38
Annapolis,
ore 22.00
Stephanie era in sala d’attesa ormai da diverse ore. Un’ambulanza aveva portato Peter Hedlund all’ospedale più vicino e lei, per poterlo accompagnare, aveva detto di essere una dipendente del dipartimento di Giustizia, anche se non era vero. Mentre stavano per partire era arrivata la polizia locale, che li aveva scortati fino al pronto soccorso. Lì, Stephanie aveva dato agli agenti un breve resoconto su Anja Petrova e Luke Daniels, e loro l’avevano informata sull’inseguimento fuori città. Poi, due ore prima, le avevano riferito che Anja Petrova era morta e si erano messi a tempestarla di domande, ma lei li aveva reindirizzati al capo del personale della Casa Bianca, che sarebbe stato ben felice di spiegare la faccenda.
Che giornataccia. Cotton nei guai, la telefonata a Cassiopea, i russi, i sovietici, Litchfield, il licenziamento, Hedlund impallinato e Anja Petrova morta. Per fortuna c’era anche una buona notizia: quando aveva fatto rapporto alla Casa Bianca, Edwin le aveva detto che Cotton e Cassiopea erano partiti per il Canada sulle tracce di Aleksandr Zorin. Dunque Cotton stava bene, grazie al cielo. Stephanie sapeva di poter sempre contare su di lui. E pure su Cassiopea, che ora evidentemente era di nuovo in campo. Edwin l’aveva anche ragguagliata sull’ultimo rapporto di Cotton, colmando le lacune in ciò che lei già sapeva. Ora cominciava a emergere un quadro generale. Incompleto, certo, ma comunque utile.
Sentì un rumore di passi, un’andatura familiare. Alzò lo sguardo e vide Luke sbucare dal corridoio con un’aria abbattuta. «Scusa.»
Erano soli nella sala d’aspetto.
«La polizia locale si è lasciata prendere la mano», continuò Luke. «Però ho pescato questo.» Le mostrò un cellulare. «Ha l’aria di un telefono prepagato comprato all’aeroporto. Era spento.»
Stephanie gli riferì ciò che aveva appreso su Cotton, su Zorin e sulle bombe.
«Sembra che il gioco si stia concentrando dalla nostra parte del campo», disse Luke. «Come sta Hedlund?»
«Uno dei proiettili ha sfiorato la spalla destra, l’altro ha trapassato le costole. L’ha scampata bella. L’hanno portato dritto in sala operatoria. Due ore fa è arrivata la moglie, adesso è in stanza con lui.»
«Che sorpresa, Hedlund ex agente dell’FBI», disse Luke. «Ha preso la pistola mentre era al piano di sopra, in camera da letto.» Scosse la testa. «Voleva fare il ranger solitario che salva la carovana.»
«E per un pelo non ci lasciava le penne.»
«È anche bugiardo.»
Stephanie drizzò le orecchie.
Luke prese di tasca un secondo cellulare. «Questo è di Hedlund. Gliel’ho preso prima che scendesse in biblioteca. Mentre era in camera ha fatto una telefonata.»
Le raccontò tutto ciò che aveva origliato – Qui non c’è niente da trovare – dopodiché Stephanie pose la domanda più ovvia: «Con chi stava parlando?»
«Ho recuperato il nominativo dall’elenco chiamate. Figura come Larry Begyn. Il numero ha il prefisso 703.»
«Nord della Virginia, vicino a Washington», disse Stephanie. «Immagino che tu abbia già fatto ricerche su questo nome.»
«Lawrence Paul Begyn, attuale presidente generale della Società dei Cincinnati.»
«Chissà che cosa nascondono», borbottò Stephanie.
«Abbastanza da spingere Hedlund a rispolverare i suoi talenti da pistolero.»
Stephanie lo fissò e annuì.
«Adesso sappiamo che a casa di Hedlund non c’è niente», riprese Luke. «Però da qualche altra parte c’è di sicuro qualcosa: il diario di quel Tallmadge. Anja Petrova sapeva esattamente che cosa cercare.»
«È il momento di sfoderare l’artiglieria pesante.»
Luke afferrò il messaggio. «Immagino che zio Danny sia già stato informato.»
Stephanie annuì. «Torniamo a Washington. Ma prima dobbiamo fare un’ultima cosa.»
Anche stavolta Luke capì a che cosa si riferiva. «Anch’io sono curioso di sentire che cos’ha da dire Hedlund. Prego, prima le signore.»
Entrarono nella camera e lo trovarono sveglio, reclinato sul letto, con la moglie al fianco. La donna si presentò come Leah.
«Si rende conto della sciocchezza che ha fatto?» gli disse Stephanie.
«Ho preso parte a sparatorie peggiori.»
«Sì, ma non c’ero in mezzo io!»
«È capacissima di badare a se stessa.»
Stephanie gli restituì il cellulare. «Mi dica che cosa sa Larry Begyn. E stavolta niente balle.»
Hedlund le rivolse uno sguardo aperto, come a indicare che era disposto a collaborare.
«Gli hanno appena sparato. Non si può rimandare?» chiese la moglie.
«Lo vorrei anch’io, ma non è possibile. Oltretutto, se suo marito mi avesse detto la verità fin dall’inizio, adesso non saremmo qui. D’altro canto è pur sempre il Custode dei Segreti.» Stephanie non era in vena di altre messinscene. «La donna che le ha sparato è morta, ma sapeva del diario di Tallmadge. È necessario che lei mi dica che cos’è.»
«Morta? Come?»
«Di stupidità», disse Luke.
Hedlund capì l’antifona e levò una mano in un gesto conciliante. «Sì, sì, ho recepito. Vi dirò tutto.»
Zorin ripiegò i paracadute e si sfilò la tuta. Sotto, portava un giaccone, pantaloni neri e dolcevita nero. Doveva nascondere il fagotto per evitare che attirasse l’attenzione, così si addentrò fra gli alberi e trovò un nascondiglio sotto un tronco caduto. Vi lasciò anche il casco e il binocolo a visione notturna, dato che non ne aveva più bisogno. Tutto ciò che gli serviva stava nelle tasche o nello zaino. Se gli fosse occorso qualcos’altro, se lo sarebbe procurato lungo il tragitto. Al momento, la necessità primaria era trovare un mezzo di trasporto. Durante la discesa aveva scorto una fila di cottage non lontano da lì. Probabilmente erano disabitati, dato che le luci erano spente, ma decise di dare ugualmente un’occhiata, così s’incamminò in quella direzione.
Muoversi di notte comportava certe difficoltà. Come gli era stato insegnato, camminò posando la punta del piede in modo da saggiare il terreno prima di appoggiare il peso, avanzando a passi brevi, leggermente sbilenchi, con una mano avanti a sé. Con l’altra, reggeva la pistola contro il petto, con un dito sul grilletto. La sua mente era un macchinario ben oliato, efficiente e preciso, pronto a ogni evenienza.
Raggiunse la strada litoranea e la seguì verso est per un paio di chilometri, fino a raggiungere i cottage che sorgevano in una radura. Un forte odore di salsedine gli riempiva le narici. La sua più grande paura era che qualche cane avvertisse la sua presenza, ma tutto taceva, a parte il rombo attutito delle onde che s’infrangevano sulla spiaggia fuori dalla portata del suo sguardo. L’aria era gelida, ma per i criteri siberiani era un clima primaverile.
I cottage erano otto, tutti rettangolari, con le pareti esterne in legno e un tetto a spiovente. Luci spente ovunque. Però accanto a tre di essi c’era un’auto. Una in particolare attirò la sua attenzione: un vecchio cassonato. Una volta era in grado di accendere un motore facendo contatto con i fili in meno di un minuto, ma negli ultimi venticinque anni le automobili erano cambiate parecchio: ora era tutto elettronico, computerizzato, con antifurto satellitare. Però quel vecchio cassonato poteva fare al caso suo.
Si avvicinò di soppiatto e vide che la portiera non era chiusa a chiave. L’aprì con cautela e tese una mano sotto il piantone dello sterzo fino a raggiungere il blocchetto di accensione. Al buio vedeva ben poco, ma gli bastò il tatto per trovare le solite tre paia di fili. Le strappò e le tenne separate. Ogni coppia rappresentava una posizione della chiave: luci, radio e motore. Come distinguerle? Andando per tentativi. Tirò fuori il coltellino multiuso e tagliò tutte le guaine.
Unì due fili e si accesero i fanali anteriori, perciò si affrettò a interrompere il contatto. Alla seconda coppia si accese il motore. Sapendo che con i fili scoperti si rischiava di prendere una brutta scossa, li separò e li divaricò il più possibile, ma non aveva tempo per coprirli. Bastava un po’ di attenzione.
Finora, tutto bene.
Salì a bordo e partì.
Con una rapida occhiata all’orologio calcolò che mancavano trentotto ore.