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Malone correva a perdifiato sui prati della Casa Bianca, irrigiditi dalla brina. Cassiopea era al suo fianco. Erano rientrati dal cancello a nord e si erano diretti a sinistra, dove c’era il dipartimento del Tesoro, con il suo poderoso colonnato. Dietro a quell’enorme edificio correva il traffico di 15th Street. Continuarono a correre fra gli alberi, dirigendosi verso un cancello che permetteva ai veicoli di accedere all’Ellipse. Malone, con il cellulare all’orecchio, continuava a farsi dare indicazioni sui movimenti dell’auto di Zorin, che procedeva verso l’incrocio tra 15th e Pennsylvania Avenue. Edwin Davis aveva già contattato il servizio di guardia, per accertarsi che gli agenti lasciassero via libera a Malone e a Cassiopea, soprattutto quelli appostati sul tetto della Casa Bianca, che erano stati allertati nell’eventualità di un attacco dall’alto.
Seguirono Executive Avenue, poi tagliarono da un altro prato, oltrepassando il monumento al generale William Sherman, una statua che Malone conosceva bene. Il cielo cupo era attraversato da nuvole frastagliate. L’ingresso veicoli su 15th era dritto davanti a loro.
«È quasi al cancello», disse la voce al telefono. «Le unità locali stanno per intercettarlo.»
Infatti, ora che non c’era più la sede del Tesoro a schermarle, si sentivano le sirene. Lì la strada correva accanto alla recinzione.
Raggiunsero il cancello.
L’auto governativa rubata da Zorin inchiodò sull’incrocio, sgommando sulle ruote posteriori fino a compiere un giro quasi completo, poi salì sul marciapiede ed entrò nel Pershing Park, dal lato opposto della strada.
«In quel parco c’è una pista di pattinaggio», disse Malone. «Con un bel po’ di gente.»
La polizia, a sirene spiegate e lampeggianti accesi, stava già bloccando l’incrocio. Malone e Cassiopea si precipitarono verso il cancello e si gettarono nella folla. L’auto di Zorin si era fermata su un vialetto lastricato, a poca distanza dalla pista ghiacciata. Nessun ferito, per fortuna.
Calò il silenzio.
Le tre auto di pattuglia circondarono quella rubata, a una distanza di una quindicina di metri, e gli agenti scesero a pistole spianate. Malone e Cassiopea si avvicinarono.
«Indietro!» gridò uno degli agenti, senza staccare lo sguardo dall’auto. «Andate via!»
Malone orientò il cellulare verso di lui.
«Qui parla il Secret Service», disse qualcuno al vivavoce. «Siete pregati di obbedire a quest’uomo.»
«Sì, buonanotte», disse il poliziotto.
Nel frattempo, due agenti del Secret Service avevano attraversato la strada e correvano verso di loro mostrando i distintivi. Presero il comando e ordinarono alla polizia di farsi da parte.
«Sentito?» disse Malone.
Il poliziotto abbassò l’arma e si voltò. «Forte e chiaro.»
«Signori...» gridò Malone. «Adesso ci pensiamo noi. Mantenete la calma.»
La portiera dell’auto rubata si aprì e ne scese un uomo.
Malone riconobbe il viso.
Era Kelly.
Zorin prese il martello dalla sacca. I muri del sotterraneo erano in vecchi mattoni e malta disomogenea. Più nuovo era il pavimento in cemento dipinto. Lui puntava alla parete meridionale, a circa tre metri dall’angolo sudoccidentale, dove c’erano mattoni leggermente diversi dal resto, che formavano un rettangolo appena più grande di una porta. Esattamente come gli aveva spiegato Kelly. La differenza si notava, ma non tanto da destare sospetti. Poteva benissimo passare per un intervento di riparazione.
Si avvicinò, piantò i piedi, afferrò il manico in legno e vibrò un colpo ben saldo, che il muro assorbì con un tremito. Alla seconda martellata, si diramarono alcune crepe. Alla terza e alla quarta, i mattoni cominciarono a sbriciolarsi.
Secondo Kelly, il sotterraneo non era nel progetto originario: era stato aggiunto anni dopo il completamento della chiesa, quando si era resa necessaria una navata più grossa. Per il riscaldamento, si era scavato un pozzo in cui collocare una fornace che prendesse il posto delle vecchie stufe a legna. Fino a quel momento, la chiesa era rimasta poggiata su terra piena. E lo era tuttora, con la differenza che adesso, dentro le fondamenta, c’era un sotterraneo.
Dopo qualche altra martellata, la sezione di muro crollò, sollevando una nube di polvere e schegge.
Zorin si aprì un varco fra i detriti.
Aveva la fronte sudata.
Posò il martello.
Davanti a lui, al di là del muro, c’era una voragine scura nel pavimento.
Stephanie salì a bordo dell’elicottero della marina, che si sollevò all’istante nell’aria della tarda mattina. Aveva con sé il diario di Tallmadge e disse al pilota di portarla alla Casa Bianca.
«Occorrerà un’autorizzazione», disse lui.
«Se la faccia dare, andiamo!»
Per sicurezza, diede un’ultima occhiata al diario.
Gennaio 1817. Oggi il presidente Madison, dopo un’ispezione, ci ha elogiati pel nostro ingegno, lieto di vedere che abbiamo ottemperato a’ sue richieste. Era suo desiderio disporre di una via segreta di fuga da l’Executive Mansion, che conducesse a porto sicuro. Compito nostro era di concepire, progettare e costruire tale passaggio. Si sono considerati varij rifugi in base a lor difendibilità, finché la scelta non è caduta su la chiesa di San Giovanni, recentemente consacrata. Non v’è soverchia distanza fra essa e l’Executive Mansion e v’è agio di dissimulare la galleria come scolo del North Lawn e de’ vicini acquitrini. Gli scavi non hanno destato curiosità: in tutta la capitale si trovano canali di tal fatta. S’è scelta una muratura in mattoni, durevole e in grado d’impedire che il passaggio venga inondato. L’ingresso da l’Executive Mansion è celato dietro un mobile. Il varco d’uscita s’apre nel pavimento a l’angolo sudoccidentale de la chiesa. Oltre al presidente e a’ suoi più stretti collaboratori, tre membri de la Società de’ Cincinnati sono i soli a conoscerne l’esatta collocazione. Per eventuale futura utilità, ne traccio una mappa su queste pagine. Di quando in quando saranno necessari accomodamenti, onere di cui il presidente chiede a noi di farci carico. Gli abbiamo in tal modo fornito una misura di salvaguardia finora mancante, e ci sentiamo onorati dal fatto che il compito sia stato affidato proprio a noi.
Dunque era esistita una galleria che collegava la Casa Bianca alla chiesa di San Giovanni, a poche centinaia di metri, a nord del Lafayette Park. Eppure, nonostante le numerose ristrutturazioni dei sotterranei della Casa Bianca, Stephanie non ricordava che si fosse mai scoperto un passaggio segreto.
Però c’era.
Zorin doveva essere nella chiesa.
L’orologio segnava le 11.05.
Stephanie prese il cellulare e provò a chiamare Edwin Davis, che però non rispose. Così tentò con Danny, ma trovò solo la segreteria telefonica. Probabilmente erano entrambi occupatissimi con i preparativi per l’imminente arrivo del presidente e del vicepresidente eletti. Tanto valeva rivolgersi direttamente alla fonte del problema: compose il numero di Litchfield, che rispose al secondo squillo.
Premendo il cellulare all’orecchio e alzando la voce per sovrastare il rumore dell’elicottero, disse: «Bruce, Zorin vuole mettere una bomba sotto la Casa Bianca. Alla chiesa di San Giovanni, dall’altro lato della strada, c’è un passaggio segreto. Credo che intenda colpire a mezzogiorno in punto. Trovalo».
«Capisco. Dove sei?»
«In elicottero, sto arrivando», gridò Stephanie. «Fai uscire tutti dalla Casa Bianca. Forse c’è ancora tempo.»
«Ci penso io», disse Litchfield.
Stephanie concluse la telefonata e compose il numero di Cotton.
Malone posò il cellulare sul cofano dell’auto della polizia e si fece avanti, catturando l’attenzione di Kelly. La neve incrostata e annerita dai gas di scarico della strada scricchiolava sotto i suoi passi. Estrasse la pistola. «Serve una mano?»
«Ecco lo smargiasso di turno», disse Kelly.
Intanto, alle sue spalle, un agente del Secret Service stava dicendo: «La mano destra...»
Malone se n’era già accorto: dal dondolio del braccio, era chiaro che Kelly reggeva qualcosa, che però era nascosto dalla portiera aperta.
«E va bene, cambiamo approccio. Questi agenti hanno una gran voglia di crivellarla di colpi. Dia loro una ragione per non farlo.»
Kelly fece spallucce, come a esprimere sdegno e noncuranza. «Non me ne viene in mente neanche una.» Levò il braccio destro. Impugnava una pistola.
Malone puntò l’arma verso le gambe dell’uomo: gli serviva vivo.
Ma gli altri agenti lo precedettero e cominciarono a sparare all’impazzata.
I proiettili trapassarono il soprabito. Il corpo di Kelly sembrava in preda a convulsioni. Tentò di fuggire, ma si accasciò sul lastricato innevato.
Malone scosse la testa e si voltò verso Cassiopea, l’unica in grado di comprendere la gravità di quanto era appena accaduto: avevano perso la pista migliore.
Zorin riaprì la sacca di nylon, prese la torcia e illuminò la voragine, che aveva un diametro di circa due metri e si apriva alla congiunzione fra il pavimento e la parete. Dunque era lì che terminava la galleria che partiva dalla Casa Bianca, a circa un metro di profondità.
Prese l’RA-115 e a passo cauto discese nel passaggio. Era un tunnel dal soffitto a volta, alto meno di due metri, che lo costringeva a stare chino per non battere la testa. Era tutto in mattoni e malta, pavimento compreso, e la via era abbastanza sgombra. Zorin aveva già calcolato la distanza fra la chiesa e la recinzione della Casa Bianca. Ora non doveva fare altro che contare i passi. Magari avrebbe sbagliato di qualche metro, ma pazienza: bastava essere abbastanza vicino da annientare tutti.
Tutti coloro che rappresentavano il nemico numero uno.
Cominciò a camminare.
E a contare.
Cassiopea corse assieme a Cotton verso il cadavere di Kelly. La neve farinosa sollevata dal vento sembrava nebbia cristallizzata. Inutile cercare segni di vita.
Cotton era furibondo. «Vi avevo detto di non sparare! Che lingua parlo?»
«Le abbiamo salvato il culo», gli rispose uno degli agenti.
«Non ho nessunissimo bisogno di farmi salvare da voi. Ci serviva vivo.»
Ma quelli erano già alla radio a fare rapporto.
Malone guardò l’orologio. Le 11.20.
Cassiopea controllò l’abitacolo, ma non vide nulla, così trovò la leva del bagagliaio e la tirò, poi raggiunse Cotton, che si stava muovendo verso il retro dell’auto. Dentro, c’erano quattro valigie d’alluminio. Senza esitare, Cotton ne prese una, la posò a terra e l’aprì. Conteneva un interruttore, una batteria e un cilindro d’acciaio disposto in diagonale. Le tre parti erano collegate da fili e tenute ferme da una sagoma di gommapiuma nera. Sull’interruttore c’era una scritta in russo.
«È spenta», disse Cassiopea.
Cotton posò una mano sulla batteria, poi sul cilindro. «E fredda.»
In tutta fretta esaminarono le altre tre RA-115, constatando che non erano attivate.
«Sono bombe?» chiese uno dei poliziotti.
Cotton si rivolse agli agenti del Secret Service. «Mandate via tutti.»
La polizia locale venne allontanata in modo spiccio.
«Kelly voleva morire», disse Cassiopea.
«Ho visto. E ha portato qui questi quattro giocattoli per tenerci occupati.»
Cassiopea ripensò a ciò che le aveva detto Stephanie: cinque RA-115 mancavano all’appello. Dunque Zorin ne aveva ancora una. Dove?
«Malone!» chiamò a gran voce un agente. «C’è qualcuno per lei al telefono. Dice che è urgente.»
Già, il cellulare era rimasto sul cofano di un’auto di pattuglia.
Attraversarono di corsa la strada ancora bloccata e Cotton prese la chiamata. Rimase in ascolto per qualche istante, poi riattaccò. «Era Stephanie. Zorin è nella chiesa di San Giovanni con la quinta bomba. Torna alla Casa Bianca e fai evacuare la zona. Litchfield è già stato avvertito. Aiutalo tu. A occhio e croce, abbiamo venti minuti, al massimo venticinque.» Poi si voltò verso il poliziotto. «Mi serve quest’auto», disse, salendo a bordo.
«Dove vai?» gli chiese Cassiopea.
«A fermare quel figlio di sua madre.»