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Stephanie si accomodò sul sedile posteriore della Escalade. Seduti davanti c’erano due uomini dall’aria impersonale. Il SUV s’immise nel traffico. Benché fosse il fine settimana, le strade erano piene di gente venuta ad assistere alla cerimonia d’insediamento. Il programma dei due giorni seguenti era fitto di festeggiamenti. L’occasione avrebbe attirato in città più di un milione di persone, le misure di sicurezza erano rigidissime e si era già provveduto a chiudere al pubblico la Casa Bianca, il National Mall e il lato occidentale del Campidoglio. Il palco per il giuramento veniva pattugliato giorno e notte. Tutti i musei ai lati del National Mall, dal Campidoglio fino al monumento a Washington, erano presidiati da vigilanti e sarebbero stati chiusi poche ore prima della cerimonia. Stephanie ripensò al 1989, quando era salita in cima alla torre nord dello Smithsonian per vedere George Bush prestare giuramento. A quei tempi si poteva ancora. Oggi no: era un punto ideale per un tiratore, perciò sarebbe stato riservato a una sentinella dell’esercito o a un agente del Secret Service.
Non sapeva che cosa stesse accadendo. Non le era piaciuto lo sguardo di Osin nell’atrio dell’albergo, ma non aveva avuto scelta. Che cos’avrebbe detto Danny? La conoscenza sta nel sapere che il pomodoro è un frutto, la sapienza sta nel non metterlo nella macedonia. Ora, la sapienza era ciò cui lei mirava, eppure curiosamente riusciva a cacciarsi nei guai anche da disoccupata. Un po’ come capitava a Cotton. Grazie a lei, beninteso.
Guardandosi intorno, si rese conto che la stavano portando verso nord lungo la Settima, in direzione di Columbia Heights. A un certo punto svoltarono in una traversa di cui lei non ebbe il tempo di leggere il nome. Sulla destra c’era un piccolo giardino pubblico. L’auto si fermò, l’uomo seduto a destra scese e venne ad aprirle la portiera. To’, un gentiluomo, pensò Stephanie, uscendo all’aria gelida. Per fortuna aveva ancora il giaccone, i guanti e la sciarpa.
Il giardino pubblico occupava la lunghezza di un isolato ed era deserto, a parte un uomo seduto su una panchina solitaria.
Stephanie gli si avvicinò.
«Mi scuso per il sotterfugio, ma dovevo proprio parlare con lei», disse l’uomo. Era basso e paffuto, con un cappotto scuro, un borsalino e un’elegante sciarpa di Louis Vuitton. Fra le dita guantate reggeva una sigaretta accesa.
«Ha anche un nome?»
«Mi chiami Ismaele.»
Stephanie sorrise, riconoscendo l’allusione a Moby Dick.
«I nomi non contano», riprese l’uomo. «Ma quel che devo dirle sì. Prego, si sieda.»
Per accedere alla sapienza che le interessava, doveva accontentarlo, perciò si accomodò sulla panchina. Il gelo delle assicelle di legno trapassava i vestiti. «Non ha l’accento russo.»
«Sono solo un delegato, incaricato da alcuni cittadini stranieri preoccupati da quanto sta accadendo in Russia.»
Stephanie ripensò a ciò che le aveva detto Osin nell’atrio dell’albergo. «Oligarchi o mafia? Ah, dimenticavo che è la stessa cosa.»
«Gli Stati Uniti dimenticano sempre di avere attraversato una fase evolutiva analoga. Non lo trova curioso? La Russia di oggi non è poi molto diversa dagli USA com’erano dalla fine del XIX secolo fino agli anni ’30: la corruzione come stile di vita. D’altronde, quando si mette fine a ottocento anni di potere autoritario, che cos’altro ci si può aspettare? Che la democrazia sbocci così, dall’oggi al domani? Che tutti i problemi della Russia svaniscano all’istante? Bella favoletta.»
Ismaele non aveva tutti i torti. Di queste cose avevano già parlato Reagan e i suoi collaboratori, quand’era attiva l’operazione Passavanti: all’epoca, tutti si domandavano che cosa sarebbe successo dopo la caduta del comunismo. Eppure nessuno aveva proposto alternative. Si badava soltanto a mettere fine alla Guerra Fredda. Ora, a distanza di venticinque anni, la Russia era più autoritaria e corrotta che mai, con un’economia fragile, istituzioni politiche praticamente inesistenti e riforme mai applicate.
«Gli uomini che rappresento mi hanno autorizzato a essere franco con lei. All’interno del governo russo ci sono fazioni che hanno mire pericolose. Forse addirittura una guerra. Odiano gli USA più ancora di quanto non facessero i comunisti, ma soprattutto odiano la Russia per com’è diventata.»
«Ossia?»
L’uomo prese una lunga boccata dalla sigaretta e soffiò un imbuto azzurro di fumo. «Una nazione che non è più una minaccia globale. Certo, ha mosso guerra alla Georgia, continua a incombere sul Baltico e ha invaso parte dell’Ucraina, ma sono piccolezze in confronto a prima. Non ha abbastanza risorse per fare altro. Lo sa Washington, lo sa Mosca e lo sappiamo noi due.»
Certo, lo sapeva anche lei. Lo dicevano tutti i rapporti di spionaggio. L’esercito russo era l’ombra di se stesso, i soldati erano inesperti e mal retribuiti e in media se ne suicidavano dodici ogni mese. La nuova Russia possedeva formidabili aerei da guerra, sottomarini silenziosissimi e missili ultrarapidi, ma non era in grado di produrli in massa. Gli arsenali atomici erano pieni, ma due armi su tre erano troppo antiquate e non davano certezza di successo al primo colpo. La Russia era molto indebolita già a livello locale. Sul piano globale, non poteva fare altro che minacciare.
«Sembra che certi eventi degli ultimi giorni abbiano rinfocolato l’orgoglio di alcune frange del Cremlino», proseguì Ismaele. «Contrariamente a quanto pensano la CIA e l’NSA, non tutti i russi sono corrotti e venduti. Esistono ancora gli idealisti e i fanatici. E sono più pericolosi che mai.»
Stephanie cominciava a capire. «La guerra soffoca l’economia.»
«Eccome. Centinaia di migliaia di russi emigrano. Non i poveri, non la bassa manovalanza: sono scaltri imprenditori, professionisti specializzati, ingegneri, scienziati. Perdite costose.»
Era vero anche questo. La corruzione, l’inefficienza della burocrazia e il vuoto di potere spingevano la gente verso ambienti più sicuri. Eppure... «Ci sono più immigrati che emigrati. Il problema non c’è.»
«Ci sono molti posti di lavoro e per fortuna tanta gente corre a occuparli. Ragione di più per non potersi permettere fanatismi: la Russia dovrebbe giocare le carte che ha, diversificare la politica energetica ed espandere l’economia, anziché prepararsi a una guerra che non può vincere. Speravo di trovare una comunanza di vedute fra me e lei.»
«Ma io non lavoro più per il governo degli Stati Uniti. Sono stata licenziata.»
«Però gode della fiducia del presidente. Osin dice che lei è l’unica persona in grado di parlare a Daniels.»
«Per dirgli cosa?»
«Che siamo qui per aiutarvi.»
Stephanie ridacchiò. «Scherza? Oligarchi e mafiosi? Aiutare noi? E come?»
«Facendo ciò di cui voi non siete capaci: eliminando i fanatici all’interno del governo. Certe trovate simil-sovietiche devono finire. Questa gente parla di sospendere gli accordi sul controllo delle armi, di mettere bombardieri nei cieli della NATO, di dare inizio al riarmo e addirittura di ricalibrare il piano missilistico in modo da comprendere di nuovo l’Europa e gli Stati Uniti. A voi farebbe piacere?» L’uomo era visibilmente impaurito. E ci voleva parecchio, per spaventare un uomo abituato a trattare con gente senza scrupoli. «Nessuno rivuole la Guerra Fredda. Nuocerebbe alle persone che rappresento, ma anche al resto del mondo. Gli Stati Uniti considerano i miei benefattori come criminali, e ne hanno tutto il diritto. La cosa non li offende. Però non vi danno nessun fastidio, anzi, fanno affari con voi. Non hanno un esercito, non hanno missili.»
«Ed esportano criminalità.»
Con aria sprezzante, Ismaele soffiò il fumo verso l’alto, poi fece spallucce. «Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Sempre meglio del buco senza la ciambella.»
Ora Stephanie era incuriosita. «I suoi committenti risolverebbero il problema da cima a fondo?»
«Diciamo che a Mosca ci saranno parecchi funerali.»
Ufficialmente, gli Stati Uniti ripudiavano l’assassinio. Ufficiosamente, però, vi ricorrevano di continuo. «Che cosa volete da noi?»
«Che fermiate Aleksandr Zorin.»
«Conoscete il suo piano?»
«Conosciamo il suo sogno.»
«Cioè?»
«Far sì che l’imminente cerimonia d’insediamento sia la più memorabile della storia. Non dovete permetterglielo.»
Finalmente la conferma.
Da qualche anno, molti parlavano di una nuova Guerra Fredda e tutti concordavano sul fatto che, se fosse scoppiata, la si sarebbe combattuta con il denaro, il petrolio e soprattutto la propaganda. Erano solo congetture, ma abbastanza fondate, dopo l’avvento di Internet e dei notiziari disseminati su tutto l’arco delle ventiquattr’ore. Le vecchie regole non valevano più. Una società chiusa, per quanto estesa, era praticamente impossibile da mantenere. Bastava guardare la Cina, che era fallita miseramente. Un tempo, i sovietici credevano che il segreto stesse in una disciplina ferrea e che per far crollare l’Occidente bastasse perseverare senza mai vacillare. Peccato che a crollare fosse stato proprio quel modo di pensare, che aveva portato solo povertà e oppressione. Ossia brutte gatte da pelare. Alla fine l’URSS aveva vacillato. Ed era caduta.
Ma ora sembrava che alcuni irriducibili volessero riportarla in vita.
Stephanie si vergognava a chiederglielo, ma non poteva farne a meno. «Quando agiranno?»
L’uomo finì la sigaretta e gettò a terra il mozzicone. «È questione di ore. Bisogna muoversi subito. Sarebbe meglio se la cosa venisse presentata come lotta intestina, in modo da screditare vivi e morti. Se tutto va per il verso giusto, si distruggeranno da sé.»
«E i suoi benefattori continueranno a fare soldi.»
«Puro capitalismo. Qui, nessuno batterà ciglio.»
Stephanie aveva ancora una domanda. «Zorin si è messo sulla strada giusta?»
«Quei fanatici sono convinti di sì. Contattando Vadim Bel’čenko ha attirato la loro attenzione: tengono sott’occhio gli ex archivisti, soprattutto quello, così hanno mandato l’esercito in quella dača in Siberia. Sono riusciti a uccidere Bel’čenko, ma il vostro agente si è lasciato alle spalle cinque russi morti, di cui tre soldati. Spero che non sia stato solo un colpo di fortuna: gli occorrerà tutta la bravura di questo mondo, per fermare Zorin.»
«Ci sono atomiche portatili sul suolo statunitense?»
Ismaele sorrise. «Sappiamo che Osin ve ne ha parlato. Va benissimo così, era giusto che lo sapeste. Andropov era fatto così: pur con tutta la sua spavalderia, era convinto che l’URSS non fosse in grado di raggiungere la supremazia ideologica ed economica sugli USA, a meno di non prendere misure drastiche. Così ha concepito il Matto dello Stolto. Credevamo che fosse caduto nel dimenticatoio, e invece rieccolo qui, redivivo e pronto a esplodere. Sì, le armi sono qui.»
Stephanie aveva le membra leggermente intorpidite: la stanchezza e il freddo cominciavano a pesarle, e l’idea di prendere parte a una cospirazione illecita non era certo un conforto. Ma l’uomo seduto accanto a lei non era da prendere alla leggera. I suoi «benefattori» avevano troppo da perdere per consentire a un manipolo d’idioti di distruggere tutto, perciò sarebbero scesi in campo, con o senza di lei. Oh, sì, ci sarebbero stati diversi funerali a Mosca, ma probabilmente anche negli Stati Uniti. Era già morta Anja Petrova. Quanti altri l’avrebbero seguita nella tomba? «La SVR ha aggredito Zorin in Canada. Quanto sono informati, questi pazzi dentro il governo?»
«Parecchio, mi si dice. Hanno pieno accesso agli archivi segreti del KGB, comprese le carte personali di Andropov. Ben pochi hanno visto quei documenti. Si sono allarmati già quando Zorin ha portato Bel’čenko in Siberia. Non parliamo poi di quando il vostro agente è entrato in Russia. Pare che fossero già al corrente del Matto dello Stolto, pur non conoscendone pienamente le potenzialità, così si sono informati e hanno scoperto l’esistenza di Jamie Kelly. È stato allora che hanno deciso di uccidere Zorin e Bel’čenko per non rischiare che la cosa trapelasse. Ma il vostro agente ha impedito che abbattessero l’aereo di Zorin. E loro non hanno fatto salti di gioia. Adesso devono eliminare tutte le persone che sanno qualcosa, ossia Zorin, Kelly e il vostro agente. Quindi tenetevi pronti.»
«Sanno dove sono le atomiche?»
Ismaele scosse la testa. «Questo è l’unico lato positivo. Hanno bisogno di seguire Kelly. Fra l’altro, anche Zorin deve restare con lui.»
Stephanie aveva sentito abbastanza. Si alzò dalla panchina. «Prenderemo provvedimenti.»
«Tenga d’occhio la televisione. Quando i russi si metteranno in movimento, lo saprete dal telegiornale.»
Stephanie s’incamminò.
«Posso offrirle un passaggio fino all’albergo?» disse l’uomo.
Ma la sola idea le dava il voltastomaco. «Grazie, preferisco andare da sola.»
E si allontanò.