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Stephanie ascoltò la voce maschile all’altro capo della linea. Era secca e rauca, ricordava il movimento di qualche animale in un cumulo di foglie morte, e le stava dicendo cose mai sentite. A quanto pareva, negli anni ’80, mentre lei era impegnata nell’operazione Passavanti e lavorava in segreto per Reagan e per il papa, altri si adoperavano per minare il regime sovietico tramite strategie diverse.

«Che tempi, quelli!» disse l’uomo. «All’epoca dell’attentato a Giovanni Paolo II, il capo del KGB era Andropov. Dev’essere stato lui ad autorizzare l’operazione.» E poi proseguì, spiegando che Andropov si era convinto che il conclave avesse eletto Wojtyła proprio per contrastare l’egemonia sovietica sulla Polonia, collaborando così a un complotto per far crollare l’URSS. Un’assurdità, certo, ma alla fine – grazie anche a certe circostanze esterne alla Chiesa, e soprattutto all’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti – era andata esattamente così. «Nel papa, lui vedeva un pericolo, principalmente a causa del fascino che Wojtyła esercitava sulla gente, in particolar modo sui giornalisti. Ricordo di aver letto una circolare in cui Andropov sproloquiava sulle baracconate con cui Wojtyła si accattivava le simpatie delle folle, come quella volta in Inghilterra, quando si era messo il berretto scozzese, o quando distribuiva strette di mano a tutti, o baciava i bambini, peggio di un politico in campagna elettorale. Andropov sembrava spaventato da quel papa.»

E ne aveva tutti i motivi, perché Giovanni Paolo II aveva agito di concerto con gli Stati Uniti. Però, guarda un po’, nessuno aveva mai messo in guardia Stephanie da Andropov.

«Il KGB si è servito dei bulgari per far sparare al papa», riprese l’uomo al telefono. «E ha scelto il sicario con grande cura: Ali Ağca era uno stupidotto, capace solo di balbettare assurdità, come difatti è avvenuto, così i russi hanno potuto negare ogni loro coinvolgimento. E che bella trovata, quella del papa, quando è andato a trovare Ali Ağca in carcere e l’ha perdonato.»

Già, era stata Stephanie a organizzare quell’incontro, deciso da Wojtyła e approvato da Reagan.

Nel 1983, a due anni dall’attentato, il papa aveva avuto un colloquio privato con Ali Ağca che, sopraffatto dall’emozione, era scoppiato a piangere e gli aveva baciato l’anello. I giornali si erano riempiti di fotografie e di reportage che davano risonanza globale a quell’evento e ai sospetti su Mosca. Una mossa audace e risoluta, l’esempio perfetto di come si possa trarre vantaggio dalla circostanza più squallida. L’aveva detto anche Reagan.

L’uomo continuò a parlare: «Quando Andropov è diventato segretario generale, molti hanno temuto problemi. Quell’uomo era al corrente delle nostre attività d’oltrecortina: sapeva che finanziavamo i dissidenti, che fornivamo sostegno logistico, che spiavamo i loro governi e che addirittura toglievamo di mezzo qualche ostacolo».

Il che, tradotto in lingua corrente, significava «uccidevamo gli avversari».

«Poi Andropov si è ammalato e si è reso conto che non gli restava molto da vivere. I medici gli avevano dato otto mesi. Ed è allora che ci siamo spaventati per davvero. Non aveva più niente da perdere, e al Cremlino c’era gente disposta a seguirlo fino al baratro. Prima, quando Kris mi ha telefonato chiedendomi del Matto dello Stolto, ho capito subito a che cosa si riferiva. Tutti noi pensavamo che sarebbe stata l’ultima mossa della vecchia Russia.»

Stephanie non sapeva a chi appartenesse quella voce anziana, ma si guardò bene dal chiederlo: se Kris non gliel’aveva detto, evidentemente non voleva che lo sapesse. Con ogni probabilità era un alto papavero della CIA, un’agenzia deliberatamente suddivisa in compartimenti stagni proprio per evitare che certe cose trapelassero, successi o insuccessi che fossero. I segreti erano talmente tanti che nessuno avrebbe mai potuto conoscerli tutti. E quelli più importanti non venivano mai messi per iscritto. Ma questo non significava che fossero stati dimenticati per sempre.

«Andropov odiava Reagan. Il KGB aveva già tentato di far assassinare il papa, quindi perché non provare a far fuori il presidente degli Stati Uniti? Tutti noi lo pensavamo. Le premesse c’erano. Alla fine del 1983, l’Unione Sovietica aveva enormi problemi economici e politici, l’intera nazione era in mutazione continua. Il Cremlino ha cominciato a interessarsi alla successione presidenziale statunitense. Kris mi dice che lei ha letto un documento che avevamo intercettato. Non era l’unico. ’Emendamento Zero’ è il soprannome con cui chiamavano il nostro XX Emendamento.»

«Lei sa perché?»

«Certo: perché con un attacco eseguito nel modo giusto resteremmo senza un capo.»

«Ma com’è possibile?»

«Non sono un esperto in materia, ma mi ricordo che qualcuno mi ha spiegato che, se prima del giuramento muoiono in un sol colpo il presidente eletto e il vicepresidente eletto, il portavoce della Camera dei Rappresentanti e il presidente pro tempore del Senato, restano solo i membri del gabinetto che prendono il potere tramite un atto congressuale, che però presenta parecchi problemi giuridici. La legge non è chiara. Non si sa se i funzionari del gabinetto abbiano i requisiti costituzionali per la presidenza. Ci sarebbero talmente tanti conflitti interni che nessuno otterrebbe la carica. Conflitti, oltretutto, fomentati dal KGB, che in queste cose era maestro, tant’è vero che spesso è riuscito a manipolare i nostri organi d’informazione. E l’avrebbe fatto anche in quella circostanza.»

«Ma a che scopo?» chiese Stephanie.

«Per sferrare un attacco nel momento in cui non si sa bene chi possa impartire ordini militari. Confusione totale. I carri armati avrebbero invaso l’Europa e noi saremmo stati troppo impegnati a decidere se a comandare è Tizio o Caio.»

Non era un’ipotesi così assurda.

«Abbiamo intercettato comunicati secondo i quali i russi stavano ideando un piano basato sull’Atto di Successione Presidenziale del 1947. Per farlo funzionare, ovviamente, dovevano colpire durante la cerimonia d’insediamento. Qualcuno credeva che fosse questo l’asso nella manica che Andropov intendeva giocare alla rielezione di Reagan, nel 1985. Per fortuna, i reni l’hanno tradito già all’inizio dell’84. Dopo di allora, tutto è caduto nel dimenticatoio, perché i suoi successori non miravano alla terza guerra mondiale. Tutta la fedeltà ad Andropov è venuta a mancare.»

Stephanie alzò lo sguardo su Kris Cox, che dall’altro lato del tavolo la fissava con quei suoi occhi azzurri come acqua di ghiacciaio e un’espressione che sembrava invitarla a fidarsi di quell’uomo, che le stava dicendo la verità. «Quante altre persone lo sanno?»

«Non molte. L’attacco non c’è mai stato, quindi nessuno ci ha più pensato. Queste cose capitavano spesso, all’epoca. Ogni giorno se ne sentiva una nuova. Adesso la questione torna a galla, ma solo perché è saltato fuori quell’Aleksandr Zorin. Mi ricordo di lui, era un ufficiale del KGB. Ed era bravo, infatti nessuno di noi lo prendeva sottogamba. È incredibile che sia ancora vivo.»

Stephanie decise di approfittarne per informarsi il più possibile. «Lei sa qualcosa delle RA-115?»

«È da un po’ che non le sento nominare, se non nei film. Esistevano di sicuro, anche se qualcuno non ci credeva. Sta di fatto che non ne è mai stata trovata neanche una, in nessun punto del globo. Eppure sarebbe logico che prima o poi saltassero fuori. C’era chi pensava che fosse solo uno specchietto per le allodole inventato da quelli del KGB. Del resto, come dicevo, era la loro specialità.»

«Ma adesso l’SVR dice che esistono davvero, e che ne sono sparite cinque.»

«Allora sarà il caso di crederci. È una confessione in piena regola.»

Certo, e Stephanie era convinta che Nikolaj Osin gliel’avesse fatta di nascosto dai suoi superiori, considerata la famosa spaccatura interna al suo governo. I russi della linea dura non volevano certo che gli USA fossero al corrente della possibile esistenza di atomiche portatili. «Potrebbero essere qui negli Stati Uniti?»

«Possibilissimo. Il KGB era l’agenzia di spionaggio più estesa al mondo e l’Unione Sovietica investiva miliardi di rubli nella preparazione di una guerra contro di noi. Questi signori erano pronti a tutto. Non si facevano nessuno scrupolo. Sappiamo per certo che avevano arsenali dislocati in tutta Europa e in Asia, quindi perché non pensare che ne avessero anche in casa nostra?»

Il ragionamento non faceva una grinza.

«Sembra che Zorin stia tentando di portare a termine il Matto dello Stolto», disse Stephanie. «A quanto pare conosce il piano originario di Andropov.»

«Quella missione è stata divisa fra quattro ufficiali del KGB. Non abbiamo mai scoperto i loro nomi. Uno di loro poteva benissimo essere lui.»

«Ma è passato talmente tanto tempo...» disse Kris. «Perché proprio ora?»

Lo sapeva Stephanie. «Prova rancore per tutto ciò che è avvenuto dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Era un idealista, lui. Ci credeva davvero. Secondo Osin, ce l’ha con noi per tutte le disgrazie che gli sono capitate e per tutti questi anni si è macerato nell’acrimonia.»

«Quindi è molto pericoloso», disse l’uomo all’altro capo della linea. «Scommetto che vuole sfruttare il XX Emendamento per generare lo stesso caos politico che noi abbiamo causato nel suo Paese. Ma per farlo deve massacrare parecchia gente in un sol colpo, e a questo scopo gli occorre un’RA-115 funzionante.»

Questo era senz’altro un impedimento, ma Zorin sembrava ben determinato a scavalcarlo.

«Fra poco più di ventiquattr’ore avremo un nuovo presidente», riprese l’uomo.

Era chiaro che cosa intendeva dire: un’occasione d’oro per mettere in atto il Matto dello Stolto.