1 IL RISCHIO DELLA DISFATTA
Era un gran giorno per morire. E prima che il sole fosse tramontato, 34 000 uomini avrebbero perso la vita in questa valle. I militi della Decima legio non si facevano illusioni. Sapevano che molti di loro sarebbero caduti nella battaglia ormai imminente. Tuttavia, per dei romani, non c’era nulla di più glorioso di una morte sul campo. E se gli uomini di questa legione dovevano morire, probabilmente non esisteva un luogo migliore, o un giorno più adatto, per andare incontro alla propria sorte, sul suolo di casa, sotto un cielo di un azzurro perfetto.
Neppure un alito di vento sfiorava i legionari della Decima inquadrati nei loro ranghi, mentre scrutavano l’esercito di Gneo Pompeo dall’altro lato della valle e del fiume. L’armata avversaria aveva preso posizione a cinque miglia di distanza, sui pendii di Munda, una città collinare dell’Andalusia nei pressi dell’odierna Osuna, a sudest di Cordova. Il sole era sorto nel cielo sereno, illuminando una dolce mattina, quella del 17 marzo del 45 a.C. Dopo sedici anni di battaglie in Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Germania, Albania, Grecia, Nord Africa, e dopo aver invaso due volte la Britannia, la Decima legione di Giulio Cesare aveva fatto ritorno al punto di partenza: di nuovo in azione sul suo territorio natio, pronta a misurarsi nello scontro campale che avrebbe posto fine alla più sanguinosa guerra civile di Roma, oppure alla carriera di Cesare, e forse alla sua vita.
Adesso la Decima comprendeva meno di 2000 effettivi, un numero ben lontano dai 6000 legionari che Cesare aveva personalmente reclutato nel 61 a.C. Due terzi dei ranghi erano caduti nel corso degli anni. I sopravvissuti, la cui età oscillava tra i trentatré e i trentasei anni, attendevano di essere congedati quello stesso mese. Ancora una battaglia, aveva promesso Cesare ai suoi veterani ispanici, e poi sarebbe stato felice di mandarli a casa. I legionari avrebbero ricevuto un supplemento di paga e appezzamenti di terreno.
Riconosciuta da amici e nemici come la migliore unità militare di Cesare, la Decima legione costituiva tradizionalmente l’ala destra dell’esercito del condottiero, ancora fermo e in silenzio. La Quinta legione – un’altra unità ispanica – copriva l’ala sinistra dello schieramento. Lo spazio tra le due estremità era occupato da uomini della Terza, della Sesta, della Settima, della Ventunesima e della Trentesima legione. Come la Decima, anche queste forze si presentavano a ranghi ridotti: la Sesta legione, per esempio, aveva potuto schierare solo qualche centinaio di uomini. In tutto, Cesare disponeva di circa 30000 tra legionari e ausiliari, inquadrati in ottanta coorti, o battaglioni. C’erano poi 8000 cavalieri, distribuiti tra i due fianchi: la più grande forza di cavalleria che Cesare avesse mai messo in campo. I cavalli scalpitavano inquieti, fiutando l’odore della paura nell’aria del primo mattino.
Al centro dello schieramento della Decima, a cavallo con elmo e corazza e attorniato dal suo stato maggiore, il cinquantaquattrenne Giulio Cesare indossava il paludamentum, il vistoso mantello scarlatto dei generali romani. Mentre le truppe rimanevano in attesa, Cesare si consultò rapidamente con il comandante della cavalleria, Nonio Asprenate, mettendo a punto gli ultimi dettagli tattici. Dopodiché Asprenate si allontanò a cavallo e raggiunse con i suoi uomini la posizione che gli era stata assegnata – quasi certamente sull’ala destra –, mentre il suo vice, il colonnello Arguezio, disponeva le proprie forze sull’ala sinistra.
Cesare impartì un ordine. Accanto a lui, un attendente a cavallo inclinò la bandiera rossa del generale verso il fronte di battaglia. Un trombettiere disarmato suonò il segnale dell’avanzata a passo di marcia. Lungo tutto lo schieramento, le trombe delle singole unità ripeterono il segnale. Le aquile delle legioni e i vessilli delle unità più piccole si inclinarono verso il nemico. Le truppe, disposte in tre linee di 10000 uomini ciascuna, si mossero ordinatamente.
Cesare aveva sperato di attirare i suoi avversari su un terreno pianeggiante, ma le truppe nemiche non sembravano volersi muovere; al contrario, mantenevano la loro posizione sulla collina, aspettando che fosse l’esercito di Cesare a farsi sotto.
Il generale al comando dell’armata avversaria era Gneo Pompeo. Figlio maggiore di un famoso generale, Pompeo Magno, e nipote di un altro, non aveva ancora trent’anni e non possedeva una reputazione militare particolarmente brillante. Pochi anni prima aveva assicurato a suo padre un successo navale nell’Adriatico, seguito tuttavia da una disastrosa operazione via terra in Libia. In tempi più recenti, aveva guidato le sue truppe in una sofferta ritirata attraverso la Spagna sudoccidentale, mentre Cesare lo incalzava da vicino. Le sue esperienze di comando si fermavano lì. Malgrado questi limiti evidenti, tuttavia, era pur sempre l’erede di Pompeo Magno e si trovava in Spagna, dove il suo defunto padre era ancora onorato; una circostanza che poteva fare la differenza. Inoltre, aveva ai suoi ordini come vicecomandanti due dei migliori generali di Pompeo Magno, uno dei quali, per di più, era stato l’aiutante di Cesare per nove anni e conosceva bene come pensava e come combatteva.
Mentre suo fratello minore Sesto presidiava Cordova, la capitale della provincia iberica, Gneo aveva radunato ed equipaggiato un imponente esercito, forte di circa 50 000-80 000 uomini. Poche delle sue unità, tuttavia, erano di prim’ordine. Nove delle sue tredici legioni erano nuove di zecca, costituite da giovani inesperti frettolosamente raccolti nella Spagna occidentale e nel Portogallo. Di conseguenza, il peso della battaglia sarebbe ricaduto in gran parte sulle sue quattro legioni di veterani.
Gneo contava soprattutto sulla Prima legione, il reparto d’élite di suo padre, l’equivalente della Decima di Cesare. Questa unità aveva combattuto le battaglie più importanti della guerra civile ma, a differenza dell’imbattuta Decima legione, era stata costretta ad aprirsi la strada disastro dopo disastro. Accanto alla Prima c’erano anche la Seconda e la legione Indigena, due unità pompeiane che erano passate dalla parte di Cesare, salvo poi ripensarci quando Gneo e Sesto erano arrivati in Spagna l’anno prima. Infine, c’era l’Ottava legione, un’unità molto simile alla Decima e una delle tre legioni di Cesare che in tempi recenti avevano disertato per unirsi alle forze avversarie. Il giovane Gneo aveva accolto con sospetto queste defezioni di massa, al punto che aveva tenuto con sé solo l’Ottava, inviando le altre due unità «voltagabbana» (la Nona e la Tredicesima) a suo fratello a Cordova.
Il giorno prima, il giovane Pompeo aveva allestito il proprio campo nella pianura nei pressi di Munda. Cesare era arrivato con le sue legioni dopo il crepuscolo, e si era accampato a cinque miglia di distanza. Nelle prime ore del mattino successivo, Pompeo aveva disposto le sue truppe, in schieramento di battaglia, sui pendii sottostanti la città, determinato a costringere Cesare a uno scontro campale. Gneo aveva deciso di giocarsi il tutto per tutto, sfruttando il fattore della superiorità numerica prima che i suoi sostenitori si stancassero di ritirarsi e abbandonassero la causa. I suoi consiglieri gli avevano garantito che Cesare avrebbe rapidamente accettato lo scontro. In effetti, non si sbagliavano: l’ordine di prepararsi alla battaglia risuonò per tutto il campo di Cesare poco dopo che gli addetti alle ricognizioni lo avevano svegliato per riferirgli i preparativi di Pompeo vicino a Munda.
Dopo aver innalzato i vessilli, le legioni di Cesare si inoltrarono al passo nella pianura, tra il frastuono di 60000 piedi in marcia e il clangore metallico del loro equipaggiamento. La disciplina era rigida. Non una parola. Sui fianchi, la cavalleria seguiva l’avanzata dei legionari. Cesare e il suo stato maggiore cavalcavano subito dietro la prima linea della Decima legione.
Mentre avanzavano, gli uomini della Decima tenevano gli occhi bene aperti, decisi a prevenire qualunque trappola. Intorno a loro c’erano solo colline, ma qui, sul fondovalle, il terreno era pianeggiante; un aspetto che avrebbe favorito sia le manovre della fanteria che quelle della cavalleria. Prima di ogni cosa, però, le truppe dovevano coprire cinque miglia per agganciare il nemico. Sul loro percorso c’era un fiumiciattolo poco profondo che tagliava la vallata. Avrebbero dovuto guadarlo e poi attraversare un altro tratto di pianura arida, prima di raggiungere la collina dove si era attestato l’esercito avversario. Forte della possibilità di scegliere il campo di battaglia, il giovane Pompeo aveva optato per le alture. Inoltre, pronta a fornire aiuto in caso di necessità, la città di Munda si ergeva sulla collina alle sue spalle, circondata da alte mura con torri e guarnigioni di difesa.
Mentre la distanza tra i due eserciti si riduceva, i legionari della Decima poterono constatare che le ali di Pompeo erano protette da reparti di cavalleria, appoggiati da fanteria leggera e ausiliari (6000 per ogni lato). I soldati della Decima non vedevano l’ora di scoprire l’identità della legione posizionata sul fianco che li fronteggiava, sperando che non si trattasse dei loro fratelli ispanici dell’Ottava. Durante gli ultimi sedici anni, la Decima e l’Ottava avevano affrontato assieme la buona e la cattiva sorte. Non sarebbe stato facile combattere contro vecchi amici, ma lo avrebbero fatto, nel nome di Cesare. Gli uomini della Decima capivano perché i loro scontenti compagni dell’Ottava avessero deciso di defezionare e, come in passato, avvertivano un moto di simpatia nei loro riguardi. Eppure, quando si trattava di passare alle vie di fatto, la lealtà della Decima nei confronti di Cesare era fuori discussione.
Quando gli uomini del condottiero ruppero il passo nell’attraversare sguazzando il fiumiciattolo, per poi ricomporsi e continuare ad avanzare a ritmo di marcia, il loro comandante comprese che Pompeo si aspettava che scalasse la collina, dove si sarebbe svolto lo scontro decisivo. A quel punto, del resto, c’era una sola alternativa: o accettare il gioco del nemico, o ritirarsi. Quando la sua prima linea raggiunse la base del pendio, Cesare, inaspettatamente, ordinò alle truppe di fermarsi. Gli uomini obbedirono, aspettando con impazienza di lanciarsi all’attacco. A quel punto, Cesare comandò loro di serrare i ranghi, così da concentrare la forza offensiva su uno spazio più ristretto. La direttiva venne prontamente eseguita.
Mentre i legionari cominciavano a spazientirsi della tattica attendista del loro generale, Cesare diede l’ordine di suonare la carica. Le trombe lo stavano ancora eseguendo, quando i vessilli delle sue ottanta coorti si inclinarono verso il nemico. Con un rombo assordante, le truppe si avventarono su per la collina.
Con un rombo altrettanto assordante, gli uomini di Pompeo scagliarono i loro giavellotti. Gli attaccanti alzarono gli scudi per proteggersi. I dardi, lanciati dall’alto, saettarono implacabili nell’aria, abbattendosi sulla prima linea di Cesare e trafiggendo gli scudi. Le truppe all’assalto vacillarono per qualche momento, poi riacquistarono lo slancio. Un’altra salva di giavellotti oscurò l’azzurro del cielo, e un’altra, e un’altra ancora. La prima linea di Cesare, senza fiato e ancora lontana dal nemico, con i cadaveri dei commilitoni che giacevano a mucchi, fu costretta a fermarsi. Anche le unità alle sue spalle fecero lo stesso. L’intero attacco subì una pericolosa battuta di arresto.
Per la prima volta nella sua carriera, Cesare si trovò di fronte al rischio di una disfatta: una disfatta autentica, non una sanguinosa sconfitta come a Gergovia, Dyrrhachium, Ruspina, o come le schermaglie fra le colline spagnole delle ultime settimane. Cesare aveva infranto ogni regola: solo un dilettante avrebbe potuto far marciare le sue truppe per cinque miglia, per poi costringerle a guadare un corso d’acqua e avventarsi su una collina a passo di carica. Un dilettante, o un uomo che si era abituato a vincere troppo facilmente, che aveva sottovalutato i suoi avversari, che non frenava la sua impazienza di chiudere la partita della guerra civile una volta per tutte. Se adesso le truppe di Pompeo si fossero scagliate giù dalla collina, lo schieramento di Cesare – compresa la celebre Decima legione – quasi certamente non avrebbe retto. I soldati, non importa se reclute o veterani, sarebbero fuggiti per salvarsi la vita.
Dopo essere smontato rapidamente da cavallo, Cesare sottrasse lo scudo a uno stupito legionario della retroguardia della Decima, quindi si fece largo tra le sue truppe, su per il pendio, fino alla prima linea in frantumi. Il suo stato maggiore, con il cuore in gola, scese da cavallo e si affrettò a seguirlo. Togliendosi l’elmo con la mano destra e gettandolo via così che chiunque potesse riconoscerlo, Cesare raggiunse l’avanguardia dello schieramento di attacco.
A questo punto, secondo lo storico Plutarco, il condottiero si rivolse alle sue truppe, accennando col capo alle decine di migliaia di giovanissime reclute dell’esercito pompeiano, e poi esclamò: «Non vi vergognate a permettere che il vostro generale venga sconfitto da quei ragazzini?».
Nel silenzio generale, Cesare lusingò i suoi uomini, li rimproverò, li incoraggiò. Eppure non uno dei legionari, ansimanti, coperti di sangue e grondanti sudore, avanzò di un passo. Più in alto, le truppe di Pompeo assistettero a questo spettacolo ridendo.
A quel punto, secondo la ricostruzione dello storico Appiano, Cesare si girò e disse ai suoi ufficiali: «Se oggi falliremo, sarà la fine della mia vita, come pure delle vostre carriere». Quindi sguainò la spada e si avviò su per la collina, verso le linee di Pompeo, precedendo i suoi uomini di parecchi metri.
Un ufficiale inferiore dell’esercito di Pompeo gridò e diede l’ordine ai suoi uomini – quelli nel raggio di azione di Cesare – di lasciar partire una raffica di dardi nella sua direzione. Stando ad Appiano, duecento giavellotti volarono verso la solitaria, inerme figura del condottiero. I soldati della Decima seguirono la scena trattenendo il respiro. Nessuno poteva sopravvivere a un simile tiro di sbarramento, neppure un uomo notoriamente fortunato come Giulio Cesare…