima per sé e affidò la Settima a Labieno. Quindi inviò il suo vicecomandante in capo, con la Settima, la Dodicesima, la Quindicesima e la Sedicesima, a battersi contro le tribù ribelli della zona di Parigi, mentre lui, forte di sei legioni, si dirigeva a sud seguendo il corso del fiume Allier (noto ai romani come Elaver), verso la capitale di montagna di Vercingetorige, Gergovia. A sua volta, avendo intuito le intenzioni del rivale, Vercingetorige discese a marce forzate la riva opposta del fiume, così da essere il primo a occupare Gergovia.
Entrambi gli schieramenti raggiunsero l’altopiano di Gergovia più o meno allo stesso tempo, dopo una marcia di cinque giorni, con Vercingetorige che vi arrivò un attimo prima dei romani. Dato che la città sorgeva su un rilievo e non si prestava molto alle tradizionali tecniche di assedio, Cesare cercò di tagliare ogni via di collegamento e di rendere indisponibili le riserve d’acqua. A questo scopo, fece allestire due campi legionari sulle colline, collegati tra loro da una rete di trincee.
Nel frattempo, alcuni emissari di Vercingetorige avevano convinto gli edui a unirsi alla causa gallica, grazie a una combinazione di retorica, minacce e oro. Poco prima della primavera, un’armata di diecimila edui si mise in marcia verso le montagne dell’Alvernia. Ufficialmente queste truppe venivano a rimpinguare l’esercito di Cesare, ma in realtà preparavano un attacco alle sue spalle. La famosa fortuna del condottiero romano non smise di arridergli neppure stavolta, giacché un gruppo di edui rimasti fedeli a Roma lo avvertì di quello che si stava preparando.
Cesare prese con sé la Decima e altre tre legioni, e dopo aver percorso ventiquattro miglia in un giorno solo, affrontò gli edui lungo la strada per Gergovia. Alla vista inattesa delle legioni schierate in assetto da combattimento, i giovani guerrieri galli deposero rapidamente le armi e si arresero. Cesare non solo li risparmiò, ma li assorbì nel suo esercito. Concedendo alle truppe una pausa di appena tre ore, fece poi marcia indietro e si diresse a Gergovia.
A dodici miglia dalla città, il condottiero fu raggiunto nel buio da alcuni cavalieri romani. Costoro gli comunicarono che le due legioni davanti a Gergovia erano sotto un violento attacco da parte di migliaia di seguaci di Vercingetorige fin da quando lui era partito con il grosso delle truppe. Cesare riportò il più rapidamente possibile le sue quattro legioni a Gergovia, dove giunse poco prima dell’alba, dopo aver viaggiato per ben quarantotto miglia in sole ventiquattr’ore: un’esperienza a dir poco estrema, per tutti i legionari.
Senza perdere tempo, Cesare diede inizio a una complessa operazione, sia pure in vista di obiettivi limitati (come lo stesso condottiero avrebbe dichiarato in seguito). Fece indossare gli elmi ai suoi mulattieri non combattenti, dopodiché li fece salire in groppa a migliaia di animali da soma, così che potessero essere scambiati per soldati a cavallo, e li spedì insieme alla Tredicesima legione per simulare un attacco sul fianco. Il piano funzionò a meraviglia. I nemici si affrettarono da quella parte, mentre il condottiero guidava l’assalto contro i campi nemici fuori Gergovia. Tre di essi furono espugnati.
Ma poi, stando alle memorie di Cesare, solo la Decima diede ascolto all’ordine di ritirarsi. Le altre legioni, capeggiate dall’Ottava, si lanciarono fin sotto le mura della città. I guerrieri galli, che finora erano stati ingannati dalla manovra diversiva degli avversari, tornarono a Gergovia in tutta fretta. Ben presto, una furibonda mischia si accese sotto i bastioni cittadini. Un centurione dell’Ottava e alcuni dei suoi uomini riuscirono persino a scavalcare le mura, prima di essere uccisi. Quando Cesare ordinò ai diecimila edui di prestare soccorso ai legionari bloccati davanti alla città, questi ultimi li scambiarono per nemici. Molti cedettero al panico e cominciarono ad arretrare. Appiano racconta che quel giorno andò distrutta un’intera legione, ma Cesare fornisce un’altra versione, più credibile, secondo la quale le legioni – soprattutto l’Ottava – avevano perso poco più di settecento uomini, compresi quarantasei centurioni, prima di essere costrette a ritirarsi.
Euforici per la vittoria, i galli si gettarono all’inseguimento dei legionari, ma la Decima, che Cesare aveva schierato su un’altura, salvò la situazione. Non solo non arretrò di un passo, ma, guidata personalmente dal condottiero, frenò l’avanzata nemica. Anche i legionari in fuga si arrestarono e ripresero a combattere. Alla fine, i barbari dovettero ritirarsi a Gergovia portandosi dietro gli stendardi che avevano sottratto alle legioni.
Un’indicazione di come fossero feroci i combattimenti fuori Gergovia ci è offerta da un passo di Plutarco. Ai suoi tempi, alla fine del I secolo d.C., gli arverni mostravano ai visitatori una spada, appesa all’interno di uno dei loro templi. Sostenevano che si trattasse della spada di Giulio Cesare, da lui perduta durante gli scontri a Gergovia. Da altre fonti, Plutarco venne a sapere che la stessa spada era stata mostrata perfino allo stesso Cesare, qualche anno dopo la battaglia, e che i suoi ufficiali lo avevano esortato a reclamarla. Ma il condottiero, sorridendo, aveva risposto di lasciarla dov’era. Ormai era diventato un oggetto sacro, aveva aggiunto.
A ogni modo, Cesare aveva subìto la prima sconfitta militare della sua carriera. Abbandonato l’assedio di Gergovia, scese dai monti con le sue malconce legioni. L’arretramento dei romani fu accolto con esultanza dai barbari, come pure la notizia che il generale Labieno era stato costretto a lasciare la regione della Senna dopo una dura battaglia intorno a Lutezia, la capitale della tribù dei parisi, il cui abitato occupava l’isola in mezzo al fiume dove oggi sorge la cattedrale di Notre-Dame. In realtà, Labieno aveva ottenuto una grande vittoria, ma era dovuto arretrare per un motivo molto semplice: alcune tribù ostili si stavano già muovendo per coglierlo alle spalle.
Con entrambe le armate romane in ritirata, migliaia di nuovi volontari si unirono alla causa degli insorti. Quando Cesare fu raggiunto da Labieno e si diressero insieme verso sud, Vercingetorige si vantò con i capitribù di aver costretto i romani ad abbandonare la Gallia. In un impeto di presunzione, spedì i suoi cavalieri contro l’esercito avversario ancora in ritirata. Cesare reagì prontamente ed efficacemente con la sua cavalleria, ora rinforzata da nuove truppe mercenarie di origine germanica. I barbari soffrirono gravi perdite, e molti dei loro comandanti caddero prigionieri.
Colpito da tutto ciò, Vercingetorige decise che non gli conveniva affrontare le legioni in campo aperto. Di conseguenza, stabilì di concentrare ottantamila guerrieri ad Alesia (l’odierna Alise-Sainte-Reine), sul pianoro del monte Auxois, a trenta miglia da Digione in direzione nordovest. A quei tempi, Alesia era una fortezza d’altura della tribù dei mandubii. Posta su un altopiano fra i fiumi Ose e Brenne, godeva di difese naturali formidabili. Cesare, tuttavia, non perse tempo: tallonò Vercingetorige fino ad Alesia, e circondò la collina su cui sorgeva. Ebbe così inizio uno degli assedi più famosi della storia.
Le dieci legioni di Cesare scavarono trincee intorno ad Alesia per una circonferenza di dieci miglia, e le munirono di ventitré forti. Poiché era chiaro che i barbari si stessero preparando per resistere a lungo, il condottiero romano fece allestire un secondo ordine di trincee, torri e terrapieni, che si estendeva per quattordici miglia, così da proteggersi da qualsiasi possibile attacco alle spalle. In questo modo intrappolò Vercingetorige e la sua armata sulla collina. Presto la cavalleria dei galli tentò una sortita nella pianura sotto Alesia, ma ottenne soltanto di farsi quasi massacrare. Ciò nonostante, nel corso della notte circa ottomila cavalieri gallici riuscirono a sgusciare dalla rete romana, e ad allontanarsi in cerca di aiuto.
Allorché furono avvertite della situazione in cui versava Vercingetorige, le altre tribù radunarono un’ingente colonna di soccorso nella Francia centrale, fra la Loira e la Saona. Cesare ne stimò la cifra a 80000 cavalieri e 250000 fanti. Conoscendo la sua tendenza a gonfiare il numero dei nemici, si trattava probabilmente di un’esagerazione per vanto personale; ma non c’è dubbio che l’armata che si preparava a marciare verso sud fosse composta da almeno 100000 uomini. Fra i comandanti gallici che stavano accorrendo in soccorso di Alesia, c’era anche Commio, l’uomo che Cesare aveva nominato re degli atrebati. Già alleato e ambasciatore del condottiero romano durante l’invasione della Britannia, si era fatto contagiare dalla febbre patriottica. Quanto a Cesare, poteva contare su 50000 legionari, nonché su qualche migliaio di cavalieri e ausiliari, per una cifra complessiva che sicuramente non superava le 80000 unità.
Quando i rinforzi gallici arrivarono ad Alesia, il loro primo tentativo di espugnare la cerchia difensiva dei romani si risolse in un fallimento. Più tardi, allorché 60000 guerrieri scelti si gettarono all’assalto dal monte Rea, Vercingetorige cercò di appoggiarli con un altro attacco contro le due linee fortificate del nemico.
Dato che i legionari presidiavano entrambe le cerchie difensive, questo attacco combinato avrebbe anche potuto funzionare. Invece, non fu così. I vicecomandanti di Cesare mantennero la calma e il sangue freddo. Labieno, Bruto, Fabio, e un colonnello appena arrivato, Marco Antonio: ognuno fece la sua parte. Cesare descrive i movimenti delle truppe romane nelle fasi finali della battaglia in termini di generali e di coorti, non specificando mai di quali legioni si trattasse. Difatti, le forze lanciate in campo erano eterogenee, con sei coorti distaccate che si affrettavano di qua e di là, altre undici coorti miste, e via dicendo.
Mentre gli scontri infuriavano, l’astuto generale Labieno mandò un messaggio a Cesare per incitarlo all’offensiva. Era ora di aggredire i barbari, sosteneva Labieno, indicando nel dispaccio il luogo in cui la linea nemica era più fragile. Sembra che Cesare si fidasse ciecamente del giudizio del suo vice. Nel corso degli ultimi sei anni, molti generali erano andati e venuti; ma il condottiero se l’era sempre tenuto accanto, apprezzandone la capacità e la lealtà. Quindi accettò il suo consiglio, e si pose personalmente alla testa del contrattacco. Lui stesso racconta di come fosse visibilissimo ad amici e nemici, grazie al suo svolazzante paludamentum, il mantello scarlatto dei generali.
Seguendo l’esempio di Cesare, i cavalieri e i fanti romani si riversarono fuori dalla trincea più esterna e aggirarono la colonna di soccorso nemica. Quel che seguì, fu una carneficina. Sorpresi, i galli sbandarono e presero a fuggire. La cavalleria romana li falciò a migliaia e ne catturò ancora di più. Osservando la rotta dei rinforzi, e considerando la futilità di continuare l’assalto contro le fortificazioni romane, le truppe di Vercingetorige si ritirarono sconsolate e si riassestarono sul colle di Alesia.
Decine di migliaia di prigionieri – forse 70000 – caddero in mano romana; abbastanza – racconta Cesare – per dare uno schiavo a ciascun legionario. Altri ventimila prigionieri furono resi ai galli in cambio della loro sottomissione.
Con la colonna di soccorso dispersa e i suoi pochi superstiti in fuga, gli uomini sulla collina sapevano che il loro destino era segnato. Piuttosto che morire di fame, si arresero. Cesare ordinò che deponessero le armi, e che i comandanti nemici fossero portati in sua presenza, quindi si sedette davanti alle fortificazioni per la cerimonia di resa. Lo stesso Vercingetorige venne per sottomettersi all’autorità del condottiero. Prima indossò la sua corazza più sfarzosa e adornò il suo cavallo preferito di finimenti d’oro, dopodiché uscì da solo dalla porta di Alesia e scese al campo romano, dove gli uomini della Decima e delle altre legioni erano allineati coorte per coorte, immobili come statue dietro i loro stendardi, indossando tutti il cimiero e le decorazioni. Forse si muovevano solo i loro occhi, per spiare il capo degli insorti che passava a cavallo fra i ranghi legionari.
Alla testa della Decima legione c’era Gaio Crastino. Costui non solo era sopravvissuto a tutte le campagne di Cesare (a partire da quella contro gli elvezi, che sembrava ormai lontana anni luce), ma aveva anche scalato tutti i gradi del centurionato, fino a raggiungere – probabilmente in Britannia – il livello dei centurioni di primo rango, quella manciata di primi ordines che erano inquadrati nella prima coorte della legione. E tutto porta a credere che fosse stato proprio Cesare a nominare personalmente Crastino primus pilus della Decima legione dopo la battaglia di Gergovia, risalente a pochi mesi prima. Primus pilus significa letteralmente «primo giavellotto», e indica il centurione più importante della legione. A tre anni dalla fine della sua ferma, il centurione capo Crastino, poco più che trentenne, aveva già raggiunto il più prestigioso, agognato e meglio retribuito grado al quale potesse aspirare un soldato semplice. In termini moderni, era diventato un capitano, anche se non godeva dello status che caratterizza questo grado al giorno d’oggi.
Ora il centurione Crastino e i suoi uomini seguivano in silenzio la resa di Vercingetorige – orgogliosi, trionfanti, e certo anche curiosi di vedere per la prima volta il famoso avversario in carne e ossa. Sul suo magnifico cavallo, il giovane gallo eseguì un giro completo intorno al sedile di Cesare, dopodiché si fermò. Smontò a terra, affidò le redini a un inserviente romano, e si avvicinò allo sgabello da campo su cui Cesare sedeva in armatura, con il mantello scarlatto. Ai lati del condottiero c’erano dodici littori con i fasci completi di ascia, e con lui si trovavano anche i comandanti e gli ufficiali di stato maggiore. Possiamo immaginare che lo stendardo consolare sventolasse nella brezza alle sue spalle.
Senza proferire parola, Vercingetorige si sfilò la spada e la porse a Cesare. Quest’ultimo l’accettò, e la passò a un aiutante. Vercingetorige si tolse l’elmo, con il riconoscibile cimiero gallico, e porse anche quello. Quindi alcuni attendenti lo aiutarono a rimuovere la corazza, riccamente ornata d’oro e d’argento, che fu ugualmente offerta a Cesare, e poi passata ai subordinati. Dopodiché il principe gallo si sedette ai piedi del generale romano. Da lì, in silenzio, guardò i suoi guerrieri uscire dalla porta di Alesia in lunghe file, affamati e mesti, a testa bassa; per poi deporre armi e corazze davanti ai vincitori ed essere avviati al loro futuro schiavile. Finalmente anche Vercingetorige fu incatenato e portato via.
Tenuto prigioniero per sei anni, l’ex comandante supremo degli insorti della Gallia sarebbe stato mostrato come trofeo durante il trionfo di Cesare a Roma nel 46 a.C., frustato e poi messo a morte nel modo tradizionale, strangolato nella prigione all’angolo nordovest del Foro, al culmine della parata trionfale lungo le strade della città.
Gli altri capi della rivolta andarono incontro a destini diversi. Il traditore Commio fuggì a nord, ma molti dei suoi compagni furono messi a morte oppure si sottomisero volontariamente, con le loro tribù, all’autorità romana. Alcuni furono trattati meglio di altri. Tutti furono obbligati a fornire ostaggi come garanzia del loro comportamento in futuro, e a raccogliere ausiliari per l’esercito dei conquistatori. I giovani delle tribù galliche sarebbero diventati la spina dorsale delle unità ausiliarie di Roma per decenni e secoli a venire.
La Decima e le altre nove legioni di Cesare trascorsero in Gallia l’inverno del 52-51 a.C. Ma la guerra gallica era ben lungi dall’essersi conclusa. C’erano ancora alcune tribù alle quali bisognava far capire chi fossero i vincitori. Considerata la disfatta a Sud, infatti, i gruppi tribali del Nord avevano deciso di accantonare le battaglie campali in favore delle tattiche di tipo guerrigliero.
Alla fine di dicembre, Cesare ricevette al suo quartier generale di Bibracte, sul monte Beuvray, a dodici miglia da Autun, la notizia che i biturigi dell’area di Bourges (Francia centroccidentale) si preparavano a scendere sul piede di guerra. Il 29 dicembre, deciso a neutralizzare questa ennesima minaccia, il condottiero si mise in marcia con le legioni che aveva a disposizione, l’Undicesima e la Tredicesima, e in quaranta giorni di campagna colse i biturigi ripetutamente di sorpresa, convincendoli ad abbandonare ogni velleità di resistenza. Di ritorno a Bibracte, Cesare promise ai legionari, anziché la solita suddivisione del bottino, una regalia di duemila sesterzi a testa – quasi la paga di tre mesi – e duecento sesterzi in più a ogni centurione. Peraltro, non sappiamo se abbia davvero mantenuto la promessa.
Il condottiero era rientrato al quartier generale solo da diciotto giorni, quando si riaccese la rivolta fra i carnuti, vicini dei biturigi. Questa volta Cesare marciò con la Quattordicesima legione e una nuova unità che ne aveva condiviso l’accampamento, la Sesta. Quest’ultima era un’altra legione ispanica costituita da Pompeo Magno nel 65 a.C., insieme alla Quarta, la Quinta, la Settima, l’Ottava e la Nona. Aveva operato nella Spagna orientale per anni, mentre le consorelle servivano con Cesare. Pur restando a Roma, Pompeo si era associato a Cesare e Crasso padre in quello che gli storici avrebbero in seguito definito il Primo triumvirato: una sorta di accordo spartitorio dei territori della repubblica. A Cesare era andato il comando in Gallia, a Crasso quello in Oriente, mentre Pompeo controllava l’Italia e la Spagna. Cesare aveva chiesto rinforzi a Pompeo nel 52 a.C., quando era scoppiata la rivolta di Vercingetorige e si era trovato a corto di risorse. Pompeo aveva risposto senza indugio inviandogli la Sesta, che nel 52 a.C. aveva varcato i Pirenei ed era entrata in Francia, lasciandosi alle spalle la sua base nella Spagna citeriore.
La Sesta era una legione veterana, ben addestrata, molto esperta, e in teoria all’altezza della Decima e di qualsiasi altra unità dell’esercito di Cesare. Ma il condottiero, che a volte sapeva essere meschino, l’aveva relegata a sorvegliare le salmerie e a mietere il grano assieme alla poco affidabile Quattordicesima. E questo solo perché la Sesta apparteneva a Pompeo. Ora le due legioni affrontarono i rigori del clima invernale e si diressero rapidamente a nord, occupando Orléans, la capitale dei carnuti, e costringendo quest’ultimi a darsela a gambe.
I problemi per Cesare non erano ancora finiti. Giunse infatti notizia che re Commio aveva coalizzato diverse tribù della Francia orientale per continuare la resistenza contro Roma. Insieme alla Decima, che peraltro si trovava abbastanza lontana dalla zona dell’imminente conflitto, stavolta Cesare richiamò la Settima, l’Ottava e la Nona, aggiungendo al suo schieramento anche l’Undicesima. Dopodiché si mise in moto per regolare i conti con le sei tribù ribelli.
Febbraio era iniziato da poco; il tempo era gelido, il terreno pesante e difficile. Ma tutto questo non impedì alle tre legioni ispaniche di marciare affiancate per la campagna francese. Dietro di loro venivano le salmerie, con l’Undicesima come retroguardia. Dopo aver scoperto che i galli si erano attestati su un’altura circondata da paludi, Cesare fece costruire un forte che guardava direttamente sul campo nemico. Si trattò di un progetto particolarmente elaborato: le torri erano alte tre piani, con passaggi coperti che le univano l’una all’altra e permettevano di combattere su due livelli. Cesare sostiene di aver approntato una simile struttura difensiva per far credere ai galli di essere intimorito dalla loro armata, ma può anche darsi che volesse mettere di nuovo alla prova quei sistemi ingegneristici che gli avevano garantito la vittoria ad Alesia.
I primi giorni trascorsero tra scaramucce e sortite alla ricerca di cibo. Cesare temporeggiava, in quanto aveva spedito un dispaccio al generale Trebonio affinché lo raggiungesse con le tre legioni che svernavano a Sud. Appena i barbari vennero a sapere che si avvicinava un’altra armata romana, evacuarono vecchi, donne e bambini, e si prepararono allo scontro decisivo. A questo punto, i lavori nel campo romano divennero frenetici. Cesare fece approntare sentieri rialzati in direzione delle alture ed edificare un nuovo accampamento. Commio, tuttavia, appiccò un incendio notturno davanti al proprio campo, e, grazie alla copertura fornita dalle fiamme, si ritirò con le sue truppe a dieci miglia di distanza.
Cesare, avvertito per tempo, riuscì a sventare un’imboscata della cavalleria gallica ancora prima che giungessero le altre legioni. Migliaia di indigeni restarono sul campo. Sconvolte, le tribù mandarono ambasciatori per offrire la resa. Commio si eclissò di nuovo, prima in Germania e poi in Britannia, dove pare abbia vissuto per il resto dei suoi giorni.
La Decima e le altre legioni passarono l’inverno spazzando via le ultime sacche di resistenza. Fu come spegnere pochi carboni ardenti vicino a un fuoco di paglia già domato.
Le ultime a subire il castigo di Roma furono le riottose tribù dell’Ovest e del Sudovest. In questa seconda area geografica, Cesare espugnò Uxelloduno, presso l’odierna Vayrac. Dopo la caduta della città, stanco di tutte queste piccole rivolte quando ormai mancava solo un’estate alla sua partenza dalla Gallia, il condottiero ordinò alle truppe di tagliare le mani a tutti i difensori superstiti: un efferato avvertimento per chiunque fosse ancora intenzionato a sfidare l’autorità romana. Al Nord, il generale Labieno, al comando di un robusto contingente di cavalleria (alcune migliaia di uomini), affrontò e sconfisse nei dintorni di Treviri le tribù trevere di Germania.
Finalmente, sulla guerra gallica calò il sipario. Durante l’inverno del 51-50 a.C., la Decima e le altre legioni si acquartierarono nella Francia settentrionale e in Belgio. L’anno nuovo, il 50 a.C., trovò la Gallia in pace per la prima volta dopo molti anni; una situazione che permise a Cesare di tornare in Italia e dedicarsi alla lotta politica. Per gli uomini della Decima legione, tuttavia, un anno senza guerra era un anno senza profitti. Dopo tante stagioni di attività bellica, molti di loro probabilmente si annoiavano a morte.
Per i centurioni anziani – uomini come Gaio Crastino, che si era arruolato nel 65 a.C. – era venuto il momento di pensare a cosa avrebbero fatto una volta che la ferma di sedici anni fosse finita, visto che il congedo era in programma per l’anno seguente. Per i centurioni giovani, arruolatisi nello scaglione del 61 a.C., era ora di darsi da fare per occupare le posizioni che presto la partenza dei colleghi più anziani avrebbero reso vacanti.
Che tipo di vita da pensionato avrebbe condotto Gaio Crastino? Senza dubbio, anno dopo anno, aveva accantonato una bella sommetta. Del resto, aveva potuto godere di un’ampia gamma di entrate: il soldo legionario; le regalie elargite da Cesare dopo ogni campagna; i guadagni derivanti dalla vendita del bottino nemico (compreso quello sottratto ai cadaveri dei soldati); l’alienazione a titolo oneroso degli schiavi; i tributi che i soldati semplici pagavano ai centurioni per essere esonerati da alcuni servizi. Forse Gaio si sarebbe comprato una fattoria in Spagna, o magari una taverna. Nulla che fosse di infimo livello, però. In fin dei conti aveva ottenuto il grado di centurione anziano, e questo contava parecchio, in termini di status, anche nella vita civile. Ovunque avesse scelto di risiedere, gli sarebbe stato accordato un posto d’onore nelle processioni religiose. Un detto vagamente snobistico dei romani recitava: «Le aquile non vanno a caccia di mosche», e sicuramente il centurione Crastino si sarebbe detto d’accordo.
Possiamo immaginare che a Gaio, come alla maggior parte dei veterani, di tanto in tanto sarebbe mancato il sapore della battaglia. Ma soprattutto avrebbe avuto nostalgia dei commilitoni. Non dei giovani tribuni arroganti, appena arrivati da Roma e ancora sporchi di latte, così stupidi da non rendersi conto neppure della propria stupidità; tantomeno dei generali, che lui e i suoi compagni avevano quasi dovuto guidare per mano in battaglia – un’altra manica di imbecilli, che non sapevano distinguere il proprio gomito dalle chiappe. No, costoro non gli sarebbero mancati.
Senza dubbio, Crastino aveva sentito certe chiacchiere attorno ai bivacchi dell’accampamento; talune dicerie sul possibile scoppio una guerra civile. Il senato negava a Cesare quanto si meritava, si erano detti i soldati. Tutta colpa di Pompeo e della sua invidia nei riguardi di un insuperabile condottiero, avevano aggiunto. Ma Crastino probabilmente non gradiva l’idea di romani intenti ad ammazzare altri romani. La generazione di suo padre era stata testimone di un conflitto intestino quando Cesare era solo un ragazzo, e molti bravi soldati avevano perso la vita senza una buona ragione. Crastino certo sperava di poter vivere a lungo, di morire nel proprio letto con la coscienza a posto e figli sessantenni al suo capezzale. E mentre chiacchieravano della bella vita dei pensionati, un primus pilus amico suo gli avrebbe ricordato con una strizzatina d’occhio un altro detto del periodo: «Non fare un erede del tuo medico curante, e camperai cent’anni».