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Givors, Francia,
ore 8.50

Quando Cassiopea Vitt si rese conto che qualcosa non quadrava, era troppo tardi. Due giorni prima i suoi cavapietre avevano praticato una serie di fori, non con i moderni trapani, ma con gli strumenti che si usavano nel XIII secolo: un lungo scalpello metallico a sezione stellata, dello spessore di un pollice umano, piantato più volte nella pietra calcarea, ruotandolo a ogni ripetizione, fino a scavare un condotto dai contorni regolari. I fori, a intervalli di una spanna, correvano per dieci metri lungo la parete rocciosa. Le distanze erano state misurate con una corda annodata, come nell’antichità. I buchi erano poi stati riempiti di acqua e tappati, in attesa della gelata della notte. Normalmente si sarebbero usati legni bagnati o cunei di metallo, ma essendo in inverno tanto valeva approfittare dell’aiuto di Madre Natura.

La cava era a tre chilometri dai terreni sui quali, da quasi un decennio, Cassiopea s’ingegnava con gli stessi materiali e strumenti di ottocento anni prima per riportare in vita le rovine del castello di Luigi IX, il primo re di Francia canonizzato. Abitava già in quegli stessi luoghi, in un palazzo cinquecentesco che aveva ristrutturato e ribattezzato Royal Champagne, ispirandosi a un reggimento di cavalleria di Luigi XV. Un tempo, quelle residenze erano simbolo di potere militare, infatti il castello di Givors aveva tutte le caratteristiche di una fortezza, con tanto di cinta muraria, fossato, torrette d’angolo e torrione. Era stato raso al suolo tre secoli prima, e Cassiopea si sentiva chiamata a farlo risorgere. Fin dal Medioevo, la località era ricca di acqua, pietra, terra, sabbia e legname, ossia tutto ciò che serviva per le costruzioni. Aveva assunto cavatori, tagliatori, scalpellini, carpentieri, fabbri ferrai e vasai, che per sei giorni a settimana lavoravano e vivevano esattamente come otto secoli prima, abbigliamento compreso. Il sito si poteva visitare a pagamento, in modo da ammortizzare le spese, ma buona parte dei costi era coperta dagli immensi capitali di Cassiopea. Il completamento dei lavori avrebbe richiesto altri vent’anni.

L’acqua si era solidificata nei buchi, dai quali ora partivano raggiere di crepe. La parete di roccia era alta parecchi metri e relativamente liscia. Mesi prima, i cavatori avevano estratto tutta la pietra utilizzabile a livello terra, così ora erano saliti di venti metri, servendosi d’impalcature in legno e corda. Tre di loro cominciarono a manovrare gli chasse-masse, arnesi simili a grosse mazze, da conficcare e battere con un martello, spostandoli lungo la linea frazionaria in modo che l’onda d’urto si propagasse e aprisse spacchi secondo la struttura naturale della pietra. Un procedimento tedioso ma efficace.

Il tintinnio prodotto dalle teste metalliche degli attrezzi era quasi idilliaco. Già si aprivano lunghe incrinature.

«Ci siamo», avvertì uno dei cavapietre, per segnalare agli altri che era il momento di fermarsi.

Tutti rimasero in silenzio a osservare la parete che si ergeva per altri venti metri sopra di loro. Le analisi avevano appurato che questa pietra grigio-bianca conteneva molto magnesio, dunque era particolarmente dura, un ottimo materiale da costruzione. I pezzi abbastanza piccoli da poter essere sollevati da un uomo solo sarebbero stati caricati su un carretto – rivestito di paglia in modo da proteggerli dagli urti – trainato a cavallo fino al cantiere. Quelli più grossi, invece, sarebbero stati tagliati lì e poi trasportati. La cava era il cuore del progetto di Cassiopea.

Le incrinature si allungarono ancora di più, aiutate dalla gravità. Finalmente, una lastra delle dimensioni di una Mercedes si staccò e si schiantò a terra. Gli operai erano soddisfatti, e anche lei: da quel blocco si potevano ricavare molte pietre squadrate. Nella parete di roccia rimase uno spazio vuoto, il primo a quest’altezza. Ora i cavatori si sarebbero spostati a sinistra o a destra fino a esaurire la pietra calcarea, dopodiché avrebbero innalzato ancora l’impalcatura. Cassiopea amava osservare i suoi operai vestiti come secoli prima, con la sola eccezione dei giubbotti di sicurezza, dei caschi, dei guanti e degli occhiali protettivi: era la legge a imporli, con buona pace della rievocazione storica.

«Bravissimi», disse il mastro cavapietre.

Cassiopea diede un cenno di assenso. Poi, mentre gli uomini scendevano dall’impalcatura, lasciò correre lo sguardo lungo la cava. Quasi tutti gli operai lavoravano lì da anni. Li pagava bene, stipendio fisso più vitto e alloggio. Le università francesi le fornivano un flusso costante di tirocinanti, entusiasti di prendere parte a un progetto tanto innovativo. D’estate assumeva lavoratori stagionali, mentre d’inverno si affidava unicamente alle squadre fisse. Oggi si era ritagliata una giornata da passare al cantiere, cominciando dalla cava. Tre muri di cinta erano quasi completi e con la pietra appena estratta si sarebbe giunti a buon punto anche con il quarto.

Udì uno scricchiolio. Poi un altro.

Non era tanto strano, dato che la parete rocciosa era stata appena intaccata.

Si voltò e avvertì un crepitio in alto.

«Via tutti!» strillò agli operai giù a terra, agitando le braccia. «Andate via, subito!»

Non sapeva di preciso che cosa stesse accadendo, ma la prudenza non era mai troppa. I rumori erano sempre più frequenti e forti, le ricordavano gli spari di un’arma automatica in lontananza, un suono che lei conosceva fin troppo bene. Raggiunse l’estremità opposta dell’impalcatura, dalla quale era più facile scendere, ma un frammento di pietra calcarea si staccò e sfondò le assi del piano più alto, scuotendo l’intera struttura in legno. In mancanza di appigli, si lasciò cadere sulle assi e si aggrappò ai bordi finché il tremito non cessò. L’impalcatura sembrava reggere, i cordami erano in grado di assorbire gli urti. «Si è fatta male?» le gridò qualcuno dal basso.

Cassiopea si levò sulle ginocchia e lanciò un’occhiata verso il suolo. «Sto bene.» Si alzò e si scosse di dosso la polvere e la terra. «Dobbiamo controllare la tenuta dell’impalcatura.»

«Già, è stata una bella botta.»

Un altro crepitio attirò la sua attenzione.

Alzò lo sguardo e capì: sopra il punto dal quale avevano appena estratto la pietra, un altro strato si stava staccando dalla roccia sedimentaria. Ora la gravità era una nemica e faceva leva su ogni punto sensibile: la pietra, pur con tutta la sua apparente invincibilità, poteva essere più capricciosa del legno.

Due scoppi potenti scossero la parete di roccia.

Una pioggia di polvere e ghiaia intorbidò l’aria e un altro masso si staccò, mancando per un soffio l’impalcatura. Cassiopea non poteva scattare in avanti senza tuffarsi a capofitto nella frana, così tornò di corsa all’estremità opposta della piattaforma. Alle sue spalle, altra pietra calcarea sfondò le assi.

Tutti gli operai si erano messi in salvo. Restava solo lei.

Un grosso frammento di roccia si abbatté contro le travi di legno. Ancora pochi istanti, poi tutto sarebbe crollato. Cassiopea abbassò lo sguardo e vide il carretto ancora fermo lì, dieci metri sotto di lei. Forse la paglia poteva attutire la caduta? Non poteva saperlo per certo, ma non aveva scelta.

Si tuffò a capofitto, e a mezz’aria si rovesciò in modo da cadere di schiena, sperando di aver calcolato correttamente la traiettoria. Udì la torre di legno cedere sotto il peso della roccia. Abbassò le palpebre e un secondo dopo colpì la paglia, che smorzò l’impatto. Riaprì gli occhi e ascoltò lo schianto di pietra e legno che piombavano a terra.

Si alzò e si guardò intorno. Nuvole di polvere si alzavano verso il cielo.

Gli operai accorsero, chiedendole se fosse ferita. Cassiopea scosse la testa e li osservò per verificare ancora una volta che stessero tutti bene, poi disse: «Pare che dovremo fare un po’ di pulizie».

Scese dal carro. Aveva i nervi scossi, ma certi incidenti possono sempre capitare, soprattutto in progetti di quel calibro. Per fortuna, finora, non si erano verificati infortuni gravi.

Si era laureata in architettura medievale presso l’École pratique des hautes études di Parigi, con una tesi su Pierre de Montreuil, uno dei maggiori esponenti del protogotico. Aveva impiegato quasi un anno a progettare il castello, sperando di vivere abbastanza a lungo da vederlo completato. Non aveva ancora quarant’anni, quindi il problema non era tanto l’età, quanto i rischi che correva, e non solo quelli costituiti dalle piogge di pietre. Negli ultimi anni se l’era vista brutta diverse volte, collaborando con governi stranieri, agenzie di spionaggio e perfino presidenti. Se l’era sempre cavata ma, quando si continua a girare intorno a gente armata, prima o poi capita qualcosa di brutto.

Finora era stata fortunata. Come oggi.

Mentre gli operai si avvicinavano alle macerie, Cassiopea sentì il cellulare vibrare nel taschino del giaccone.

Da un paio di settimane aveva lavorato a stretto contatto con il gruppo aziendale di famiglia, con sede a Barcellona. I suoi genitori gliel’avevano lasciato in eredità, rendendola la sola azionista di una società con un capitale multimiliardario, estesa su tutti i continenti. Normalmente, gli affari erano una delle attività che lei gradiva di meno, perciò delegava la gestione quotidiana ai suoi bravi amministratori, ma ultimamente si rifugiava nel lavoro per distrarsi da altre cose. Ora immaginava che a chiamarla fosse l’amministratore delegato, con il quale aveva già parlato al telefono poco prima.

E invece no: era un SMS.

Puntando un polpastrello sull’icona, visualizzò il nome del mittente.

STEPHANIE NELLE.

S’irrigidì. Stephanie era l’ultima persona al mondo che lei desiderasse sentire. O la penultima, perlomeno.

Lesse il messaggio.

COTTON È NEI GUAI. SE AVVERTO TE, È PERCHÉ SONO GUAI SERI.