Una città senza più ironia

Le celebrazioni per i cinquant’anni dalla morte di Totò mi hanno invogliato a tornare a godere di una delle sue fantastiche pellicole, stavolta, però, dall’inizio alla fine. Già, perché con il “Principe della risata” spesso va così: lo becchi cambiando canale e guardi il film da quel punto, ché tanto la trama la conosci a memoria, come le battute, che però continuano a farti ridere.

Ma non voglio scrivere su Totò, voglio, invece, parlare di Napoli attraverso Totò, di quella magnifica città che usciva dalle sue commedie e da quelle dei suoi colleghi degli anni cinquanta e sessanta. Una metropoli che appariva austera, nobiliare e popolare allo stesso tempo (come, in effetti, è), ricca di personaggi sempliciotti e divertenti, di persone perbene e mariuncelli dal cuore in fondo buono. La Napoli che ci raccontavano Totò, De Sica, la Loren ed Eduardo, un luogo dove tutto sembrava più facile e anche i problemi grandi si affrontavano con il solito spirito, pacienza e sopportazione, sorrisi e carità.

La Napoli che poi in parte abbiamo ritrovato in quelli che sono venuti dopo e l’hanno presa in prestito, nel grande cinema di Troisi, ma anche in Luciano De Crescenzo, artisti che hanno raccontato con garbo e ironia un luogo forse diverso da quello degli anni sessanta, ma permeato dello stesso spirito, quel saper affrontare il vivere quotidiano e le difficoltà con il sorriso sulle labbra, ricorrendo a una battuta e all’allegria che da sempre contraddistingue questo popolo, incapace di stare troppo tempo fermo a riflettere sui propri guai.

E allora mi chiedo dove sia finita quella città che ci mostravano i suoi più grandi figli, dove è finita la vitalità che ci aiuta da sempre a tirare avanti, cosa ne è stato di quel modo sagace di raccontare Napoli che ci faceva credere che, in fondo, fosse un posto ricco di cose buone, che la vita stessa fosse piena di cose buone, qualcosa di semplice dove bastava una battuta a mettere a tacere i brutti pensieri. Dove è finita l’arte del buonumore tipica di queste parti, la forza di non prendere troppo sul serio la vita, perché tanto lei con te ci scherza senza nemmeno che tu te ne accorga. Dove si è nascosto quel riso velato di malinconia che trovavamo sui volti di Eduardo, di Totò e di Troisi, l’appocundria gentile che conosciamo così bene e che sappiamo tenere a bada in un solo modo, con ironia e accettazione, col chest’è. Dove sono quei volti disillusi e mai usurpati dall’esistenza, come lo sono, invece, gli sguardi che oggi la rappresentano.

Io non credo che Napoli sia cambiata molto da allora, anche in quegli anni era vittima delle stesse cose, della criminalità, della povertà dei vicoli, della maleducazione e della strafottenza, delle difficoltà di ognuno, del tirare a campare. È cambiato il modo di raccontarla, però, e con esso è cambiata la percezione che ne hanno le persone che non sono di qui. Questa città, che da sempre ha insegnato all’Italia a ridere, anzi a sorridere di sé e delle proprie sventure, da qualche anno sembra aver dimenticato l’allegria, la finta spensieratezza con la quale dissimulava i suoi occhi stanchi, sembra essersi, chissà per colpa di chi, volutamente sfilata di dosso i panni del commediante per farsi arcigna, nera e cattiva.

Oggi Napoli la si descrive soprattutto tramite Gomorra, con quelle facce violente che non possono rappresentare e identificare una metropoli talmente variegata. Oggi nessuno sembra aver voglia di tornare a parlarci di una città che sa farsi beffe di sé, nessuno più è capace di svelarci la piccola quotidianità di un luogo intriso di male e poesia che così bene raccontavano le generazioni passate. Oggi ci vogliono far credere che quella Napoli non esista più.

“Ma mi faccia il piacere,” avrebbe detto il nostro Principe.

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