Capitolo 142
Una richiesta segreta
Quante cose in un minuetto!, come si diceva un tempo. Quante cose in una zuffa di cani! Ma io non ero un discepolo tanto servile e spaurito da non avanzare le obiezioni del caso. Mentre camminavamo, gli esposi il mio dubbio; non avevo ben capito quale vantaggio ci fosse a contendere del cibo ai cani. Lui mi rispose con incredibile dolcezza: «Contenderlo ad altri uomini sarebbe più logico, giacché i litiganti partirebbero da una condizione di parità e l’osso rimarrebbe al più forte. Ma per quale motivo anche contenderlo ai cani non dovrebbe costituire uno spettacolo grandioso? Si può decidere di mangiare cavallette, seguendo l’esempio del Precursore, o di peggio, come Ezechiele; è dunque possibile ingerire ciò che è guasto; resta da vedere se sia più dignitoso per un uomo conquistarselo in virtù di una necessità naturale, o preferirlo per ubbidire a un’estasi religiosa, cioè passibile di transitorietà al contrario della fame che è eterna, come la vita e la morte».
Eravamo arrivati sulla porta di casa; mi consegnarono una lettera, portata a quanto sembrava da una signora. Entrammo, e Quincas Borba, con la discrezione tipica dei filosofi, si mise a esaminare le coste dei libri su uno scaffale, mentre io leggevo il messaggio, che era di Virgília.
Mio buon amico,
dona Plácida sta molto male. Vi chiedo la cortesia di interessarvi di lei; abita in beco das Escadinhas; magari riuscite a farla entrare alla Misericórdia.
La vostra amica
sincera,
V
Non era la solita calligrafia fine e ordinata di Virgília, questa era rozza e irregolare; la V a mo’ di firma era a malapena uno scarabocchio privo di ambizioni alfabetiche; in questo modo, se la lettera fosse diventata di pubblico dominio, sarebbe stato molto difficile stabilire chi l’aveva scritta. Mi giravo e rigiravo il foglietto tra le mani. Povera dona Plácida! Però le avevo lasciato i cinque milioni trovati in spiaggia, non capivo come...
«Lo capirai», disse Quincas Borba tirando fuori un libro dallo scaffale.
«Che cosa?», domandai, stupefatto.
«Capirai che ti ho detto il vero. Pascal è uno dei miei padri spirituali; e per quanto la mia filosofia sia superiore alla sua non posso negargli di essere stato un grand’uomo. Per esempio, cosa dice in questa pagina? Che l’uomo “è più nobile” del resto dell’universo: “Sa di morire. L’universo non ne sa nulla”. Visto? Perciò l’uomo che contende l’osso a un cane è più nobile di quest’ultimo perché sa di avere fame; è questo a rendere grandioso il combattimento, come dicevo prima. “Sa di morire” è un’espressione profonda; mi sembra comunque di una profondità minore rispetto alla mia: sa di avere fame. Questo perché l’evento della morte pone un limite, per così dire, alla comprensione umana; la coscienza di doversi estinguere dura per un breve istante e subito dopo scompare per sempre, mentre la fame possiede il vantaggio di poter essere reiterata, prolungando così la condizione di consapevolezza. Mi sembra (senza falsa modestia) che la massima di Pascal sia inferiore alla mia, pur rimanendo il suo pensiero grande e Pascal un grand’uomo».