Capitolo 89

In extremis

«Domani starò dalla mattina alla sera a casa di Viegas», mi disse un giorno Virgília. «Poverino! Non ha nessuno...».

Viegas si era dovuto allettare una volta per tutte; la figlia, che era sposata, si era ammalata proprio in quei giorni e non poteva andare a fargli compagnia. Virgília restava con lui di tanto in tanto. Ne approfittai per passare una giornata intera insieme a lei. Arrivai alle due del pomeriggio. Viegas tossiva talmente forte da causare anche a me i bruciori al petto; fra un attacco e l’altro, discuteva il prezzo di una casa con un tipo magrolino. Quest’ultimo gli offriva trenta milioni, Viegas ne esigeva quaranta. L’acquirente insisteva, come se avesse paura di perdere il treno, ma Viegas era irremovibile; rifiutò prima i trenta milioni, poi altri due, poi altri tre, infine gli venne un attacco fortissimo che per quindici minuti gli impedì di parlare. L’acquirente gli rivolgeva una quantità di attenzioni, gli sistemava i cuscini, e gli offrì trentasei milioni.

«Mai!», mugolò il malato.

Si fece portare un fascio di carte dalla scrivania; non aveva la forza di tirar via l’elastico che le teneva insieme e chiese a me di toglierlo: eseguii. Erano i conti delle spese per la costruzione della casa: lavori di operai, falegnami, imbianchini; costo della carta da parati del salotto, della sala da pranzo, delle camere da letto, degli studi; opere del fabbro; costo del terreno. Apriva le parcelle una alla volta con mano tremula, mi chiedeva di leggerle, e io leggevo.

«Visto? Mille e duecento, una carta da parati da mille e due al foglio. Cardini importati dalla Francia... Visto, è regalata», concluse quando ebbi finito di leggere l’ultima parcella.

«Va bene... Però...».

«Quaranta milioni; non la cedo a meno. Soltanto gli interessi... Faccia il conto degli interessi...».

Queste parole gli uscirono insieme alla tosse, a spruzzi, a sillabe, quasi fossero brandelli di polmone. In fondo alle sue occhiaie incavate lampeggiavano due occhi roteanti che mi ricordavano un lumino da notte. Sotto il lenzuolo si disegnava la struttura ossea, appuntita in corrispondenza di ginocchia e piedi; una pelle ingiallita, floscia, rugosa, rivestiva a malapena il teschio sopra un volto privo di espressione; un cappuccio di cotone bianco ricopriva il cranio reso calvo dal tempo.

«E quindi?», disse il magrolino.

Gli feci cenno di non insistere e lui tacque per qualche momento. Il malato rimase a guardare il soffitto in silenzio, ansimando moltissimo: Virgília impallidì, si alzò, andò alla finestra. Pensava che Viegas stesse morendo e si era spaventata. Cercai di cambiare discorso. Il magrolino raccontò un aneddoto e subito riprese a contrattare per la casa, alzando la posta.

«Trentotto milioni», disse.

«Ahn...?», mugolò Viegas.

Il magrolino si accostò al letto, gli prese la mano e la trovò gelata. Mi avvicinai, chiesi al malato cosa si sentisse, se avrebbe gradito un calice di vino.

«No... no... quar... quaran... quar... quar...».

Gli venne un altro attacco, l’ultimo; di lì a poco spirò, con gran costernazione del magrolino, che in seguito mi confessò di essere stato disposto a pagare i quaranta milioni; troppo tardi.