Qualche anno fa mi venne chiesto di parlare di Napoli e dei suoi colori, un gioco divertente che mi permise di raccontare la mia città attraverso i suoi colori, appunto. In realtà i colori e la città sono due argomenti che si mescolano e si intrecciano, e non tanto perché Napoli è “mille culure”, quanto perché entrambi sono strettamente correlati a una scelta. Perché Napoli è una scelta. Napoli si sceglie ogni giorno. E le scelte riguardano il nostro io più profondo, sono qualcosa di estremamente intimo, intoccabile.
I colori si amano ma, soprattutto, si scelgono. Anzi, per la verità sono una delle nostre prime scelte: il colore preferito ci accompagna da subito, sin dai primi gesti, quando la nostra manina vaga a mezz’aria sulla scatola dei pennarelli mentre l’occhio decide da quale di questi farsi rapire. C’è qualcosa di istintivo e ancestrale nella scelta di un colore, niente di razionale, quasi come se fosse lui a scegliere noi. Il mio colore preferito era l’azzurro, quello intenso dei pennarelli Carioca, che stringevo nel pugno chiuso con il quale tracciavo linee forti, decise, incancellabili, tutto quello che non sono diventato poi.
Ora che sono adulto (per la verità continuano a chiamarmi “giovane autore”), l’azzurro non è più il mio colore, adesso mi piacciono il beige e il marrone, colori di terra e sabbia, sfumature di Sud. E io sono un uomo del Sud, mi sento profondamente un uomo del Sud del mondo.
Quale sfumatura assocerei oggi alla mia città? Mi verrebbe da dire di nuovo l’azzurro, così da tornare ancora bambino, l’azzurro del mare e del cielo innanzitutto. Oppure potrei parlare del giallo del sole e del tufo, del rosso dei pomodorini del Piennolo che nascono sulle pendici del Vesuvio, del verde dei nostri parchi mai valorizzati. Ma nessuno di questi colori, in realtà, mi aiuterebbe a decifrare il mio pensiero su Napoli, a classificarla; nessun colore, da solo, può ambire a tanto. Perciò mi servirò di un colore che non sembra neanche un colore, ma un’alternanza, un miscuglio.
Sono nato a San Martino, in un palazzo scosceso sulla collina del Vomero, dal quale, per citare nuovamente l’amato Pino Daniele, “si vede tutta quanta la città”. Perciò è da lì che partirà questo mio particolare viaggio alla ricerca del colore perfetto per raccontare una terra imperfetta, dal terrazzo della casa di papà, dal quale si gode un panorama che agguanta nelle sue ammalianti fauci Capomiseno e, più lontano ancora, Procida e Ischia, e poi Capri, che è proprio lì di fronte, la punta della Campanella, la Costiera sorrentina, il Vesuvio, che la notte si staglia imponente sotto la pallida luna che colora il cielo e, a pochi metri, Castel Sant’Elmo, dal quale i napoletani più anziani ricorderanno che, fino agli anni sessanta, alle dodici in punto veniva sparato un colpo di cannone udibile in tutta la città, di modo che si sapesse l’ora esatta.
Ma torniamo al terrazzo. Ebbene, sembra incredibile, ma da quassù ciò che spicca non è tanto l’azzurro del mare che sembra venirmi incontro, o il giallo del tufo dei castelli, no, c’è un altro colore preponderante che mi annebbia la vista ed è una macchia indistinta di grigio. Sì, proprio così, voglio parlare del grigio di Napoli!
In fondo qual è la tonalità più comune in natura? Dopo il verde, c’è il grigio, basti pensare alla roccia, alle pietre. Il grigio è il colore complementare di se stesso, considerato nell’accezione comune come un “bianco sporco”. In realtà è un calderone nel quale si mischiano innanzitutto bianco e nero, due tinte che a me che scrivo non possono non piacere assai.
Ho usato a proposito il termine “miscuglio” (anche “assai”, a dire il vero, perché mi fa sentire molto napoletano), credo sia la parola che più si addice alla mia città, che è un miscuglio di colori, di bianco e nero appunto, ma anche di stati d’animo, di personalità, di stili architettonici, un miscuglio di classi sociali e popoli, di sorrisi solari e facce da criminale, di sapori dolci e salati, pastiera e pizza, sfogliatella e ragù, musica antica e neomelodici, fede e scaramanzia, tradizione e rap.
Il grigio è un colore neutro, che in genere simboleggia la mediocrità, ma anche l’equilibrio degli opposti (e quale altro popolo al mondo è capace di camminare sul filo, quale popolo simboleggia meglio dei napoletani questo paradosso?), è una “desolata immobilità”, come lo ha definito Kandinskij. Più di ogni altra cosa è il colore della pietra, come ho detto, venerata per millenni soprattutto dai celti, dai nativi d’America e dai giapponesi. E cosa c’è di più sacro della pietra? Nella pietra abbiamo scolpito le prime incisioni, con la pietra angolare abbiamo eretto le più immaginifiche costruzioni, dalla pietra abbiamo ricavato quel grigio che nella mia Napoli è ovunque.
Sono ancora sul terrazzo, ma è ora di scendere a rintracciare il colore di cui ho parlato. A tal proposito, io scrivo romanzi, invento storie, perciò non ho problemi a servirmi di qualche trucco narrativo per allontanarmi in volo da quassù. Per esempio, potrei afferrare la zampa di un gabbiano di passaggio e farmi trascinare da lui in giro sulla città, oppure gonfiare un palloncino e cavalcarlo sopra i vicoli, fino al mare. Potrei addirittura immaginare di essere una piccola pallina da ping pong che una racchettata troppo forte ha appena scaraventato oltre il parapetto. Sì, l’idea mi piace. Mi piace immaginarmi pallina che rotola fra le scale del Petraio, dove incontro subito il mio colore, proprio sotto i piedi (pardon, una pallina non può avere di certo i piedi), nei ciottoli del percorso che si apre un varco nella terra come fa un fiume che scende a valle. D’altronde, il nome “Petraio” deriva dal luogo dove le piogge alluvionali depositano i sassi, e il tracciato di Salita Petraio ricalca proprio il sentiero di uno dei tanti alvei funzionali del Vomero. Perciò, se ci passava l’acqua, posso passare anche io, che non scivolo, rotolo.
E proprio a furia di rotolare giungo, infine, sul corso Vittorio Emanuele, strada che può essere considerata a giusta ragione come la prima “tangenziale” di Napoli, un serpente di asfalto “grigio” che lambisce la collina del Vomero per più di quattro chilometri e unisce diversi quartieri. Ho usato la parola “asfalto” impropriamente, in realtà gran parte della carreggiata è ricoperta di sampietrini (i cazzimbocchi, se qualcuno non avesse capito), che sono quegli odiosi ciottoli “grigi” con i quali si pavimentano i centri storici e che alle prime piogge scoppiano come tanti popcorn.
Con non poca fatica giungo al centro. Qui di grigio ce n’è in abbondanza, non solo per terra, ma anche e soprattutto sui muri scrostati delle chiese e nei portali dei palazzi nobiliari. Il Castel Nuovo o Maschio Angioino, per esempio, lo storico castello medievale e rinascimentale che svetta nel salotto buono della città. Ero convinto che fosse composto da quattro torri, come gran parte dei castelli, invece sono cinque, ma tu guarda, cinque torri cilindriche di cui una in tufo giallo e le restanti quattro rivestite di piperno. Che sempre tufo è, anche se non è giallo, è grigio appunto.
Il napoletano ha un legame particolare con il tufo, ci cresciamo accanto, un rapporto così viscerale che quasi ci sembra assurdo che su al Nord a stento sappiano di cosa si parla. Noi il tufo lo conosciamo subito, da ragazzini, quando scendiamo per strada a giocare a calcio e, stanchi, ci appoggiamo al muro umido alle nostre spalle che si sgretola sotto le dita, costringendoci a pulirci distrattamente sui pantaloni. Lo conosciamo quando, ormai adolescenti, ci ritroviamo in una vecchia e stantia cantina per fare i primi esperimenti musicali con la nostra band. Lo conosciamo, infine, quando infiliamo il trapano nella parete di casa per appendere quella benedetta fotografia che nostra moglie ci sta pregando (è un eufemismo) di attaccare da un lustro. Il tufo è qualcosa di antico ma di vivo, è attorno a noi, come il mare, o come il Vesuvio, una cosa che sta lì da secoli, e gli si vuol bene, perché la sua presenza ci fa sentire a casa.
Il piperno è un tufo diverso, non quello giallo che abbiamo imparato a conoscere e amare, ma quello “grigio” flegreo. Tra i tufi campani, è il più importante e di gran lunga il più utilizzato. Per la sua conformazione è difficile estrarlo e c’è bisogno che sia diviso in grandi blocchi prima di essere lavorato, è questo che lo rende resistente agli agenti atmosferici, questo che lo ha fatto diventare così “famoso” fra gli architetti e i costruttori del passato, che lo hanno utilizzato in tutta la regione, fino ad arrivare in Puglia. Presente nei territori dove vi sono state le eruzioni, si ricavava in gran parte da Quarto, da Nocera Inferiore e, in particolare, dalle zone di Soccavo e Pianura, proprio alla base della collina dei Camaldoli. A Pianura, addirittura, l’estrazione del piperno è stata la causa per la quale, nel tredicesimo secolo, si è costruito un casale che ha dato il via al primo nucleo abitativo della zona. Pianura per secoli ha goduto di questa fiorente attività che portò benessere economico alla cittadinanza locale, anche se il tributo in vite umane fu numeroso, perché molti minatori persero la vita nelle cave. Qui l’estrazione del piperno è terminata nel dopoguerra e, dopo alcuni lavori di restauro, la cava è stata riaperta al pubblico, per poi essere chiusa di nuovo poco dopo, per pericoli di cadute.
Ma se volessimo seguire la strada del piperno potremmo non uscire più dal centro di Napoli. All’interno del Castel Nuovo è presente una scala in piperno che conduce alla famosa Sala dei Baroni, così soprannominata perché proprio qui, nel 1487, furono invitati (con la scusa delle nozze della nipote), imprigionati e successivamente messi a morte alcuni dei baroni che congiurarono contro Ferrante I d’Aragona. Anche fuori dal castello, se ci mettessimo a rotolare senza una meta sicura, troveremmo tracce di piperno, di grigio, ovunque, nei cortili, nelle scalinate e nei portali di ogni palazzo nobiliare di Napoli; nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, a un passo da via Toledo, che ha un arco in piperno; nel palazzo Como, al quartiere Pendino, rivestito interamente col piperno e ora sede del museo Filangieri; nel palazzo Orsini di Gravina (la facoltà di Architettura), a porta Capuana la facciata d’ingresso del parco Virgiliano; e poi la chiesa del Gesù Nuovo, che conserva le spoglie di Giuseppe Moscati, il celebre medico e santo che più di un secolo fa diceva frasi tanto illuminate: “Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete occupare, ma delle anime gementi, che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio, e scendendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista”.
E già che ci troviamo in piazza del Gesù, non possiamo non sostare un attimo per parlare di questa chiesa e della storia della piazza, che si confonde e intreccia anche con la mia. Mi sono sposato nella chiesa di santa Chiara, eppure non mi sono mai fermato ad analizzare nel dettaglio ciò che mi circondava. La chiesa del Gesù Nuovo è stata costruita sulle macerie di palazzo Sanseverino, celebre per la magnificenza dei suoi interni, per gli affreschi, i giardini, e punto di riferimento per la cultura napoletana rinascimentale e barocca. Sotto il viceregno di don Pedro de Toledo (quello, per intenderci, che ha “costruito” via Toledo e i Quartieri Spagnoli), a metà del Cinquecento, ci fu il tentativo di introdurre l’Inquisizione spagnola a Napoli ma, per fortuna, il popolo si ribellò e con esso anche Ferrante Sanseverino. Il 12 maggio 1547 furono affisse alle porte del Duomo le nuove regole morali e religiose da seguire, ma un certo Tommaso Aniello da Sorrento (da non confondere con il ben più famoso Tommaso Aniello da Amalfi, il noto Masaniello che diede vita alla rivoluzione di cento anni dopo) stracciò e buttò via l’editto dinanzi a una folla di popolani. Il gesto gli costò la libertà, ma il popolo non accettò l’arresto dell’Aniello e insorse. Perché Napoli è una città silente, abulica, che spesso si fa i fatti suoi, indolente, ma quando arriva qualcuno da fuori che le vuole spiegare come vivere, allora si accende e sembra raccogliere l’energia del Vesuvio, come se anche il popolo avesse questo magma interiore pronto a esplodere e a diventare lava. Solo che la lava, si sa, presto si spegne, si raffredda e solidifica. Però resta lì, a memoria dell’impeto che è stato, e resiste al tempo. Proprio come le fugaci rivoluzioni di questo popolo bistrattato che nella storia più volte è insorto e si è fatto lava, che arde, sedimenta e, infine, resiste.
L’Inquisizione, per fortuna, fu evitata, ma Sanseverino fu costretto ad andare in esilio e l’edificio fu confiscato dagli spagnoli, che poi lo cedettero ai Gesuiti. La famosa facciata del palazzo divenne la facciata della chiesa come la conosciamo oggi, rivestita di bugne, che sono quelle piccole piramidi in piperno che all’epoca i tagliapietre napoletani incisero sui lati e che la tradizione interpreta come segni caratterizzanti le diverse squadre di lavoro che avevano preso parte all’opera. Siamo a Napoli, però, e qui alla storia tocca fare i conti con la leggenda, che è più affascinante e può essere modellata a proprio piacimento. Insomma, la leggenda vuole che chi fece edificare il palazzo (si dice sia stato Roberto Sanseverino) si fosse servito di maestri pipernieri a conoscenza di segreti esoterici tramandati di bocca in bocca nel corso dei secoli. Si riteneva, infatti, che alcuni di questi tagliatori fossero in grado di “caricare” di energia positiva la pietra. I segni ancora oggi presenti sulle bugne di piperno servivano così a convogliare le forze positive dall’esterno verso l’interno del palazzo. In realtà, si è poi detto, le pietre segnate non furono piazzate correttamente, e la magia ebbe un effetto inverso. D’altronde, il diavolo a Napoli è sempre dietro l’angolo, e si fa presto a passare dalla fede alla scaramanzia, dalla gioia alla disperazione. L’equilibrio è un qualcosa che non ci appartiene e che, diciamocela tutta, ce sta pure nu puculill’ antipatico, perché rende la vita tutta uguale, piatta, “grigia” insomma.
A ogni modo, dicevo, il magnetismo benefico che si voleva indirizzare all’interno del palazzo si riversò per strada, attirando sul fabbricato ogni genere di sciagure. E di tragedie che colpirono il luogo ce ne sono state tante, a cominciare dalla confisca dei beni ai Sanseverino, la distruzione del palazzo, l’incendio della chiesa, i ripetuti crolli della cupola, e così via. La verità è che “chi cerca trova”, e la storia è piena di avvenimenti tragici, senza che per questo si debbano chiamare in causa particolari artifici magici.
Quella partenopea è una scaramanzia un po’ più complessa delle altre, io la chiamo “scaramanzia certificata”, poiché di solito è accompagnata da una serie di argomentazioni più o meno scientifiche che servono a supportare il credo popolare. Perciò qui la superstizione attecchisce di più della fede, perché la seconda non ha grandi spiegazioni da dare e invita ad affidarsi, la prima invece (che sa bene che i napoletani si fidano solo di se stessi e di mammà) per supportare la sua inconsistenza ci riempie la capa di fesserie. Siamo un popolo di scaramantici che ha imparato a contare solo su se stesso e a dire un cuofano di bucie nel tentativo di ingannare il prossimo, il destino, dio e, talvolta, persino il diavolo!
Nel 2010, alcuni storici dell’arte e musicologi hanno identificato nelle lettere aramaiche presenti sulle bugne uno spartito musicale da leggersi da destra verso sinistra e dal basso verso l’alto: un concerto per strumenti a plettro della durata di tre quarti d’ora. La tesi è stata poi smentita da altri studiosi, anche se a me affascina molto; se mi devo bere le fesserie, almeno datemi la possibilità di scegliere qual è la fesseria che più mi aggrada!
E poi c’è un altro tipo di grigio a Napoli, quello dei muri, e non parlo delle antiche mura greche che delimitavano il centro e che oggi possiamo apprezzare soprattutto in piazza Bellini (quella volta che riusciamo a farci strada fra la gente, i motorini e le birre che giacciono vuote sull’asfalto come birilli caduti), parlo dei tanti muri che dividono e isolano. Parlo del grigio dei quartieri degradati e dimenticati, fatti di pareti che si alzano verso il cielo e si uniscono per dare vita a palazzoni fatiscenti dove la luce fatica a entrare e i colori scivolano via come su una superficie umida. Muri che delimitano rioni, zone, vite grigie.
Il muro suscita in me, in noi, sensazioni contrastanti. Con la sua forza, le fondamenta profonde, il muro può sostenerci nel momento del bisogno, ci fa sentire protetti, come da bambini, quando impariamo da subito a costruirci un fortino con i cuscini del divano. Se, però, crescendo, continuiamo a tirare su muri e a delimitare gli spazi attorno a noi, allora finiamo per non vedere più cosa c’è oltre, finiamo con l’aver paura di cosa c’è al di là, e in quel preciso istante ci stiamo condannando a innaffiare il terreno incolto del razzismo, che di quella paura dell’ignoto si nutre. Per questo ognuno di noi dovrebbe quanto prima buttare giù un po’ di muri nella sua vita o, perlomeno, aprire un varco, una porticina che permetta di sbirciare fuori senza sentirsi smarriti, che consenta di andare alla scoperta del mondo senza rinunciare al proprio rifugio.
I muri grigi e sgarrupati di Napoli sono quelli che cingono piazze desolate e abbandonate, sono gli stessi che respingono i Super Santos calciati con rabbia da scugnizzi senza scuola, senza futuro. Sono i muri che delimitano le zone più degradate e pericolose, file di cubi di cemento armato che danno vita a rioni dai nomi alquanto fantasiosi, le Case dei Puffi, le Case Verdi (che in realtà si trovano a Caivano), le Vele, come se fossimo in una fiaba a colori, mentre qui, in realtà, di fiaba non è rimasto proprio nulla e di colore solo il grigio.
Napoli, però, sa sorprenderci anche con i suoi muri, sa ricostruirsi, rigenerarsi, modellare lo squallore per renderlo arte e colore. Napoli sa contrapporre ai suoi muri anonimi la fantasia, sa “mischiare” arte e profano, e attraverso i muri sgarrupati riesce a dare sfogo alla sua vitalità. Queste pareti tanto bistrattate ospitano numerose opere della Street art italiana e internazionale, artisti del calibro di Banksy, Ernest Pignon, Felice Pignataro. E allora userò un altro trucco narrativo e stavolta mi farò rondine, uccelli affascinanti che con i loro voli pindarici ci fanno sognare la libertà, per andare alla scoperta di questi muri trasformati in tele da chi proprio non si arrende al grigiore.
Non lo sapevo, ma le rondini non possono posarsi a terra perché pesano troppo e non sarebbero più in grado di rialzarsi in volo, e sono quindi costrette a sostare sempre su cavi, lampioni, balaustre. Ma la cosa più stramba è un’altra: le rondini, si sa, migrano, a settembre partono per il Sudafrica in cerca di un inverno mite. Eppure, anziché attraversare il Mediterraneo, come sarebbe ovvio, preferiscono fare il giro lungo e salire per i Pirenei per poi scendere per lo Stretto di Gibilterra, quindi superano il Sahara e raggiungono il Sud. Forse neanche più loro si fidano di questo nostro antico mare cantato da Omero e navigato da Ulisse, e oggi diventato improvvisamente teatro della più assurda, sanguinosa e truculenta Odissea che si ricordi.
In breve sono a Ponticelli, dove su una parete dello stabile adiacente alla chiesa dedicata ai santi Paolo e Pietro, c’è un murales di Agoch che si intitola Tutti i bambini delle periferie, e ritrae il primo piano di una bambina che con i suoi colori ravviva il rione e ricorda l’incendio del campo rom di alcuni anni fa. Jorit Agoch è uno dei più promettenti tra i Graffiti Artist della scena nazionale ed estera ed è, guarda un po’, napoletano. Nasce a Napoli nel 1990, da madre olandese e padre napoletano, e si laurea all’Accademia di Belle Arti. Il tratto distintivo dei suoi ritratti è rappresentato da due “strisce” rosse sulle guance, elemento caratteristico di alcuni rituali africani, in particolare della procedura della “scarnificazione”, un rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Agoch considera le differenze di razza, sesso, religione e classe sociale trascurabili rispetto alle caratteristiche che rendono simili tutti gli esseri umani. Perciò raffigura sui muri delle città in giro per il mondo le persone del posto marchiate con le due strisce che le fanno entrare di diritto nella cosiddetta “Human tribe”.
Io sono con lui. Anch’io faccio parte di una sola, grande tribù, quella umana. E sono con Vittorio Arrigoni, che diceva di non credere nei confini, nelle barriere e nelle bandiere perché apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, a una stessa famiglia, la famiglia umana.
D’altronde, il grande poeta Gibran recitava questi versi: “Se ti sedessi su una nuvola, non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola”.
Una delle più importanti opere di Agoch è il san Gennaro dipinto nella piazzetta di Forcella. Scendendo da Spaccanapoli ci appare di faccia l’immagine del santo patrono alta più di quindici metri, raffigurato con il viso di una persona qualunque, un giovane del popolo, perché San Gennaro è il santo del popolo. Sul volto bruno di Gennaro brillano l’oro e il rosso delle vesti che baluginano in mezzo al grigiore che ci attornia. Eppure, anche in questo caso c’è stato chi ha polemizzato facendo notare che il volto del santo assomiglia a quello di Nunzio Giuliano, noto esponente del clan camorristico di Forcella che si dissociò e per questo fu ucciso da due sicari nel 2005. In verità il volto di san Gennaro, come raccontato dall’artista, si rifà ai lineamenti di un carrozziere del rione, che di nome, guarda caso, fa proprio Gennaro.
Nei Quartieri Spagnoli, invece, c’è una mostra perenne a cielo aperto (grazie all’idea dei writers Cyop & Kaf e Roxy in the box) e fra l’imposta socchiusa di un basso e uno stendipanni agganciato a un muro sgualcito, sfilano le icone di star mondiali, cantanti, attrici, politici, scienziati: Amy Winehouse, Andy Warhol, Rita Levi Montalcini, Marina Abramović, Basquiat, e tanti altri. Stanno seduti, come il popolo che abita i bassi e si accomoda sulle seggiulelle a parlare di vita e a sorseggiare un caffè. A Materdei c’è un artista argentino, Francisco Bosoletti, che ha realizzato in soli tre giorni Parthenope, un grande affresco raffigurante la famosa sirena che ricopre l’intera facciata di un condominio di salita San Raffaele. L’opera è stata finanziata dai cittadini del rione che hanno voluto in tal modo far fiorire un po’ di bellezza nelle loro strade, un pizzico di colore che servisse a contrastare il grigio del cemento armato.
Sono molto legato al nome Partenope, al mito che si confonde e intreccia con la storia, e a tutto ciò che riguarda la napoletanità, tanto che, se dovessi mai avere una figlia, ho detto a mia moglie che mi piacerebbe chiamarla proprio come la sirena della mia città, quella che i napoletani un tempo adoravano come una dea. Tra l’altro Partenope Marone sarebbe un connubio perfetto, considerato che anche Virgilio usò questo nome per le sue Odi.
Sono molte le leggende sulla sirena: si dice che morì nel golfo, nel punto esatto dove ora sorge Castel dell’Ovo, in mezzo al mare. Alcuni dicono che si suicidò per amore dopo un rifiuto di Ulisse; altre storie, invece, raccontano che fuggì con un greco su un’isola sconosciuta. Un altro mito parla di come la sirena affogò in mare per seguire il suono della cetra di Orfeo, che faceva parte della spedizione degli argonauti.
Partenope, inoltre, è definita anche la repubblica napoletana del 1799, esistita solo per pochi mesi grazie al coraggio e all’intraprendenza della classe borghese e intellettuale dell’epoca che, con l’aiuto dei francesi, si ribellò alla tirannia spagnola. Fra i tanti nomi che spiccano, dobbiamo ricordare Mario Pagano, Luisa Sanfelice, Eleonora di Pimentel Fonseca, Ignazio Ciaia, Domenico Cirillo, Francesco Caracciolo, Ettore Carafa, Gennaro Serra di Cassano. Una grande generazione di napoletani coraggiosi che diede vita a un breve sogno raccontato magistralmente da Enzo Striano con il suo Il resto di niente, romanzo sulla figura della Pimentel e sulla rivoluzione del novantanove appunto.
Insomma, come si può notare, non è cosa facile scrivere di Napoli, perché ti fermi a osservare un graffito a Materdei e finisci a parlare di storia, mito e letteratura. È la grande forza di questa città, far convivere il nuovo con il vecchio, l’arte con il gioco, il mito con la storia. Ma le sorprese che riservano i muri di Napoli non sono di certo finite, perché qui ogni parete abbandonata può diventare contenitore di storie, arte, amore, e letteratura. A Napoli abbiamo, anzi avevamo, due opere del più famoso streeter esistente: Banksy. Una si trova in piazza dei Gerolomini e raffigura una Madonna “grigia” con la pistola al posto dell’aureola, richiamo al sistema malavitoso napoletano, mentre l’altra si trovava in via Benedetto Croce ed era una rivisitazione della santa Teresa del Bernini ripresa in chiave consumistica. La santa, infatti, impugnava fra le mani patatine e Coca-Cola. Ebbene, qualche anno fa un ignoto writer nostrano decise di consegnare ai posteri il suo nuovo capolavoro e pensò bene di farlo ricoprendo e, quindi, cancellando per sempre dalla città e dalla storia, l’opera di Banksy. Ora, a parte il danno economico (il valore dell’opera si dice si aggirasse sui centomila euro), come può uno che fa graffiti inguacchiare, mi si perdoni il termine poco british, un’opera di Banksy? È come se io mi mettessi a scribacchiare appunti sul manoscritto originale dello Zibaldone. Il paragone può sembrare forte, ma uno che ama la Street art dovrebbe considerare Banksy alla stregua di un dio.
Meglio tornare ai muri. È che i muri napoletani racchiudono e conservano un’altra cosa preziosissima, che noi spesso nemmeno notiamo: parlo dell’amore, delle emozioni. Ho fatto una ricerca su internet e ho trascorso qualche giorno a cercare le scritte più interessanti sui muri dei palazzi in giro per la città. Certo, bisogna saper spulciare, occorre anche essere fortunati, ma alla fine ci si può imbattere in una frase, un atto di amore, una parola poetica, una speranza, una paura, un’emozione appunto. Quasi sempre queste scritte, storte, rosse o nere su sfondo “grigio” sono brutte a vedersi, spesso non hanno senso o sono errate, oppure sono politiche e piene di odio, poi, però, ti capita sotto gli occhi quella giusta, che ti fa sorridere perché pensi che allora c’è ancora qualcuno che vuole conservare uno spicchio di bellezza e condividerlo con gli altri. A tal proposito, ho appuntato qualche frase: “Il futuro non è scritto”, che si trova lungo Spaccanapoli; sempre da quelle parti c’è la meravigliosa frase che contiene tutta la filosofia del vivere napoletana: “Nun t’avvelì”, non ti avvilire. E poi: “Se amarti è un peccato, che Dio mi perdoni”; “E bacio ancora il tuo odore perché ora è il mio”; “Ci siamo voluti così tanto, ma ci siamo tenuti così male”; oppure questa, che trovo una perla: “Non hai mai fallito nel farmi sorridere”; “E se chist’ nun è ammore, che viviamo a fare?”; “Ti inganni tra braccia sconosciute offendendoti nel profondo”; “Fra tutti i modi di essere felice, ho scelto te”; “E va bene finché ti vedo sorridere”, anche questa una bellissima frase che campeggia nel Centro direzionale. Poi ci sono quelle un po’ meno poetiche, che però rubano lo stesso lo sguardo e secondo me meritano una menzione: “Vogliamo il cocco ammunnato e buono”; “Non si scrive sui muri”, classica ironia partenopea; “È semp’ stata muglieret’ a me chiammà!”, così, giusto per fare chiarezza; “Ma che bel muro pulito!”, scritta fotografata sulla facciata appena imbiancata di un palazzo di Posillipo. E poi la frase più semplice e bella, almeno per me, che su questa piccola parolina così potente ho scritto un romanzo: “Volevo solo essere felice”.
Ma sono rondine, e mi viene d’istinto, a questo punto, puntare verso il mare, anche se, a dirla tutta, io i grandi stormi li ho visti sempre in piazza Municipio e in piazza Garibaldi. E allora, nel viaggio verso l’azzurro del mare, mi fermo per un attimo nel mezzo della nuova piazza Garibaldi, punto di approdo per il viaggiatore, “barriera grigia” che accoglie i turisti. Sosto sulla copertura da poco installata che funge da tetto a un sottopassaggio pieno di negozi, e do un’occhiata da quassù: il grigio è ovunque! A cominciare proprio dalla stazione, con il suo dominante color grigio fumo di Londra, per passare alle pareti, alle scale, fisse e mobili, alle strutture, ai rivestimenti, tubi, pavimenti, paletti, segnaletica, tutto è un trionfo di grigio, un omaggio al colore non colore. Il progetto definitivo prevede giardini e aiuole, ma per adesso, se voglio un po’ di colore, devo puntare al mare. Che poi piazza Garibaldi ormai è un miscuglio di strade che s’intersecano, di inferriate che ti bloccano, di segnali che ti confondono, di strisce pedonali disposte a casaccio. I lavori hanno costretto a cambiare le zone attraversabili tante di quelle volte che alla fine si è persa la bussola, così sono rimaste indicazioni stradali dove non servono, strisce pedonali dove non passano auto, semafori che stanno lì, ricordo di un tempo che fu. Insomma, per superare la piazza l’unico modo è affidarsi alla sorte, cioè girare senza una direzione precisa. Non è così scontato, infatti, che se devi andare a destra ti convenga svoltare a destra, in alcuni casi potresti anche far prima buttandoti a sinistra. Lo so, è un putiferio, perciò il più delle volte si formano imbuti di auto che non lasciano via d’uscita, perché la gente, anziché guidare, si ferma per chiedere indicazioni che nessuno è più in grado di dare. Allora preferisco la metro, uno dei pochi mezzi pubblici che svolge appieno il proprio dovere, ti conduce in un posto in breve tempo e con pochi spiccioli. Gli altri suoi colleghi (taxi, tram e autobus), costretti ancora a transitare nella parte superiore della città, arrancano. Perché Napoli è così, c’è un sopra e un sotto, due metropoli in una. Solo che la parte di sopra è confusionaria, quella di sotto è molto più moderata e silenziosa. Perciò, per decidere da dove passare, se per sopra o per sotto, bisogna affidarsi allo stato d’animo. Se ti senti aperto alla vita, ai colori, al caos, se pensi che tutto abbia un senso anche quando in modo evidente sembra non essere così, se credi che l’uomo sia un essere sociale che ha bisogno degli altri per sopravvivere, anche quando questi altri ti camminano addosso, ti spingono o ti urlano in un orecchio, allora ti conviene passare per sopra. Se sei un solitario, taciturno, un po’ ombroso, se non hai bisogno della luce, ma ti trovi a tuo agio nel sottobosco, nell’umidità, nel tufo, fra vecchi e spettrali corridoi di un tempo ormai dimenticato, allora ti conviene prendere la strada di sotto.
Più mi avvicino al lungomare e più sento venirmi incontro lo scirocco, e allora nel mio volo immaginario stavolta mi sa che conviene farmi gabbiano che sfrutta questo vecchio vento del Sud per raggiungere comodamente il mare. Davanti ho il Castel dell’Ovo e sotto di me sfila la Villa comunale, separata dall’acqua da una lingua di asfalto “grigio” che unisce Mergellina al centro di Napoli. Il mare, increspato dalla brezza, è spumato di bianco e macchiato dai colori delle tante barchette a vela che sfilano silenziose, puntando verso Posillipo. Non sono un politico, né un architetto o un urbanista, io scrivo storie, e per farlo ho bisogno di immaginare, mi devo far soccorrere dalla fantasia, che è sempre colorata. Nessuno immagina in bianco e nero. E allora mi piace fantasticare che sotto di me non ci siano tonnellate di scogli di un bianco sporco ma che esista ancora la spiaggia di un tempo, prima che la colmata di metà Ottocento la inghiottisse. Mi piacerebbe, seppure solo con la fantasia, restituire a Napoli la sua modesta spiaggia, i suoi bravi pescatori che issavano i gozzi e attorcigliavano le reti, gli scugnizzi che si rincorrevano a piedi nudi sulla sabbia, i poeti che la ammiravano e la cantavano, le massaie, i femminielli e i turisti che la vivevano.
La decisione di cambiare forma al lungomare di Napoli maturò a metà dell’Ottocento, ma le prime idee risalgono a molto tempo prima, addirittura al Cinquecento e a quel don Pedro de Toledo di cui ho parlato. È in quel periodo che la nuova cinta muraria è ampliata fino al litorale di Chiaia. Nel secolo successivo, poi, sorsero numerose osterie che contribuirono a tramutare Mergellina nella meta preferita dei napoletani durante la cosiddetta “stagione”. Bisogna attendere un altro secolo ancora, però, per la Villa comunale, grazie a Ferdinando IV di Borbone, che affidò il progetto al Vanvitelli. A metà Ottocento si iniziò a parlare di risanamento dell’area del lungomare, con un progetto che prevedeva il riempimento della spiaggia con una colmata, l’ampliamento della Villa e la costruzione di nuovi edifici in via Partenope. Edifici che oggi sono fra i più belli e rinomati di Napoli, basti pensare all’Hotel Vesuvio, per costruire il quale, però, furono tombate le sorgenti e le fontane di acqua ferrosa, la cosiddetta acqua suffregna.
Sono nato nel settantaquattro, e la famosa acqua, che per secoli ha dissetato e rinfrescato i napoletani di qualsiasi classe sociale, è stata bandita nel settantatré a causa dell’ultima grande epidemia di colera in città. Perciò mi sono dovuto documentare per capire davvero cosa significasse quest’acqua per Napoli. L’acqua re’ mummarelle la chiamavano anche, perché era raccolta e distribuita nelle mummare appunto, anfore in creta con doppi manici; oppure acqua zurfegna, acqua ferrata, acqua del Chiatamone, acqua libera, fredda, sulfurea e ferrosa, che sgorgava, e sgorga tuttora, in via Chiatamone, sotto il monte Echia, dove la leggenda vuole ci sia stato il primo insediamento cittadino. Ancora oggi, in via Riccardo Filangieri Candida, strada comunicante con via Acton e piazza Municipio, tra le mura perimetrali del Castel Nuovo e di Palazzo reale, si trovano quattro fontane dalle quali esce l’acqua delle mummare. Per comprendere l’importanza che ha avuto quest’acqua per Napoli basti pensare che quando Francischiello, ultimo re Borbone, andò esule a Parigi, chiese a un suo ministro di portargli un ricordo dell’amata Napoli. Questi, allora, ordinò a Vincenzo Gemito di modellare una statua che rappresentasse proprio l’acquaiolo scugnizzo con la mummera sotto il braccio.
La bontà e la fama di tale acqua fecero sì che ben presto nascessero moltissime “banche dell’acqua”, dove l’acquaiolo la serviva liscia o accompagnata con uno spruzzo di limoni di Sorrento e un pizzico di bicarbonato di sodio. E non mi è difficile immaginare questi famosi bancarielli, né le voci di quegli uomini di un tempo che attiravano i clienti con il suono ripetuto dello spremiagrumi in ferro forgiato e attraverso le classiche urla di richiamo che ancora oggi si possono ascoltare in uno dei tanti mercatini rionali.
Bisogna ricordare che Napoli, durante tutto l’Ottocento, è stata colpita da continue epidemie di colera, perciò, in un’ottica di emergenza sanitaria e ambientale, c’era la necessità di bonificare i quartieri bassi, la zona portuale, Santa Lucia, Borgo Loreto, il Lavinaio. Per la realizzazione del secondo tratto del lungomare (via Partenope) furono utilizzate tonnellate di calcestruzzo costituito da calce della costa di Equa, pozzolana idraulica del Vesuvio e di Pozzuoli, pietrisco di scorie vulcaniche. Il muro perimetrale che serviva a contenere il mare fu subito danneggiato dalle continue mareggiate, perciò l’amministrazione ben presto fu costretta a installare le scogliere frangiflutti che, con il tempo, hanno poi raggiunto le dimensioni attuali che le fanno assomigliare a un’unica macchia che sporca il golfo.
Oggi si discute di come rivalutare e riqualificare la zona. C’è chi dice che sarebbe possibile restituire alla città il vecchio litorale di Chiaia servendosi di sedimenti ghiaioso-sabbiosi, tipici della costa di Maratea o di quella amalfitana, ghiaia grossolana che resisterebbe all’erosione del mare e alle forti burrasche. Altri hanno immaginato il Waterfront, un muro da ergersi sotto il livello della carreggiata che consentirebbe di passeggiare accanto all’acqua, un po’ come accade per il Lungotevere insomma. L’amministrazione comunale ha stabilito (e chissà se si farà mai) che il secondo tratto del lungomare sarà pavimentato con la pietra lavica (i famosi basoli “grigio” scuro) attraverso un vero e proprio intervento di recupero storico dell’immagine antica della zona, prima della modifica corrente voluta dal regime fascista in occasione della visita di Hitler del trentotto.
Non so dove sia il giusto, se sia possibile eliminare la scogliera e ripristinare la spiaggia senza pericoli di mareggiate, so che mi piacerebbe che la mia città potesse godere del mare, in un connubio che risale alla notte dei tempi e che ormai sembra perdersi ogni giorno di più. So che mi piacerebbe avere una lunga e bella spiaggia pulita e tappezzata di ombrelloni colorati, come a Barcellona. So, però, che lì, per riqualificare la zona, si sono serviti dei finanziamenti per le olimpiadi del novantadue. A Napoli non credo avremo mai un’olimpiade, abbiamo avuto una Coppa America di vela e ancora ci portiamo dietro gli strascichi. A proposito, all’inizio le regate si sarebbero dovute svolgere nel golfo di Pozzuoli, davanti a Nisida e Bagnoli, luogo poi scartato a causa della famosa colmata. E non è a dir poco buffo che le barche abbiano veleggiato sul luogo di una colmata ben più imponente? Ma qui entro in discorsi difficili che non mi interessano, io sono gabbiano, e fluttuo veloce in cerca di un pesce sotto il pelo dell’acqua, che da quassù, con la luce del sole che la colora, appare come un immenso tappeto azzurro dipinto di coriandoli.
C’è un ultimo grigio del quale desidero parlare. Forse il grigio più grigio di tutti. Ma per farlo devo servirmi di una di queste barche a vela che sondano il mare e puntano capo Posillipo. Mi metto a prua e mi perdo ad ammirare il fondale tufaceo che rende cristallina l’acqua mentre supero la Gaiola e aggiro capo Posillipo per sbucare, infine, nel golfo di Pozzuoli, l’insenatura di circa sei chilometri racchiusa da un lato da capo Posillipo e dall’altro da capo Miseno. È qui che volevo arrivare, qui dove il grigio è di casa, dove il fondale scoglioso cede il posto a quello sabbioso e il tufo si lascia sopraffare dal cemento. Il tempo di affrontare un’onda e i colori mutano, come se fosse passata una nuvola a coprire il sole, e tutto si attenua, si ingrigisce, si arrabbia, proprio come il mare sotto di me, che sembra di pessimo umore e si fa del colore del ferro.
Già, del ferro. Aggiro faticosamente Nisida e raggiungo la riva, ai piedi dell’ex fabbrica dell’Italsider. A pochi passi i moli di cemento armato che sfregiano il mare, qualche barca adagiata sulla sabbia, altre ormeggiate all’ombra delle vecchie ciminiere. Sembra di sentire in bocca il sapore della ruggine, eppure qui la gente fa il bagno; ogni anno, nonostante il divieto di balneazione, al primo caldo un’umanità chiassosa si riversa su questa spiaggia scura, in questo regno del cemento e dell’amianto, del ferro e della ruggine. Un tempo, invece, c’erano le terme, prima i Greci e poi i Romani vi si stanziarono, riconoscendo al luogo proprietà magiche. E nel Medioevo si racconta che anche Federico II di Svevia abbia beneficiato di queste acque.
Il sole, nel frattempo, si sta ritirando dietro l’Epomeo, la grande montagna vulcanica di Ischia che svetta appena più in là di Procida, sulla linea dell’orizzonte di questo mare livido e rabbuiato. A qualche centinaio di metri ci sono i lidi balneari, che con luci soffuse e musica tentano di sostituirsi al mare e gli danno le spalle e, poco oltre, i tanti scheletri di ferro erosi dal tempo, che stanno lì da decenni a sfidare il vento e che al tramonto si tingono di sfumature rossastre. E poi c’è il vecchio pontile, che con i suoi novecento metri grigi di cemento armato taglia in due il mare ossidato e punta capo Miseno; un tempo serviva per lo scarico merci delle navi (soprattutto ferro e carbone), mentre ora è diventato un luogo panoramico dove la gente si ferma all’imbrunire per ammirare l’azzurro del cielo che evapora nel rosa, una tinta che solo da pochi anni si è intrufolata da queste parti. Prima c’era solo un cielo salmastro a far da tetto alle case che affacciano sul mare, le cui finestre restavano chiuse affinché la polvere di ferro non entrasse. Oggi su quello sfondo rosa la sera si adagiano i gabbiani con i loro strilli aciduli, un tempo, invece, il suono della sirena che scandiva i tempi di lavoro in fabbrica copriva ogni cosa.
L’Italsider ha spento definitivamente i forni nel novantatré. Pochi mesi dopo, l’allora giunta Bassolino presentò un documento d’indirizzo che prevedeva, tra le altre cose, il recupero delle aree dismesse di Bagnoli. Si immaginò un’immensa spiaggia liberata dai detriti e dai manufatti, un grande parco pubblico alle spalle, e tre fermate del nuovo tracciato della Cumana appositamente delineato. Eppure il primo progetto urbanistico di Bagnoli risale addirittura alla fine dell’Ottocento, grazie al grande architetto Lamont Young, che fantasticò di trasformare questo stupendo golfo in una piccola Venezia, con un canale che avrebbe collegato Bagnoli a Mergellina, e i cui materiali di risulta sarebbero serviti per costruire il rione Venezia, un nuovo quartiere a ridosso della collina di Posillipo. E con il primo progetto di una metropolitana che avrebbe unito Coroglio con il resto della città.
A proposito, ho scoperto che il termine deriva dalla parola dialettale “curuoglio”, con la quale si indica il panno attorcigliato che si poneva un tempo sul capo per trasportare gli oggetti. Discesa di Coroglio era conosciuta in origine come “Rampa di Coroglio o dei tedeschi”, a causa delle esplorazioni fatte da questi ultimi all’interno della grotta di Seiano, la quale, con il suo imponente traforo lungo più di settecento metri nelle viscere della collina tufacea di Posillipo, congiunge la piana di Bagnoli con il vallone della Gaiola e il parco archeologico Pausilypon. La grotta fu scavata in epoca romana e cadde in disuso per secoli, fino a quando Ferdinando II di Borbone la riportò alla luce. È un sorprendente capolavoro di architettura: costruita curva, per evitare il formarsi di forti correnti d’aria, ha numerose vie di fuga che sbucano a strapiombo sulla facciata ovest della montagna, postazioni dalle quali i Romani controllavano il mare dai pericolosi attacchi di navi nemiche. Secondo la leggenda, in uno di questi cunicoli restò incastrato Sir Arthur Conan Doyle, scrittore, medico e poeta scozzese, creatore del celeberrimo investigatore Sherlock Holmes. Durante la Seconda guerra mondiale la grotta fu utilizzata come rifugio antiaereo e negli anni cinquanta di nuovo abbandonata. Ha aperto definitivamente nel 2009.
In qualunque altra città del mondo un simile luogo sarebbe tra le mete più ambite dal turismo internazionale, qui, invece, a parte Pompei ed Ercolano, il Cristo velato e la Napoli sotterranea, siamo pieni di siti straordinari poco conosciuti e scarsamente pubblicizzati. Nella Baia Trentaremi (chiamata così perché tre tarem a settimana era la paga degli schiavi che costruirono il tunnel), all’interno del parco della Gaiola, qualche anno fa la Capitaneria di porto ha rinvenuto numerosi manufatti in cemento e amianto, con vecchie condotte fluviali e pluviali dismesse, rotte e abbandonate. Neanche un tunnel lungo quasi un chilometro è riuscito a proteggere la Napoli dei tempi antichi dalla nuova Napoli.
Ma torniamo a Young e alla sua piccola Venezia. L’architetto riuscì a farsi approvare il progetto, ma non riuscì mai a costituire una società che fosse in grado di portare a termine l’opera, che rimase pertanto solo una grande e spietata fantasia, come le intenzioni dell’amministrazione Bassolino. Purtroppo nella mia città l’immaginazione è fervida e la realtà zoppica, non riuscendo a starle quasi mai dietro. Quello che è successo in questi venticinque anni si perde nel “grigiore” della memoria, della politica, delle chiacchiere e della burocrazia, e non è materia di queste pagine.
Ho voluto che il mio viaggio, partito dalla collina del Vomero, toccasse terra qui, perché qui, come ho detto, c’è il grigio più grigio di tutti, in questo luogo che si veste a metafora tangibile delle potenzialità inespresse della mia, della nostra, amata e odiata città.
Mi sono servito di un solo colore per mostrarvi una città così sfaccettata, perché anche di un solo colore esistono tante gradazioni; basti pensare che sono circa seicento le tonalità di grigio riconosciute dall’occhio umano. La percezione di un colore è un fatto puramente soggettivo: i daltonici, per esempio, non conoscono il rosso, e gli eschimesi contano sette tipi diversi di bianco.
Più che i colori conta la luce.
È la luce a essere colore.
E a Napoli una cosa che proprio non manca è la luce.
Ma ci sono anche tante zone scure. L’auspicio, allora, è che questa luce che colora ogni giorno la mia terra possa farsi più forte e più alta, come il sole a mezzogiorno, che sa come asciugare le ombre.
E speriamo che la realtà non resti troppo indietro rispetto alla fantasia.