Nove righe
Il lungotevere immerso nella nebbia sembra un serpente che si snoda silenzioso tra basiliche, campanili, torri e monumenti: un serpente che attenta alla città della fede. Dal colle del Gianicolo si domina tutta la vallata: da Monte Mario alla chiesa di San Pietro e Paolo, dall’Olimpico al velodromo dell’Eur passando per il centro si scorgono il palazzo della Farnesina, i circoli lungo il fiume, castel Sant’Angelo e le carceri, la volta rotonda del Pantheon adagiata in un mare di tetti, il monumento al milite ignoto con le sue luci sempre accese e poi il verde di Villa Borghese, dei giardini, dell’Aventino nascosto tra i ruderi.
Roma che dorme.
Sono rientrato a casa per scrivere l’epilogo del caso Senna, per raccogliere in poche pagine le conclusioni e gli esiti di un’esperienza tormentata, fatta di tante piccole disillusioni che amareggiano lo spirito. Ogni volta che torno, soprattutto di notte o la mattina molto presto, vengo a fare due passi lungo i viali del Gianicolo, dalla passeggiata dei Garibaldini sino al vecchio faro in fondo alla discesa. Ritempra l’anima, rigenera il morale. Spesso immagino che cosa deve essere svegliarsi nella magnifica residenza della rappresentanza finlandese, aprire le finestre che dominano la città eterna e lasciar entrare il sole che arriva dritto dai Castelli.
Venerdì 7 novembre 1997
Udienza principe dedicata all’esposizione delle tesi accusatorie
Da un mio articolo per “Rombo” n. 46: “Dopo nove mesi, 24 udienze e centinaia di ore di deposizione, venerdì scorso il PM Passarini ha finalmente presentato la sua requisitoria, tutta incentrata sulle 4000 pagine di fascicolo dell’accusa. Con una ricostruzione estremamente dettagliata e precisa, il magistrato bolognese ha illustrato al pretore il materiale di prova da lui raccolto, le perizie e la complessa ricostruzione dei fatti che, dopo oltre sei ore di arringa, lo ha portato a chiedere un anno di reclusione per Patrick Head e Adrian Newey (con le attenuanti) e l’assoluzione per Frank Williams e gli imputati Poggi, Bendinelli e Bruynserade.
Dopo aver ripercorso i tragici giorni di quel maggio del 1994 e la difficile istruttoria successiva, Passarini ha contestato punto per punto la tesi difensiva della Williams; per il PM l’incidente di Senna è pacificamente avvenuto per l’uscita di pista dovuta alla rottura del piantone dello sterzo, unica vera causa, mentre il momento della rottura non sarebbe rilevante, in quanto le notevoli tracce di fatica del metallo rilevate sul pezzo hanno chiarito che questo, essendo stato modificato con un “coefficiente di sicurezza critico”, presto o tardi, avrebbe ceduto.
La simulazione dell’incidente e gli esperimenti fatti dalla Williams si sarebbero spesso rilevati imprecisi nei dati e nelle modalità e, quindi, incapaci di confutare l’impianto accusatorio con valide soluzioni alternative.
La responsabilità del direttore tecnico Head e del capo progettista Newey sarebbe quella di non aver dato le dovute istruzioni ai tecnici sul come operare la modifica e, soprattutto, di aver mancato di eseguire i dovuti controlli, non rilevando ai fini dell’attribuzione di responsabilità penale la ripartizione dei ruoli operativi all’interno della squadra.
Pur delicata, la posizione di Frank Williams è stata riconosciuta come quella di uno che tiene i contatti con il mondo esterno (produttori, sponsor, ecc.). Le testimonianze non consentono di dire se il manager abbia partecipato giorno per giorno alle decisioni tecniche, pur non essendone del tutto estraneo come vorrebbe far credere; per Williams, quindi, l’assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto è assicurata.
Per quanto concerne Bendinelli (Sagis) vale lo stesso discorso: riguardo il concorso nell’omicidio colposo egli è, infatti, per il tracciato ciò che Williams è per la sua squadra, ovvero un soggetto non coinvolto nella risoluzione di problemi quotidiani.
Diversa la richiesta per Poggi (pista) e Bruynserade (tecnico FIA che a suo tempo la omologò), da assolvere perché il fatto, ovvero il mancato rispetto del regolamento che prevede la complanarità tra pista e banchina di sicurezza, non costituisce reato.
Al riguardo l’avvocato Landi ha anticipato che intende eliminare qualsiasi perplessità e dimostrare in pieno la validità del circuito.
Al termine della requisitoria, il PM non ha mancato di sottolineare il comportamento equivoco tenuto dalla FOCA riguardo alle immagini della camera car di Senna e si è riservato di chiedere la trasmissione degli atti del processo alla Procura per un’eventuale incriminazione per falsa testimonianza dei tecnici James, Baker e Woollard (FOCA TV) mentre per Ecclestone (che non testimoniò) è previsto l’accertamento del contenuto della corrispondenza che ebbe con i magistrati per verificare la sussistenza di eventuali altri reati, quali il favoreggiamento.
Dopo un inizio stentato in fase dibattimentale, quindi, Passarini ha riservato al momento della requisitoria gran parte delle sue argomentazioni, anche se la richiesta di un anno di reclusione per Head e Newey sembra allo stesso tempo eccessivamente ottimistica quanto a possibilità di conferma e oltremodo inadeguata a trasmettere il messaggio che chi sbaglia paga, anche in Formula 1.
Mentre “Rombo” è in edicola, il processo riprende con l’esposizione delle difese e l’avvocato Dominioni della Williams promette battaglia a una richiesta di condanna a suo dire ‘basata in gran parte su ipotesi e congetture infondate ed espresse senza tener nel dovuto conto il fattore pista’ .”
Sono nel mio studiolo che affaccia su Porta Portese, lascio andar libera la memoria a quel venerdì preludio dell’epilogo.
Passarini arriva in aula alle 9.10, indossa una giacca verde quadrettata su pantaloni grigi e sfoggia una cravatta regimental rosso/blu che risalta sul bianco più bianco della camicia d’ordinanza. Ha i capelli cotonati, l’aspetto fresco e riposato. Anticipa che la requisitoria durerà almeno cinque, sei ore. Qualche collega si lamenta.
Ore e ore di tecnicismi spaventano un po’ tutti.
Sul tavolo del pretore ci sono almeno dieci faldoni molto voluminosi e un intreccio di cavi, prese elettriche e alimentatori. Arrivano gli avvocati Birindelli, Priccolo (difesa Newey), Carcaterra, Causo, Landi. Manca solo Dominioni. Arriva in ritardo accompagnato dall’inseparabile Gandossi. Appena entrato mi chiede: “ma ‘Rombo’ che fine ha fatto?”
È stato salvato in extremis.
“E il suo direttore?... è scomparso...”
Interessamento cortese. Nell’arco di un anno questa è la seconda o terza volta che mi rivolge la parola.
“Quel fine settimana del 30 aprile e del 1° maggio è destinato a restare nella storia della Formula 1 come uno dei week end più tragici per questo tipo di competizione – attacca Passarini – un fine settimana che si apre addirittura al venerdì, con l’incidente del pilota brasiliano Rubens Barrichello: un incidente dovuto esclusivamente a un suo errore. Il sabato ricordiamo tutti quello che successe durante le prove nel rettilineo tra la curva del Tamburello e la curva Villeneuve, un incidente in cui perse la vita il pilota austriaco Roland Ratzenberger. Anche la domenica inizia con un incidente, per fortuna un incidente alla partenza. Una vettura non riesce ad avviarsi e un’altra monoposto che giunge dalle retrovie, quella di Lamy, tampona violentemente quella ferma di J.J. Letho.
La corsa viene sospesa per consentire agli addetti di pulire la pista e rimuovere le due macchine incidentate. È qui che inizia la vicenda che interessa questo processo. Alla fine del primo giro le vetture si accodano dietro la safety car uscita dai box, con Senna in testa, e percorrono quattro giri di pista. Alla fine di quello che è il quinto giro effettivamente percorso dalle vetture, la macchina di sicurezza rientra ai box e si dà luogo a quella che viene chiamata “partenza lanciata”. Le vetture concludono il sesto giro con Senna ancora davanti a tutti che otterrà, tra l’altro, il miglior crono tra tutte le vetture in pista, un tempo che resterà uno dei migliori di tutta la gara, e all’inizio del settimo giro... alla curva del Tamburello si verifica l’incidente al pilota brasiliano: un incidente che colpisce immediatamente per le sue modalità.”
Un incidente rapido, inspiegabile, stranissimo. Un incidente che ha sorpreso tutti: è innegabile.
Ricordo ancora una volta il gelo di un’aula che ripercorre tutti i momenti più brutti della storia delle corse.
Passarini ha cominciato spedito, preso dal sacro zelo di far capire ai presenti che il cerchio si chiude, che i dati combaciano, che non ci sono teorie o ricostruzioni che possano reggere al confronto con quanto rilevato dai consulenti tecnici.
Consulenti imprecisi ma attaccati al dato oggettivo.
Il magistrato ha cominciato partendo dalla descrizione dei fatti, della pista e di quel maledetto Tamburello da fare in sesta marcia con l’acceleratore a tavoletta.
“Una curva che non contemplava possibilità d’errore”, ha detto. Poi s’è inerpicato su per la strada delle perizie.
“È convincimento assoluto di questo pubblico ministero – ha sottolineato – che le risultanze processuali consentono di ricostruire al di là di ogni ragionevole dubbio le cause dell’incidente. Si deve escludere l’errore o il malore del pilota: Senna fu presente a se stesso fino all’ultimo istante in cui frena disperatamente per tentare di decelerare.”
Fare giustizia, in tutti i sensi. Cancellare i ricordi di chi ha parlato di un malore del pilota, dell’abitudine di trattenere il respiro, della condizione sofferente di un uomo provato. Ayrton era stressato psicologicamente? Forse sì.
Stressato da un ambiente troppo angusto per le possibilità di un Mozart, troppo soffocato dalla grandezza del suo genio. Stressato ma non incapace: al Tamburello non si sbaglia.
Lasciamo la parola al magistrato e ascoltiamo in silenzio il racconto di alcuni passaggi:
“Inizialmente, i consulenti tecnici del PM hanno esaminato un ampio ventaglio di possibilità relative alla vettura, al cedimento di una sospensione o di un pneumatico. Hanno esaminato queste astratte possibilità alla luce dei fatti disponibili, dei dati obiettivi: rilievi della polizia stradale, filmati RAI dell’incidente, camera car di Schumacher e, per ultimo, il video della vettura di Senna, acquisito non senza difficoltà in formato VHS. L’altro elemento oggettivo erano i dati della telemetria, non completi perché a disposizione vi erano solo quelli della cosiddetta “centralina Renault” e non quelli della VCM Williams e pur tuttavia molto significativi.
Alla luce di questo complesso di elementi a disposizione, si è arrivati rapidamente a escludere che l’incidente potesse esser stato causato dal cedimento di un pneumatico o di una sospensione, perché questo tipo di cedimenti sono del tutto incompatibili tanto con il tipo di uscita di pista, tanto con i valori di decelerazione che Senna riesce a porre in essere nella fase dell’uscita.
Dal dato telemetrico si osserva un picco di decelerazione di 4,85 g, con un inconveniente a un pneumatico o a una sospensione, a quella velocità, la vettura non può mantenere una traiettoria rettilinea e non può avere quella decelerazione. Per scrupolo, i tecnici di laboratorio sono anche andati a vedere quale era la causa del cedimento della sospensione posteriore sinistra ed è pacifico che la sua rottura è da compressione, quindi conseguenza dell’impatto contro il muro.
Fermo restando che l’onere della prova nel processo penale spetta all’accusa, si deve rilevare che anche la ricostruzione offerta dalla Williams non prende mai in considerazione la possibilità che l’incidente si possa spiegare con il cedimento di una sospensione o di un pneumatico.
L’altro dato immediatamente percepibile è che la vettura ha il piantone rotto, spezzato a 20 cm dal volante. Spendo poche parole per eliminare l’ipotesi che il piantone sia stato rotto mediante interventi meccanici tesi a favorire l’estrazione del pilota dalla vettura come le analisi evidenzieranno. Il piantone è rotto perché vi sono estesissimi segni di fatica e rottura duttile, da strappo o da schianto. Il piantone si è rotto nell’incidente.
Anche l’ipotesi del piantone è passata al vaglio della sua compatibilità con i dati oggettivi disponibili e si è visto che è assolutamente coerente con tutti i dati disponibili: nessuno di essi è incompatibile con questa ipotesi che è e resta, tra tutte quelle formulate, l’unica che finisce con lo spiegare l’incidente.
La rottura del piantone o, comunque, un suo cedimento tale da non consentire a Senna di portare a termine la curva del Tamburello, è stata individuata come causa dell’incidente.
Incidente su cui sono poi intervenuti altri fattori, in particolare quando Senna esce di pista e va sulla banchina, che intervengono quando la dinamica è iniziata e non è più in alcun modo modificabile dal pilota, al quale resta soltanto l’ausilio dei freni.”
Ricordiamo ancora una volta l’accaduto, analizzato decine di volte nel corso di un processo lungo un anno. Quando Ayrton inizia a percorre il Tamburello, l’accelerazione laterale aumenta per effetto della traiettoria curvilinea. I dati della coppia rilevata sul volante e quelli rilevati sulla cremagliera della scatola guida (STG e STN) si incrementano a causa della sterzata. In pochi istanti il pilota chiude leggermente la traiettoria perché si accorge di averla allargata un po’ troppo: è importante. Esattamente questo ha detto il magistrato.
Questo sostiene l’accusa: Senna stringe la curva.
Non si tratta del sovrasterzo individuato dalla difesa Williams, per Passarini si tratta di una manovra di correzione del pilota, una manovra voluta.
Tra il tempo 11"20 e quello 11"24 il pilota si accorge che qualcosa non va come dovrebbe andare. Toglie il piede dall’acceleratore al 47% della sua corsa. A partire da questo momento tutti i valori telemetrici cominciano a scendere, sino ad arrivare allo zero: “Segno evidente che Senna non riesce più a trasmettere alcun impulso, alcun movimento apprezzabile allo sterzo”, ha detto il PM.
Quello che è certo è che i valori scendono. Anche quelli relativi allo sterzo. È un fatto. Davanti al brasiliano c’è ancora molto spazio da percorrere. A 11"48 chiude del tutto il gas. In circa un secondo Senna percorre 80 metri in pista e non accenna ad alcuna manovra. Abbandonata la pista al tempo 12"18, avrà ancora a disposizione 38 metri. Uno spazio percorso in 60 centesimi di secondo: non correggerà la sua traiettoria neanche fuori pista. Dopo un secondo, sessanta centesimi e 138 metri complessivamente percorsi, Ayrton si schianta sul muro. Intervalli enormi per i tempi di reazione di un pilota: in 15 centesimi di secondo questi uomini pensano, valutano, decidono. Sono uomini dal colpo d’occhio eccezionale.
Tempi nei quali si può decidere se prendere dritto un muro o tentare una manovra disperata.
“Questa rinuncia di Senna a correggere la traiettoria è un dato che stupisce”, ha detto il magistrato.
Anche Passarini ha stupito.
È stato molto abile: per lunghi mesi ha evitato di mettere con le spalle al muro i testi chiamati a deporre, i periti della controparte, riuscendo a raccogliere la maggior parte delle informazioni che contava di ottenere. Occorrevano informazioni che integrassero i pochi dati certi forniti dalle indagini. Alla fine ha sparato ad alzo zero. Una requisitoria condotta senza esitazioni, incredibilmente chiara nell’esposizione di tecnicismi, elaborazioni matematiche, paradossi giuridici.
Quattro i pilastri oggettivi dell’accusa:
– La dinamica stessa dell’incidente;
– Il piantone dello sterzo modificato, rinvenuto tranciato e con tracce inequivocabili di fatica dei materiali;
– Le immagini della camera car di Senna, che hanno consentito confronti tra i vari giri di pista;
– Il video CINECA che evidenzia gli spostamenti del pulsante giallo.
Passarini non ha mancato di confutare le contestazioni sollevate dalla difesa Williams al termine delle audizioni dei testimoni, anzi ha dedicato almeno tre ore e mezza al chiarimento di ogni singola obbiezione.
Questi i punti trattati:
1) I valori di coppia rilevati sulla scatola guida
Le variazioni repentine dei valori di pressione misurati all’altezza della scatola guida possono essere generate solo da violenti sobbalzi delle ruote libere sulla banchina di sicurezza; la pressione passa da un valore di -106 PSI a +1541 PSI e viceversa, in un decimo di secondo: non c’è nessuna forza umana in grado di porre in essere una sterzata così rapida. I valori in oggetto sono misurati molto più in giù rispetto allo sterzo e non consentono di ricostruire l’angolazione con la quale viene girato il volante.
2) Esperimenti williams su piantoni similari
Gli ingegneri Vitali e Suppo hanno tentato di ricostruire le tracce di fatica date per pacifiche sul piantone di Senna, operazione non agevole e scarsamente indicativa.
Applicando la forza di 25 Nw/mt, che per la difesa è l’unica certa e applicando carichi verticali, il 1° piantone ricostruito ha ceduto a 34 Kg ma con una morfologia diversa da quella rilevata sul pezzo incidentato.I dentico esperimento è stato fatto sul 2° modello di piantone, che ha ceduto a 41 Kg con morfologia dissimile da quello originale, e sul 3° esemplare dello stesso. Con un carico di ben 85 Nw/mt quest’ultimo tentativo ha evidenziato una morfologia della rottura simile a quella del piantone di Senna: concluderne che la rottura è avvenuta sul muro, perché solo l’impatto poteva generare una tale forza, è stato facile. Il magistrato dell’accusa, però, ha sostenuto che le misurazioni fatte sulla scatola guida non riconducono affatto allo sterzo. Il colonnello Hallgass, infatti, sottolineò che i famosi 25 Nw/mt non sono affatto indicativi della torsione subita dal pezzo al momento dell’incidente in quanto misurati più in basso rispetto al punto in cui il pilota gira il volante: rappresentano quindi un dato di scarso aiuto per quanto riguarda le forze reali esercitate sullo sterzo e per sapere qualcosa di preciso sulla funzionalità dello stesso.
Per Passarini la premessa stessa degli esperimenti fatti in casa Williams per confutare l’assunto accusatorio è del tutto infondata.
Riguardo alla simulazione Adams non si è mancato di sottolineare come i dossi del Tamburello, che il computer mette particolarmente in evidenza, inneschino un fenomeno di sovrasterzo solo e unicamente sulla vettura di Senna, causando una correzione e, soprattutto, un rilascio dell’acceleratore che Passarini ha definito “singolare”.
Se si rilascia il gas, aumenta il carico sull’avantreno e si alleggerisce il posteriore: non si scappa. Oltretutto gli elevati valori dell’accelerazione laterale rilevati durante il giro precedente all’incidente lasciano intendere che se sovrasterzo c’è stato, questo si era già verificato al 6° passaggio e non aveva creato nessuna instabilità.
L’accusa stessa aveva pensato di utilizzare il sistema Adams ma le numerose variabili che questo presentava ne sconsigliarono presto l’adozione.
Il lavoro dei consulenti Minen e Guttilla è stato definito “accurato ma con difetti che ne inficiano l’ affidabilità” quali la presenza di dati della pista che non tengono conto della pendenza trasversale, la pressione degli pneumatici, i valori del motore misurati al banco prova, le reazioni del driver elettronico (che raddrizza il volante e non si spaventa del muro che gli viene incontro), l’accelerazione laterale considerata del tutto superiore a quella fornita dai dati telemetrici.
“In conclusione – ha detto il magistrato dell’accusa – mi appare dimostrata l’assoluta inattendibilità di questa simulazione Williams”, anche e soprattutto in considerazione del fatto che l’esperto professore Fanghella ha sottolineato che “non si può chiedere a questi programmi di dare risultati che non possono dare... ricostruendo gli eventi senza procedere nel senso giusto, ovvero andando a vedere che cosa succede modificando dei parametri, ma deducendo l’accaduto da eventi già verificatisi.”
Perché Senna non ha sterzato per ridurre l’angolo d’impatto sul muro? Questo il quesito conclusivo. L’istinto dell’uomo-pilota, come hanno sottolineato Martini e Alboreto, avrebbe suggerito un tentativo disperato che non risulta sia stato fatto dal brasiliano, perché? Per Passarini la risposta è chiara: perché non era possibile.
Un incidente dalla dinamica imponderabile? Forse.
Certo è che gli ostacoli incontrati dagli inquirenti, le malcelate reticenze di alcuni testimoni, la scarsità dei dati a disposizione hanno influito notevolmente sulla ricerca della verità. La centralina elettronica, ad esempio, è stata consegnata all’autorità giudiziaria con due chip rotti: proprio quei due processori che avrebbero conservato i dati in memoria anche senza l’alimentazione della batteria e degli accumulatori, inutilizzabili dopo l’urto.
Coincidenza? Forse, non sarebbe la prima.
Molto difficile anche la ricostruzione cronologica precisa dei momenti della modifica al piantone: il tecnico Wells ha parlato di operazione svolta una settimana prima di Imola, Damon Hill non se ne ricorda, Williams ha accennato al mese di febbraio. In ogni caso, i disegni forniti dalla squadra al PM in fase di indagini erano estremamente più elementari di quelli presentati al processo. Perché?
Soprattutto: perché utilizzare differenti materiali (acciaio D45 e N14) quando in fabbrica ce ne sono probabilmente grandi quantitativi dello stesso tipo? Perché costruire un pezzo così delicato e soggetto a continue sollecitazioni proprio in tre parti? Perché disinserire il servosterzo di Hill? Perché modificare un piantone ritenuto sicuro anche dopo l’incidente?
Per Passarini la responsabilità degli imputati Patrick Head e Adrian Newey è evidente, anzi doppia: aver mancato di istruire adeguatamente i propri collaboratori per effettuare una modifica così anomala e singolare alla geometria del piantone, omettendo precise indicazioni riguardo agli standard di sicurezza, e non aver rispettato l’onere di controllo sull’operato dei loro sottoposti in relazione a un intervento niente affatto di routine ma, altresì, molto delicato.
È scontato che Head e Newey non hanno operato materialmente la modifica ma è altrettanto pacifico che la responsabilità circa il mancato rispetto delle regole cautelari ricade su di loro: nessuno, infatti, si sognerebbe mai di contestare a un chirurgo il solo fatto di aver operato un intervento chirurgico ma, piuttosto, eventuali anomalie negli standard di sicurezza o il mancato rispetto di parametri logici tesi alla salvaguardia del paziente.
Le corse automobilistiche comportano dei rischi, è vero, ma il principio del bilanciamento degli interessi fa sì che l’ordinamento riconosca quest’attività per motivi di utilità sociale quali lo spettacolo offerto, la ricerca tecnica delle case impegnate e, perché no, il divertimento dei piloti. Quando si verifica un incidente mortale, però, si dovrà accertare il rispetto delle regole cautelari: perché se nessuno può contestare che un normale incidente di gara rientri nell’alea, nel rischio insito in questo sport, è anche vero che un incidente dovuto al mancato rispetto di normali regole di sicurezza dovrà portare all’accertamento delle responsabilità che hanno causato un fatto gravissimo per il comune sentire sociale.
“Pur riconoscendo che all’interno di una squadra come la Williams esisteva una indiscutibile divisione dei compiti – ha detto in sostanza il PM – non è possibile sostenere che questa ripartizione esoneri Head e Newey da responsabilità, non potendo essi non sapere quanto era delicato l’intervento che si andava a fare sul piantone.”
Diverso il caso di Frank Williams che, “pur non così estraneo alle scelte della scuderia come ha voluto far credere, non ha veste in ordine alle soluzioni tecniche di volta in volta adottate.” Il ruolo di Williams, infatti, è sicuramente quello di un uomo che tiene i contatti con il mondo esterno, con la federazione automobilistica, con la FOCA, mantenendo le relazioni con i numerosi sponsor che occorrono per tenere in piedi una struttura del livello della Williams Grand Prix Engineering. Per lui, l’assoluzione per non aver commesso il fatto appare una richiesta equilibrata.
Queste le tesi dell’accusa relativamente alla squadra.
E la pista? Se ne è parlato poco durante il processo, anche la stampa specializzata non l’ha ritenuta un elemento determinante nella tragedia che ha privato l’automobilismo del suo maggior protagonista, eppure si tratta di un elemento tra i più visibili e importanti. Importante ma non determinante, questo sì.
Per gli imputati Poggi, Bendinelli e Bruynserade, Passarini ha chiesto l’assoluzione. Lo ha detto subito, in apertura di requisitoria, eliminando qualsiasi incertezza. Secondo il PM è pacifica la mancanza di complanarità, la forte pendenza esistente all’epoca dei fatti tra la pista e la banchina di sicurezza, come è altresì incontestabile che la vettura di Senna abbia perso gran parte del proprio assetto nella parte esterna della curva del Tamburello. Mentre in pista il brasiliano ha decelerazioni progressive per effetto della frenata, una volta sulla banchina la macchina perde gran parte dell’attrito, come dimostrato dall’incredibile variazione della velocità periferica delle ruote, che oscilla tra 195 e 83 km/h nell’arco di appena un decimo di secondo. Le ruote bloccate ricevono, infatti, rallentamenti improvvisi seguiti da brusche accelerazioni a causa della nuova forza di rotazione che ricevono nel momento in cui, saltellando, sbattono violentemente sulla banchina, riaccelerando i sensori che misurano la velocità periferica.
La decelerazione della Williams FW16 arriva a punte di 4,85 g in pista e scende a –1,71 g sulla banchina: la macchina non frena praticamente più. Quale avrebbe potuto essere la velocità d’impatto se il pilota avesse continuato a frenare con la capacità frenante che aveva sulla pista? Per i consulenti del PM, Senna avrebbe impattato il muretto a circa 140 Km/h. Ma la capacità frenante della sua macchina avrebbe potuto essere sempre la stessa senza i sobbalzi della banchina? Sembra di sì, la presa delle ruote riscaldate dall’attrito sul cemento grossolano della banchina sarebbe stata addirittura maggiore di quella dell’asfalto.
La pendenza e la conformazione della banchina hanno influito sul rallentamento della vettura e, quindi, la pista e i suoi imputati sembrerebbero non doversi esimere da un giudizio di responsabilità sull’accaduto. Quale responsabilità? Nelle loro vesti di direttore di pista, gestore e ispettore della federazione, Poggi, Bendinelli e Bruynserade risponderebbero del mancato rispetto delle regole cautelari, nella fattispecie dell’art. 7 punto 8 allegato O del libro FIA dei regolamenti, che al primo comma dice:
“La pista deve essere delimitata per tutta la sua lunghezza, su entrambi i lati, da due banchine compatte di una larghezza almeno uguale a tre metri, con una superficie piana e mai più irregolare di quella della pista. Queste banchine dovrebbero prolungare l’allineamento della pista senza cambiamenti di livello.”
Esiste, poi, un secondo comma che si riferisce alle vie di fuga e che dice: “Il creatore dell’area di fuga dovrà seguire l’inclinazione della banchina. Per i circuiti costruiti prima del 1991 – quindi per Imola – è consentita una pendenza in discesa di 12 gradi.”
A prescindere dalla diatriba sorta circa l’interpretazione dei testi inglese e francese, appurato che in caso di controversia fa fede quello francese dell’organo emanante (la FIA, che ha sede a Parigi), è evidente che se la banchina di Imola fosse considerabile come via di fuga sarebbe ammissibile addirittura una pendenza di 10 gradi superiore a quella realmente rilevata sul tracciato del Santerno. Per Passarini, però, “sarebbe assolutamente errato considerare quest’area come un’area di fuga, perché tale deve essere considerata la superficie esterna alla banchina stessa e precedente il primo ostacolo fisso presente”, ovvero il muro di cemento.
Definire via di fuga una zona che non è assolutamente in grado di rallentare la vettura ma solo di consentire qualche correzione ai piloti è per il magistrato “una cosa inconcepibile”. Oltretutto la corretta interpretazione dei regolamenti consentirebbe avvallamenti dovuti alla conformazione dei luoghi purché questi si mantengano lungo la linea di compensazione che congiunge la pista al muro, che deve essere parallela e non contropendente.
Giustificare la contropendenza con esigenze di drenaggio dell’acqua è per l’accusa un’obiezione “di scarso valore”, perché è ben noto che esiste la possibilità di progettare scanalature apposite per questo scopo, così come lo è sostenere la prassi del mancato rispetto della norma, invalsa in tutti i circuiti del mondo, dato che non esime da responsabilità il soggetto che non rispettandola concorre al verificarsi di un evento sanzionato.
Lo scomparso Poggi rivestiva una posizione di garanzia circa il mancato rispetto dell’art. 7 punto 8 dell’allegato FIA, perché non solo dirigeva le operazioni di gara ma soddisfaceva altresì le richieste dei piloti e delle squadre inerenti l’autodromo, come emerso dalle testimonianze; lo stesso dicasi per l’ispettore FIA Bruynserade, cui spettava il compito di vigilare sul rispetto delle normative federali. Per l’attribuzione di responsabilità penale, però, occorre la sussistenza di un nesso causale tra condotta (in questo caso colposa) ed evento: nesso che nella fattispecie in esame viene a mancare allorché si accerti che anche rispettando la regola violata l’evento si sarebbe ugualmente verificato.
Con la banchina complanare e una velocità d’impatto minore, le conseguenze per il pilota sarebbero state le stesse? Si sarebbe verificato l’evento-morte? Utilizzando il criterio dell’aumento del rischio all’aumentare della velocità forse si sarebbero potute attribuire responsabilità ed eventualmente graduare la colpa dei soggetti imputati, ma all’atto pratico è pressoché impossibile sapere con certezza cosa sarebbe successo. Quello che è certo, però, è che la natura della lesione che ha ucciso Ayrton Senna è molto particolare, talmente particolare da rendere possibili solo delle congetture.
“Qualche cosa di forma allungata – ha detto Passarini – ha colpito con estrema violenza il casco di Senna dopo l’impatto, ha strisciato sulla visiera e, ultimo fattore di una concatenazione sfortunatissima dei fatti, si è infilata sotto la visiera all’altezza della parte superiore destra, nell’imbottitura, affondandosi nel capo del pilota.”
Secondo i consulenti della procura quel corpo contundente di forma allungata va individuato in un uniball del braccetto della sospensione anteriore destra; questo particolare è una sorta di giunto sferico in acciaio che collega il braccetto della sospensione al telaio. Al momento dell’impatto la ruota, sollevandosi, avrebbe strappato i tiranti e le braccia della sospensione, stirando l’uniball sino ad allungarlo per effetto della forza di trazione e trasformarlo in una lamina ovoidale e acuminata.
Un tale tipo di modalità dell’evento rende veramente difficile attribuirne la responsabilità, specie in capo a soggetti tutto sommato a latere come Poggi e Bruynseraede, per i quali il PM ha chiesto l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”. Vale a dire, con quella che una volta sarebbe stata la formula dubitativa, ovvero non escludente il verificarsi dell’evento ma bensì la sua riconducibilità agli imputati.
Federico Bendinelli è l’ultimo e forse più prestigioso imputato del circuito imolese, l’uomo che dirigeva la società che per circa 15 anni ha gestito l’autodromo e buona parte degli interessi economici che vi gravitavano intorno. La sua posizione è stata definita da Passarini equiparabile a quella di Frank Williams: “Se gli ispettori della FIA non hanno ravvisato irregolarità nella banchina e se il direttore di pista non ne faceva menzione – ha detto il magistrato – non è credibile esigere dall’imputato Bendinelli un comportamento tale da poter ovviare a tale difetto di complanarità di questa parte della pista, pertanto chiedo che venga assolto per non aver commesso il fatto.”
“Non aver commesso il fatto” è una formula soddisfacente per Bendinelli: vuol dire che il fatto probabilmente sussiste ma non è stato commesso dall’imputato.
Dei sei imputati sottoposti a giudizio, quindi, solo i due tecnici Newey e Head rischiano di sporcare la propria fedina penale, senza scontare un solo giorno di galera grazie ai benefici di legge concessi a persone incensurate ma pur sempre macchiati dal dubbio.
Un anno di reclusione: È tanto? È poco? Come si è arrivati a quantificare la pena richiesta? Il codice penale prevede pene fino a cinque anni a chiunque cagioni la morte di una persona per colpa, imprudenza, imperizia o inosservanza di regolamenti ma nel caso di specie, nonostante il macroscopico errore di valutazione che il PM ritiene commesso dai due tecnici, si deve considerare anche la consapevolezza o meno da parte degli imputati di violare una regola dettata dalla prudenza.
Secondo Passarini occorre riconoscere che lo spirito sportivo che anima la scuderia Williams, come spesso accade in tutti i tipi di competizione, ha portato a prestare maggiore attenzione all’aspetto della prestazione pura rispetto a quello della sicurezza, coadiuvata in questo dalle richieste dello stesso pilota, rendendo così impossibile il ravvisamento di regole pur elementari di prudenza nella realizzazione delle modifiche.
Passarini ha parlato molto. Ha concluso con la voce roca, sottolineando che la spigolosità professionale di Senna, sicuramente non amato dai meccanici e oltretutto al primo anno di gare con la Williams, avrebbe imposto enormi pressioni a cui si rispose con “la peggior risposta possibile, quella modifica del piantone macroscopicamente errata.”
Sei ore e mezza di requisitoria che hanno lasciato emergere anche episodi inediti dell’uomo Senna, venuti alla luce giusto prima di lasciare i fatti al vaglio del pretore. Ogni volta che Ayrton veniva a Bologna, prima dei test a Imola o di alcuni impegni con sponsor locali, andava a prendere a scuola la figlia di un suo amico. Così, tanto per farle fare una bella figura con i compagni: “Senna era un grandissimo uomo, oltreché un campione – ha detto Passarini all’aula intera – e fuori dai verbali delle carte processuali mi è rimasto impresso questo episodio, questo tratto del suo carattere che dimostra la sua grandezza.”
Assolvete Frank Williams!, “Tuttosport”
Williams non colpevole, un anno a Head, “La Gazzetta dello Sport”
Senna: il PM assolve Williams, “Corriere dello Sport Stadio”
Head e Newey colpevoli per il PM, “Autosprint”
Un anno di reclusione per Head e Newey, “Rombo”
Un massiccio spiegamento di forze, periti di nome, strumenti tecnici costosissimi, quasi trenta udienze per un risultato poco appariscente, tutto sommato minimo rispetto alle attese.
Dominioni: “Tutto questo solo per un anno?”
Ma se il pretore di Imola confermerà la richiesta del pubblico ministero, il processo Senna assumerà una portata storica, chiarirà che anche gli sport ad alto rischio rispondono alle normali regole cautelari, che i circuiti non sono una zona franca, non sfuggono alla legge che chi sbaglia paga.
Le udienze dedicate all’esposizione delle repliche difensive si susseguono, Roma-Bologna sono due ore e mezza di treno: decido di andare.
Riprendo il lungo cammino.
Martedì 18 novembre 1997
Rombo n. 47
Che cosa ci faceva Adrian Newey alla Williams? Alla ventiseiesima udienza del processo Senna nessuno sembra averlo capito o almeno, secondo la ricostruzione dell’avvocato Lanzi (uno dei difensori del progettista inglese), non sembra averlo compreso il PM. Dopo un’udienza tutta incentrata sulla richiesta di assoluzione con formula piena per i responsabili della pista, quella di martedì, l’attenzione del processo si è rivolta tutta allo svolgimento della difesa di uno dei due imputati per i quali il PM ha chiesto un anno di reclusione: Adrian Newey, il progettista artefice degli ultimi mondiali di Formula 1 targati Williams.
Negli organigrammi della scuderia per il 1994 Newey non figurava, del suo incarico nessuno sa nulla; chi ha modificato il piantone di Senna? A quanto pare la modifica sarebbe stata eseguita da Gavin Fisher e Kevin Young, la cui posizione, però, in quanto non coinvolti nel processo, non può essere appurata.
Su Fisher e Young è calato il mistero. Come anticipato, si tratta di nomi da ricordare
A detta dei suoi legali, Newey nel 1994 era, sì, chief designer, ma sul contenuto di questa definizione non è stato possibile fare chiarezza, almeno in sede di dibattimento.
Secondo l’avvocato Lanzi la posizione, le attribuzioni e, soprattutto, la condotta di Newey costituiscono il vero elemento penalisticamente rilevante sul quale l’accusa avrebbe dovuto indagare più a fondo. Il difetto dei requisiti che consentano di attribuire la condotta causale a Newey è il cuore della sua difesa, l’unico vero elemento su cui si dibatte. “La requisitoria del PM – ha detto il legale – avrebbe potuto tenersi benissimo in un’aula universitaria, essendosi svolta tutta sotto l’aspetto tecnico. Qui l’imputato non è il piantone, occorre verificare l’attribuzione degli incarichi, delle mansioni, delle responsabilità soggettive. Newey può vedersi attribuito soltanto quello che è emerso in sede dibattimentale e che risulta riconducibile al suo incarico. Ma qual è il suo incarico? Cosa ha fatto e cosa avrebbe dovuto fare? Questo non si sa...”
A carico di Newey ci sarebbero solo le dichiarazioni rese da Frank Williams e da O’Rourke, il tecnico addetto alla modifica della scocca; il primo si è limitato a dire che il suo ingegnere era capo designer senza specificarne le mansioni e ha affermato solo che “è possibile che della modifica al piantone possa esser stato informato anche Newey.”
L’unica cosa certa è il riferimento che Patrick Head ha fatto al collega in sede d’indagini preliminari, ritenuto inutilizzabile dagli avvocati della difesa Newey perché fatto in un momento in cui il progettista non sapeva di essere indagato e, quindi, non poteva difendersi.
“Sostenere che il mio assistito, in quanto capo disegnatore, rispondeva di tutto, è un’interpretazione verticalistica”, ha concluso l’avvocato Lanzi prima di lasciare la parola al professor Stortoni. Quest’ultimo ha svolto la sua arringa difensiva incentrandola tutta sul tema della colpa: visto che non è possibile imputare a Newey omissioni o condotte significative, non si può nemmeno valutare il grado di colpa di queste condotte od omissioni. L’organizzazione specialistica del lavoro, inoltre, avrebbe creato una situazione per cui gli elementi di vertice del team, non avendo conoscenze specifiche superiori a quelle dei loro sottoposti e lavorando per compartimenti pressoché stagni, non potevano rispondere delle azioni altrui.
“Il PM ha ignorato la premessa, ovvero l’inesistenza del requisito della colpevolezza, sembra si ispiri a una logica per la quale, siccome ci deve essere un colpevole, questi deve essere per forza Newey”, ha concluso Stortoni. E per il miglior progettista aerodinamico di Formula 1, di cui tutti conoscono la bravura ma non le... mansioni svolte, tutto sembra mettersi per il meglio.
Piccoli episodi del grande scontro finale, pianeti minori nella galassia della ricostruzione complessiva di una vicenda ormai considerata dal punto di vista strettamente processuale.”
Venerdì 28 novembre 1997
Rombo n. 48
“Alla penultima seduta, si tirano le fila al processo Senna. Martedì scorso è toccato alla difesa Williams riassumere in sei ore e mezza la propria posizione, mentre il venerdì successivo è stata la volta della replica del PM, che ha preceduto la difesa Newey. Tante e decisive le questioni dibattute che meritano un esame approfondito.
Cominciando dalla posizione della squadra inglese, l’avvocato Dominioni ha sostenuto che il pubblico ministero è partito da un vizio d’origine che ha condizionato tutto il processo: la scarsa considerazione del fenomeno di instabilità rilevato sulla vettura al momento dell’incidente. Per Dominioni sarebbe stato necessario indagare maggiormente tutti gli aspetti relativi all’interazione vettura-circuito, assetto-condizioni della pista. Non è proprio come rigettare la patata bollente alla difesa del circuito, visto che per i suoi imputati è stata chiesta l’assoluzione (perché il fatto non costituisce reato), ma poco ci manca.
Vediamo quali sono le posizioni della Williams e i sei punti fondamentali toccati:
1) Il piantone dello sterzo
Quali erano le condizioni del pezzo prima dell’incidente?
I periti del PM hanno detto che era segnato dalla fatica passante per il 70%, quelli della Williams per il 21%; l’unica cosa certa è che il piantone era in grado di sopportare almeno i 25 Newton/metro rilevati sulla scatola dello sterzo prima dell’impatto sul muro, forza inferiore a quella necessaria per una sterzata che il pilota avrebbe potuto fare e non ha fatto per sua scelta.
2) La sterzata
Per Dominioni Senna non ha sterzato prima dell’impatto solo perché ha scelto di sfruttare tutta la maggiore efficacia di una frenata rettilinea. Se avesse voluto farlo avrebbe potuto, visto che il piantone avrebbe comunque retto fino a una carico di 25 Newton/metro.
3) La pista
“Senna si aspettava i problemi di frenata creati dall’effetto trampolino dovuto al dislivello pista/banchina di sicurezza?”, questa la domanda posta dalla difesa Williams, che ne trae risposta negativa, altrimenti Senna non avrebbe privilegiato la frenata rispetto alla sterzata.
4) Nesso causale per le posizioni Head e Newey
È una questione prettamente giuridica. Le difese sostengono che siccome l’evento della morte sarebbe derivato da una congiuntura (il braccetto della sospensione che ha trafitto il pilota) verrebbe a rompersi quel nesso causale tra condotta ed evento necessario per suffragare l’addebito di colpa nell’eventuale ipotesi che una qualche violazione sussista.
Nella sua replica il magistrato dell’accusa ha utilizzato un ragionamento che ha definito del “giudizio controfattuale”, vale a dire ipotizzando le possibilità di realizzazione dell’evento morte nel caso in cui, a uno a uno, si tolgano alcuni degli elementi o delle concause.
Ebbene, Passarini ritiene possibile che anche ipotizzando un’uscita di pista su banchina complanare in grado di frenare al meglio la vettura, con uno sterzo funzionante e un successivo urto a velocità più bassa, non si può escludere il verificarsi del distacco del gruppo ruota-sospensione che ha causato la morte di Senna.
5) Posizioni soggettive
Riguardo Frank Williams, responsabile delle strategie generali del team, anche per la difesa vale quanto detto dal PM, che ne ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Per Head, invece, vale quanto anticipato dalla difesa Newey per il progettista, ovvero essendo la F1 un settore altamente specialistico esistono livelli di autonomia funzionale dei dipendenti tali da non consentire ai supervisori un controllo diretto, soprattutto in tema di competenze specifiche.
Per entrambi i suoi assistiti, Dominioni ha chiesto l’assoluzione perché non hanno commesso il fatto e, in via subordinata, la formula “perché il fatto non costituisce reato.”
Del tutto opposta la visione accusatoria, per la quale Newey e Head occupavano posizioni precise (con annessa ripartizione degli incarichi) e non semplici funzioni formali a cui non sia possibile ricondurre responsabilità: “La difesa Williams tenta di svuotare di contenuto la posizione dei tecnici ma essi non potevano chiamarsi fuori a un dovere di diligenza”, ha detto Passarini.
La tesi del PM sarebbe confermata dalle dichiarazioni di O’Rourke e Head (che a suo tempo affermò che Newey doveva essere informato della modifica), dalla delicatezza dell’intervento al piantone e, soprattutto, dal fatto che i due imputati avrebbero dovuto essere gli interlocutori necessari del pilota per questioni così rilevanti come quelle inerenti la sicurezza.
Al termine della replica del pubblico ministero, l’avvocato Lanzi, difensore di Adrian Newey, ha ribadito che allo stato degli atti del processo non si capisce bene quali erano le funzioni specifiche del progettista (che non risulta negli organigrammi della Williams), né tantomeno quali erano i doveri ai quali doveva adempiere e ai quali si sarebbe sottratto. Per la difesa Newey: “Dire che il nostro assistito sarebbe responsabile dell’ideazione della modifica al piantone non serve a nulla, perché non c’è prova di questa ideazione e dell’eventuale errore della stessa.”
Siamo alla fine, dopo un mese di pausa mi avvio all’udienza conclusiva, quella della sentenza. In questi ultimi giorni ho studiato le carte in mio possesso, riordinato gli appunti presi in Sardegna, consultato più volte Paolo, chiuso in eremitaggio prenatalizio nella sua villa piena di cimeli e memoriale dell’automobilismo d’alti tempi. Poi è successo un episodio strano: la sera del 13 dicembre mi ha chiamato un uomo dall’accento straniero, forse inglese, e mi ha dato un appuntamento al buio.
Sono andato all’aeroporto aspettando d’incontrarlo. L’appuntamento era davanti al bar esterno dei voli internazionali: doveva darmi delle carte importantissime per capire l’incidente Senna. Almeno così ha detto.
Lì per lì sono rimasto perplesso, soprattutto perché ha riattaccato immediatamente il telefono.
Poi ho deciso di andare.
Ho aspettato due ore senza che accadesse nulla, guardandomi in giro alla ricerca di una faccia che mi potesse dire qualcosa.
Ha detto che mi conosceva, che mi avrebbe individuato: non è arrivato nessuno.
Martedì 16 dicembre 1997
Imola
Ho le gambe che mi fanno male, la testa mi scoppia. La stanchezza non mi fa dormire. Ho camminato troppo. Lo sciopero dei capostazione mi ha costretto a prendere il treno delle otto e un quarto, quello che costringe a sveglie disumane e a un lungo tratto in motorino con temperature sottozero.
Ma Roma, la mattina presto, sembra un acquerello appena dipinto.
Poi ho trascorso una giornata d’inferno chiuso in camera, riordinando i file sul mio computer e aspettando l’imbrunire per uscire a prendere una boccata d’ossigeno.
Ogni volta che vengo in quest’albergo la stessa cosa: appena finito di cenare non riesco a stare in camera più di dieci minuti, prendo la chiave del portone e faccio la mia solita passeggiata notturna. Imola, di giorno, è una città tranquilla. Di notte deserta. Ci sono piccoli bar, sale da biliardo, vetrine tirate a lucido. Faccio un giro largo, lasciando il centro e i portici alle spalle e proseguendo su per i viali alberati. Ci sono villini liberty nascosti tra le siepi, giardini, prati, fontane discrete.
I cartelli indicano la curva della Tosa, ogni tanto s’intravede uno strano via vai di macchine: frenano, aspettano, poi scappano via tirando tutta la prima. Si sentono auto modificate. C’è un umido che penetra sin dentro le ossa e poche luci che fendono la nebbia; il silenzio è irreale, ogni tanto un rumore uccelli.
Arrivando da Via Dante si incontra un ponte, giungendo dai Viali è seminascosto.
La torretta della direzione gara si staglia all’orizzonte come un minareto, illuminata a giorno a mostrare il gioiello di Imola, città d’arte secondo i manifesti del comune, città delle corse secondo gli striscioni che pubblicizzano il motomondiale.
Oggi ho voluto allungare: cercavo il monumento di Ayrton. Sono passati tre anni e mezzo, voglio vederlo, così annotavo ai tempi.
Costeggiando il rettilineo del traguardo ci s’incammina verso il Tamburello, bisogna salire su di un terrapieno, camminare fianco a fianco al sottopasso e seguire le reti di protezione. Il Santerno scorre sulla destra, immobile, a specchiare le luci dei viali. Tra fango, foglie secche e arbusti spezzati si arriva alla torretta della postazione n. 2. Salgo. Lucida e nera appare la lavagna d’asfalto, la pista dell’ultimo giro. C’e una sequenza curva-controcurva, quasi una chicane veloce, in fondo si vede il cartellone Agip. Dov’è il monumento? Mi guida la voglia di trovarlo nascosto a vegliare la curva.
Occorre passare all’interno, fare il sottopasso e tirare dritto fino alla piazzola. So che è lì.
Scendendo tra gli alberi, sopra le foglie illuminate a giorno dai riflettori comincia il muro dei ricordi.
Ci sono frasi di ogni tipo, dediche, foto, una lastra dorata che dice: “Chi crede in Dio cambierà forza, correrà e non sarà mai stanco.” Su un ingrandimento di Senna con la sua ultima tuta, quella della presentazione Williams di Estoril, ci sono firme e cuoricini disegnati. Lui è poco più in là, chino sul suo cubo di bronzo, le mani raccolte tra le gambe a penzoloni, il viso in avanti, che guarda in basso. Tutt’intorno è silenzio. Lo tocco, la rugiada mi bagna le mani.
Scoprirò di esserci stato più di un’ora, fisso a guardare Senna che non parla. Cosa è successo sulla tua macchina Ayrton? Quanto ci ha portati vicini alla verità questo processo? Senna è un bronzo corrucciato che non può fare commenti. Guarda e non parla.
Martedì 16 dicembre 1997
Trentaduesima udienza
Tosi, al solito, arriva puntuale come un orologio svizzero.
11.30, aria gelida, cielo limpido. Il collega mi accompagna al palazzo dei Circoli. “Cosa ti aspetti dalla sentenza? Come va a finire?”, gli chiedo.
“Tre, massimo sei mesi per Head e Newey; appello per avere la formula piena per gli imputati della pista, Bendinelli e gli altri”, secco, deciso, a lui il processo interessa fino a un certo punto, segue il basket e non ha mai visto un Gran Premio dal vivo. “È uno sport violento”, dice.
Davanti alla Casa del dopolavoro di Imola c’è un gran via vai di operatori, furgoni con antenne paraboliche, cavi che segnano l’ingresso e indicano la strada verso la verità. Una rete inglese ha montato un piccolo studio nei giardinetti, gli operatori parlottano e lo speaker di mezza età prova le posizioni per le inquadrature.
Si fa subito ora di pranzo, tutti al ristorante.
Reuters, France Press, RTL, BBC, Rai TV, Mediaset, tutti mangiano e scherzano davanti a un bicchiere di vino. Per me niente alcool: sto male con il fegato e il processo non mi ha aiutato. Prosciutto all’aceto balsamico, tagliolini noci e radicchio, spinaci al limone. All’ultima udienza niente panini.
Alle 14.10 incontro Carcaterra: “Sembra un giudizio scontato – mi dice – ma è una sentenza molto difficile da dare, ci sono talmente tanti elementi tecnici, dati suscettibili di valutazioni discrezionali, che fare un pronostico è veramente arduo.”
Passarini parcheggia la sua Tipo davanti al camion di Telespazio e si mantiene sullo stesso tono: “Pronostici non ne faccio – mi interrompe – anche perché sarebbe realmente difficile”. Poi scappa via seguito dai suoi assistenti stracarichi di carte.
In macchina con il PM c’era la signora Guidazzoli del CINECA, provo con Lei: “Avete fatto pronostici durante il tragitto?”
“Sì, pessimistici... comunque è molto difficile dare un giudizio – sottolinea affannata – non vorrei proprio essere nei panni di Costanzo”. Già, chi vorrebbe prendere il posto di questo leguleio catapultato nel mondo dell’iper tecnologia? Forse qualcuno dei tanti pubblici ministeri in cerca di gloria ma non lui: quand’era a Reggio Emilia, Costanzo si è guadagnato la stima dell’intero mondo giudiziario della provincia reggiana.
“Difficile ma preparato – mi ha fatto notare un avvocato locale – per un caso del genere è il tipo giusto, uno che non cede alle pressioni.”
L’avvocato Landi, sempre allegro, afferma di aver fatto il biglietto per Hollywood perché in caso di sentenza negativa “è meglio espatriare”. Manrico Bonetti non si sbilancia perché “porta sfiga”. Goodman rivela che Frank Williams sta aspettando la sentenza con tranquillità e che la loro equipe ha molta fiducia nell’operato dei giudici che hanno trattato “very clearfully” il caso.
Caso poco chiaro trattato con chiarezza, possibile? Sì, la dietrologia è rimasta segregata fra le quinte, nascosta dalla svogliatezza e dalla pigrizia di non indagare i troppi lati oscuri della forza. La forza dei soggetti coinvolti.
Variegata umanità al processo.
Avvocati, periti, giornalisti alle prese con il continuo gioco delle parti. Manca Oreste Dominioni da Milano, genio della procedura penale e vero artefice della resurrezione Williams nel processo Senna, è impegnato a difendere personaggi molto noti dell’imprenditoria. Sembra che abbia presentato una parcella salatissima: il valore aggiunto dei consulenti costa caro.
Carcaterra sfoglia un libro fotografico sulle opere dello scultore Pierotti, un catalogo in bianco e nero, su carta pregiata, che ha un capitolo interamente dedicato al monumento Senna.
Ricordo i due metri in bronzo fuso adagiati all’interno di quella che una volta era la non curva del Tamburello.
Causo sfoggia una scoppola verde e un’inedita valigetta di pelle all’inglese, è il più sportivo e infatti propone l’unico vero pronostico che precede il verdetto: “Per Head e Newey un 60% di possibilità di condanna a otto mesi, bilanciato da un 40% in favore dell’assoluzione motivata dall’insufficienza di prove. Per gli altri, quattro assoluzioni piene.”
15.36, entra Costanzo.
Birindelli e il suo assistito Bendinelli si abbracciano e siedono trepidanti uno accanto all’altro. Federico Bendinelli è l’unico imputato presente.
Causo rinuncia subito alla replica che aveva in arretrato, il pretore chiede il massimo silenzio poi si alza di scatto sorprendendo tutti.
Partono i flash a raffica.
“In nome del popolo italiano il pretore di Bologna, sezione di Imola, ha pronunciato la seguente sentenza nei confronti di Bendinelli Federico e altri: visto l’art. 530 del codice di procedura penale assolve gli imputati Williams, Head e Newey per non aver commesso il fatto, gli imputati Bendinelli, Poggi e Bruynserade perché il fatto non sussiste. Fissa il termine di giorni novanta per il deposito delle motivazioni. L’udienza è tolta.”
Dieci mesi di processo, dieci miliardi di costi processuali, nove righe di dispositivo. Più di un miliardo a riga.
Ayrton costa anche da morto ma la verità non ha prezzo.
Sono queste le nove righe della verità?
Tra novanta giorni la motivazione della sentenza. Nove righe non basteranno.
Mormorio in sala, tutti si fiondano su Passarini.
Accerchiato, davanti ai microfoni spianatigli in faccia, sembra ancora più piccolo. Ha le orecchie rosse più che mai, la fronte sudata, l’espressione delusa. Che cosa ha sbagliato?
Domanda dritta a bruciapelo, è imbarazzato. Non risponde.
“C’è un minimo di delusione” dice, riprendendo vigore.
“Passarini, farà appello su tutta la linea?”
“Aspettiamo il deposito delle motivazioni della sentenza e decideremo, ritengo di si. L’eventuale appello riguarderebbe solo i due imputati per i quali era stata richiesta la condanna. In ogni caso sarà interessante vedere se il pretore ha riconosciuto nel cedimento del piantone dello sterzo la causa dell’incidente, senza ricondurlo a una responsabilità penale, oppure se non l’ha riconosciuto affatto. In tal caso ne sarei deluso.”
Ovvio, scontato, per essere una delle poche volte che ha parlato non dice molto.
Causo si fa largo tra la folla dei giornalisti assatanati:
“Avevo azzeccato il pronostico – dice – l’assoluzione l’ho data al 40%... ” Vince sempre lui, ha dato il 60% di possibilità di condanna ma cita il 40 che ha azzeccato: incorreggibile.
L’avvocato FIA continua: “È una sentenza illuminata, coraggiosissima, che consente a Costanzo di dire a tutti che non ha avuto paura dell’ambiente della magistratura. Tutti pensavano che non poteva andare disperso l’investimento di energie fatto da Passarini, invece lui ha assolto tutti, eccezionale.”
Più avanti c’è Stortoni, l’unico principe del foro presente nella giornata conclusiva: “C’era angoscia – confida a un collega – perché tanto più si è convinti dell’innocenza del proprio assistito, tanto più si è angosciati nell’aspettare la sentenza.”
Voglio Dominioni. Dicono che non viene, no è in macchina e sta per arrivare, contrordine: è appena partito da Milano. Il suo assistente lo chiama sul cellulare e me lo passa: che cosa si fa per non darmi il numero di telefono.
Avvocato, è soddisfatto della sentenza? Se l’aspettava? “Sì, perché alla fine mi è sembrato che l’istruttoria avesse ampiamente dimostrato che la tesi di Passarini non poteva tenere a partire dalle conclusioni dei suoi consulenti, e in particolare quelle di Forghieri, confutate anche dal colonnello Hallgass e da altri periti dell’accusa stessa.”
È euforico il Professore, me lo immagino che si passa la mano sui capelli e si infila la mano nella tasca sinistra a cercare la sigaretta della soddisfazione.
Nei processi c’è chi vince e chi perde, come nella vita.
Ha saputo che Passarini interporrà appello per le due posizioni di Head e Newey?
“Sì, ma le prove emerse in dibattimento sono talmente forti da non poter essere smentite in un giudizio di appello”, risponde subito con la sicurezza dei vincitori.
Chi sa se lo sfiora mai il dubbio. Si sente il rumore del traffico in sottofondo, il telefonino che mi scalda il padiglione auricolare. Lascio Dominioni alla sua chiamata a Frank Williams.
Immagino il telaista inglese immobile e fiero nonostante l’ansia che lo assale, poi la telefonata del sorriso. La sua casa di Grove, quella che era dei Rolling Stones, gli sarà sembrata sempre più inutile man mano che passavano le ore e la prospettiva di essere sbattuto in prima pagina diventava un rischio concreto.
Adesso Frank Williams va in prima pagina da innocente: tutto è a posto.
Appoggiato alla balaustra che separa il recinto dei giornalisti c’è Peter Goodman, l’uomo dei contratti Williams che s’era commosso durante una mia intervista. Questa volta non ha gli occhi lucidi.
“Dopo tanti mesi non è stato trovato nessun colpevole, che opinione ha del verdetto?”
“Un verdetto corretto, era un caso molto complicato.”
“Quali erano le aspettative della squadra, vi aspettavate questa conclusione o è stata una sorpresa?”
“Solo la factory conosce veramente molto su questo caso, non c’erano aspettative in un senso o nell’altro, sarebbe stata comunque una sorpresa.”
“Quest’assoluzione potrà mettere a tacere tutte le voci di questi mesi? È una sentenza che fa veramente chiarezza?”
“Non credo che risponda definitivamente alla domanda perché Senna è morto ma fa chiarezza sull’accusa mossa nei nostri confronti.”
“Emozionalmente, si sente sollevato?”
“Sì, mi sento sollevato ma essendo una persona di buon senso so già che l’accusa probabilmente farà appello. Aspettiamo che succeda e vedremo.”
L’avvocato Bendinelli parla davanti ai microfoni delle televisioni, gli altri colleghi prendono appunti... poi ci si chiede perché i giornali sembrano tutti uguali. Bendinelli è l’anima di Imola, colui che tutto sa e tutto risolve.
“Avvocato Bendinelli, se l’aspettava?”
“Si – mi dice spedito – ma avevo qualche timore per la formula assolutoria. Temevo che potessero restare dei dubbi sulla regolarità dell’autodromo... sa, anche in caso di condanna di qualcuno della Williams non avremmo avuto quella tranquillità che, invece, la sentenza ci assicura.”
“32 udienze, è stato un anno perso o si è arrivati vicini alla verità?”
“Secondo me sono emersi molti elementi di verità, se uno legge bene le carte la chiarezza sull’incidente si trova... questo non vuol dire che esistano delle responsabilità di carattere penale, come si è sempre detto siamo in uno sport in cui tutto è esasperato, il vero problema è che l’enormità del personaggio ha portato a fare un processo che in altri casi non ci sarebbe stato.”
“Che cosa le è rimasto di questo processo?”
“Nei primi tempi ho avuto una grande angoscia dovuta al dubbio che da parte nostra potessero esserci stati degli errori, soprattutto finché non sono emersi alcuni fatti che hanno chiarito la situazione.”
“Questi fatti le hanno consentito di farsi un’idea sull’incidente?”
“Sì, anche se un margine di dubbio rimane. Direi che per il 60-70% ho capito cosa è successo.”
“E cosa è successo avvocato?”
“Mi permetta di non dirlo, per correttezza.”
Correttezza, savoir faire, nessuno si sbilancia. Anche a processo finito. Per aver prese di posizione decise occorrerà aspettare anni, aspettare che gli uomini del circus cambino, che la classe dirigente si rinnovi, che i piloti siano quei ragazzini di dieci anni che oggi sgomitano sulle piste da kart di tutto il mondo. Tanto tempo, troppo. Quel che è certo è che non basteranno anni per riabilitare una Formula 1 che ha mostrato reticenze, incertezze, testimoni smemorati che non le fanno onore.
Voglio chiudere con le parole di una persona che assomiglia ad Ayrton Senna, in tutti i sensi. Una persona unica. La somiglianza è incredibile. Di quelle che fanno male e costringono gli occhi a fuggire per non sentirsi in imbarazzo, per paura di rivelare quello che si prova dentro. Vivianne Senna Lalli, sorella di Ayrton, è una signora elegante, bella, con due occhi vivissimi, che mostrano tutte le sue difficoltà a capire il ruolo di testimonial di un’eredità morale pesantissima, che ormai ha stravolto la sua vita.
Da un’intervista di Paolo del dicembre 1994:
Vivianne parla lentamente: “Ayrton, sin da piccolissimo, è stato una persona dalla volontà incredibile: determinato negli obiettivi che si prefiggeva. Aveva pochi anni ed era già legato a tutto ciò che avesse quattro ruote. Lo trovavi dentro a macchinine artigianali o a scatoloni, tutto quello che potesse somigliare a un’automobile e lo sentivi in tutta la casa quando con la bocca faceva i rumori del motore e dei freni. Non stava mai fermo.
Mia madre pensava che forse aveva qualche problema nella testa e voleva fargli fare degli esami neurologici. Le sue ginocchia erano perennemente sbucciate e piene di lividi. Era incredibile. Giocava sempre, poi si sedeva cinque minuti prima che passasse il bus della scuola e, con la sinistra, faceva tutti i compiti che avrebbe dovuto consegnare di lì a poco. A quattro anni si guadagnò il suo primo kart, glielo costruì nostro padre nell’azienda di pezzi di ricambio per auto. Una volta sopra, ci accorgemmo tutti che per lui non si trattava di un giocattolo: canalizzava tutta la sua energia su quel kart. Un talento naturale, che ci sorprese tutti.
Ayrton non era una persona normale. Altri si esprimono con la musica, con l’arte, con qualcosa di tecnico, lui no, lui a quell’età faceva vedere quel dono incredibile solo dentro a quell’affare a quattroruote. A volte lo scoprivamo a guidare la macchina di famiglia in giardino ma era una scena irreale perché Ayrton era molto piccolo e, a volte, non lo si vedeva nascosto dietro al volante. Lui era fiero di quel talento che ha compromesso la sua vita; ha dato tutto anche perché gli piaceva, si trasformava, si violentava per migliorarsi. Sempre meglio, con pazienza e determinazione...
Questa è un po’ la caratteristica della famiglia. Forse è un difetto della famiglia... passi quasi tutto il tempo preoccupato di far meglio, a dar più importanza alla sola cosa sbagliata piuttosto che a tutto il resto fatto bene.”
“Questa volontà di Ayrton per le competizioni, fu mai in contrasto con quella di altri componenti della sua famiglia?”
“Sì, ci fu un momento in cui mio padre e mia madre, gli dissero che lui poteva gareggiare solo come dilettante con i kart, si sarebbero opposti a che quella diventasse una professione. Lui diceva sempre di sì...
Quando se ne andò in Inghilterra per partecipare al campionato di Formula Ford i miei genitori non furono felici. Lo furono ancor meno una volta che lui vinse quel campionato. Ci manco molto quell’anno.
Lui non poteva tornare spesso perché viaggiare costava molto e mio padre era il solo a sobbarcarsi tutte le spese. Lui era l’unico sponsor.
Negli ultimi anni, ogni volta che poteva, Ayrton veniva in Brasile... era molto legato alla famiglia. Eravamo molto affiatati noi due.
Si confidava con me, quando passavamo insieme l’inverno, oppure a Giugno, qui in Brasile. Lui si confidava molto. Diceva che, ormai all’apice del successo, si trovava accanto della gente interessata e con noi questo non poteva succedere. In Brasile si rinnovava, era importante per lui questo legame con le sue radici, la famiglia, il suo paese... Voleva sempre che a Luglio io e i miei bambini passassimo le vacanze con lui nella sua casa in Portogallo. Comunque...
Una volta ritornato dall’Inghilterra gli dissero chiaramente che non avrebbe continuato, perché da quel momento in poi sarebbe stato molto pericoloso.
Ayrton accettò la decisione dei nostri genitori. Tornò in Brasile, riprese a studiare Amministrazione e cominciò a dirigere un settore degli affari di famiglia. Noi tutti, però, vedevamo che giorno dopo giorno accanto a noi c’era un morto-vivente.
Era bravo, senza dubbio: lavorava, studiava, si dava da fare... ma sembrava che non avesse più vita.
Una sera, eravamo a tavola, mio padre allargò le braccia e disse: ‘Va bene. A questo punto credo che per te sia meglio rischiare di morire una sola volta, piuttosto che farlo lentamente, come stai facendo ora’ . Da quel momento lui fu libero, anzi fu prigioniero dell’automobilismo...”.
“Signora Vivianne, come state vivendo, lei e la sua famiglia, questa tragedia?”
Nemmeno il tempo di formulare la domanda e subito il dubbio ci assale, forse avremmo dovuto lasciare che questo momento rimanesse solo e esclusivamente loro. Non c’è risposta. Momenti lunghissimi e delle lacrime enormi sul viso di Vivianne aumentano il nostro senso di colpa.
“È una perdita insostituibile. Noi abbiamo sempre sperato che non succedesse mai. Avevamo paura, sapevamo che il suo era un lavoro pericoloso, ma mai ci saremmo immaginati che lui potesse morire su una pista... lo stesso incidente è stato cosi veloce... inspiegabile, la macchina non ha cappottato. Lui aveva già avuto altri incidenti, è stato un colpo durissimo per tutti noi e non riusciamo ancora a capacitarci di ciò che è successo... oltretutto è caduta su di noi una valanga di affetto, di solidarietà, di dolore da parte di chi gli voleva bene: dal Brasile, dal mondo intero, come se il mondo intero non voglia credere, come noi della famiglia, che questo sia potuto succedere, come se tutto fosse una colossale bugia. Non ci si vuole credere. Non ci volete credere neanche voi, in Italia. Quanta gente ha scritto, quanta gente ci è stata vicino. Capisco ancor di più, adesso, perché lui era cosi attaccato al vostro paese e non solo alla Ferrari, che era il suo sogno. Me lo diceva spesso, ancor di più negli ultimi anni.”
“Una perdita irreparabile per lo sport e per il Brasile in particolare, Ayrton è sempre stato l’eroe positivo per i suoi connazionali.”
“È una perdita enorme, la perdita di un eroe per il suo paese – e qui la voce s’interrompe ancora e le lacrime si fanno più copiose – la gente lo considerava un eroe sulla base di fatti e non come uno di quegli eroi che studiamo a scuola, che a volte sono stati costruiti dagli storici. Lui è un eroe che nasce dal cuore del suo popolo. È un eroe nato dalla realtà.”
Parla al presente, Vivianne. Anche se solo per un attimo.
“È differente e difficile da capire per voi, ma il Brasile non ha mai avuto eroi, mai... lui è stato il primo ed è stato tutto cosi veloce.”
“Ci sono state anche situazioni del suo impegno sociale che abbiamo scoperto solo dopo la sua morte.”
“In termini sociali, i bambini, gli adolescenti di quella che comunemente viene chiamata la generazione Ayrton, avevano una relazione incredibile con lui. Mio fratello pretendeva che non si parlasse di quello che faceva per loro. Tre mesi prima della sua morte mi confidò che aveva intenzione di fare meglio e di più per loro, in maniera più organizzata perché quello che aveva fatto sino allora lo aveva fatto in maniera non sistematica e organizzata. Mi chiese in maniera specifica di aiutarlo. Mi chiese di lasciare il mio lavoro per dedicarmi solamente a questo: ‘Senti Vivianne – mi disse – io vorrei fare qualcosa di meritevole, intelligente, in speciale modo per la gioventù. Per questo ho già deciso che parte dei proventi di “Senninha” (il fumetto creato dalla Senna Promotion alla fine del 1993, N.d.A.) siano utilizzati per questo. Tu puoi fare bene questo lavoro. Sei psicologa, conosci me e la situazione molto bene. Io non ho tempo di seguirlo in prima persona ma tutti noi respiriamo la stessa aria, bisogna fare qualcosa. Te ne vuoi interessare? Puoi farlo per me?’ .
Io gli risposi che avevo bisogno di tempo per pensarci. Avevo la mia vita, il mio studio, ero impegnata in alcune organizzazioni. Insomma, non era una decisione da prendere velocemente. Avrei dovuto cambiare totalmente la mia vita e gli dissi che avrei dato una risposta la prima volta che sarebbe tornato in Brasile. Ma lui non è più tornato...”
“Vi sentivate per telefono? Ayrton le aveva mai parlato delle sue difficoltà in Williams, di questa disposizione della squadra ad ascoltare il computer piuttosto che lui?”
“No, io non ho una grande esperienza a riguardo e Ayrton lo sapeva bene, sarebbe stato tempo perso. È la prima volta che sento una cosa del genere.”
“Quanto è importante per voi sapere esattamente la dinamica di quello che è successo quel maledetto 1° maggio?”
“Certo, è molto importante e credo che abbiamo già qualcosa a riguardo. Stando a quello che si legge sulla stampa ci sarebbe stato un problema con il piantone dello sterzo, che si ruppe prima dell’impatto, e con una parte della sospensione, volata via a colpire a morte Ayrton. È tutto quello che sappiamo sino a ora. È importante saper quale è stato il motivo esatto della tragedia. In ogni caso, qualunque esso sia, di sicuro non ci riporterà indietro Ayrton... Io non ho mai creduto che la Williams, né per interesse economico, né per qualsiasi altro motivo, abbia fatto qualcosa che possa essere stato determinante nell’incidente. Credo che sia stata principalmente una terribile fatalità.”
L’intervista è stata breve ma intensa.
Paolo: “Non ti nascondo che piansi.”
Insieme commentiamo l’epilogo di questa vicenda: non ci permettiamo di dire che uomini di valore e con una esperienza enorme, si sarebbero comportati come scolaretti di qualche istituto tecnico professionale. Non possiamo crederlo. Però abbiamo una speranza, una speranza certa. Speriamo che siano in tanti a sentirsi responsabili di una tragedia che ha lasciato il segno. Ma non solo i tecnici. Anche quelli che sfruttano questo sport. E sono tanti.
Chi sa se la coscienza gratta e corrode. Gratta e corrode qualcuno che sino a ora si è tirato fuori e ha preferito far finta di nulla.
Ricordo che, tornando a casa, sono passato vicino al muro del Tamburello per un ultimo omaggio.
Ed è lì che ho letto la verità di quella morte.
La verità, quella vera, che un ignoto tifoso ha pensato bene di scrivere su un traliccio di ferro della luce:
AYRTON,
PER UN TUO ERRORE NON SARESTI MAI MORTO.