Mio padre prima di me, mio figlio dopo di me

“La vita e l’assoluta mancanza di illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie,” scrisse Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone, lui che conosceva bene il valore della speranza.

Era il settembre dell’ottantasette, e faceva freddo. Già, ricordo che quella sera sugli spalti c’era un vento molto poco estivo. La sera di Napoli-Real Madrid, il Napoli di Maradona e Careca contro Butragueño e Valdano.

I sogni durarono poco meno di quarantacinque minuti, il tempo che El Buitre piazzasse la palla nell’angolino basso anticipando Garellik in versione bulldozer che gli si parava davanti. Eppure, per quasi quaranta minuti una città intera pensò che eravamo lì lì per farcela, solo un altro gol e avremmo agguantato gli spagnoli e poi, chissà, sarebbero arrivati i supplementari e i rigori, e forse li avremmo buttati fuori dalla loro Coppa, non dalla nostra, dato che era la prima volta che partecipavamo.

Invece sappiamo bene come andò a finire. Ma non è questo il punto, così come non lo è stato il risultato con il Real di un paio di anni fa, e nemmeno lo scudetto perso all’ultima giornata. No, non è questo il punto, non si tratta di scrivere sul Napoli o su una partita di calcio. Qui si tratta di parlare di quella strana cosa che Leopardi conosceva fin troppo bene e che a volte si serve anche del calcio, del pallone, come diciamo noi, per farci venire la pelle d’oca. Parlo sempre della speranza.

Cos’è la speranza? “Attesa fiduciosa, più o meno giustificata, di un evento gradito o favorevole.” Così dice il dizionario. Più o meno giustificata. Ecco, è questo il punto. Il punto è che a volte a noi napoletani prende una strana euforia, un’arteteca che altro non è che voglia d’alluccà, come avrebbe detto Pino Daniele, desiderio di credere fino in fondo che domani andrà meglio.

Lo stadio che si riempie a Fuorigrotta (una sera di fine estate dell’ottantasette o una di inizio marzo di trent’anni dopo) si fa simbolo di questa inquietudine positiva e per qualche ora accoglie nel suo ventre la città trasformata in embrione pronto a crescere, la voglia bambinesca di potercela fare, persone legate l’una all’altra da un sottile filo invisibile tirato su proprio grazie a quel sentimento così nobile e, soprattutto, tanto partenopeo: la speranza, non importa se più o meno giustificata.

“Quando un uomo ha la speranza, ha in mano tre quarti della matassa,” diceva quel genio di Bukowski. E aveva certamente ragione. È la speranza a muovere i nostri fili, la fiduciosa attesa di un evento positivo che migliorerà le cose. A Napoli sappiamo di cosa si parla, ci facciamo di speranza da secoli. Su quegli spalti di trent’anni fa a sperare in un secondo gol c’erano i nonni che ora non ci sono più, i padri che ora sono nonni e i bambini che oggi sono padri. E questo è un altro punto o, se vogliamo, ciò che mi preme ricordare, ciò che mi sorprende ogni volta, il fatto cioè che noi esseri umani (ma forse dovrei dire noi maschi) siamo proprio strani, spesso menefreghisti, ciechi e disillusi, ci trasformiamo per una semplice partita di calcio riuscendo a scorgervi quel briciolo di poesia che nella vita di tutti i giorni non sappiamo adocchiare. Già, poesia, e non è un termine inadatto o esagerato per l’occasione: come la vogliamo chiamare altrimenti quella voglia di crederci al di là di ogni giustificata ragione, il sapere che, anche se perdenti e delusi, tutta la speranza che abbiamo accumulato non andrà dispersa perché in realtà non si dissolve mai ed è come la genetica, passa insieme alla calvizie e a qualche strana allergia di padre in figlio?

La partita di Coppa con il Real, o il gol di Diawara con il Chievo all’ultimo secondo, non sono solo calcio, è un incontro fra migliaia di persone che nun se mettono paura di restare deluse, perché sanno che, pure se il Napoli dovesse perdere, grazie al coraggio e a una semplice partita di pallone, avranno passato un po’ dei loro sogni ai più piccoli, avranno insegnato ai figli a sperare.

Più o meno giustificatamente, non importa.

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