Capitolo 30
Fior di boschetto
La voce e la gonna appartenevano a una ragazzina bruna, che alla vista di un estraneo si fermò sulla porta un breve istante. Silenzio imbarazzato. Lo ruppe dona Eusébia dopo un po’, in modo aperto e diretto: «Vieni, Eugênia», disse, «saluta il dottor Brás Cubas; è tornato da poco dall’Europa». E poi, rivolta a me: «Mia figlia Eugênia».
Eugênia, il fior di boschetto, rispose appena al gesto di saluto che le rivolgevo; mi guardava stupefatta e intimidita mentre si avvicinava lenta alla poltrona di sua madre. Quest’ultima le sistemò una treccia la cui punta si era disfatta. «Ah, birichina!», diceva. «Nemmeno immaginate che tipo è, dottore...». E le diede un bacio così affettuoso ed espansivo che mi commossi un poco; mi tornò in mente mia madre e – non vi nascondo niente – sentii pungermi una voglia d’esser padre.
«Birichina?», dissi. «Direi che non ha più l’età».
«Quanti anni le date?».
«Diciassette».
«Meno uno».
«Sedici. Appunto! È già ragazza».
Eugênia non riuscì a mascherare la soddisfazione per il mio commento, ma si riprese subito e tornò come prima, dritta, distante, silenziosa. Sembrava davvero ancor più donna di quanto già non fosse; sarà stata forse infantile nei suoi giochi da ragazza; ma così, silenziosa e impassibile, aveva una compostezza da donna sposata. Al massimo questo le sminuiva un poco la grazia virginale. Ci trovammo subito a nostro agio; la madre decantava le sue doti, io ascoltavo volentieri, lei sorrideva con occhi accesi, come se dentro il cervello le svolazzasse una farfallina con ali d’oro e occhi di diamante...
Dico dentro, perché fuori svolazzò invece una farfalla nera penetrata in veranda all’improvviso, che cominciò a sbattere le ali intorno a dona Eusébia. Lei gridò, si alzò, imprecò a vanvera: «Pussa via...! Vade retro...! Madonnina santa...!».
«Niente paura», dissi; presi il fazzoletto e la scacciai. Dona Eusébia si risedette ansimante, vergognandosi un poco; la figlia, impallidita probabilmente di paura, nascondeva con grande sforzo di volontà l’impressione che le aveva fatto l’insetto. Strinsi la mano alle due donne e me ne andai ridendo tra me della loro superstizione, una risata filosofica, distaccata, superiore. A sera vidi passare a cavallo la figlia di dona Eusébia, seguita da un valletto; mi salutò alzando la punta del frustino; confesso di essermi sentito lusingato all’idea che pochi passi dopo si sarebbe voltata; invece no.