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Le truppe britanniche abbandonarono il Campidoglio in fiamme intorno alle dieci di sera del 24 agosto 1814, marciando in fila per due lungo Pennsylvania Avenue. Ai lati dell’ampio viale c’erano poche case in legno e l’ultimo chilometro prima della Casa Bianca era alberato. Intorno alle undici, un distaccamento di centocinquanta uomini attraversò la strada e si avvicinò alla Casa Bianca, ormai buia, deserta e incustodita. Era l’edificio più splendido della città, ideato da George Washington. Il quarto presidente degli Stati Uniti, James Madison, era fuggito a cavallo già da ore. Gli inglesi credevano che fosse una trappola, non riuscivano a credere che gli americani li lasciassero avanzare nel cuore della capitale senza opporre la minima resistenza.
Entrarono liberamente nella Casa Bianca dalla porta principale, esplorando a lume di lanterna le eleganti stanze ancora pervase dai vapori di cucina. Nella sala da pranzo del pianterreno trovarono un tavolo apparecchiato per quaranta, con una tovaglia damascata, tovaglioli in tinta, argenteria e bicchieri delicati. Sul tavolino a lato, diversi vini erano tenuti in fresco nei secchielli da ghiaccio. Tutto era allestito secondo l’etichetta, pronto per l’uso. In cucina videro spiedi carichi di carni davanti a un fuoco, pentole di verdure e salse. Una cena che il presidente non avrebbe goduto. Così si sedettero a tavola, mangiarono e bevvero, brindando ripetutamente: «Pace all’America, guerra a Madison».
Dopo, fecero man bassa di cimeli vari, nulla di valore tale da giustificare un’accusa di razzia. E dire che gli oggetti preziosi erano parecchi: divani, scrittoi, poltrone imbottite, mobilia raccolta da Jefferson in Francia o appartenuta a George Washington e a John Adams, senza contare le proprietà personali di Madison. Un ritratto di Dolley venne confiscato da un soldato con l’intenzione di esporlo a Londra. Della spada da parata del presidente, invece, s’impadronì un giovane tenente scozzese. Un ammiraglio prese un vecchio cappello e il cuscino di una sedia che, a detta sua, gli avrebbe fatto pensare al «sedere di Mrs Madison».
Dopo che ebbero finito di banchettare e saccheggiare, accatastarono le sedie sui tavoli e radunarono la mobilia restante, infransero le finestre e versarono l’olio delle lampade su lenzuola e tendaggi, poi cinquanta uomini circondarono la Casa Bianca, ognuno reggendo un’asta in cima alla quale era stata fissata una palla di stracci intrisa d’olio. Le aste vennero incendiate e, al segnale, lanciate come giavellotti nelle finestre rotte.
In un istante, l’intero edificio prese fuoco.
Verso il mattino una pioggia battente estinse le fiamme. Fu solo questo a salvare dal crollo le mura, ma ormai della Casa Bianca era rimasto soltanto un guscio vuoto.
Zorin non era un esperto di storia americana, benché l’addestramento del KGB prevedesse di studiarne certi aspetti. Per esempio, non aveva mai saputo che gli inglesi avessero incendiato la Casa Bianca. Lo sentiva ora, per la prima volta, da Kelly. Ma quella vicenda gli piaceva.
«In seguito, uno di quei soldati ha scritto: ’Eravamo artisti all’opera’», disse Kelly. «Erano piuttosto fieri di ciò che avevano fatto. Quell’incursione serviva a lanciare un messaggio a Madison: era stato lui, assieme ai suoi compagni di merende, a volere la guerra. All’epoca i britannici erano occupati a contrastare Napoleone ed erano infastiditi dal fatto di dover perdere tempo con l’America. Ma erano spinti anche da un desiderio di rivalsa, non solo per lo smacco subito nella Guerra d’Indipendenza, ma anche per l’episodio in cui gli Stati Uniti avevano invaso il Canada e incendiato Toronto. Volevano ripagarli con la stessa moneta.»
Ecco un altro pezzo di storia che a Zorin piaceva.
«Ci sono voluti due anni per ricostruire la Casa Bianca, e altri dodici per le rifiniture. Pensa, Aleksandr, che umiliazione per gli americani!»
«Certo, notevole, ma... non vedo il nesso con la nostra missione.»
«Lo vedrai fra poco, e consiste in una certa cosa che è stata aggiunta durante la ricostruzione della Casa Bianca.»
Nel 1814, il distretto di Columbia era diventato sede governativa centrale, con tanto di Executive Mansion e Campidoglio, ma mancavano molti servizi. Era molto più comodo vivere nelle cittadine limitrofe, Georgetown e Alexandria. Le strade erano poche, non lastricate, sempre piene di polvere e fango, senza contare gli acquitrini e gli straripamenti del Potomac. Tuttavia, gradualmente, le abitazioni s’infittirono fino a diventare veri e propri quartieri residenziali. Le funzioni religiose si celebravano al Campidoglio, al Tesoro o in una delle altre sedi del potere esecutivo.
Poi, finalmente, sorsero vere e proprie chiese. Due erano episcopali, l’una accanto al Campidoglio, l’altra a Georgetown. Dopo l’incursione britannica, i quartieri occidentali ne chiesero a gran voce una terza, la cui costruzione cominciò il 14 settembre 1815, a nord della Casa Bianca.
La foggia era sobria. Pianta a croce greca, niente campanile, né portico, né navata: solo una galleria retta da colonne, con pavimento in mattoni e panche chiuse in séparé, illuminata da finestre a mezzaluna alle estremità dei quattro transetti, con un presbiterio poco profondo, affinché i fedeli non fossero troppo distanti dall’altare. Al centro, una cupola con tiburio. Nel dicembre del 1816, la chiesa venne consacrata e dedicata a san Giovanni Evangelista.
Nel corso dei decenni è stata ampliata e ancora oggi si trova lì, in Lafayette Square, fra la Sedicesima e la H, a poco meno di trecento metri dalla Casa Bianca. Con la sua facciata gialla, il colonnato e il campanile, è diventata un punto di riferimento per la gente di Washington. Tutti i presidenti succeduti a James Madison ci sono venuti a messa almeno una volta. Fu lui a inaugurare la tradizione della cosiddetta «Panca Presidenziale», anche se fu John Tyler a pagare per il suo utilizzo in perpetuo. A tutt’oggi, il presidente siede sulla panca nº 54.
«La chiesa di San Giovanni è la chiave», disse Kelly.
«C’era scritto questo, sul diario di Tallmadge?»
Kelly annuì, esaltato. «La parrocchia offre visite guidate. Mi sono fatto presentare il curatore, che mi ha mostrato tutto, fino agli angoli più impensati. Così ho potuto verificare ciò di cui parla Tallmadge nel suo diario. Il KGB continuava a studiare le leggende americane e Andropov stesso ne ha trovata una risalente alla Guerra del 1812. Una cosa di cui gli statunitensi si sono bellamente dimenticati.»
«Cioè?»
Malone tese l’orecchio nel tentativo di sentire che cosa dicevano le voci là sotto, ma non capì nemmeno una parola. Non poteva arrischiarsi a scendere, così decise di assumere il controllo della situazione: chiuse violentemente il portello di metallo e lo bloccò ammonticchiandovi la legna.
Intrappolati come carne in scatola.
Cassiopea attese più che poté, guardando le due sagome nere che si avvicinavano al fienile. La neve scricchiolava sotto i loro passi. Poteva farne fuori uno, ma non avrebbe avuto il tempo di abbattere anche l’altro, così decise d’improvvisare.
«Cotton!» gridò. «Abbiamo compagnia!»
Entrambe le sagome si fermarono e si voltarono. Poi una venne verso di lei, mentre l’altra proseguiva verso il fienile.
Proprio come lei aveva sperato.
Malone udì l’avvertimento di Cassiopea e corse a ripararsi all’estremità della catasta, appena in tempo prima che la porta si spalancasse.
Poi sentì gli spari di una mitragliatrice.
Rimase acquattato dietro la legna, mentre i proiettili fischiavano, conficcandosi nelle pareti e scheggiando i ciocchi. L’uomo sparava alla cieca, in ogni direzione. Dunque era chiaro che non voleva lasciare in vita nessuno.
Nemmeno lui.