Breve nota giuridica

Processo alla Formula 1, difficile ma obbligatorio.

Per legge.

Ma perché un processo per un incidente in una corsa automobilistica?

Pochi lo sanno, occorre chiarire.

“Una squadra di Formula 1 è un’azienda con più di 200 dipendenti che fattura oltre 200 miliardi di lire all’anno... noi corriamo in tutto il mondo e ogni paese ha le sue leggi, se dovessimo accorgerci che gareggiare in uno di questi può mettere a rischio questa realtà... beh forse dovremmo esaminare l’opportunità di non corrervi”, più o meno così suonavano le parole pronunciate da Flavio Briatore (all’epoca manager della squadra Benetton, N.d.A.) interrogato in merito all’opportunità del processo per la morte di Ayrton Senna.

Un messaggio durissimo, prontamente condiviso da Max Mosley, presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile: “Le squadre di F1 sono delle realtà internazionali impegnate in uno sport ad alto rischio – ha detto all’indomani del rinvio a giudizio – e c’è sempre la possibilità di un errore. In Italia la morte risultante da incuria può innescare un’azione penale e i membri delle squadre possono avere responsabilità individuali. In Inghilterra è inconcepibile, i danni legali sarebbero strettamente limitati. Pertanto esiste una differenza fondamentale nella cultura del diritto.”

Max Mosley è un avvocato, presidente di una federazione che opera a livello mondiale. Abituato quindi a confrontarsi con sistemi legislativi diversi.

Le sue parole sono quelle di un uomo che parla con cognizione di causa.

Ma il problema dibattuto è di quelli difficilmente risolvibili, perché concepire una disciplina sportiva, per quanto globale, che esuli dall’obbligo di soggiacere al diritto del paese che la ospita, non sembra un’ipotesi plausibile.

A oggi, se si corre in Italia si è garantiti ed esposti alla nostra legislazione, nel bene e nel male, tanto che per il codice civile “i padroni sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro dipendenti”e per quello penale “chiunque commette un reato nel territorio dello stato è punito secondo la legge italiana... e il reato si considera commesso nel territorio dello stato quando l’azione od omissione che lo costituisce è ivi avvenuta ovvero ivi si è verificato l’evento che ne è la conseguenza.”

La lettera della legge è dura e semplice: il processo deve esserci. Ed è irrilevante il fatto che la morte di Senna possa essere conseguenza di azioni commesse all’estero, come la eventuale manomissione della macchina di Ayrton, perché per il solo fatto che la morte è avvenuta in Italia il giudice italiano ha giurisdizione sul relativo reato, che è quello di omicidio colposo previsto dall’art. 589 del codice penale (pene da sei mesi a cinque anni).

Omicidio colposo, dunque, perché?

Sono costretto a tornare indietro nel tempo, quando ero uno dei tanti ragazzi che cercano di costruire il loro futuro nelle aule universitarie. Leggendo i codici scopro che gli elementi della colpa all’esame del giudice nel caso Senna sono indicati nell’art. 43 del codice penale: “il delitto è colposo o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. Se non c’è dolo c’è colpa, questo il criterio.

Ecco perché, il processo di Imola deve accertare se c’è stata imperizia nella costruzione o modifica della macchina e se questa contravveniva ai regolamenti.

La Formula 1 è uno sport geneticamente pericoloso e al riguardo il nostro ordinamento prevede l’applicazione di “cause di giustificazione” quando l’attività sportiva pericolosa è autorizzata dallo stato per l’interesse sociale che riveste ed è esercitata nel rispetto di tutte le regole che la disciplinano. Ciò vuol dire che vanno esenti da giudizio tutti quei comportamenti che abbiano determinato eventi lesivi per la pericolosità in sé dello sport esercitato (si pensi a uno scontro in gara senza alcuna violazione di norme ma per la sola dinamica della corsa). Ma non vuol dire che, se vi è prova che l’evento lesivo sia dovuto ad altri fattori (quale, appunto, l’imperizia nel costruire o riparare parti della macchina), l’evento mortale che ne consegue non debba essere punito a titolo di omicidio colposo.

L’introduzione nell’ordinamento italiano del sistema accusatorio di stampo anglosassone, che prevede il giudizio strutturato sul contraddittorio di due parti, accusa e difesa, innanzi a un giudice, non è stato portato alle estreme conseguenze, che avrebbero imposto di rendere discrezionale per il pubblico ministero (il giudice che promuove l’accusa) l’esercizio dell’azione penale, perché vi ostava il disposto dell’art. 112 della nostra costituzione che recita: “Il PM, di fronte a ogni notizia di reato, è tenuto senza alcun margine di discrezionalità a procedere, richiedendo al giudice di pronunciarsi.”

La differenza fondamentale, quella che fa sì che in Italia, Francia, Belgio, Germania e Spagna ci sia un processo Senna che in Inghilterra non ci sarebbe mai stato, è proprio quella esistente tra i due impianti costituzionali: quello anglosassone, orale e flessibile, che consente alla common law di derogarvi (e infatti in Inghilterra non è obbligatorio procedere per l’omicidio colposo), e quello di stampo romanico, scritto e rigido, che impedisce alla legge di andar contro i suoi principi. Il nostro codice, quindi, ha dovuto necessariamente prevedere l’obbligatorietà dell’azione penale quando “non sussistono i presupposti per l’archiviazione, non è necessaria querela o istanza.”

Ecco perché – in estrema sintesi – in Italia la morte di un pilota da corsa obbliga all’azione penale, cosa che non sarebbe avvenuta in altri sistemi legislativi e che preoccupa non poco chi vive, progetta e costruisce vetture di F1 altrove ma deve venire a correre nel nostro paese.