9 LA CORSA PER DYRRHACHIUM

Uno degli aspetti più famosi e celebrati di Giulio Cesare era la sua fortuna sfacciata. Eppure il condottiero non sarebbe stato d’accordo con questa fama, mentre saliva sul tribunal quel freddo giorno di dicembre del 49 a.C., fissando le migliaia di legionari riuniti davanti a lui nel campo d’imbarco di Brindisi. Infatti, dall’Africa del Nord erano appena giunte notizie orribili. Gaio Curione, due legioni e i reparti di cavalleria erano stati annientati in Tunisia da Giuba, il re di Numidia, amico e alleato di Pompeo.

I legionari di Curione, quasi certamente della Diciassettesima e della Diciottesima, erano ex reclute di Pompeo della zona dei marsi e dei peligni (nell’Italia centrale) che si erano unite a Cesare dopo la caduta di Corfinium il febbraio precedente. La notizia del loro annientamento – forse recata a Brindisi dal colonnello Pollione, uno dei pochi sopravvissuti al massacro – era così inattesa e così potenzialmente devastante per il morale dei soldati, che il condottiero sapeva di dover tenere loro un discorso, con argomentazioni che potessero fare presa sull’uditorio.

Davanti a lui erano schierati gli uomini di undici legioni, oltre a centinaia di cavalieri. La Decima e l’Undicesima erano arrivate per ultime; del resto, erano quelle distaccate più lontano. Durante l’estate e l’autunno, altre unità si erano acquartierate a Brindisi e in diverse città dell’Apulia. Adesso erano state divise in due gruppi, che avrebbero costituito le due ondate d’invasione. A Piacenza, dopo la notizia della perdita delle navi di Gaio Antonio, Cesare aveva fatto alcuni calcoli, secondo i quali sarebbero stati necessari tre viaggi avanti e indietro per trasportare in Grecia le forze da sbarco. Ma ora, forse, ne sarebbero stati sufficienti solo due. Bastava sentire i colpi di tosse nelle file dei soldati per capirne il motivo.

La stessa malattia che aveva colpito le truppe di Pompeo a Brindisi la primavera precedente era riapparsa con virulenza durante l’autunno, diffondendosi fra i soldati di Cesare, costringendone a letto migliaia, e facendo somigliare il punto d’imbarco a un lazzaretto. Ben poche tende erano prive di ammalati che giacevano lamentandosi, sudando, tossendo. In un’epoca in cui non esistevano gli antibiotici, il morbo aveva dimezzato il numero degli uomini in grado di combattere.

Cesare aveva scelto di farsi accompagnare dalla Decima nella prima ondata dello sbarco, insieme agli altri veterani dell’Undicesima e della Dodicesima. Il resto della prima ondata comprendeva la Venticinquesima, la Ventiseiesima e la Ventisettesima legione, oltre a cinque coorti della Ventottesima, lasciate indietro quando Gaio Antonio si era imbarcato per la sua sfortunata missione nell’Illirico; tutte reclute appena arruolate a gennaio e febbraio. La prima ondata del condottiero era una deliberata mescolanza di giovinezza ed esperienza. La seconda ondata, al comando di Marco Antonio, comprendeva le inquiete Settima e Nona, più la fedele Ottava, tutte legioni ispaniche, oltre ai giovani italici della nuova Ventinovesima.

«Miei soldati…», cominciò Cesare, incaricandosi poi di trascrivere lui stesso le parole pronunciate quel giorno; parole che i centurioni avrebbero ripetuto a beneficio delle file troppo lontane dall’oratore. Quanto al tono e alla mimica, secondo Svetonio il condottiero rendeva acuta la sua voce quando parlava in pubblico, e usava gesti plateali con uno stile da consumato attore. D’altro canto, Cicerone ammetteva di non aver conosciuto un oratore più grande di lui, e che il suo eloquio era elevato, perfino nobile.

«… Siamo quasi giunti alla fine delle nostre fatiche e dei nostri pericoli», continuò Cesare. «Potete perciò lasciare in Italia i vostri schiavi e i vostri bagagli a cuor leggero. Imbarcatevi con il minimo necessario, così da permettere al maggior numero di soldati di prendere posto sulle navi che abbiamo a disposizione. Una volta ottenuta la vittoria, vi ricompenserò oltre ogni vostra aspettativa.»

Quando chiese se le truppe fossero con lui, un coro di assenso si levò da venticinquemila voci.

Il convoglio salpò nel cuore della notte con un vento favorevole. Sulle navi da trasporto della prima ondata, gli uomini della Decima stavano in piedi tesi e silenziosi squadra per squadra, afferrando le murate degli scafi oscillanti, o aggrappandosi al proprio vicino. Con ogni probabilità, molti erano in preda al mal di mare, come spesso accadeva (e accadrà in futuro) quando una forza da sbarco solcava l’Adriatico o il Mediterraneo.

Anche se i soldati non le gradivano troppo, le operazioni anfibie (ancora meglio se attuate con il favore delle tenebre) erano le preferite di Cesare. Gli piaceva l’idea di far sbarcare intere armate in un colpo solo. Apprezzava anche l’elemento sorpresa della notte, riconoscendo, come dice Appiano, «che la sorpresa è l’arma migliore». Se fosse vissuto al giorno d’oggi, sarebbe stato un fautore delle operazioni aviotrasportate e dell’uso dei marines. Sempre di notte, naturalmente.

E correva appunto la notte del 4 gennaio del 48 a.C. (a dire il vero, quel gennaio corrispondeva al nostro tardo autunno, visto che all’epoca, prima della riforma cesariana, il calendario romano contava due mesi in meno rispetto a quello attualmente in vigore). Sembra comunque che il tempo fosse freddo, e che sulle prue e sulle facce stanche degli ispanici con il mal di mare sarebbero arrivati spruzzi gelati ma rinvigorenti di acqua gelata.

L’invasione della Grecia costituiva un’avventura inedita per gli uomini della Decima. Avevano combattuto in Francia, Belgio, Olanda, Germania, Britannia e Spagna; avevano attraversato tutta l’Italia – centro dell’universo romano – per arrivare al punto d’imbarco di Brindisi; e ora si accingevano a invadere un’altra terra. Quante storie avrebbero potuto raccontare ai loro nipoti, se fossero sopravvissuti. I soldati della Decima non erano nuovi a operazioni anfibie. Dopotutto avevano invaso la Britannia due volte, ma allora era differente. Non c’era una marina avversaria che li aspettava nel buio, mentre attraversavano la Manica. Adesso le navi di Pompeo, nascoste chissà dove nella notte, sarebbero potute apparire all’improvviso, e colpire. Il nemico di Cesare disponeva di ben seicento legni di vario tonnellaggio, distribuiti in cinque gruppi navali. E molti erano di stanza nell’Adriatico.

Tutti, a bordo della flotta d’invasione, conoscevano il triste fato di Gaio Antonio e dei suoi legionari, sorpresi per mare dall’ammiraglio Ottavio l’anno precedente. Ma in quella disgraziata operazione non c’era stato l’elemento sorpresa. Stavolta, almeno, era certo che Pompeo non si aspettasse visite tanto presto. Certo, su entrambe le sponde dell’Adriatico nessuno ignorava che prima o poi Cesare avrebbe invaso la Grecia, ma perfino gli uomini della Decima avevano immaginato che avrebbe atteso fino alla primavera. Non si lanciava uno sbarco del genere poco prima dell’inverno. Ed era proprio su questo che contava l’audacissimo Giulio Cesare.

La principale alleata degli invasori era la notte, che toglieva ogni vantaggio alla marina pompeiana. Se il convoglio fosse stato scoperto, sarebbe stato solo a causa della sfortuna. E tutti si fidavano della fortuna di Cesare. Il piano era di effettuare lo sbarco nelle primissime ore del mattino, di nascosto. Una volta scaricate le truppe, le navi avrebbero riattraversato l’Adriatico verso Brindisi, allontanandosi dalle coste greche prima dell’alba, per tornare la notte dopo. E la marina di Pompeo non se ne sarebbe accorta.

L’epidemia aveva ridotto gli effettivi di tutte e undici le legioni, così che adesso solo quindicimila soldati delle sette legioni della prima ondata, e cinquecento cavalieri di Gallia e Germania, erano a bordo della flotta d’invasione, mentre migliaia erano rimasti a terra, ammalati. Da principio si era valutato di trasportare i convalescenti in un secondo tempo, così che potessero riunirsi all’esercito in Grecia; in seguito, però, si era deciso di lasciarli in Italia, a guardia dei porti del Sudest e del Sudovest: una specie di fanteria di marina che avrebbe rintuzzato eventuali attacchi dei pompeiani (come in effetti accadde nel corso di una battaglia sull’Adriatico), e che si sarebbe ricongiunta alle legioni di appartenenza soltanto due anni più tardi.

Come i fanti di ogni epoca e di ogni guerra, gli uomini della Decima non sapevano con precisione dove si stavano recando. Immaginavano, tuttavia, che si sarebbe trattato di un luogo fra le basi navali di Pompeo a Dyrrhachium e Corfù, in linea d’aria più o meno di fronte a Brindisi, presso il confine odierno fra l’Albania e la Grecia. Sbarcare laggiù, proprio sotto il naso del nemico, non sarebbe stato un gioco da ragazzi; ma era proprio il gusto della sfida a galvanizzare i legionari.

Cesare, sulle prime, intendeva lanciare l’operazione il 1° gennaio, tanto che la Decima e gli altri reparti della prima ondata, dopo essersi fatti largo tra i soffocanti vicoli di Brindisi, si erano presentati al punto d’imbarco proprio quel giorno, salendo persino sulle passerelle, prima di essere richiamati a terra dopo due ore di attesa per l’alta marea. Le condizioni meteorologiche sull’Adriatico erano rapidamente peggiorate e Cesare, sia pure con riluttanza, aveva rinviato la partenza a un momento più propizio. Adesso, quel momento era arrivato.

Sotto qualche aspetto, lo sbarco in Grecia del 48 a.C. ricorda quello alleato avvenuto in Normandia nel 1944. Per esempio, come era già successo a Cesare duemila anni prima, anche i comandanti angloamericani furono costretti dal maltempo a spostare l’inizio delle operazioni dal 5 al 6 giugno.

Mentre il convoglio si avvicinava alle coste dell’Albania nel buio prima dell’alba, Cesare dovette ancora una volta cambiare i suoi piani. All’improvviso il vento mutò direzione, soffiando da nord e spingendo la flotta più a sud di quanto volesse il condottiero – disgraziatamente, proprio davanti a uno squadrone pompeiano di diciotto incrociatori, che era ancorato a Oricum, non lontano dalla presidiatissima Corfù. Ciò nonostante, la leggendaria fortuna di Cesare gli venne in soccorso ancora una volta, e il convoglio, con la complicità delle tenebre, riuscì a eludere il blocco navale.

Nell’ultima snervante ora di viaggio, mentre ormai albeggiava, gli invasori cominciarono a scorgere alla loro sinistra le aspre coste dell’Epiro, poco più a nord di Corfù. Il luogo non era esattamente ideale per uno sbarco. Non c’erano porti, e oltretutto la zona era tristemente nota per custodire i resti di molte navi che si erano sfracellate contro gli scogli. Come se non bastasse, Cesare, una volta sbarcato, avrebbe dovuto marciare più a lungo del previsto, e su un terreno difficile. Ma il condottiero diede ordine di andare avanti. Sulla tolda della sua nave apparve una lanterna di segnalazione.

I timonieri dei vascelli in avanscoperta spinsero di lato i timoni gemelli, orientando le prue degli scafi verso la riva. I marinai si prepararono ad ammainare le vele. I legionari già prevedevano lo scricchiolio della terraferma sotto le chiglie, in attesa dell’ordine dei centurioni di sbarcare.

Fu nei dintorni di Palaeste che presero inizio le prime fasi dell’invasione. Cesare fece accostare le navi alla spiaggia sassosa, usandole come mezzi da sbarco. Le truppe scesero rapidamente. Con ogni probabilità, furono gli uomini della Decima i primi a raggiungere l’arenile. Lo sbarco avvenne senza problemi e senza perdite. L’effetto sorpresa aveva funzionato. Il nemico non si era accorto di nulla.

Cesare fece allontanare le navi con il favore della marea e, grazie alla brezza di sudest tipica della stagione, le rimandò a Brindisi in compagnia del generale Quinto Fufio Caleno, con l’incarico di trasportare i fanti e i cavalieri della seconda ondata, in ansiosa attesa assieme a Marco Antonio.

Possiamo immaginare la scena a Corfù, quando un servitore dell’ammiraglio Marco Calpurnio Bibulo toccò leggermente la spalla del suo padrone. Bibulo deve aver spalancato gli occhi alla notizia, sussurrata alla fievole luce di una lanterna: una nave in servizio di sorveglianza aveva avvistato legni nemici davanti alle coste. Il capitano della vedetta era certo che si trattasse di una forza d’invasione.

Bibulo si deve essere alzato di botto. Pompeo lo aveva nominato ammiraglio in capo di tutte e cinque le flotte stanziate lungo le coste della Grecia, dell’Albania e della Croazia, con il compito di intercettare qualsiasi forza cesariana in arrivo. Del resto, l’uomo sembrava adatto all’incarico. Collega di consolato di Cesare nel 59 a.C., di pessimo carattere ma deciso e capace, in passato aveva spesso bisticciato con il futuro «nemico di Stato» su questioni politiche, avendo regolarmente la peggio. Di conseguenza, odiava il condottiero con tutta l’anima. Dopo aver afferrato il mantello scarlatto da una sedia – poiché, come da costume romano, andava a letto vestito –, deve essere uscito di fretta dalla camera da letto, per mettersi immediatamente a urlare ordini agli insonnoliti ufficiali di stato maggiore, mentre gli schiavi gli si affollavano intorno per fornirlo di armi e corazza.

Furibondo che i suoi capitani non si fossero accorti dell’invasione, l’ammiraglio Bibulo dispose che le centodieci navi da battaglia ancorate a Corfù prendessero subito il mare. Mentre gli ufficiali più giovani si sparpagliavano tra gli alloggi dei soldati vicino alla riva per svegliare le ciurme, l’ammiraglio si affrettò al molo per salire sul suo vascello.

Lo sbarco delle truppe della prima ondata aveva richiesto più tempo del previsto. L’ultimo squadrone della flotta si era appena allontanato dalla spiaggia per il viaggio di ritorno, che già i primi raggi del sole lambivano i monti Cerauni. Presto la brezza meridionale, tipica delle notti di gennaio, venne meno. Cessato tale aiuto, le navi trasporto, ormai vuote, si ritrovarono alla deriva lungo la costa.

Prime a entrare in azione, giacché contavano pochi membri di equipaggio, le fregate di Bibulo scivolarono fuori dal porto di Corfù, con i cunctatores che battevano rapidi il tempo per i rematori, e le vedette con gli occhi bene aperti sulle coffe. Non passò molto tempo prima che la flotta di Pompeo intercettasse il convoglio cesariano alla deriva. Bibulo si fece sotto, e riuscì a catturare trenta scafi del nemico.

La nave dell’ammiraglio era un autentico mostro di mare: un vascello della classe deceres, lungo quasi cinquanta metri, largo otto metri e mezzo, fornito di tre ordini di remi della lunghezza di dodici metri, e in grado di ospitare ottocento persone fra rematori, marinai e fanti di marina.

Dalla tolda, Bibulo contemplava con occhi glaciali le navi da trasporto con le vele abbassate e gli equipaggi che, a loro volta, lo osservavano ansiosi. Furioso per non aver saputo prevenire l’invasione – stando almeno alle memorie di Cesare –, e consapevole che il nemico avrebbe presto fatto affluire altre truppe sulla costa, l’ammiraglio di Pompeo decise di utilizzare gli scafi catturati per impartire una lezione ai suoi avversari.

«Bruciatele», ordinò.

«E gli uomini a bordo, ammiraglio?», interloquì un ufficiale.

«Lasciateli dove sono», fu la risposta.

La nave ammiraglia di Bibulo era dotata di catapulte con proiettili intrisi di bitume. A un cenno del comandante, il bitume fu acceso, e le catapulte entrarono in azione. Una pioggia rovente si abbatté sui trenta scafi nemici, che presero fuoco nel giro di pochi istanti, mentre gli equipaggi delle navi pompeiane seguivano lo spettacolo in un cupo silenzio. I marinai che non perirono fra le fiamme, affogarono buttandosi nelle acque fredde e profonde. Chi cercò di salire a bordo dei vascelli nemici, fu implacabilmente respinto e riconsegnato alla morte per annegamento.

Intanto a Brindisi le ore passavano, e delle navi trasporto di Cesare non c’era ancora alcuna traccia. Marco Antonio e Fufio capirono che il convoglio era stato intercettato. Le ciurme presero a discutere nervosamente dei pericoli di un’altra traversata, ora che la marina di Pompeo sapeva dell’operazione.

Mentre le condizioni meteorologiche volgevano al peggio, Bibulo dispose strategicamente le sue navi sulle coste greche e albanesi, ordinando loro di mettersi all’ancora in ogni porto o possibile attracco. L’ammiraglio passò la notte a bordo del suo vascello – la prima di molte –, così da poter essere avvertito all’istante di qualsiasi avvistamento di legni nemici.

Lo stesso giorno del suo sbarco nell’Epiro, Cesare si diresse a nord, verso Dyrrhachium, in compagnia della Decima e delle altre sei legioni della prima ondata. Il condottiero sapeva benissimo delle provviste invernali che Pompeo aveva accumulato a Dyrrhachium – ce n’era abbastanza per arrivare fino a primavera –; ma, a parte questo, la città era comunque un obiettivo strategico. Dyrrhachium era il più importante porto romano sulla costa adriatica, nonché il punto di partenza della via Ignazia, l’arteria militare che conduceva a Tessalonica (l’odierna Salonicco) e all’Oriente. Se fosse riuscito a farla sua, il condottiero avrebbe potuto far arrivare da Brindisi rinforzi e rifornimenti in tutta sicurezza.

Appena sbarcato, Cesare liberò un prigioniero che si era portato dall’Italia per un compito pianificato da tempo. Lucio Vibullio Rufo, un ufficiale di Pompeo, era caduto nelle mani del condottiero due volte, prima a Corfinium, e poi in Spagna. Prestatogli un cavallo, Cesare gli ordinò di trovare Pompeo e di sottoporgli una proposta di pace. L’idea era che entrambi i generali congedassero i rispettivi eserciti entro tre giorni, per poi lasciare al senato il compito di dirimere le loro divergenze. Peraltro, solo un idiota avrebbe accettato una simile proposta. Negli ultimi nove mesi, Cesare aveva riempito il senato di suoi sostenitori, e qualsiasi decisione da parte loro lo avrebbe sicuramente favorito. Tuttavia, voleva mostrarsi uomo d’onore, desideroso solo di pace e tranquillità. Non era colpa sua, se i suoi nemici lo costringevano perennemente a difendersi…

Mentre Vibullio Rufo cavalcava per compiere la sua missione, il «nemico di Stato» avanzò sulla costa occidentale senza incontrare resistenza. Una dopo l’altra, le città espulsero le guarnigioni pompeiane e i loro comandanti, spalancando le porte all’invasore.

Intanto, mentre lo sbarco cesariano proseguiva a ovest, Pompeo, nella Macedonia nordorientale, smantellava i suoi accampamenti e si preparava a condurre il suo esercito di 40 000 uomini dalla base di Veroia verso occidente, alla volta di Dyrrhachium, dove avrebbe trascorso l’inverno, del tutto ignaro dell’invasione in corso.

Vibullio Rufo si diresse a nord e raggiunse la via Ignazia, poi deviò velocemente a est, cambiando cavallo in ogni città che incontrava, finché, finalmente, non intercettò Pompeo. Ansimando, lo informò dell’invasione – una notizia che diffuse il panico tra i reparti non romani della sua armata, prestati a suo tempo dagli alleati orientali –, quindi gli riferì l’offerta di pace di Cesare. Come previsto, Pompeo la rifiutò in blocco. Maledicendo il condottiero per averlo colto di sorpresa due volte in dodici mesi – prima attraversando il Rubicone con una sola legione, poi invadendo la Grecia alla vigilia dell’inverno –, Pompeo ordinò di marciare verso Dyrrhachium a velocità doppia, giorno e notte. Se Cesare fosse arrivato prima di lui, e avesse messo le mani sui suoi rifornimenti, sarebbero stati guai grossi.

La corsa per Dyrrhachium era cominciata.