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Zorin udì il portello sbattere, poi un rumore di oggetti pesanti lasciati cadere sul metallo. Ne dedusse che si trattasse dei ciocchi di legno, così tornò di corsa alla scala ed ebbe conferma dei suoi sospetti: qualcuno li aveva intrappolati nel bunker. Si maledisse per non averlo previsto, proprio lui, guardingo com’era. Si era lasciato trascinare dall’entusiasmo del momento.

Ridiscese. «Immagino che non ci sia un’altra uscita, giusto?»

Kelly scosse la testa, ma non sembrava affatto preoccupato. «Ho del PVV-5A.»

Zorin sorrise. Esplosivi al plastico. L’ideale.

Kelly si avvicinò agli scaffali e prese due piccole ghiacciaie sigillate con un nastro adesivo. Le aprì. Dentro c’erano dei robusti sacchetti di plastica trasparente che contenevano mattonelle color verde oliva. «Questa roba è qui fin dall’inizio della missione.»

«Funzionerà ancora, dopo tutto questo tempo?» chiese Zorin.

«Mi si dice che è molto durevole, se ben protetto. Vediamo un po’ se è vero.»

 

 

Cassiopea rimase dietro l’albero. L’uomo che veniva verso di lei non aveva individuato il punto in cui era nascosta. Intorno c’era solo il fitto del bosco, la qual cosa tornava a suo vantaggio. In compenso, Cotton era sotto tiro: dal fienile si sentivano continue mitragliate. Cassiopea voleva raggiungerlo, ma prima doveva liberarsi dell’uomo che la stava cercando.

Si chinò e trovò una pietra grande quanto il palmo della sua mano. La sagoma era a una ventina di metri e andava verso gli alberi alla sua sinistra. Cassiopea scagliò la pietra verso l’alto, in modo che atterrasse al di là di lui. Colpì un ramo, provocando una silenziosa spolverata di neve.

L’uomo non esitò. Sparò nella direzione del rumore.

Bravo scemo.

Cassiopea si voltò, impugnando la pistola e poggiando il braccio all’albero per prendere meglio la mira, e premette il grilletto.

 

 

Zorin salì la scala reggendo una delle mattonelle verdi. Era passato parecchio tempo dall’ultima volta che aveva maneggiato esplosivi. Una mattonella intera gli sembrava troppa, ma non c’era tempo per sottilizzare.

Kelly aveva preso un rocchetto di filo di rame e un tronchese. Per fortuna il deposito era ben fornito di attrezzi. Del resto, serviva proprio a questo: doveva esserci tutto, pronto all’uso.

Cercò una nicchia in cui posizionare la mattonella, ma non trovò nulla di meglio dell’ultimo gradino, a pochi centimetri dal portello chiuso. Probabilmente la persona che li aveva imprigionati, chiunque fosse, aveva accatastato la legna sopra di esso, dimodoché non si potesse aprirlo con la forza dei muscoli. Ma con quella di un esplosivo sì.

In quel momento, sentì delle mitragliate al di là del portello.

Ma tu guarda, pensò. Come a casa di Kelly.

Al momento, tuttavia, non gli interessava ciò che stava accadendo nel fienile: prima doveva tirarsi fuori dal bunker.

Kelly comparve alle sue spalle, porgendogli due fili di rame. Zorin li prese, li avvolse intorno alla mattonella e ne conficcò i capi nell’esplosivo, attraverso lo strato di plastica trasparente. Posò il tutto sul gradino e ridiscese facendo attenzione a non tirare i fili. Intanto, Kelly svolse il rocchetto via via che tornava verso il fondo del bunker. «Accosta la porta.»

Zorin capì: l’onda d’urto si sarebbe propagata anche verso il basso, ed era importante riparare le RA-115. Senza contare lui e Kelly. La porta si apriva verso l’esterno, quindi l’esplosione l’avrebbe chiusa, ma in quello spazio ristretto bisognava calcolare anche la compressione dell’aria. Kelly aveva pensato anche a questo: prese due coperte di lana e gliene porse una. Serviva a riparare la testa e le orecchie. Non era una protezione assoluta, ma poteva bastare.

Si ritirarono sul fondo del bunker, acquattati dietro il tavolo con le cinque bombe, tenendo davanti a sé i fili di rame e una pila da 6 volt.

Mettendo i capi dei fili a contatto con i poli della batteria, la scarica sarebbe bastata a far saltare la carica.

 

 

Malone rimase al riparo della catasta di legna, in attesa. L’uomo sulla porta non poteva vederlo. Ecco il problema di chi fa irruzione così, allo sbaraglio, dopo che qualcuno ha avvertito chi sta all’interno: la persona in questione ha tutto il tempo di premunirsi. Ma questo tizio non sembrava darsene pena, anzi, gli interessava solo crivellare di colpi il fienile e togliersi il pensiero.

Non appena gli spari cessarono, Malone balzò in avanti, lo scorse nella penombra e con tre colpi lo abbatté. Poi corse alla porta, calciò via la mitragliatrice e posò due dita sul collo dell’uomo.

Morto.

 

 

Cassiopea udì tre spari e vide l’uomo sulla soglia del fienile crollare a terra. Evidentemente Cotton si era preparato a riceverlo. Poi vide apparire alla porta una sagoma inconfondibile.

Attraversò di corsa la chiazza d’erba ispida che li separava. «Stai bene?»

«Ce ne sono altri?»

«Uno, ma l’ho abbattuto io.»

 

 

Zorin reggeva un filo, Kelly l’altro. La batteria era sul pavimento, in mezzo a loro. Si erano già avvolti le coperte intorno alla testa per riparare le orecchie dall’esplosione che stava per squassare la loro prigione sotterranea. Gli ufficiali del KGB passavano anni a addestrarsi a queste cose. Era la loro ragione di vita. Finalmente Zorin si era risvegliato dal suo tormentoso torpore autoindotto. Per tanto tempo aveva vissuto come un ubriaco, senza equilibrio, svuotato dal disprezzo e dalla delusione, ma ora aveva ripreso a muoversi. Stava procedendo. E nulla poteva arrestarlo.

Rivolse a Kelly un cenno di assenso.

Con le punte dei fili toccarono i poli della batteria.

Scintille.

 

 

Malone avanzò verso Cassiopea. Stava giusto per dirle che aveva appena intrappolato Zorin e Kelly, quando il fienile esplose.

Ogni cosa venne proiettata verso l’esterno e verso l’alto. Un’ondata d’aria investì entrambi, scagliandoli violentemente a terra. Malone sentì un forte dolore alla testa e perse ogni senso d’equilibrio. Si rialzò e si guardò intorno in cerca di Cassiopea. La vide a pochi metri da lui. Si avvicinò carponi, costringendo i muscoli a trascinarlo verso di lei, in mezzo a una pioggia di detriti. Dando fondo alle sue forze, spinse il proprio corpo sopra il suo.

Il dolore cedette il posto al torpore.

Poi tutto scomparve.

 

 

Zorin si tolse la coperta dalla testa. Kelly stava già facendo altrettanto. La porta di metallo, chiudendosi, li aveva riparati dall’onda d’urto. L’esplosione aveva fatto tremare tutto quanto, ma senza provocare danni: l’impianto elettrico reggeva, le lampade erano ancora accese.

Si alzarono.

Le cinque bombe sembravano in buone condizioni.

Zorin si avvicinò alla porta e la spalancò. Sulla scala non c’erano detriti e il portello era sparito. Tese l’orecchio ma non udì nulla. Cadevano fiocchi di neve, evidentemente lo scoppio aveva scoperchiato il fienile.

Si voltò e disse a Kelly: «Prepara per il trasporto una delle bombe. Io salgo a controllare».

Afferrò una torcia, impugnò la pistola e salì la scala.

Del fienile restava solo una metà, il resto era a pezzi, sparso in ogni direzione nel raggio di una ventina di metri. Zorin balzò in cima a un mucchio di detriti e una trave oscillò. Esplorando i dintorni alla luce della torcia, vide un cadavere. Lo girò sulla schiena e vide tre ferite di proiettile al petto. Dunque il tizio era morto prima dell’esplosione, durante la sparatoria.

Spostò il fascio di luce verso l’esterno e vide un altro corpo. Anzi, due, l’uno sopra l’altro. Si avvicinò, si accovacciò e spinse da parte alcuni pezzi di legno, poi rigirò il corpo che stava sopra.

Era quell’americano. Malone.

Qui?

E sotto c’era una donna.

Ma com’è possibile? pensò, con un moto d’angoscia.

«Aleksandr?» Kelly riemerse dal bunker, reggendo una valigia.

Ma Zorin era ancora alle prese con i suoi dubbi e con la sensazione che qualcuno gli stesse tendendo trappole. L’altro uomo morto era con Malone? Ma no, altrimenti non si spiega la sparatoria. Allora era dell’SVR? Possibile. Anzi, probabile.

Kelly si avvicinò. «Sono americani?»

«Questo qui sì.»

«Come fai a saperlo?»

«Credevo che fosse morto in Siberia. Invece quell’altro, laggiù, potrebbe essere russo, come quelli che sono venuti a casa tua.»

«Forse ci hanno trovati seguendo l’auto», disse Kelly. «Oggi la tecnologia permette anche queste cose. Ma chi mai andava a pensare che qui ci fosse qualcuno a tenerci d’occhio? Avresti dovuto dirmi tutto, quand’eravamo a casa mia. Avrei studiato un’altra strategia.»

Ma ormai era inutile recriminare.

Zorin si rialzò. Se ci fossero stati rinforzi, l’esplosione li avrebbe attirati lì. E invece niente, nei dintorni tutto taceva. Forse c’erano soltanto questi tizi.

«È pronta», disse Kelly, indicando la valigia. «La batteria ha un’autonomia di diversi giorni, ma a noi basta che duri fino a domani.»

La mente di Zorin era un turbinio di congetture, ma anche di nuovi propositi. Come premunirsi? Improvvisiamo. Riflettiamo. «Prendiamo tutte e cinque le bombe.»

«Pesano, sai?»

Certo. Una ventina di chili ciascuna. «Possiamo farcela.»

Inoltre, occorreva cambiare vettura. Frugò nelle tasche di Malone e trovò una chiave.

«Nella nostra macchina ci sono cose che ci servono», disse Kelly.

E c’era anche lo zaino di Zorin. «Le recupero io. Tu prepara le altre bombe. Appena torno ti aiuto a portarle su.»

Ma c’era un’altra questione.

Kelly non aveva avuto il tempo di concludere la storia sulla chiesa di San Giovanni, sulla Casa Bianca e sul diario di Tallmadge.

«Poi dovrai finire di spiegarmi le cose di cui parlavamo poco fa.»

«E tu dovrai spiegarmi che cosa ci faceva quest’americano in Siberia.»