64

Nell’auto parcheggiata, Zorin ascoltava il ticchettio della pioggia ghiacciata sul tetto. Poco prima si era giusto domandato come mai non stesse nevicando, dato che sul parabrezza si stava già formando una pellicola di ghiaccio sulla quale i tergicristallo producevano un brutto rumore di grattugia. Aveva bisogno di sgranchirsi le gambe, ma attendeva che Kelly prendesse una decisione. Da quando si erano fermati lì, Kelly stava studiando una mappa che aveva portato nella sacca da viaggio. La scena gli piaceva: niente marchingegni ipertecnologici, niente elettronica, nulla che potesse rivelare la loro presenza. Solo vecchi sistemi, quelli che lui aveva avuto fama di saper padroneggiare.

«Che cosa aspettiamo?» chiese.

«Invecchiando ti sei fatto impaziente.»

«Il tempo è sempre più brutto.»

«Meglio per noi.» Kelly ripiegò la mappa. «Quando il Pedone Arretrato mi ha detto che le armi erano arrivate, gli ho detto che ero pronto, ma non era vero: era difficile essere all’altezza delle richieste di Andropov. La mia missione mi richiedeva di essere pronto per l’insediamento presidenziale del 1985, ma Andropov è morto l’anno prima. A quel punto, tutto sospeso. Poi, tre anni dopo, nel 1988, tutto d’un tratto sono venuto a sapere che le bombe erano negli Stati Uniti. Sono rimasto sorpreso nel rendermi conto che la missione era ancora attiva. Dovevo sbrigarmi ad approntare la mia parte.»

«Forse le cose sarebbero andate diversamente se Andropov non fosse morto.»

Kelly scosse la testa. «Non era il momento.»

Zorin era perplesso. «In che senso?»

«La reazione del mondo sarebbe stata unanime e devastante. Figurati, uccidere un presidente degli Stati Uniti con un’esplosione nucleare a Washington! I leader sovietici sopravvalutavano il loro potere e la loro importanza. Non potevano sconfiggere il mondo intero.»

Zorin detestava sentir parlare delle debolezze del Soviet.

«Alla fine degli anni ’80 l’Unione Sovietica era già storia, Aleksandr. Difatti nel 1991 è crollata.»

Certo, e la differenza si vede, pensò Zorin. «Stavolta siamo solo io e te. Non ci saranno rappresaglie perché non c’è nessuno con cui prendersela. Otterremo ciò che voleva Andropov, ma senza ripercussioni globali.»

«Precisamente. Un tempismo perfetto. Anch’io ci sto pensando da molto tempo. Non ho mai agito, ma ci ho riflettuto tanto quanto te. Gli Stati Uniti sono riemersi dalla Guerra Fredda come potenza dominante e negli ultimi trent’anni sono diventati un mostro che spadroneggia sul mondo, ma noi li rimetteremo al loro posto. Ti ricordi il giuramento che abbiamo prestato al KGB?»

Vagamente. Era passato talmente tanto tempo...

Kelly prese il portafogli e ne estrasse un foglietto ripiegato, increspato e ingiallito dagli anni. Zorin lo prese e lo lesse mentalmente, in mezzo al ticchettio sul tetto dell’auto.

Io, cittadino dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nell’entrare a far parte dell’Armata Rossa dei Lavoratori e dei Contadini, presto giuramento e m’impegno solennemente a essere un combattente onesto, coraggioso, disciplinato e vigile, di custodire con rigore ogni segreto militare o di Stato, di obbedire senza discussioni a tutti i regolamenti dell’esercito e a tutti gli ordini dei miei comandanti, commissari e superiori.

Giuro di studiare coscienziosamente l’arte militare, di difendere in ogni modo possibile le proprietà dell’esercito e della Nazione e di essere fedele al mio Popolo, alla mia Patria Sovietica e al Governo Operaio e Contadino, fino all’ultimo respiro.

Poi la parte importante: Sarò sempre pronto, agli ordini del Governo Operaio e Contadino, ad accorrere in difesa della Patria – l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche – e, in quanto combattente dell’Armata Rossa dei Lavoratori e dei Contadini, giuro di difenderla con coraggio, abilità, dignità e onore, senza risparmiare il mio sangue né la mia vita, fino alla completa vittoria sul nemico.

Ed ecco la frase finale: Se per malevolo intento infrangerò questo solenne giuramento, possano ricadere su di me il severo castigo della legge sovietica, l’odio generale e il biasimo dei lavoratori.

Il compagno gli tese la mano e lui gliela strinse con orgoglio nel sentir rinascere in lui il senso del dovere e la risolutezza di una volta. Da troppo tempo viveva nella paura e nell’isolamento, che l’avevano logorato fino a lasciare solo un cieco desiderio di azione.

Come Kelly.

Ma ora rieccolo a lottare contro il nemico numero uno, a difendere la patria, a tener fede al giuramento. Quante altre persone avevano fatto altrettanto? Decine di milioni di persone avevano sacrificato la vita per quella stessa ragione.

Inutilmente?

Ripensò alle ultime parole di sua moglie.

Non buttare al vento la tua vita.

«Assieme, ce la faremo», disse a Kelly.

«Altroché, compagno.»

 

 

Cassiopea sapeva di essere una persona forte e indipendente. I suoi genitori l’avevano cresciuta così. Eppure non le dispiaceva il senso di sicurezza che provava con Cotton.

Debolezza?

Non per lei.

Tante volte Cotton l’aveva salvata, ma in Canada era stata lei a salvare lui. Questo le dava, se non altro, quel senso di fiducia che era mancato nelle sue relazioni precedenti e che probabilmente era mancato anche nel rapporto tra Cotton e la sua ex moglie, una donna assai scontrosa che con il tempo si era fatta assai più trattabile. A Cassiopea sarebbe piaciuto conoscerla, prima o poi. Avrebbero avuto parecchi argomenti in comune. E poi aveva una gran voglia di sapere qualcosa in più sul passato di Cotton, del quale avevano parlato a piccolissime dosi.

Alla Casa Bianca, era stato pesante vedere Stephanie Nelle, ma ora era contenta di essersi riconciliata anche con lei, prima che l’inimicizia diventasse insanabile. Tanto, quel che era fatto era fatto. In più, data la gravità della situazione, non voleva che gli eventi del passato le impedissero di ragionare lucidamente.

Le piaceva considerarsi una professionista. Perlomeno, ne aveva l’esperienza. E mentre si addentrava nelle buie campagne della Virginia assieme a Cotton si domandava che cosa avrebbero trovato ad attenderli.

Il successo o la rovina?

Ecco il problema di avere per avversario il caso: la probabilità di riuscita è solo il cinquanta per cento.

 

 

Zorin sentì la neve sciogliersi a contatto con il suo viso. Le goccioline che colavano gli davano un formicolio. Questo continente era molto più umido. Lui era abituato al freddo secco, che in Siberia durava da metà settembre ai primi di maggio. Il lago Bajkal non aveva un’estate degna di questo nome, ma le poche settimane di fugace tepore gli piacevano molto.

Detestava l’invecchiamento. Il suo corpo cominciava a lanciargli segnali inequivocabili: non aveva più la forma di un tempo. Il salto dall’aereo era stato uno sforzo fisico enorme. Per fortuna non occorreva rifarlo. Per troppo tempo la sua speranza era stata appena un luccichio nel buio, ma negli ultimi giorni era cresciuta fino a diventare un faro. E lui continuava ad alimentarla, ma non riusciva a scrollarsi di dosso i dubbi.

Ecco un altro svantaggio dell’età: la riflessività. I giovani ne sono risparmiati.

Teneva il passo con Kelly, lungo un ghiaione nel quale le scarpe affondavano e le gambe si affaticavano. Si era rimesso il cappotto e i guanti e reggeva la vanga che avevano preso da Target. Badava bene a dove posava i piedi, ben cosciente di avere le caviglie fragili e del rischio d’incespicare. Kelly portava il sacchetto con le altre cose che avevano appena comprato, tranne il martello, il tagliabulloni e il lucchetto, che erano ancora in macchina. Evidentemente lì non servivano. Le torce però sì, una per ciascuno.

«Ho acquisito questi terreni molto tempo fa», disse Kelly. «All’epoca era una zona piuttosto isolata. Per certi versi lo è ancora, ma negli anni ’80 non c’era nulla nel raggio di diversi chilometri.»

Zorin aveva visto solo qualche fattoria e ben poche luci accese.

«Non è intestata a mio nome, è ovvio, ma ho sempre pagato le tasse e le bollette dell’elettricità.»

Le ultime parole attirarono l’attenzione di Zorin. «Per tutti questi anni?» gli chiese, mentre continuavano a camminare.

«Era mio dovere, Aleksandr. E poi non si tratta di grosse cifre. Per i consumi che ho...» Kelly si fermò.

Davanti a loro, fra gli alberi si apriva una radura buia nella quale si stagliavano due grosse sagome che sembravano una fattoria e un fienile.

«Non è in condizioni ottimali, ma è abitabile», disse Kelly. «Ho scelto proprio questa, perché il precedente proprietario vi aveva aggiunto un locale senza dichiararlo al catasto. Era un reduce dell’ultima guerra mondiale, un tipo eccentrico, un po’ sui generis

Zorin fece un respiro profondo affinché il gelo gli penetrasse nei polmoni.

«Aveva una gran paura di un olocausto nucleare», riprese Kelly. «Così si è costruito un rifugio antiatomico.»

Ecco spiegato come mai c’era bisogno di una vanga.

«Era vecchio, è morto da anni. Il KGB ha acquisito la fattoria in segreto, con l’idea di sfruttarla come tutti gli altri depositi di armi, ma appena l’ho vista ho capito che era perfetta per il Matto dello Stolto, così me la sono fatta assegnare.»

Nella mente di Zorin suonò un campanello d’allarme. «Ma allora è nominata nei registri.»

Kelly rifletté per un istante. «Non è escluso.»

Ripensando a ciò che era accaduto sull’Isola del Principe Edoardo, Zorin tese le orecchie e prese la pistola.

Kelly annuì e anche lui impugnò l’arma. Aveva capito. «Però è passato tanto tempo, Aleksandr. È improbabile che qualcuno risalga a questo posto. E, se anche fosse, non troverebbero il rifugio antiatomico.»

La cosa non confortava Zorin: se avevano trovato Kelly, erano capacissimi di trovare anche questa fattoria.

«Tieni presente che il deposito è protetto da una trappola esplosiva», disse Kelly.

Zorin gli fece segno di procedere, poi guardò l’orologio, ma impiegò qualche istante a mettere a fuoco le cifre luminose.

Le 22.40.

Meglio affrettarsi.

Mancavano solo tredici ore.