Capitolo 60
L’abbraccio
Pensai che il poveraccio fosse malato di mente e già me ne stavo andando, quando lui mi afferrò per il polso e per un attimo osservò il brillante che portavo al dito. Sentii l’avidità fremergli nella mano, come per un brivido di possesso.
«Stupendo!», disse.
Poi cominciò a girarmi intorno e a esaminarmi attentamente.
«Ci trattiamo bene», riprese. «Gioielli, abiti fini, eleganti... Basta confrontare queste scarpe con le mie; che differenza! E come no! Ci trattiamo bene, glielo dico io. E a donne? A donne come andiamo? Si è sposato?».
«No».
«Neanch’io».
«Abito in...».
«Non voglio sapere il suo indirizzo», mi interruppe Quincas Borba. «Se ci rincontreremo qualche volta, mi dia un’altra banconota da cinquemila; ma mi consenta di non venirla a cercare a casa sua. È per una sorta di orgoglio personale... Via, addio; vedo che è impaziente di andarsene».
«Addio!».
«E grazie. Mi lascia ringraziarla da vicino?».
Così dicendo, mi abbracciò con tale slancio che non lo potei assolutamente evitare. Finalmente ci separammo, io a gran passi, con la camicia tutta sgualcita per l’abbraccio, infastidito e cupo. In me il versante empatico del sentimento verso di lui era ormai scomparso, lasciando il campo all’altra faccia. Avrei voluto vederlo dignitoso, nella sua miseria. Invece non riuscivo a impedirmi di fare il confronto fra l’uomo di adesso e il ragazzo di allora, cosa che mi intristiva e mi faceva sentire davanti all’abisso che separa le speranze di un tempo dalla realtà di quando il tempo è ormai trascorso...
«E su, addio. Andiamo a cena», dissi fra me.
Infilai la mano nel gilè, ma non trovai l’orologio. Disillusione estrema! Me lo aveva rubato Borba abbracciandomi.