8 PROMESSE NON MANTENUTE

A gennaio, mentre era accampata a Narbona nel sud della Francia, la Decima legione aveva salutato il capo centurione Crastino e i suoi pari grado. Il loro periodo di servizio, della durata di sedici anni, era giunto al termine, e il generale Fabio, convinto che la guerra civile si sarebbe conclusa entro breve tempo, non aveva trovato un valido motivo perché gli uomini in questione non dovessero essere congedati. Fabio era stato governatore dell’Asia nel 58-57 a.C. e, come Marco Antonio, aveva servito sotto Cesare in Gallia fin dal 54 a.C. Era un uomo ligio al regolamento, senza doti particolari e forse con gravi problemi di salute, come ci fa sospettare la sua morte per cause naturali, avvenuta quello stesso anno.

I vecchi centurioni della Decima furono sostituiti da uomini della leva del 61 a.C., che Fabio aveva promosso di uno o due gradi affinché potessero occupare le posizioni vacanti. Fra costoro c’erano Gaio Clusinate, Marco Tirone e Tito Salieno.

Non sappiamo dove i centurioni congedati avessero deciso di andare. Molti, se non tutti, erano di origine ispanica, come Crastino. Ma a quel tempo la Spagna era in mano a Pompeo. Se fossero tornati laggiù, avrebbero corso il rischio di essere riarruolati dal nemico di Cesare. Probabilmente aspettarono nei dintorni di Narbona che si depositasse la polvere sollevata dalla guerra civile.

Tra la metà di gennaio e la metà di marzo, i reclutatori di Cesare si diedero molto da fare in Italia. Migliaia di giovani furono inquadrati in tredici legioni frettolosamente costituite. Nell’autunno, altre due unità legionarie sarebbero state create per prestare servizio nei Balcani. Queste nuove quindici legioni andavano dalla Ventunesima alla Trentacinquesima. Irritato dallo smacco subìto a Brindisi e risoluto a sottrarre la Spagna all’egemonia di Pompeo, Cesare aveva emanato un gran numero di direttive tattiche mentre si dirigeva a Roma per prendere le redini del governo. Plutarco osserva che il condottiero era abilissimo nell’usare al meglio quanto aveva concretamente sotto mano, e i suoi piani per la conquista della Spagna erano dettagliati e precisi come sempre.

Mentre il generale Fabio guidava la Decima e altre due legioni da Narbona alla Spagna per spianare la via a Cesare, altre tre legioni furono mandate nella penisola iberica attraverso le Alpi e i Pirenei. Intanto la città di Massilia (l’odierna Marsiglia, nella Francia meridionale), già antica di seicento anni, aveva chiuso le porte agli emissari del condottiero, inducendolo a inviare altre tre legioni, al comando del generale Gaio Trebonio, per cingerla d’assedio. Contemporaneamente, per ovviare alla perdita della cavalleria di Labieno, forte di tremila effettivi, Cesare spedì emissari a tutte le tribù della Gallia, affinché facessero affluire in Spagna i loro migliori guerrieri a cavallo, secondo quote specifiche per ciascun gruppo tribale. Il condottiero precisò persino i nomi dei nobili delle tribù che voleva si unissero a lui.

Come risultato, la Decima e le due legioni consorelle marciarono rapidamente verso ovest e liberarono i passi dei Pirenei dai presidi pompeiani. All’arrivo della primavera, sei legioni e tremila cavalieri galli si incontrarono nella Spagna occidentale con il generale Fabio, in attesa che Cesare arrivasse da Roma per prendere il comando operativo. Queste legioni, oltre alla Decima, erano la Settima e la Nona (le sorelle ispaniche della Decima), più la Quattordicesima (un’altra legione veterana della Gallia), come pure la Ventunesima e la Trentesima (due nuove unità create nell’Italia del Nord, che si erano affrettate ad attraversare le Alpi precedendo Cesare). Per l’assedio di Massilia, pare che il condottiero si avvalesse della sua collaudata Undicesima legione, con l’appoggio di due nuove unità, la Ventiduesima e la Ventitreesima. L’ultima delle legioni originarie di Cesare, la Sedicesima, sembra esser stata lasciata di presidio nella Francia centrale, con l’arduo compito di tenere sotto controllo l’intera regione.

Cesare arrivò a Roma a inizio primavera, e tra il 1° e il 3 aprile si incontrò con i pochi senatori ancora in loco. Dopodiché nominò nuovi senatori per sostituire quelli – ed erano centinaia – che avevano scelto di fuggire con Pompeo. Non pago, sistemò gli affari di stato in modo per lui soddisfacente, e procedette alla nomina di nuovi governatori provinciali e comandanti dell’esercito.

Anche se al momento gli interessava soprattutto la Spagna, il condottiero era preoccupato dai dispacci provenienti dai Balcani. Le città della provincia dell’Illiria, oltre l’Adriatico, che aveva governato per un decennio, adesso serravano le porte davanti ai suoi emissari. Alcune erano cadute in mano ai seguaci di Pompeo, altre a «banditi» locali intenzionati a conquistare l’indipendenza. Così, prima di lasciare Roma, Cesare mise in moto una nuova operazione: il fratello minore di Marco Antonio, Gaio, sarebbe sbarcato di sorpresa sulle coste dell’Illirico per riconquistare la provincia con la nuova Ventiquattresima legione e metà della Ventottesima. Il numero delle truppe in questione, circa 7500, sembra essere stato deciso in base alle forze navali che i sostenitori di Cesare potevano mettere a disposizione per lo sbarco.

Con l’operazione per l’Illirico in atto, Cesare lasciò Roma nelle mani di Marco Lepido, assegnando a Marco Antonio tutte le truppe di stanza in Italia. Costui elesse il proprio quartier generale nella città chiave di Placentia (l’odierna Piacenza), sulla riva meridionale del Po. Le legioni ai suoi ordini, invece, si disposero in modo strategico a Brindisi e nelle altre città della Puglia.

Finalmente, Cesare si mise in marcia verso la Spagna. Non sappiamo quanto tempo gli fu necessario per arrivare a destinazione. Il viaggio in lettiga da Roma a Cordova, nel 61 a.C., era durato ventiquattro giorni. Ma adesso il condottiero si muoveva a cavallo, in compagnia della sua inseparabile guardia del corpo germana. Anni addietro, conducendo personalmente il proprio carro, Cesare aveva coperto il percorso da Roma alla Francia meridionale in otto giorni, perciò è possibile che abbia raggiunto i Pirenei nell’arco di due settimane. Lassù, in attesa del suo arrivo, c’erano 600 cavalieri di Labieno. Distaccati presso il generale Fabio all’inizio dell’inverno, costoro erano rimasti fedeli al condottiero. Cesare li aggregò ai suoi reparti e, valicati i Pirenei, si diresse verso la Spagna orientale per riunirsi alle truppe di Fabio.

Per qualche tempo, Cesare non si capacitò del fatto che 3000 cavalieri di Labieno avessero defezionato e ora si trovassero in Grecia con Pompeo e lo stesso Labieno. I dati dimostrano che il condottiero, nel corso della guerra civile, fosse abituato a dettare il suo resoconto degli eventi entro pochi giorni da quando erano accaduti. Così, per nascondere la perdita di quei cavalieri, dapprima aumentò di 3000 unità il numero di soldati a cavallo che aveva a disposizione in Spagna. Quando poi si trattò di narrare la guerra in Grecia e Albania, fece comparire in scena per la prima volta Labieno, ammettendo che il suo vecchio vicecomandante, e soprattutto le sue truppe a cavallo, erano passati dalla parte del nemico.

Continuando la marcia con i suoi novecento cavalieri, Cesare trovò il generale Fabio nella Spagna nordorientale, sulle rive del fiume Segre (l’antico Sicoris), mentre fronteggiava cinque legioni pompeiane. Al riguardo, il quadro strategico generale aveva il pregio della semplicità: ad affrontare le sei legioni cesariane c’erano le sei legioni veterane di Pompeo e una nuova unità, arruolata in fretta e furia nel bacino tradizionale della Decima, la provincia Betica, e chiamata con scarsa fantasia Indigena, ovvero «locale». I reparti di Pompeo erano appoggiati da 5000 cavalieri reclutati in loco e da parecchi ausiliari ispanici. Inizialmente divise in tre gruppi, adesso le armate pompeiane erano concentrate in due. Quanto all’Indigena, era stata lasciata nella Spagna occidentale con il governatore della Betica – il famoso scrittore Marco Terenzio Varrone – e la Seconda legione. Quest’ultima era uno dei contingenti originari di Pompeo, istituito (come la Prima) nell’84 a.C. e inizialmente stanziato in Italia, nel territorio del Piceno. In tempi più recenti, l’unità era stata trasferita nella Gallia cisalpina.

Deciso a intercettare Cesare nella Spagna orientale, un esercito di cinque legioni avanzò agli ordini del maturo e pacato generale Lucio Afranio, e del suo vice, l’irruente Marco Petreio. Afranio era un vecchio amico di Pompeo, e come lui originario del Piceno. Aveva servito sotto il suo comando in Spagna e in Medio Oriente nei due decenni del 70-60 a.C., all’apice dei successi pompeiani, per poi diventare console nel 60 a.C. e governatore della Spagna citeriore nel 55 a.C. Lucio era determinato a fare del suo meglio per difendere la Spagna nel nome di Pompeo.

Le legioni di Afranio erano la Valeria (un’altra delle legioni primigenie di Pompeo, attualmente reclutata nella Gallia cisalpina), la Terza (proveniente anch’essa dalla Gallia cisalpina), la Quarta, la Quinta e la Sesta. Queste ultime erano tutte unità veterane di origine ispanica, i cui legionari, fra i trentatré e i trentasei anni, sarebbero stati congedati l’anno successivo. La Sesta era la stessa legione che aveva fedelmente combattuto al fianco di Cesare in Gallia nel 52-50 a.C. Prestata da Pompeo al culmine della ribellione di Vercingetorige, era poi rientrata nella Spagna orientale.

Il generale Afranio decise che il territorio più adatto alle sue manovre era quello intorno a Ilerda (l’odierna Lérida, in Catalogna), a circa ottanta miglia da Barcellona in direzione ovest. Situata su una collina, la città si affacciava sulla riva destra del Segre, non lontano dalla confluenza con l’Ebro. Dopo aver schierato le sue forze nell’area, il generale occupò Ilerda e fece allestire un campo fortificato negli immediati dintorni. Allorché Cesare raggiunse Fabio sul Segre nella seconda metà di aprile, i due schieramenti avevano già ingaggiato qualche scaramuccia, ma senza spingersi oltre.

Cesare attraversò i due ponti sul Segre appena costruiti su ordine di Fabio, e si diresse verso le forze di Pompeo schierate nei pressi di Ilerda. Giunto sul posto, fece allestire nelle settantadue ore seguenti un campo fortificato. Dopodiché, postosi al comando diretto di tre legioni, diede inizio a un’operazione a sorpresa, avente per scopo la conquista di una piccola altura che si innalzava fra la città e il campo di Afranio. In questo modo, avrebbe diviso le forze nemiche. Due delle unità impegnate nell’incursione erano la Nona e la Quattordicesima. Non si conosce l’identità della terza, ma alla luce degli eventi successivi dev’essere stata una delle nuove legioni italiche, totalmente inesperte.

Intuendo i propositi di Cesare, Afranio anticipò le mosse dell’avversario e mandò subito le coorti di guardia a occupare l’altura, seguite a ruota da nutriti rinforzi. Per l’avanguardia cesariana le cose si misero male fin dal principio. La Quattordicesima, che occupava una delle ali dello schieramento (e oltretutto era sotto organico), dovette subire un attacco feroce, che la costrinse a lasciare sul campo parecchi uomini. Non potendo tenere a lungo la posizione, ben presto si ritirò. L’arretramento della Quattordicesima, tuttavia, scatenò il panico tra le reclute della legione italica. Cesare dovette intervenire di persona, conducendo la Nona a ristabilire la situazione. La carica di quest’ultima fece sbandare le truppe di Afranio, le quali vennero inseguite fino alle prime balze del colle su cui sorgeva Ilerda. Qui, i pompeiani si riorganizzarono, e con una mossa a sorpresa accerchiarono la Nona, che dunque si ritrovò isolata su un dirupo della collina, largo appena a sufficienza per fare schierare tre coorti una accanto all’altra.

Nelle cinque ore che seguirono, Cesare cercò più volte di sfondare le linee nemiche, mentre gli uomini della Nona, ancora accerchiati, continuavano disperatamente a resistere. Infine, la cavalleria cesariana riuscì a guadagnare il dirupo e a incunearsi fra la Nona e i soldati di Afranio, permettendo ai legionari di ritirarsi prima di fare lo stesso.

Il generale di Pompeo dichiarò di avere vinto lo scontro, e spedì messaggeri in Italia con la notizia che Cesare era stato battuto. Quest’ultimo ammise la perdita di settanta uomini nelle fasi iniziali della mischia, compreso un centurione di primo rango della Quattordicesima, oltre a più di seicento feriti, ma non riferì mai quante perdite avesse accusato nelle cinque ore di battaglia sotto Ilerda. Secondo il condottiero, quello stesso giorno i pompeiani lasciarono sul campo più di duecento uomini.

Due giorni più tardi, una tempesta violentissima si abbatté sulla regione. La furia degli elementi distrusse i due ponti alle spalle di Cesare, tagliandogli ogni via di rifornimento. Cogliendo al volo un’occasione insperata, Afranio scatenò un attacco nelle retrovie del suo avversario, infliggendo più di duecento perdite a una colonna che portava rinforzi e vettovaglie. Impossibilitato a ricostruire i ponti perché l’altra riva era in mano al nemico, Cesare, memore della Britannia, fece preparare in fretta delle zattere a chiglia piatta, e con queste traghettò le sue truppe durante la notte, affinché scacciassero i soldati di Afranio dalla riva opposta. Una volta rioccupate entrambe le sponde, poté ripristinare i ponti e servirsi di nuovo delle colonne di rifornimento.

Lentamente, con il passare delle settimane, a Ilerda la situazione cambiò. La cavalleria cesariana disperse gli ausiliari di Afranio in cerca di cibo nelle campagne, e i pompeiani, rinchiusi dentro le mura del campo e della città, si ritrovarono non solo tagliati fuori da ogni possibile soccorso esterno, ma anche a corto di viveri. Viceversa, anche grazie all’aiuto volontario di cinque tribù locali, Cesare se la passava bene. A questo punto, piuttosto che doversi arrendere per fame, Afranio e Petreio decisero di tentare una sortita per raggiungere le montagne del Nord, dove le tribù fedeli a Pompeo li avrebbero certamente aiutati e riforniti di cibo.

I pompeiani elaborarono con cura il loro piano; dopodiché, un giorno di luglio, portandosi dietro provviste sufficienti per tre settimane, colsero di sorpresa il nemico e riuscirono a fuggire. Naturalmente, Cesare non restò a guardare. Sulle prime pensò di inseguire il nemico solo con la cavalleria, poi, dimostrando per l’ennesima volta la vivace reattività che gli era propria, si gettò all’inseguimento con cinque legioni. A tappe forzate, raggiunse Afranio a cinque miglia dalle montagne. Entrambe le parti si accamparono, ma poi Cesare riprese a muoversi, dando l’impressione di volersi ritirare. In realtà, il condottiero intendeva aggirare le truppe di Afranio e schierare i suoi uomini ai piedi delle montagne, là dove i reparti pompeiani sarebbero dovuti passare.

Quando Afranio vide che i soldati di Cesare si erano attestati fra le sue truppe e le montagne, fece subito evacuare il campo e condusse di corsa i suoi uomini verso i monti, abbandonando gran parte dell’equipaggiamento. Tuttavia, i cesariani furono più veloci e gli tagliarono la strada. Afranio tentò di spedire sulle alture duemila ausiliari, ma la cavalleria nemica li intercettò e li sbaragliò. A questo punto, i pompeiani dovettero tornare sui loro passi, riguadagnando il campo di partenza, dove si riappropriarono dell’equipaggiamento che avevano abbandonato.

Mentre Afranio e Petreio si trovavano all’esterno del campo per supervisionare lo scavo di una linea di trincee a guardia delle scorte d’acqua, alcuni uomini della Decima, Nona e Settima legione (agli ordini di Cesare) cominciarono a fraternizzare con i colleghi ispanici della Quarta, Quinta e Sesta legione (agli ordini di Pompeo). Molti fra loro erano concittadini, perfino parenti, e presto i cesariani si avventurarono nel campo avversario, sedendo, chiacchierando e mangiando insieme ai compatrioti, tutti convinti che fosse una follia combattersi a vicenda. Alcuni ufficiali pompeiani si spinsero perfino da Cesare per proporre un negoziato di resa.

Quando questi episodi giunsero alle loro orecchie, Afranio e Petreio tornarono di corsa al campo. I due convocarono un’assemblea, nel corso della quale Petreio fece giurare alle truppe di rimanere fedeli a Pompeo e di non arrendersi mai. Dopodiché, ordinò a quanti avevano colleghi di parte cesariana nelle loro tende di portarli fuori. I soldati obbedirono, e i malcapitati che avevano trovato ospitalità presso il nemico – tra cui molti legionari della Decima – furono subito giustiziati sotto gli occhi di tutti.

Afranio e Petreio si consultarono sul da farsi. Era chiaro che Cesare non avrebbe permesso loro di raggiungere le montagne. Un’alternativa era dirigersi verso il porto di Tarraco (l’odierna Tarragona), sulla costa est, dove la flotta di Pompeo avrebbe potuto rifornirli con il copioso grano immagazzinato a Gades (l’attuale Cadice), sita più a sud e controllata dalle forze lealiste. Avrebbero potuto persino essere evacuati via mare e raggiungere Pompeo in Grecia. Ma Tarragona era a una settimana di distanza, e i legionari potevano contare solo su provviste per pochi giorni, mentre gli ausiliari erano già a secco. I generali si resero conto che questa ipotesi non era praticabile. Però avevano lasciato un po’ di grano a Ilerda, e quindi pensarono di tornarvi: si trattava di un’opzione a breve termine, perché una volta che anche quelle riserve di grano si fossero esaurite si sarebbero ritrovati nella situazione di partenza. Del resto, non c’erano altre soluzioni.

E così, i pompeiani abbandonarono il campo e tornarono da dov’erano venuti. Cesare si mise subito alle loro calcagna, a tal punto che gli uomini di Afranio riuscirono a coprire appena poche miglia di prima mattina, per poi doversi fermare, già esausti, allo scopo di allestire un nuovo campo. Quanto a Cesare, edificò il proprio a due miglia di distanza. Nel frattempo, i pompeiani si misero ad ammazzare tutte le loro bestie da soma, vuoi per mangiarle, vuoi perché non avevano più foraggio.

I legionari di Cesare eressero fortificazioni intorno al nemico, per circondarlo come avevano già fatto con Vercingetorige ad Alesia tre anni prima. I pompeiani rinforzarono le proprie difese e osservarono il lavoro dell’avversario per tre giorni, finché, alle tre del pomeriggio, Afranio fece uscire dal campo il suo esercito al gran completo e lo schierò in ordine di battaglia, con cinque legioni nelle prime due linee e gli ausiliari in retroguardia. Cesare fece altrettanto, piazzando quattro coorti sulla prima linea e tre rispettivamente nella seconda e terza linea. Quasi certamente la Decima legione si trovava sull’ala destra dello schieramento.

Le due armate si fronteggiarono in silenzio, con gli ispanici che non volevano combattersi a vicenda. Nessuno fece la prima mossa. Lo stallo si prolungò fino al tramonto, quando entrambi i contendenti si ritirarono nei loro campi. In seguito Cesare non sarebbe stato così riluttante a dare il segnale d’attacco, ma agli inizi della guerra civile aveva apparentemente timore di essere accusato di aver fatto uccidere altri romani. A quell’epoca, le parole «condotta cavalleresca», «magnanimità» e «benevolenza» facevano ancora parte del suo vocabolario. Inoltre si rendeva conto che dall’altra parte c’erano uomini con ben poco cibo e ancora meno acqua a disposizione, sotto il sole cocente dell’estate spagnola. Il loro punto di rottura non era lontano; alcuni, significativamente, avevano già tentato di arrendersi. Si trattava solo di aspettare.

E difatti non occorse aspettare molto. Il giorno seguente, 2 agosto, Afranio e Petreio spedirono messi a Cesare, per intavolare negoziati di pace. C’era però una condizione preliminare: le trattative si sarebbero dovute svolgere al chiuso, lontano dalle orecchie dei soldati. Cesare, viceversa, insistette per discutere all’aperto e davanti a tutti. A malincuore, i generali di Pompeo acconsentirono, e Afranio inviò come ostaggio il proprio figlio, poco più che un bambino, in segno di buona volontà.

A quel punto Cesare raggiunse il campo nemico, mentre le sue legioni si schieravano come se fossero in parata, con gli elmi piumati e le decorazioni che scintillavano al sole. Le truppe di Afranio e Petreio si allinearono sui terrapieni del campo, guardando con ansia i loro comandanti uscire dalla porta pretoria e incontrare il condottiero nemico all’aperto. Seguirono discorsi da entrambi le parti, che tutti poterono udire. Afranio ammise la sconfitta e chiese umilmente di potersi arrendere a condizioni onorevoli.

Come risposta, dapprima Cesare rimproverò Afranio e i suoi ufficiali anziani di essersi schierati con Pompeo, ma poi assicurò che sarebbe stato clemente nei loro riguardi. In effetti, i termini di resa che propose furono più che generosi: Afranio e il suo stato maggiore avrebbero dovuto giurare di abbandonare per sempre la guerra civile; le loro truppe avrebbero dovuto consegnare le armi, dopodiché i reparti si sarebbero sciolti e tutti sarebbero tornati a casa. Udendo Cesare che scandiva ad alta voce le sue condizioni, le truppe pompeiane, che fino a quel momento avevano temuto la vendetta del loro nemico, cominciarono a urlare in segno di approvazione. Di conseguenza, Afranio non ebbe scelta. Volente o nolente, dovette acconsentire alla resa.

Il 4 agosto, gli uomini della Quarta e della Sesta legione, dopo essere stati disarmati, furono formalmente congedati da Cesare ed esortati a tornarsene a casa. La rafferma di entrambe le unità scadeva quell’anno, quindi non c’era problema di sorta. I soldati così congedati si avviarono verso le loro terre nella Spagna orientale. Poco dopo, Cesare congedò anche la Quinta. Contemporaneamente, tuttavia, fece attestare la Terza e la Valeria lungo la strada della valle del Var, nel Sud della Francia. Poche miglia a ovest di Nizza, il fiume Var segnava il confine fra la Gallia transalpina e il territorio di appartenenza delle due legioni, la Gallia cisalpina. Il condottiero promise a questi ex pompeiani che una volta giunti al fiume sarebbero stati pagati e posti in congedo definitivo.

La colonna diretta al Var era guidata dalla Settima e dalla Nona legione, che Cesare aveva scelto di proposito. Entrambe di origine ispanica, anch’esse – come la Quarta, la Quinta e la Sesta – erano pronte per il congedo. Sulla base di quel che successe in seguito, si può ipotizzare che gli uomini delle due unità (soprattutto quelli della Nona), vedendo le legioni ispaniche di Pompeo ricevere la paga e il congedo, cominciassero a mormorare e a chiedersi perché anche loro non potessero tornare a casa. Si consideravano meritevoli del commiato dall’esercito come i loro ex avversari, se non di più. Dopotutto, avevano vinto. Cesare, tuttavia, deciso a tenere in campo i suoi uomini migliori per tutto il tempo necessario a sconfiggere Pompeo e vincere la guerra, decise di ignorare queste avvisaglie, e di spedire la Settima e la Nona verso il Var. In seguito, le due legioni avrebbero proseguito per l’Italia, dopo il congedo della Terza e della Valeria, fino a raggiungere Antonio a Piacenza, dove avrebbero atteso altri ordini.

Per il momento, il condottiero tenne con sé in Spagna la Decima, la Quattordicesima, la Ventunesima e la Trentesima. La Decima aveva ancora quattro anni di servizio prima del congedo, la Quattordicesima sette, mentre le altre erano state appena costituite.

A questo punto, Cesare rilasciò Afranio, Petreio e i loro ufficiali anziani, fidandosi della loro promessa di non partecipare più alla guerra civile, e si diresse a sudovest, determinato ad affrontare le ultime due legioni pompeiane presenti in Spagna, cioè la Seconda e l’Indigena, di stanza a Cordova sotto il generale Varrone. Lasciando a est la Decima e la Quattordicesima con il grosso della cavalleria, il condottiero inviò il generale Quinto Cassio Longino verso Cordova con la Ventunesima e la Trentesima, mentre lui stesso procedeva separatamente con una forza di seicento cavalieri. Allo stesso tempo spedì messaggi a tutte le città della Spagna occidentale, affinché espellessero le guarnigioni di Pompeo.

Intanto Varrone, vecchio amico di Cesare ma anche uomo che avvertiva l’obbligo morale di servire Pompeo, decise di trasferirsi con le sue due legioni a Cadice, per proteggere il grano e i trasporti. Durante la marcia, l’Indigena si staccò dalla colonna e si attestò a Hispalis (l’odierna Siviglia). Ma i cittadini di Cordova e quelli di Cadice espulsero le guarnigioni fedeli a Pompeo, sicché Varrone si ritrovò isolato con la Seconda legione, e senza un luogo sicuro in cui rifugiarsi. Fece dunque sapere a Cesare che era pronto a consegnare la Seconda legione. Il condottiero accettò, e dispose che la Seconda fosse assegnata a un suo lontano parente, Sesto Cesare. I comandanti dei due schieramenti si incontrarono a Cordova, dove Varrone consegnò all’avversario il denaro pubblico e ogni proprietà di valore.

Così, la Spagna occidentale cadde nelle mani di Cesare senza eccessivo spargimento di sangue. Dopo aver assorbito la Seconda e l’Indigena nelle sue truppe, il condottiero le utilizzò come guarnigione della provincia insieme alla Ventunesima e alla Trentesima, sotto Cassio Longino, fratello del Cassio futuro cesaricida. A questo punto, il sempre più temibile «nemico di Stato» confiscò una dozzina di navi pompeiane a Cadice e salpò alla volta di Tarragona. Laggiù lo aspettavano molte delegazioni ispaniche, come pure alcune spiacevoli notizie.

Il principale racconto degli eventi successivi è stato espunto dalle memorie di Cesare dai suoi chiosatori, ma da quanto si evince da altri passi in esse contenuti e da ulteriori fonti, è possibile capire cosa avvenne. Mentre il condottiero si trovava ancora a Ovest, Afranio e Petreio erano giunti a Tarragona. Contemporaneamente, una squadra di diciotto navi pompeiane, al comando dell’ammiraglio Lucio Nasidio, aveva fatto il suo ingresso in porto.

Nasidio era venuto dalla Grecia su ordine di Pompeo, con l’incarico di aiutare Massilia a difendersi da Cesare. Il convoglio navale aveva fatto una sosta a Messina, lasciata incustodita dal comandante cesariano locale, Curione. Da qui, dopo essersi impossessato di un’altra nave in rada, l’ammiraglio aveva attraversato il Mediterraneo fino a Massilia. Giunte a destinazione, le sue navi si erano unite ad altre undici costruite dagli abitanti locali, e già usate in battaglia contro la flotta cesariana, guidata dal veterano capo della marina, Decimo Bruto. Bruto aveva vinto, affondando cinque scafi nemici e catturandone quattro. Uno dei legni superstiti si era congiunto alla flotta di Nasidio; dopodiché, l’ammiraglio si era risolto a ritirarsi nella Spagna citeriore.

L’inatteso arrivo di una piccola flotta amica al porto di Tarragona fu un autentico miracolo per Afranio. Dopo aver convocato i suoi ufficiali, il generale pompeiano si diede da fare per richiamare i congedati della Quarta e della Sesta legione, che si aggiravano ancora nei dintorni, riuscendo a radunarne 2500: quanto bastava per costituire sette coorti. Dimentichi della promessa fatta a Cesare, Afranio e i suoi si imbarcarono sulla flotta di Nasidio e fecero vela per la Grecia, dove li aspettava Pompeo.

Irritato dal tradimento di Afranio e dalla fuga verso la Grecia di migliaia di veterani ispanici, Cesare decise di concentrarsi sul problema immediato, l’assedio di Massilia, che il generale Trebonio non riusciva a concludere nonostante le sue tre legioni e la forza navale di Decimo Bruto. Lasciando l’esausta Quattordicesima in Spagna, il condottiero marciò su Massilia con la Decima legione.

Restio a privarsi di truppe esperte, Cesare apprese con disappunto che il generale Fabio, a gennaio, aveva permesso ai centurioni anziani della Decima di congedarsi. Così, mentre si dirigeva verso Massilia, li fece richiamare tutti. Secondo le regole, costoro, dopo il congedo, avrebbero dovuto restare a disposizione dell’esercito per altri quattro anni, fornendo nomi e indirizzi alle autorità locali dovunque si stabilissero.

Da un punto di vista giuridico, i centurioni non avevano scelta. In realtà, a parecchi di loro forse già prudevano le mani all’idea di tornare in azione. Gaio Crastino, per esempio, rispose subito alla chiamata. Non sappiamo dove si trovasse in quel momento, ma di certo era con la Decima quando la legione entrò a Brindisi diverse settimane dopo.

Cesare e la Decima arrivarono a Massilia agli inizi di ottobre, proprio mentre la città cedeva finalmente all’assedio di Trebonio, e dopo che il comandante pompeiano, Lucio Domizio Enobarbo, era fuggito per mare. Costui era lo stesso comandante di Corfinium, quello che aveva giurato a Cesare di non prendere più parte alla guerra civile. Domizio, invece, si era subito recato a Massilia per sostenere i suoi abitanti. Dopo essere stato deluso da Afranio, Petreio, e ora anche da Domizio, in futuro il condottiero non avrebbe più perdonato alcun generale.

Cesare fu compiaciuto della caduta di Massilia, ma presto gli arrivarono altre brutte notizie. Appiano racconta che Marco Antonio gli aveva inviato un messaggio da Piacenza nel quale riferiva che la Nona legione, che lo aveva raggiunto sul Po dopo aver scortato la Terza e la Valeria sul Var, esigeva il congedo e il bonus promesso da Cesare agli inizi della guerra civile, e adesso si rifiutava di obbedire agli ordini. La Settima legione, influenzata dalla Nona, si stava comportando allo stesso modo. Antonio spiegava che non c’era niente che potesse dire o fare per convincere le unità a scendere a più miti consigli, e pregava Cesare di venire di persona a risolvere il problema.

In parte, nondimeno, il «problema» era colpa dello stesso Antonio. Plutarco ci informa che era troppo pigro nell’ascoltare le lamentele, che si irritava se gli arrivavano petizioni, e che rifiutava le richieste della Nona senza neanche ascoltarne le ragioni. Il risultato fu che il malcontento si trasformò in ammutinamento.

Prima di lasciare Marsiglia, Cesare mise a punto i suoi piani strategici e diramò i relativi ordini tattici. Gaio Curione, in Sicilia con quattro legioni, avrebbe dovuto affidare l’isola al generale Aulo Albino e invadere la Tunisia via mare. Per ispirare le sue truppe, Curione disse loro che Cesare aveva conquistato tutta la Spagna in quaranta giorni dal primo scontro con il nemico. Si trattava di una bugia clamorosa, visto che c’erano voluti mesi. Oltretutto, il valore tattico dell’invasione della Tunisia sembrava a dir poco dubbio. Le forze pompeiane nella provincia d’Africa – come venivano chiamate la Tunisia e la Libia occidentale – erano piuttosto striminzite, e non c’erano indicazioni che l’alleato numida di Pompeo, il re Giuba – che per di più era alle prese con gravi problemi interni – avesse intenzione di mandargli altri rinforzi in Grecia, oltre alle poche migliaia di fanti che aveva già inviato. Forse l’invasione doveva scongiurare il possibile allestimento di basi navali pompeiane sulla costa, ma né Cesare né altri scrittori classici ci offrono in proposito una spiegazione convincente (a parte la circostanza che la Tunisia abbondava di grano, e il fatto che il condottiero era sempre in cerca di prestigio).

Il bersaglio principale restava però la Grecia. In vista dell’invasione, Cesare selezionò dodici legioni e la sua cavalleria più esperta, e presto diramò i relativi ordini d’imbarco a Brindisi. Come unità assegnata all’operazione, la Decima marciò alla volta di Brindisi con l’Undicesima, reduce dall’assedio di Massilia. La Ventiduesima e la Ventitreesima restarono nella città francese, a tenere sotto controllo i locali. La Trentunesima e la Trentatreesima – due unità nuove di zecca – furono spedite nella Spagna orientale per unirsi alla Quattordicesima. Marco Lepido sostituì Afranio come governatore della Spagna citeriore. Quanto a Cesare, si apprestò a raggiungere Roma passando per Piacenza.

Quando si trovò nei pressi del Po il condottiero ricevette altre cattive notizie. Il fratello minore di Antonio, Gaio, aveva lanciato la prevista operazione anfibia contro l’Illirico, utilizzando Brindisi o Otranto (l’Hydruntum dei romani) come base operativa. Tuttavia, una flotta pompeiana salpata dall’Achea – una regione della Grecia meridionale sotto il controllo dell’ammiraglio Marco Ottavio – aveva intercettato nell’Adriatico le sue quaranta navi trasporto. Sobillati dal centurione Tito Puleio, gli uomini della Ventiquattresima e della Ventottesima a bordo del convoglio del giovane Gaio avevano dichiarato di voler disertare piuttosto che combattere per Cesare, e si erano rifugiati nella base navale di Corfù, in mano alle forze di Pompeo.

Non si sa di preciso cosa accadde nei mesi successivi a Gaio Antonio. O diede la sua parola di tenersi fuori dalla guerra civile e fu rilasciato da Ottavio, oppure fu tenuto prigioniero in Grecia e poi liberato dopo le vittorie di Cesare l’anno seguente. Con ogni probabilità, l’ipotesi più attendibile è la prima, visto che Gaio non ricoprì altre cariche militari nel corso della guerra e divenne tribuno civile a Roma tre anni più tardi. Quanto ai legionari rifugiatisi a Corfù, furono assorbiti nelle truppe di Pompeo. Sia le navi che gli uomini sarebbero mancati molto a Cesare.

Di umore tetro dopo la débâcle nell’Adriatico, il condottiero radunò le legioni accampate a Piacenza con Marco Antonio. Gli uomini della Nona e della Settima si avvicinarono guardinghi, e Cesare salì sul tribunal.

«Soldati miei!» furono le sue parole d’esordio, scandite in tono severo. Detto questo, come racconta Appiano, il condottiero ricordò ai legionari la sua abitudine a muoversi rapidamente, senza indugiare né esitare. La guerra procedeva a rilento solo perché il nemico era fuggito, non certo per cose che lui avesse fatto o non fatto. «Mi avete giurato fedeltà per tutta la durata del conflitto, non solo per una parte», continuò, «eppure adesso mi abbandonate a mezza strada e vi ammutinate contro i vostri ufficiali. Sapete bene quanto vi abbia stimato finora. Tuttavia, non mi lasciate altra scelta. Rimetterò in auge un antico costume. Dato che la principale istigatrice della protesta è stata la Nona legione, dai suoi ranghi sarà estratto a sorte un uomo ogni dieci. E sarà messo a morte.»

Gli astanti inorridirono. Una decimazione per punire un ammutinamento? Nessuno si ricordava quando una cosa del genere fosse accaduta l’ultima volta. Voci disperate presero a levarsi dalla Nona. Quando gli ufficiali della legione gli si avvicinarono per supplicarlo di soprassedere, Cesare esitò un istante, poi intimò ai centurioni dell’unità sotto accusa di fare i nomi dei centoventi uomini che avevano guidato la rivolta. A questi centoventi fu ordinato di tirare a sorte. Il destino non arrise a uno su dieci fra loro. Quando però si venne a sapere che uno dei dodici condannati non si trovava nemmeno al campo durante la sommossa, il vendicativo centurione che ne aveva fatto il nome fu trascinato al suo posto per andare a morire.

Dopo che i dodici furono massacrati dai compagni a colpi di mazze e randelli, Cesare informò la Settima e la Nona che le aveva selezionate per prendere parte alla più grande operazione dell’intero conflitto. Di conseguenza, avrebbero dovuto mettersi in marcia per raggiungere a Brindisi gli altri reparti. Sembra che anche la Tredicesima si trovasse a Piacenza, essendo arrivata proprio da Brindisi quella primavera, per aiutare Marco Antonio ad addestrare le nuove legioni. Forse la Tredicesima era una delle dodici unità che Cesare si riprometteva di utilizzare in Grecia; ma avendo perso quaranta navi trasporto nel disastro dell’Adriatico, il condottiero fu costretto a ridimensionare il numero delle truppe. Così, la Tredicesima raggiunse la Quattordicesima, la Trentunesima e la Trentaduesima nella Spagna citeriore.

Dopo la sua sosta forzata a Piacenza, Cesare si affrettò a Roma, dove fece breve uso del titolo e dei poteri di dittatore, una carica d’emergenza che durava al massimo sei mesi. Il condottiero, in altre parole, poté avvalersi di quella che oggi chiameremmo legge marziale; tanto più che, nella sua temporanea veste di dittatore, era affrancato da qualunque controllo di legalità. Questo gli permise di trascorrere undici giorni immerso negli affari di stato.

Nel tardo autunno, accompagnato da Marco Antonio e da molti generali di grande esperienza, Cesare lasciò la capitale e si avviò verso il punto di imbarco a Brindisi, mentre rivedeva tra sé ogni particolare, per quanto minuto, dell’imminente campagna contro Pompeo.