Come è andata a finire

Il processo non si è chiuso definitivamente a Imola: ci sono stati altri due gradi di giudizio, un rinvio e un’ultima impugnazione in Cassazione.

Come abbiamo visto, nel dicembre del 1997 il pretore Antonio Costanzo assolse tutti gli imputati, per quanto con formule diverse: Williams, Head e Newey per “non aver commesso il fatto”; gli altri perché il fatto “non sussiste”. Pur non rilevando responsabilità degli uomini Williams, ricordiamo che nelle motivazioni della sentenza il pretore ha riconosciuto la tesi della rottura del piantone dello sterzo: “Un difetto di funzionamento del sistema di sterzo meglio si presta a spiegare un’uscita di pista in curva”. Principalmente per questo motivo, la pubblica accusa – rappresentata dal PM Passarini – ha deciso di ricorrere in appello contro gli unici imputati possibili, i due tecnici Patrick Head e Adrian Newey. L’assunto alla base del ricorso è che la responsabilità ricadrebbe su chi è intervenuto sul piantone dello sterzo e non sui vertici della squadra. Si potrebbero portare vari argomenti riguardo la responsabilità diretta o indiretta di chi opera al fine di agevolare la prestazione sportiva e su specifica richiesta dell’atleta, ma personalmente ritengo che, per quanto al limite, ogni intervento sulle vetture dovrebbe garantire lo stesso livello di sicurezza presentato in sede di omologazione delle stesse. Ciò premesso, forse bisognava concentrare le indagini precedenti il rinvio a giudizio di primo grado per cercare di scoprire “chi” materialmente avesse progettato e poi operato la modifica. Kevin Young e Gavin Fischer? E il tecnico di macchina di Senna, David Brown, sapeva com’era stata progettata ed eseguita? Ormai non importa, non più.

In ogni caso, il giudizio di primo grado lasciava scontenti molti, in primis Patrick Head – oggi sposato proprio con l’addetta stampa di Senna – per il quale era inaccettabile una sentenza che a conti fatti lo indicava (per quanto indirettamente) come principale responsabile dell’incidente, nonostante non avesse “materialmente commesso il fatto”. Difatti in secondo grado il giudice Francesco Maria Agnoli della Corte di appello di Bologna ha modificato la sentenza accogliendo il ricorso presentato dallo stesso Head e da Newey (nonché l’appello “incidentale” presentato da Frank Williams) e assolvendo tutti e tre con la classica formula “piena” ovvero “perché il fatto non sussiste”. Ma proprio quando sembrava esser calato il sipario su questa tragica vicenda, a fine gennaio 2003 – a quasi dieci anni dall’incidente – la Corte di cassazione annulla la sentenza e rinvia il procedimento in appello. I giudici della Suprema corte hanno così accolto i motivi con cui il sostituto procuratore generale, Rinaldo Rosini, aveva chiesto di annullare la sentenza di primo grado (quella che aveva assolto Frank Williams, Patrick Head e il progettista Adrian Newey, oggi in Red Bull).

Attenzione: i giudici di secondo grado hanno utilizzato per l’assoluzione l’ipotesi che il “fatto non sussiste” in applicazione del secondo comma dell’art. 530 del codice di procedura penale, quello che interviene quando si ritengono “insufficienti e/o contraddittori” gli elementi a carico degli imputati, ovvero la “insufficienza di prove” del vecchio rito giudiziario (ricordiamo che il codice di procedura penale è stato riformato nel 1988/1989). Il procuratore Rosini, pertanto, ha sostenuto che fosse errato l’assunto dei giudici di appello secondo cui non era stato provato il “nesso causale” tra la condotta degli imputati e la morte e che fu un errore giudicare la rottura del piantone dello sterzo come una “non prova”, una rottura causata da un “difetto” di progettazione e costruzione, di cui, però, non fu possibile stabilire chi fosse realmente responsabile. Voci di corridoio ricordano ancora i nomi di Fischer e Young, mai al centro di alcun giudizio. Come accennato, fu proprio il titolare della scuderia inglese, Frank Williams, a presentare appello “incidentale”. Lo stesso consulente metallurgico del PM Passarini aveva, infatti, disatteso le speranze del suo mandante e sostenuto che il piantone dello sterzo era ancora “funzionante” quando la Williams uscì di pista, motivo per cui la squadra ha desiderato una formula di assoluzione ancora più favorevole di quella “perché il fatto non sussiste”. La ottenne. La Cassazione, però, ha precisato che la sentenza della terza sezione della Corte d’appello bolognese era da rivedere ed ecco, quindi, che l’11 maggio del 2005 è iniziato il secondo processo di appello a Bologna. Il procuratore generale, Rinaldo Rosini, ha ribadito le accuse nei confronti di Head, anche se la sua richiesta è stata di non procedere a causa dell’intervenuta “prescrizione” del reato, dal quale sono passati più di dieci anni. Le difese, invece, sono rimaste sulle posizioni originarie. In pochi giorni si è arrivati a emettere una nuova, ennesima sentenza: Adrian Newey innocente “per non aver commesso il fatto”, mentre per Head si è affermato il “non luogo a procedere”, in quanto “il reato a lui ascritto è da considerarsi estinto per prescrizione”. La Corte, quindi, ha sostanzialmente riconosciuto la tesi della pubblica accusa – che ha sempre indicato come causa dell’incidente il cedimento del piantone dello sterzo – senza peraltro poter condannare nessuno, principalmente a causa del tempo trascorso. Nulla di strano in un paese in cui l’arretrato di cause è tale che i rinvii da un’udienza all’altra sono spesso ad anni e anni di distanza. Ma Patrick Head non ci sta. Lui amava Senna come ha sempre amato tutti i grandi campioni che hanno guidato le sue macchine. Presenta, allora, un nuovo ricorso in Cassazione – questa volta sì ultimo grado di giudizio – avversando l’intervenuta prescrizione. La Corte ha però rigettato il ricorso confermando la sentenza di prescrizione, evidentemente ritenendo non così evidente la sua innocenza (altrimenti avrebbe applicato il disposto del secondo comma dell’art. 129 c.p.p.) e ribadendo, anzi, le modalità e le responsabilità dell’incidente. È questa la vera fine? Head non ci sta e si oppone ma la sentenza della Suprema corte non è ulteriormente impugnabile ed è pertanto definitiva dato che il giudizio di revisione è ammesso solo per le sentenze di condanna. Nei fatti, tutti escono puliti dal processo, Patrick Head resta accusato di negligenza – in quanto il piantone dello sterzo si ruppe a causa di modifiche “mal progettate ed eseguite” – a causa di un comportamento “colposo, commissivo ed omissivo”, dal quale sarebbe scaturito un evento “prevedibile ed evitabile”.

Tutta colpa del piantone, quindi: se non fosse stato malamente modificato, la tragedia si sarebbe evitata. Sicuro? La mia impressione è che come spesso accade in molti incidenti, una lunga, sincronica, incredibile concatenazione di eventi ha prodotto un risultato drammatico, imprevedibile e fatale. Certo il piantone è stato modificato (peraltro da soggetti rimasti estranei a questo processo – ricordiamo ancora le voci circa i tecnici Fischer e Young) e probabilmente lo si poteva fare meglio, con più calma e cura, magari in officina. Ma Ayrton Senna non aveva preso punti utili nelle prime gare e rischiava di perdere il confronto con Schumacher e qualsiasi cosa potesse farlo sentire più a suo agio e andare più veloce era desiderata, ben accetta e quasi auspicata dai più, lui compreso. Psicologicamente non era al massimo della forma, d’accordo, ma al Tamburello non si sbaglia, semmai si subisce un guasto: su questo sono sempre stati tutti d’accordo, soprattutto i piloti che il muro del Tamburello lo hanno preso. Ma a prescindere dal guasto, ci sono state altre circostanze, coincidenze più o meno fortuite a concorrere in misura variabile alla tragedia: gli incidenti al via, la ripartenza con la safety car e le gomme che si raffreddano, i leggeri dossi, la banchina non complanare a bordo pista, la mancata diminuzione di velocità in frenata, l’angolazione di impatto sul muro e le sue conseguenze sul distacco e/o la flessione, la frantumazione o rottura di particolari parti della vettura, inclusa la sospensione stiratasi, flessasi in forma ovoidale sino ad infilarsi – con una specie di colpo di frusta – tra la guarnizione e la visiera del casco di Ayrton Senna, causandone la morte. Tante, troppe, circostanze per imputare la tragedia a una sola di esse. Questa almeno, la mia versione dei fatti di una storia nella quale, comunque la si veda, molti dei protagonisti della Formula 1 hanno perso un’occasione per rendere giustizia a un uomo, un pilota, un campione che ha contribuito grandemente al successo di questo sport.