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Zorin fissava la riva di Eastport. Avevano attraversato la baia in poco meno di due ore. Avevano ammainato la vela e gettato l’ancora a poche centinaia di metri dalla sponda, poi si erano ritirati sottocoperta. Sbirciando da dietro la tendina di un oblò, Zorin vide il porto, che ospitava una gran varietà di natanti. Kelly gli aveva spiegato che Eastport era un paesino pittoresco, famoso principalmente per essere la località più orientale degli Stati Uniti.
«Questo è un porto d’entrata ufficiale», disse Kelly. «C’è un traghetto che fa la spola tra Eastport e Deer Island, nel Nuovo Brunswick, ma solo d’estate. In questa stagione, il passaggio di frontiera è informale.»
«Cioè non possono arrestarci?»
«Esattamente. Ci sono già passato diverse volte. Cos’è che ci hanno insegnato, Aleksandr? Sii pronto oppure muori.»
Zorin tornò all’aperto, sulla piccola poppa, ad ascoltare il mormorio distante delle onde che s’infrangevano sulla riva rocciosa. Lì, in mezzo all’acqua, non c’era riparo dal vento del Nord che tagliava la gola e gli riportava alla memoria una giornata gelida di tanto tempo prima, sulla penisola della Kamčatka, quando sei soldati oppiomani si erano impossessati di un Tu-134 destinato ai campi petroliferi siberiani. Due dei settantaquattro passeggeri erano rimasti uccisi e l’aereo aveva riportato danni, perciò i soldati non erano più riusciti a utilizzarlo per fuggire in Occidente. Quel giorno, Zorin era in mare, a circa mezzo miglio dalla costa, in attesa del momento di agire, sotto un vento artico che gli gelava le ossa. Alla fine, lui e altri tre uomini delle specnaz erano tornati a terra, avevano fatto irruzione nell’aereo e avevano ucciso tutti e sei i dirottatori.
Era bravo nel suo mestiere. Rispettato. Temuto. E remunerato.
C’erano autobus senza numero che ogni giorno attraversavano Mosca in ogni direzione, trasportando gratuitamente gli uomini del KGB. A loro non mancava mai nulla. Gli empori del KGB erano sempre ben riforniti di salmone, salsicce, formaggi, pane, perfino caviale. Gli abiti occidentali venivano ordinati rapidamente. C’erano palestre, saune, piscine, campi da tennis, una squadra medica privata che lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro, una moderna clinica dentistica, e addirittura si potevano prenotare massaggi. Il quartier generale del Primo Direttorato Centrale, appena fuori Mosca, aveva un servizio di sicurezza migliore di quello del Cremlino. E che palazzo, poi! Era stato costruito con materiali importati dal Giappone e dall’Europa, arredato con mobilia fornita dai finlandesi, e da qualunque angolazione lo si guardasse si restava a bocca aperta. La facciata in marmo luccicava al sole, i pavimenti in legno erano lucidati a specchio. Non si badava a spese: l’intero edificio aveva lo scopo di ricordare a tutti quelli che ci lavoravano che erano persone speciali.
Ai migliori, solo il meglio.
E quelli come lui, che lavoravano al Dipartimento America del Nord, erano i più importanti.
Poi era svanito tutto.
«Hai sentito che fine ha fatto la Foresta?» Così chiamavano il quartier generale del Primo Direttorato Centrale.
Kelly scosse la testa. «Non sono più tornato là, dopo quella sera con Andropov. Non ne ho mai avuto l’occasione.»
«E meno male, perché ci saresti rimasto malissimo. Io ci sono stato nel ’94. Il palazzo era in rovina, tutto scrostato, lurido e pieno di gente già ubriaca a mezzogiorno. E tutti quei bei mobili finlandesi sono spariti o andati distrutti. Nei bagni c’erano decine e decine di bottiglie di liquori, tutto puzzava di alcol e tabacco e non c’era verso di trovare carta igienica né salviette, perché la gente rubava le forniture non appena arrivavano. Bisognava pulirsi il culo con i giornali vecchi. L’hanno lasciata andare in rovina, la Foresta. Proprio come noi.»
Uomini brillanti, fidati e sicuri, ora sciupati. Gli veniva la nausea solo a pensarci, eppure doveva, per alimentare l’odio che rischiava di spegnersi con l’età. Quando era di stanza all’estero, aveva imparato che ogni cosa era transitoria. L’addestramento gli aveva insegnato a sospendere la mente nel surreale che lo circondava. Mosca era sempre stata la sua casa, un luogo familiare e accogliente, ma poi quel mondo aveva cessato di esistere e lui si era ritrovato senza logica né ragione.
Si era sentito abbandonato e solo.
«Avrei quasi preferito fare come te», disse. «Vivendo qui, non hai assistito allo sfacelo.»
«Ma non ho mai dimenticato di essere un ufficiale del KGB. Mai. Andropov mi aveva affidato una missione. Questo contava pur qualcosa, Aleksandr.»
Certo, contava anche per lui.
Ascoltò lo sciacquio dei flutti contro lo scafo. A est, l’orizzonte aveva assunto una tinta rosa salmone: era quasi l’alba. Il vento non era calato, le acque s’increspavano come fogli d’alluminio.
Kelly aprì la sacca, ne estrasse una mappa, la dispiegò sul fondo della barca e la illuminò con una torcia. Era una cartina della costa atlantica degli Stati Uniti, dal Maine alla Florida. «Siamo qui», disse, puntando il fascio di luce sull’estremità orientale del Maine. «Per prima cosa andiamo a Bangor. Lì prendiamo l’Interstate 95 verso sud, così guadagniamo tempo e arriviamo a destinazione entro stasera.»
«Non hai intenzione di spiegarmi i dettagli, immagino.»
«Scopriamoli assieme, un passo alla volta, eh?»
Zorin non poteva permettersi di controbattere, perciò tacque. D’altronde, l’obiettivo di Kelly era anche il suo, quindi perché protestare? Guardò di nuovo verso la riva del paesino. Sul molo cominciavano a comparire alcune persone. Fari d’automobili passavano lungo una strada costiera e svoltavano verso l’entroterra illuminando gli edifici su entrambi i lati.
Gli Stati Uniti d’America.
Quanto tempo era passato dalla sua ultima visita!
«Come ci arriviamo, a Bangor e all’Interstate 95? Rubare un’auto potrebbe essere un problema.»
«Rubarla? Perché? Possiamo benissimo noleggiarla. Io ho la cittadinanza statunitense e una patente canadese, nessuno solleverà obiezioni. Gli americani sanno che sei qui?»
Zorin scosse la testa. «Non direi. Pare che Mosca mi stesse tenendo d’occhio, ma adesso nessuno sa dove siamo.»
Chissà come stava Anja? Zorin aveva ancora il cellulare prepagato con cui poteva contattarla, ma s’impose di attendere la sera.
«Dici? A me sembra chiaro che la SVR lo sa», disse Kelly.
La qual cosa sollevava altri dubbi su Bel’čenko. Ciò che l’ex archivista aveva detto a Zorin nella sauna era stato poi ripetuto a Mosca? «Hai ragione. Quei tizi sapevano.»
«Ma allora perché ci hanno fatto visita solo adesso?» chiese Kelly.
«Perché finora non ne avevano motivo, oppure non sapevano ancora tutto.»
«La SVR è al corrente del Matto dello Stolto?»
«Può darsi. Se io ho trovato quei vecchi registri, è possibilissimo che li abbiano trovati anche loro. Magari altri ex archivisti sanno le cose che ho scoperto io. D’altronde, tu hai detto di non aver mai fatto rapporto sul buon esito delle operazioni. Giusto?»
Kelly annuì.
Zorin trovava inconcepibile che Bel’čenko avesse parlato. «Stanno brancolando nel buio. Sono venuti da noi sperando che li portassimo all’arsenale.»
Guardò nuovamente verso la riva. Eastport aveva l’aria di un bel posticino tranquillo, eppure allo stesso tempo tetro e sinistro.
La SVR era lì? In agguato?
Malone rallentò entrando a Eastport. Il paesino si trovava su Moose Island, che nonostante il nome non era un’isola: una sottile lingua di terra la collegava alla terraferma. Da Saint Andrews avevano tenuto d’occhio la barca a vela che saliva e scendeva sulle onde, spinta dal vento sulle acque che cedevano morbidamente alla pressione dello scafo. Non appena era sparita alla vista, erano ripartiti dalla costa canadese imboccando la Route 1, avevano passato il confine, poi avevano seguito il fiume Sainte-Croix verso sud. Cassiopea aveva controllato la mappa sullo smartphone: Eastport era il punto più orientale degli Stati Uniti.
E lì avevano tirato un sospiro di sollievo: il drone, che aveva continuato a seguire la barca, segnalava che adesso era all’ancora al largo di Eastport. Dunque potevano essere soddisfatti della loro rapidità.
Il centro di Eastport era piccolo ed eclettico: la strada principale correva tra bassi edifici in legno, spesso con ringhiere in ferro battuto o griglie ornamentali. Il vento sollevava una bandiera degli Stati Uniti fissata a un’asta con l’aquila americana. La meta ideale per un fine settimana vacanziero, a circa quattrocento chilometri da Portland. Edwin Davis aveva appena chiamato per dire che i due uomini erano ancora in barca e che a bordo era tutto tranquillo.
«Ma come fanno a entrare negli Stati Uniti?» chiese Cassiopea.
«Ti sembrerà pazzesco, ma in questa stagione vige l’autocertificazione: quando passi il confine ti piazzi davanti a un videotelefono, giù al molo, e chiami i frontalieri che ti fanno qualche domanda. Se non ti danno il permesso di entrare, ti pregano gentilmente di tornare da dove sei venuto. Tanto, se ci sono problemi, c’è già la polizia locale.»
«Scherzi?»
«No, è capitato anche a me di fare una telefonata del genere, in altri passaggi di frontiera. Il confine terrestre fra gli Stati Uniti e il Canada è lungo quasi novemila chilometri, sarebbe difficile e troppo dispendioso sorvegliarlo tutto. Evidentemente Kelly sa quali sono i punti non controllati. Infatti è venuto dritto qui.» Malone fermò l’auto davanti a un bed-and-breakfast. «Ormai Zorin mi conosce, quindi non devo farmi vedere da lui. Lasciamo che sia il drone a tenerlo sott’occhio, dopodiché passiamo all’approccio diretto. E a quello provvederai tu.»
Scherzosamente, Cassiopea fece il saluto militare. «Signorsì sissignore, agli ordini.»
Malone sorrise. «Mi mancavano, certe tue battute.»
«Benissimo», rispose Cassiopea. Poi, sentendo il cellulare vibrare, accettò la chiamata e inserì il vivavoce.
Era Edwin Davis. «Stanno mettendo in acqua un canotto.»
«Avete avvisato le pattuglie di frontiera? Non devono intervenire.»
«Già fatto. Lasciano campo libero. Mi si dice che sul molo ci sono delle telecamere nascoste, per via di tutto il viavai che c’è d’estate.»
«Avete scoperto qualcosa sul Matto dello Stolto o sull’Emendamento Zero?»
«Eccome. E non sono affatto buone notizie.»