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Zorin stava ingobbito per proteggersi dal gelo. Aveva passato un’intera vita a temperature glaciali, eppure continuava a detestarle. Gli occidentali erano convinti che con il tempo si sviluppasse una sorta d’immunità al freddo, ma non c’era nulla di più lontano dal vero. Aveva atteso sulla strada buia per quasi mezz’ora, ma alla fine la sua pazienza fu premiata dalla comparsa di una Ford che si era fermata davanti a lui. Salì a bordo, nell’abitacolo caldo. Il guidatore era un uomo fra i trenta e i quaranta, come lui, con una barba di tre giorni e un berretto dei Chicago Bears. L’auto ripartì, con i copertoni che sollevavano schizzi di neve e ghiaccio.

Quindici minuti dopo arrivarono davanti a un locale anonimo, nella periferia nord di Baltimora, con un’insegna al neon che raffigurava una ballerina nuda e la scritta INGRESSO LIBERO. Zorin aveva vissuto in Occidente abbastanza a lungo da capire che si trattava di un locale a luci rosse. Era comprensibile che il guidatore avesse scelto questo posto degenerato: qui, giocava in casa. Perciò Zorin non sollevò obiezioni.

Ora l’uomo viveva e lavorava lì a Baltimora e si faceva chiamare Joe Perko. Anche Zorin aveva usato una delle sue molte false identità per entrare più facilmente negli Stati Uniti: pur con tutto quel parlare di Guerra Fredda, gli americani avevano frontiere tutt’altro che compatte. Entrambi parlavano un inglese perfetto, grazie all’addestramento presso il KGB.

Entrarono in tutta fretta.

Tutto era velato d’ombra, a parte le luci sul bancone del bar e sul palcoscenico, dove una biondina dalla magrezza impressionante e dai seni voluminosi danzava spogliandosi. A lui non erano mai piaciute le donne così: preferiva un po’ più di carne attaccata all’osso, sia a tavola, sia a letto. E poi prediligeva le bionde naturali, non quelle che creavano illusioni da un flacone. La donna ballava, ma i suoi movimenti non seguivano il ritmo della musica. Più che altro, sembrava turbata, oppure annoiata.

Alcune cameriere in topless servivano ai tavoli che circondavano il palco.

«Il posto ideale», disse Perko. «Tutti guardano le donne, nessuno fa caso a noi.»

Il ragionamento non faceva una grinza.

Scelsero un tavolo vicino al palco e ordinarono due vodke.

«Io ho fatto la mia parte», disse Perko a bassa voce.

Zorin capì: era stata completata un’altra delle quattro operazioni, il Pedone Arretrato.

«Ci ho messo cinque anni, ma ce l’ho fatta», riprese Perko. «Mi sembra incredibile che sia passato così tanto tempo da quando ci siamo seduti a tavola con Andropov. Quante cose sono cambiate!»

Parole sante. Era il 1988, Andropov era morto da quattro anni e ora l’Unione Sovietica era governata da Gorbačëv, dalla perestrojka e dalla glasnost’, «ricostruzione» e «trasparenza». I vecchi sistemi scolorivano di giorno in giorno.

«Fra gli ordini contenuti nella mia busta c’era anche quello di fare rapporto a te», disse Perko. «Ora l’operazione è conclusa, quindi eccomi qua.»

Un altro quarto della missione, l’Inchiodatura Assoluta, era stato completato quasi due anni prima. Anche in quel caso, l’ufficiale in questione aveva fatto rapporto a lui, non lì ma a New York. Per la prima volta era venuto a sapere più di quanto le autorità non prevedessero.

La cameriera servì le due vodke e Zorin prese un lungo sorso. Non era un gran bevitore, ma era bravo a fingere.

Perko, invece, trangugiò la sua in un sol colpo. «Zubrówka. Altro che in patria», mormorò, posando il bicchiere.

Zorin concordava: la vodka polacca non era all’altezza di quella russa.

«E tu hai completato la tua parte?» gli chiese Perko.

Lui scosse la testa. «Non ancora.»

Ed era vero.

Durante quella cena con Andropov, le buste erano rimaste sotto i piatti. Dopo che il segretario generale se n’era andato, loro le avevano prese con sé, erano usciti dall’appartamento e si erano allontanati, ognuno per conto proprio, prima di aprirle e leggerne il contenuto. Il fatto di essere stati scelti da Andropov in persona comportava una grossa responsabilità. Tutti loro avevano un vincolo di segretezza. Finora, che Zorin sapesse, nessuno di loro aveva comunicato con gli altri. Ma tutti, in ottemperanza agli ordini contenuti nella busta, avevano fatto rapporto a lui.

«Le ho radunate tutte», disse Perko. «Ce le ho qui.»

La biondina aveva finito lo spogliarello ma continuava a ballare, stavolta con provocanti mossette, completamente nuda. Diversi avventori, visibilmente esaltati dal suo rinnovato entusiasmo, la premiarono gettando banconote sul palco.

Zorin prese un altro sorso di vodka.

«Sono arrivate da Cuba, via Messico», riprese Perko. «Mi sono assicurato che nessuno le vedesse. Abbiamo assoldato un uomo che le trasportasse di qua dal confine. Le ho prelevate in Texas e le ho portate personalmente quassù a nord.»

Gli stava dicendo più del dovuto, ma Zorin era sempre più curioso di conoscere anche le altre parti della missione, perciò gli chiese: «Tutte intere?»

Perko annuì. «Intere, chiuse e accese.»

«Nessun problema?»

«Nessuno. Certo che fanno paura...» La voce di Perko era appena udibile, in mezzo alla musica. «È incredibile che un pacco così piccolo contenga una carica atomica.»

Incredibile, sì.

Zorin era al corrente degli arsenali in Europa e in Estremo Oriente nei quali erano state dislocate le RA-115, ma non aveva mai saputo che ce ne fosse uno anche negli Stati Uniti. A quanto pareva, Andropov aveva concepito un piano in grande stile.

«Le ho consegnate al Matto dello Stolto, come da ordini», disse Perko. «Tu hai idea di che cosa debba farne lui?»

Zorin scosse la testa. «Da qui in poi, io e te siamo fuori dal gioco.»

Perko finì la vodka e fece un cenno a una cameriera per farsene portare un’altra. «Io sono già stato richiamato. Parto dopodomani.»

Zorin lo sapeva già, ma fece finta di nulla. «Allora brindiamo al tuo ritorno in patria.»

 

Avevano festeggiato per ore, mentre la musica suonava e altre ballerine sculettavano sul palco. Ne ricordava una in particolare, minuta e scuretta, occhi a mandorla, naso piatto e capelli corvini. Era piaciuta anche a Perko, che avrebbe voluto conoscerla, ma Zorin l’aveva dissuaso e trascinato fuori dal locale, ormai ubriaco. Lui, invece, aveva bevuto poco ed era ben lucido. Una volta raggiunta l’auto, si era accertato che non ci fosse nessuno in giro, dopodiché aveva stretto una mano sulla bocca di Perko e con uno scatto deciso gli aveva ruotato la testa da una parte all’altra, spezzandogli l’osso del collo. Morte istantanea. Altro talento acquisito presso il KGB.

La sua operazione, la Mossa Tranquilla, era semplice: eliminare gli altri tre ufficiali non appena avessero fatto rapporto. Con Perko, ne aveva fatti fuori due. Ecco perché non li aveva dissuasi dal parlare: tanto, non avrebbero potuto raccontarlo a nessuno, dunque non rischiava guai.

Da quello dell’Inchiodatura Assoluta era venuto al corrente della creazione di cinque RA-115 progettate per lunga durata e massimo risultato. Da Perko – quello del Pedone Arretrato – aveva appreso che quelle RA-115 erano state portate segretamente negli Stati Uniti. Non aveva ancora appurato in che cosa consistesse il Matto dello Stolto, ma poteva presumere che fosse la conservazione e l’occultamento degli ordigni.

Ma come si chiamava l’ufficiale cui era stata affidata quell’operazione?

Zorin se l’era fatto dire da Vadim Bel’čenko.

Si trattava di un uomo che, come Zorin, era stato istruito sui sistemi occidentali e piazzato negli Stati Uniti. Ora aveva assunto il nome di Jamie Kelly e viveva in Canada.

Nella penombra del vano passeggeri del Gulfstream, ripensò ai due uomini che aveva ucciso. Avevano solo svolto il loro lavoro: servire fedelmente la patria. Era del tutto umano che avessero voglia di parlarne, soprattutto con qualcuno che faceva parte della loro stessa missione. Ma Andropov aveva previsto le lingue lunghe, ecco perché aveva incluso nel piano anche l’operazione Mossa Tranquilla. Alla fin fine, pure Zorin aveva solo svolto il suo lavoro.

Eppure quei due delitti gli pesavano sulla coscienza.

Il minimo che potesse fare per loro era assicurarsi che non fossero morti invano.