32
Annapolis,
Maryland,
ore 15.20
Stephanie osservò la casa di Peter Hedlund, attuale Storico della Società dei Cincinnati, una villa in stile coloniale risalente a metà del XVIII secolo, passata di proprietario in proprietario fino alla ristrutturazione avvenuta negli anni ’50. Ne ammirò l’ingegnosa combinazione di marmo, noce e stucchi, e il sapiente accostamento di colori appariscenti, che le ricordavano la casa in cui aveva vissuto con il marito, non molto lontana da lì.
Annapolis le era familiare. Attualmente era solo la capitale del Maryland, ma per un breve periodo dopo la Guerra d’Indipendenza era stata la sede del governo degli Stati Uniti. Non si era espansa granché, dai tempi in cui ci abitava lei, negli anni ’80: contava meno di quarantamila abitanti.
Fritz Strobl aveva telefonato a Hedlund per annunciargli la visita di Stephanie e Luke, che ora erano seduti in un grazioso studiolo dal caminetto in mattoni nel quale scoppiettava un bel fuoco. Avevano appena spiegato il motivo per cui erano venuti da lui, e Hedlund si era dimostrato pienamente disponibile.
«Mia moglie sarà fuori casa per qualche ora», disse.
«Bene, così sarà tutto più semplice», rispose Stephanie. «Meno gente c’è, meglio è.»
«Quella donna è pericolosa?»
«Altroché! Ma non credo che intenda farle del male. Sta cercando qualcosa e noi dobbiamo scoprire che cos’è. Non è che per caso lei lo sa?» Stephanie scrutò il volto dell’uomo, che stava riflettendo. Strobl le aveva dato ben poche informazioni su di lui, forse per discrezione, o forse perché lui stesso non ne sapeva granché. Quest’ultima ipotesi le pareva più probabile.
Hedlund sorrise. «Sarò anche il Custode dei Segreti, ma le assicuro che è un titolo puramente formale, vestigio di un’epoca in cui i segreti c’erano davvero. Oggi la nostra società è dedita solo alla filantropia e all’organizzazione di eventi sociali, con una trasparenza assoluta.»
L’uomo aveva già mostrato a Stephanie e a Luke la sua biblioteca privata, con una stanza a parte, riservata alla storia americana, in particolare ai primi cinquant’anni della repubblica. Aveva passato tutta la vita adulta a collezionare libri sulla storia coloniale e la nomina a Storico dei Cincinnati era stata una grande soddisfazione.
«Lei conosceva Bradley Charon?» chiese Stephanie.
Hedlund annuì. «Eravamo molto amici. Chi mai si sarebbe aspettato che morisse tanto presto? Per me è stato un brutto colpo.»
Luke, che stranamente fino a quel momento era rimasto in silenzio, prese la parola: «Lei sapeva che Charon aveva una biblioteca segreta?»
«Sapevo che in casa teneva una raccolta di libri simile alla mia, ma alla sua morte tutti quei volumi sono passati alla Società. Per fortuna ha avuto la lungimiranza di mettere per iscritto la sua intenzione di lasciarli a noi, altrimenti non li avremmo più visti, fra tutte quelle contese legali. Li teniamo al sicuro, alla Larz Anderson House.»
Stephanie gli spiegò che cos’avevano trovato nella villa in Virginia.
«Sarei curioso di vedere quella stanza segreta», disse Hedlund.
Ma ora non c’era tempo. Stephanie guardò l’orologio, domandandosi che cosa stesse succedendo in Russia. Era molto ansiosa di saperlo. Aveva deviato tutte le chiamate alla Casa Bianca, in modo che Edwin Davis potesse rispondere mentre lei si occupava della faccenda di Annapolis. Gli aveva raccontato in breve che era stata licenziata, pur sapendo benissimo che lui non avrebbe potuto offrirle altro che comprensione. Avevano concordato sul fatto che la strategia migliore fosse quella di continuare a tenere d’occhio gli sviluppi, sia in America, sia in Russia. C’era in ballo qualcosa di grosso, qualcosa di cui evidentemente non erano al corrente neppure i russi, visto che Osin, tanto distaccato davanti alla scoperta della biblioteca di Charon, si era improvvisamente affrettato a collaborare nel momento in cui era comparsa Anja Petrova.
Il campanello squillò.
Stephanie fece cenno a Luke e a Hedlund di ritirarsi al piano superiore. Non appena furono usciti dallo studiolo, si alzò anche lei, si lisciò la camicetta e i pantaloni e fece qualche respirone.
Di nuovo il campanello.
Stephanie andò nell’atrio d’ingresso pavimentato in marmo, con pareti blu dominate da due paesaggi di Annapolis dipinti a olio. Aprì il catenaccio e sorrise alla donna che stava al freddo sulla soglia.
«Mrs Hedlund?» le chiese Anja Petrova.
«Sì, dica.»
Luke ascoltava. Era al sicuro in una delle camere da letto del piano di sopra, dalla quale si accedeva alla balconata interna che si affacciava sull’atrio d’ingresso. Anja Petrova non aveva mai visto Stephanie, anzi, non sapeva nemmeno che lei esistesse, quindi il trucco poteva funzionare. Era il modo più rapido per scoprire che cosa bollisse in pentola. Era rischioso, certo, e non si poteva prevedere come avrebbe reagito Anja, ma lui era lì proprio per questo: per aguzzare la vista. O, al momento, l’udito.
Stephanie invitò Anja Petrova ad accomodarsi e chiuse la porta. «Si è fatta male?» le chiese, indicando il livido sul volto della donna.
«Sono caduta, pensi che sbadata. Ma è meno grave di quel che sembra.»
«Lei è russa? Dall’accento...»
Anja annuì. «Sono nata là, ma adesso vivo qui. Suo marito è in casa?»
Stephanie scosse la testa. «No, mi dispiace.»
«Quando torna?»
«Non saprei.» Quella bugia serviva a spingere la donna a parlare, evitando che Peter Hedlund corresse rischi inutili, anche se il più indicato per questa conversazione era lui.
«Ho fatto un lungo viaggio per parlargli. Devo chiedergli alcune cose sulla Società dei Cincinnati. È il loro Storico, giusto?»
Stephanie annuì. «Ormai da un po’.»
«E ha una biblioteca, qui in casa?» chiese Anja.
Lei le indicò il breve corridoio che partiva dall’atrio. «Una gran bella biblioteca, molto fornita.»
«Posso vederla?»
Stephanie esitò, per non destare sospetti. «Per quale motivo?»
Il volto della donna si rabbuiò. Quanti minuti avrebbe resistito? Alla Larz Anderson House l’avevano disarmata, ma era possibilissimo che nell’auto avesse nascosto una seconda pistola.
Difatti, Anja Petrova infilò la mano sotto la giacca ed estrasse un revolver di piccolo calibro. «Voglio vederla subito.»
Se al piano di sopra non ci fosse stato Luke, pronto all’azione, Stephanie si sarebbe preoccupata: questa donna aveva tutta l’aria di una persona temibile. Ed era naturale, visto che era cresciuta in un luogo dove la paura aveva un valore di mercato. Parlava in modo semplice e diretto, senza fanfaronate. Diceva le cose come stavano. Ed era seriamente intenzionata a farle del male.
Stephanie si finse allarmata: «N... Nessuno mi ha mai puntato addosso... una pistola».
Anja Petrova taceva.
Un silenzio eloquente.
Era il momento di cedere.
«D... D’accordo», disse Stephanie. «L’accompagno... alla biblioteca.»
Dallo spiraglio della porta della balconata interna, Luke vide Stephanie e Anja Petrova imboccare il corridoio. Doveva scendere dabbasso e trovare un punto in cui origliare, ma prima decise di dare una rapida occhiata a Hedlund, che si era rifugiato in un’altra camera da letto, in fondo al corridoio del piano di sopra. Avanzando carponi lungo il tappetino, facendo attenzione a non tradire la propria presenza, raggiunse la porta e udì una voce grave e gutturale dentro la stanza.
Con circospezione, sbirciò all’interno e vide Hedlund seduto su una sedia accanto alla finestra. Guardava fuori e parlava al cellulare. Strano, considerato ciò che stava accadendo al piano di sotto. Fino a quel momento, l’uomo era apparso sinceramente sorpreso e desideroso di collaborare.
«Non può essere altrimenti», stava dicendo Hedlund. «Credevamo che fossero cose morte e sepolte, ma a quanto pare non è così. Sta ricominciando.» Rimase in silenzio per qualche secondo ad ascoltare la risposta dell’interlocutore, poi disse: «Qui non c’è niente da trovare. Ho provveduto io, anni fa». Altro silenzio. «Sì, ti tengo informato.»
Luke udì un bip. La telefonata era conclusa.
Qui non c’è niente da trovare?
Di bene in meglio!
Questo significava che Stephanie, al momento, aveva un problema serio.