Sinfonia tragica
Sta sorgendo l’alba dietro la collina del Pevero, Paolo si è addormentato sul divano lasciandosi cullare dallo scoppiettio del camino. Fuori c’è un maestrale che rende il cielo terso, di un blu accecante che sovrasta il rosa, il violetto, il turchese, l’azzurro, lasciati indietro dal sole che fugge verso l’alto. Siamo alla domenica della morte di Ayrton Senna.
Quando correvo, mentre studiavo all’università, mentre creavo il mio futuro ho sempre lasciato uno spazio mentale per Senna e il suo esempio: forza di volontà, professionalità, dedizione. Quando è morto ho smesso di guardare le sue immagini, le interviste, le foto, gli speciali mandati in onda a ritmo continuo dalle televisioni. Adesso, ad anni di distanza, mi ritrovo su di un’isola che è quanto di più distante possa esserci dal mondo caotico delle gare. Con il nuovo giorno apro gli appunti sulle ore della morte di Senna, per poter scrivere dei miei pensieri di allora. Non è più tempo di scappare.
Il nove maggio, otto giorni dopo l’incidente, scrivevo: “Per Ayrton Senna da Silva la sveglia è sempre stata alle 7.30. Amava dormire ma non lo faceva mai. Estate, inverno, primavera, autunno, che si fosse nel pieno della stagione delle corse o nella breve pausa invernale che precede lo shake-down, il battesimo delle nuove vetture, lui era sempre in gara. Una gara mentale. 7.30, la solita ora di una domenica da Gran Premio. Una bella nottata di sonno, come tutte quelle passate all’albergo Castello in quella stanza n. 200. Ci stava bene, nascosto nel verde di Castel S.Pietro Terme: “Lascio sempre le finestre aperte perché quando fa giorno mi piace ascoltare gli uccelli, sono la mia sveglia personale”, diceva ridendo. Lui stesso aveva scoperto quell’oasi di pace. Un giorno volando in elicottero vide il piccolo eliporto nel grande giardino, era il 1989, e da allora non aveva più lasciato quella stanza. Di quel posto e di quella sua scoperta Ayrton andava fiero, tanto da convincere anche la McLaren a seguirlo. Era ritornato in quell’albergo anche quest’anno, anche se ora era alla Williams e il Castello era presidiato dalla sua ex squadra. Gli piacevano i piccoli posti, più genuini, più vicini alla realtà che viveva a casa sua, in Brasile. Doveva essere un segreto quella sua permanenza in albergo, non lo è mai stato; nei giorni del Gran Premio la centralinista impazziva a causa delle telefonate per il signor Senna, in special modo di donne, ma lui rispondeva solo a poche comunicazioni, pochissime e filtrate.
È arrivato presto in autodromo quella mattina, aveva molte cose da fare e non solo legate alla gara. Gli incidenti dei giorni precedenti l’avevano scioccato ma era deciso ad andare avanti.
“Se si ha un certo ruolo in questo sport”, diceva con quella sua inflessione portoghese, “è giusto che ci si esponga. Se occorre battagliare per i nostri diritti e per la sicurezza, è giusto che a far sentire l’opinione dei piloti siano quelli più rappresentativi.” Poche ore, pochi giri di prova e occorre prepararsi, è il momento di posizionarsi al primo posto in griglia di partenza, suo per la sessantacinquesima volta.
Ricordo le immagini televisive, ero a Londra e la TV inglese inquadrava lo schieramento dall’alto. Una cosa mi colpisce: Ayrton rimane in macchina ad attendere la partenza, come al solito. Nei venti minuti che precedono il semaforo verde teneva sempre il casco calzato, con qualsiasi elemento atmosferico, con qualsiasi temperatura. Questa volta no, se lo leva e rimane fisso con lo sguardo oltre la marea di gente che gli si fa attorno. Rinfila il casco, tutto è pronto.
La bandiera verde fa muovere le macchine per il giro di ricognizione, Senna si lancia in progressione, riscalda le gomme e controlla il comportamento della sua monoposto. Il trenino delle auto corre verso la partenza di una gara che dovrà significare la rivincita del brasiliano su Schumacher e sui tecnici che sembrano non fidarsi delle sue indicazioni. Ecco il semaforo rosso, su i giri del motore!
Le macchine vibranti sono pronte allo scatto. Semaforo verde. Via!
Ayrton è primo e non ha problemi a contenere la Benetton di Schumacher e le Ferrari di Alesi e Berger ma dietro succede il finimondo. Il finlandese Letho è rimasto fermo alla partenza con il motore spento ed è stato centrato dalla Lotus del portoghese Pedro Lamy: le gomme sono volate in tribuna e hanno ferito una decina di persone. È incredibile! Rivedo le immagini nella mia testa, ricordo la confusione, il caos, i cameraman che scappano all’impazzata, una ragazza che urla con un frammento di sospensione in un occhio, un uomo disteso per terra che piange e si tiene la testa fra le mani. Sembra una gara stregata su cui è scesa una maledizione. Un incidente grave, uno mortale, tre spettatori e un agente della polizia ricoverati in ospedale con ferite fortunatamente superficiali e la corsa non è neanche iniziata!
Qualcuno, dalle tribune, urla: “Per 350.000 lire vogliamo più sicurezza, alzate le reti!”, e intanto le monoposto girano ad andatura ridotta dietro la vettura di sicurezza. Eccolo lì, Senna, che se ne va in scioltezza dopo che gli ultimi detriti sono stati raccolti alla meno peggio e il belga Bruynserade, direttore di corsa, ha dato la partenza lanciata. Questa volta Schumacher dovrà dannarsi l’anima.
Poi l’incidente al Tamburello.
Scende un silenzio di pietra.
Ayrton Senna, l’invincibile “tricampeão”, è immobile tra i pezzi della sua Williams FW16. Muove la testa. Forse è solo intontito dalla gran botta, nella sua carriera ne ha prese tante ed è sempre uscito come se nulla fosse. Un paio di commissari arancioni guardano la macchina, immobili. Arriva la vettura dei medici, dai box si alza l’elicottero di soccorso. In tre gli si affannano intorno, lo estraggono, lo adagiano per terra e cominciano a tagliare la tuta ignifuga. L’elicottero atterra in mezzo alla pista, lo caricano e riparte subito verso l’ospedale Maggiore di Bologna, lasciando intravedere un enorme chiazza di sangue. Mentre l’elicottero decolla un applauso immenso parte dalla collina della Tosa e coinvolge tutto il circuito, è qualcosa di fortissimo, di immenso, che supera il rumore delle pale che girano, delle sirene che suonano sopra il vociare dei cronisti, qualcosa che buca la telecamera per entrare nelle case. È un omaggio diretto al Campione che se ne va, per l’ultima volta.
Due giorni dopo le processioni nella camera ardente, i cori degli stadi brasiliani, la disperazione e lo strazio di centinaia di tifosi assiepati alla curva del Tamburello, l’autopsia indicherà nello “schiacciamento cerebrale con fratture multiple della base cranica e arresto cardiocircolatorio” la causa del decesso e, appurato che non è stato un malore, partiranno gli avvisi di garanzia per omicidio colposo.
Il pubblico ministero Passarini dirà che sono “atti dovuti.” È il momento in cui cominciano le indagini. Lunghissime. Passeranno molti mesi in cui nessuno parla, nessuno si pronuncia sulla foto pubblicata da “Autosprint” che mostra il piantone dello sterzo, divelto, adagiato accanto alla vettura subito dopo l’impatto. La stampa inglese pubblica un’intervista a Patrick Head, direttore tecnico e comproprietario della squadra campione del mondo, in cui si ipotizza un errore di Ayrton: “Ha alzato il piede su di un dosso”, scrivono.
Sono le 14.17 del 1° maggio 1994 e in pochi attimi scompare un pezzo di storia dell’automobilismo e dello sport. Mentre Milton Nascimento canta Adeus Senna in un intero stadio brasiliano pietrificato, con “O’Rey”, “The best”, “L’uomo delle 65 pole positions” se ne va un decennio di corse veramente magico.
I miei appunti sembrano scritti sempre peggio, nelle ultime pagine annoto la triste sinfonia della tragedia:
“Sale la musica della nostalgia montando pian piano. Sale al suo ritmo impietoso e l’immagine di quel pezzo di carbonio che esce dalla esse, di quelle mani che stringono il camoscio nello sforzo, di quegli occhi stretti in palpebre solcate dalla tensione e dall’angoscia, si fa sempre più nitida nella mia mente.
Sale il ritmo della melodia, salgono i giri sotto il peso del suo piede che freme e dei suoi muscoli tesi, fasciati dal nylon a compattare una fatica mentale che cerca di essere fisica per contrastare quel mostro.
I cartelli schizzano via con quelle mille testoline appese al muro, mentre all’opposto c’è chi gioisce, chi piange, chi urla, chi guarda e si inebria di quel suono e della magia di Ayrton che passa, con i suoi colori e il suo mito, per l’ultima volta.
Oltre me stesso c’è solo il suo sguardo fisso sul cemento a cercare la gomma, mentre la schiena vibra e il sedere risveglia i suoi nervi a cercare il feeling con l’aderenza, trasmesso alle sue mani nervose e rilassate che attendono una curva dritta, di quelle dove puoi guardare gli specchi e concentrare il respiro. Recupera ossigeno Ayrton e aspetta solo il riferimento per avventarsi sui freni e inserirsi in curva nella marea rossa della Tosa. Il ritmo sale, mentre caricano i bassi d’orchestra e stridono le corde dei contrabbassi e dei violini, cresce il pathos, aumenta la tensione. Batte la melodia della tragedia, con le sue grancasse e il controcanto, batte mentre la telecamera si avvicina a inquadrare la pista facendo grandi giri, andando a stringere la soggettiva. Batte in crescendo mentre scorgo la visiera appoggiata alla guarnizione, con l’aria che fischia fortissimo e i led dei limitatore sul giallo. Sale e pompa questa musica triste che non mi dà tregua mentre la visuale si stringe sempre più, le immagini si sovrappongono, le laterali si alternano veloci, la regia stacca a tratti sulla folla inferocita che incita i suoi gladiatori... il ritmo, il ritmo, i tamburi, i piatti, gli acuti, i bassi e la melodia che appare e scompare dietro le note, nascosta dagli occhi di lui che guarda solo in avanti, senza pensare, con i neuroni in corsa sopra le sue emozioni e dietro le reazioni chimiche del suo cervello in eruzione a catena... respira Ayrton, respira... e martella, e colpisce la danza impazzita, le ruote che girano veloci e i dischi incandescenti che arroventano l’obbiettivo... respira Ayrton, respira... e il rumore è più forte di tutto e di tutti, sopra le vibrazioni, oltre la forza dell’aria che spinge e resiste. Sale, sale, sale e tutto va su quelle mani, che girano inermi mentre tutto rimbalza e i pensieri si spengono, mentre sbatte la testa e il proiettile buca la scatola cranica, rompe le ossa e fende invincibile i tessuti. Tutto ruota nella luce e nel buio e l’immagine esterna riprende nitidezza mentre il suo ultimo respiro scompare, lasciando solo il rumore del suo cuore che batte, sempre più piano, sempre più lento a far compagnia ai miei pensieri notturni.”
È una sinfonia lunga e pesante, in troppi atti. È mattina. Ho pianto, sono stanco. Paolo sta facendo colazione, corn flakes e uova sbattute. Abitudini internazionali. Vorrei dormire, vorrei scrivere, vorrei finire al più presto di ricordare quei momenti. Il vento imperversa, dicono che durerà almeno tre giorni. Un’occasione in più per starsene rinchiusi in casa a parlare. Paolo si siede e racconta, come in uno di quei romanzi in cui c’è un coprotagonista che appare e scompare.
“Vedo Bernie Ecclestone, il Presidente della FOCA (la federazione dei costruttori, N.d.A.), che esce dalla Direzione gara e si dirige verso il motorhome accompagnato da Leonardo, il fratello di Ayrton, e Betise” sono gli attimi successivi all’incidente, Paolo li ricorda bene: “Alle domande che gli vengono rivolte, Bernie reagisce nervosamente. Due vecchi cronisti, un italiano e un brasiliano, si ritengono offesi e insultano pesantemente Ecclestone.” Immagino il rumore dell’elicottero che lascia la pista.
Paolo prosegue: “Da un televisore acceso nei box, la visione della chiazza di sangue di Senna lasciata sul prato ci sconvolge. Nessuno di noi ormai è più lucido. Le reazioni delle redazioni sono ormai isteriche.”
Paolo contatta il suo ufficio: “Vengono smontati gli impianti di pagine già pronte. Chi non è in autodromo comincia a cercare di tutto sulla carriera di Ayrton.
La gara, che è ormai ripresa, interessa pochi. Qualcuno di noi andrà all’ospedale Maggiore di Bologna dove Senna è stato trasportato e dove la dottoressa Maria Teresa Fiandri rimarrà con lui sino alla fine.”
È finita così, sulla pista dove contava forse il maggior numero di tifosi: Ayrton Senna ha perso la vita durante il GP di San Marino su quella Williams tanto inseguita negli ultimi due anni e finalmente raggiunta. Quasi fosse un appuntamento col destino. C’è rimasta solo la bicicletta sotto il tendone della Williams. Il meccanico del team ha provveduto a sbarazzarsi di tutte le cose che di solito si portano a una gara e non servono più. Ma quella bicicletta grigia, col marchio Senna, non l’ha voluta proprio toccare: era l’ultima cosa rimasta in pista del pilota brasiliano. Qualcuno è passato davanti al motor home della Williams, si è guardato attorno e poi è scappato via con gli occhi rossi di pianto.
Pochi hanno retto davanti a quella bicicletta appoggiata a un tavolo e con un cartello rosso attaccato: “Da fotografare con Ayrton in pista.” Una foto che ormai non servirà più: il mito è morto. L’impatto contro il muro della curva del Tamburello gli è stato fatale. Da Piquet nel 1987, a Patrese e Alboreto nel ’92, per non dimenticare Berger nell ’89 e tanti altri sconosciuti di formule minori: su quel muro si sono schiantate monoposto di campioni e comprimari. Tutti tornati ai box a raccontare la loro grande paura. Senna no.
La Williams era transitata al comando del sesto giro di gara, inseguita dalla Benetton di Schumacher, quando all’uscita del Tamburello (un curvone che si affrontava in sesta marcia a oltre 300 Km/h) Senna ha scartato di colpo verso destra e senza nemmeno rallentare ha colpito il muro con la parte anteriore; la macchina si è fermata a bordo pista col pilota inanimato a bordo. In dieci secondi sono arrivati gli uomini della CEA, il servizio antincendio, ma si sono fermati a debita distanza dalla Williams: Senna perdeva sangue e la tuta era vistosamente macchiata. In pochi secondi è giunta l’auto col medico di servizio, che ha provveduto a stabilizzare il collo del pilota brasiliano, praticando anche una tracheotomia per intubarlo e consentirgli la respirazione.
Si è subito capito che l’incidente era serio. Troppo serio. Si è visto chiaramente dalle immagini della camera car di Schumacher che, nell’attimo precedente l’uscita dal fondo della Williams si sono sprigionate delle scintille, dalla parte sinistra: il che farebbe presumere un cedimento della sospensione posteriore.
“Nei due giri precedenti ho visto che la macchina di Senna era molto nervosa sugli avvallamenti”, ha detto Schumacher dopo la gara, “Ayrton faceva fatica a tenerla, ma non sembrava fosse un’anomalia così grave da provocare un’uscita di pista talmente drammatica.” La seconda ipotesi è che abbia ceduto un pneumatico quando Senna è transitato sui rottami della Benetton di Lehto, fermo fin dal via: “Abbiamo analizzato la ruota posteriore della Williams”, ha detto Barry Griffin, portavoce della Goodyear, “in effetti c’era un taglio sul battistrada, ma una lesione di quell’ampiezza provoca un afflosciamento immediato della gomma, che il pilota avverte subito perché le sospensioni meccaniche non compensano la perdita d’aria come avveniva invece con le attive. Se la gomma cede, il fondo della macchina striscia subito per terra. Senna era un pilota troppo esperto per non capire che qualcosa non andava sulla sua macchina e se avesse avuto una gomma forata non avrebbe certo affrontato il Tamburello in pieno, com’è accaduto. Il taglio sulla gomma è avvenuto dopo l’impatto della Williams contro il muro, non prima.”
La Goodyear ha smentito qualsiasi responsabilità degli pneumatici: “A Imola abbiamo portato le solite gomme, che hanno funzionato bene anche l’anno scorso: stessa costruzione e mescole adeguate”, ha concluso Griffin, ma è stato il boss della Goodyear Leo Mehl a far capire che le F1 attuali con queste gomme strette sono al limite: “Hanno voluto per regolamento le gomme più strette e noi le abbiamo fatte, adesso il problema non è il nostro.”
Le sospensioni posteriori della Williams sono state realizzate in carbonio, con un’inedita forma aerodinamica. Fin dai primi test avevano denunciato dei cedimenti, ma dopo le ultime prove precampionato, al Paul Ricard, sembrava tutto risolto. Sabato sera, però, sotto il motor home della Williams, dopo aver salutato Frank Williams e Patrick Head, Senna è tornato sui suoi passi, ha preso da parte Head e si è avvicinato a Frank ridiscutendo l’assetto per la gara. Quello provato nelle prove libere di sabato non lo convinceva: c’era qualcosa che non andava a dovere nella Williams e un pignolo come Ayrton non poteva lasciare le cose in sospeso. Di cosa hanno realmente parlato i tre?
Qualche minuto dopo le 15 l’elicottero atterra nell’eliporto dell’ospedale. Grondava sangue, causa anche la piccola tracheotomia praticata ad Ayrton durante il trasporto per rendere possibile la respirazione forzata. Senna viene subito portato nel reparto rianimazione. Alle 15.10 il polso di Ayrton riprende flebilmente a battere e riprende la ventilazione artificiale.
Intanto fuori l’ospedale cominciano ad arrivare frotte di curiosi e di tifosi. Al primo bollettino medico il barlume di speranza auspicato da tutti riceve un duro colpo.
Sono le 15.50, parla la dottoressa Fiandri: “È stato riscontrato un grave trauma cranico, insufficienza circolatoria, choc emorragico alle vie aeree. Ora verrà sottoposto alla TAC, in ogni caso il neurochirurgo che lo ha visto esclude qualsiasi tipo d’intervento.” Con Ayrton c’è il fratello Leonardo, Betise, il suo manager Julian Jakoby e anche il medico della FIA, Sid Watkins. Intanto dal pronto intervento a piano terra, Ayrton viene trasportato nel reparto radiologia all’undicesimo piano dell’ospedale Maggiore.
Paolo: “Riusciamo a vederlo per un attimo: è avvolto in una coperta termica color oro, si vede appena il volto ma colpisce una gran macchia di sangue nella zona della nuca, mentre delle bende intrise di sangue sono collocate sulla parte destra della fronte. Sapremo poi che dal momento dell’incidente al decesso gli sono state praticate 18 trasfusioni.”
Alle ore 17 viene convocata una nuova conferenza stampa.
Questa volta i dottori sono cinque: con la dottoressa Fiandri, ci sono anche Sandro Sartoni, primario di radiologia, Franco Baldoni, chirurgo, Alvaro Andreoli, neochirurgo, e Giovanni Gordini responsabile dei servizi di Imola e dell’elicottero che ha trasportato Senna all’ospedale. Il dottor Sartoni afferma: “ Il quadro clinico è drammatico, ci sono fratture multiple alla base della scatola cranica, c’è un edema cerebrale, si ravvisa inoltre uno sfondamento frontale, ed è presente una forte emorragia dell’arteria temporale superficiale. La TAC non ha evidenziato alcun ematoma da asportare ma c’è una sofferenza globale di tutto il cervello. Senna è in coma profondo.”
Ma l’arresto cardiaco, cosi lungo, quanto ha inciso? “Certo ha avuto il suo peso e ha sicuramente provocato danni irreversibili – risponde il medico – ma con un impatto a quella velocità anche con il rianimatore accanto si sarebbe potuto fare ben poco.”
Senna è clinicamente morto: l’encefalogramma è piatto, solo il suo cuore non vuole saperne di darsi per vinto.
Non c’è niente da fare, il mito è scomparso. La notizia si propaga per tutto l’ospedale in cui ormai si parla una babele di lingue, ci si scontra con telecamere, registratori, macchine fotografiche, persino con bandiere brasiliane rette stancamente da alcuni tifosi giunti a porgere l’ultimo saluto al loro grande campione. Arriva Berger e se ne va in silenzio: entra con Watkins a vedere per l’ultima volta l’amico.
Paolo conosce bene Berger, quando correva con Trivellato in Formula 3, qui in Italia, è stato uno dei pochi a seguirlo attimo per attimo: “Uscendo ci guarda ammutolito come per chiederci: “Che volete che dica?” Lo capiamo benissimo, sul momento non gli chiedo nulla, più tardi dirà: “Eravamo amici. Era il più forte di tutti, un professionista senza uguali. Lavorava come un ossesso, era il migliore anche per questo. Se ha vinto tanto è perché ha lavorato più di ogni altro per la vittoria. Una fiducia estrema nelle sua capacità e delle intuizioni, come pilota, incredibili. Da lui ho imparato molto. Un gran campione con cui ho avuto l’onore di lavorare assieme.”
È ancora Berger che racconta: “A Imola sentivo la macchina comportarsi in modo strano. A un certo punto ho guardato nello specchietto sinistro e ho visto delle scintille. Ho deciso di fermarmi perché non me la sono sentita, in quel momento, di affrontare di nuovo il Tamburello. Stamattina prima della partenza avevo parlato di sicurezza proprio con Ayrton. Con noi c’era anche Schumacher e tutti e tre convenivamo che sì, qui c’è anche un rischio legato al circuito ma anche a Spa, Hockenheim, Silverstone e in Canada. Quando accade un incidente ed è il pilota a sbagliare, il giorno in cui si torna in pista bisogna motivarsi nuovamente. Per noi è peggio quando è causato da un cedimento meccanico. A me è successo proprio qui a Imola nel 1989 e quando sono tornato a guidare ci ho messo del tempo a credere di nuovo nella macchina. Ci sono tante, troppe cose nelle quali un pilota deve credere. Le tue possibilità, l’auto, il circuito, persino nei medici lungo la pista. Praticamente è possibile criticare ogni tracciato. Quando a 300 km/h ti si rompe un’ala o una sospensione, cosa puoi fare? È solo fatalità, le regole ci sono e sono forti, c’è il crash test, certo, tutto può essere migliorato ma questa è la F1. Pensiamoci. Proviamo a chiarirci le idee assieme.”
Alle 18.15 arriva il cappellano dell’ospedale, padre Amedeo Zuffa. Sapremo poi che ha portato i sacramenti a Senna, ancora vivo ma incosciente. Senna è lì, adagiato in una stanza. Il corpo nudo, un piccolo lenzuolo sui fianchi, il volto gonfio e tumefatto. Irriconoscibile. Giunge intanto anche Paolo Sbaffi, pastore evangelico della chiesa “Rinascere in Cristo”, chiamato dal Brasile da Antonio Machado, e ci dice: “Sono venuto a confortare i parenti, Senna era di fede evangelica, mi hanno detto che aveva sempre con sé una Bibbia.”
Passano alcuni minuti e arriva la frase che nessuno avrebbe mai voluto sentire.
Il compito ingrato spetta alla Dottoressa Fiandri: “Alle 18.40 il cuore di Senna si è fermato, l’encefalogramma era già piatto da tempo.”
Ayrton Senna è morto così, in mezzo a tante piccole e grandi tragedie che popolano questo grande ospedale alla periferia nord di Bologna. Un ospedale immenso riconosciuto come uno dei migliori, un posto dove sembra quasi che la morte assuma contorni ancora più tragici. Uno dei centri più attrezzati del mondo, ma anche la tecnica ha dei limiti.
All’undicesimo piano arriva anche Frank Williams, scompare dentro una stanza con il fratello di Ayrton. Poco dopo la salma viene trasportata all’istituto di Medicina Legale di Bologna, in attesa dell’esame dei periti. Solo dopo l’autopsia potrà essere trasferita in Brasile. Intanto le voci più disparate aumentano senza controllo. Si dice che dovrebbe arrivare il padre di Ayrton, Milton. No, la madre. Chiacchiere, solo chiacchiere. Si richiede che venga preparata una camera ardente per permettere ai suoi ammiratori di prestargli l’ultimo tributo.
Viene subito sconfessata l’idea per precisa richiesta della famiglia. I tifosi, sbigottiti, lasciano scritte sui muri, qualcuno canta in portoghese. La tragedia si legge negli occhi dei tanti che arrivano da ogni parte d’Italia. Molti erano a Imola e sono corsi qui. È l’ultimo grande tributo della folla ma questa volta Ayrton non potrà ricambiare con il suo enigmatico sorriso.