È un fatto di sentire

Per quasi quattro anni ho corso tre volte a settimana. Ho iniziato come tutti, perché avevo la pancetta da quarantenne annoiato, anche se quarantenne allora non lo ero.

I primi tempi è dura, sembra impossibile resistere, l’aria che ti manca nei polmoni, le gambe che ti fanno un male cane, il freddo, tutto sta lì a frapporsi fra te e il tuo unico obiettivo: dimagrire. Poi passano le settimane e ti rendi conto che dimagrire dimagrisci, ma c’è dell’altro, molto più di quel che pensavi: il fiato inizia a sorreggerti, le gambe cominciano a sfilare veloci, la pancia scende e, se ti alzi di colpo dal letto, non avverti più quella fastidiosa tachicardia. E allora ti svegli la domenica presto, quando le strade sono ancora deserte e le auto ricoperte di brina, e vai, in salita, con il cappellino di lana in testa, alla ricerca di uno spicchio di mare in lontananza, mentre il primo sole ti scalda le spalle.

Volare è ritenuto da tutti la massima sensazione di libertà possibile, e forse è così, non so, io soffro di vertigini e prendo l’aereo solo imbottito di tranquillanti, ma credo che la corsa, da questo punto di vista, sia molto sottovalutata. Se dovessi dire perché ho corso per quattro anni, e perché prima o poi tornerò a farlo, è proprio per provare quella sensazione di assoluta libertà che ti assale anche quando ti trovi su un marciapiede pieno di buche, a fare lo slalom fra i paletti, le auto e le pozzanghere.

È un fatto di “sentire” la corsa, come d’altronde la vita. Sentire il sole che nasce sulle tue spalle appunto, sentire la pelle che si punteggia di tanti piccoli rilievi quando sfili davanti al Vesuvio appena sveglio, sentire l’odore del mare che ti si infila nelle narici e ti scorta lungo via Caracciolo, sentire il corpo reagire a ogni passo, sentirlo tuo, colmo di energia, e poi sfiancato, liberato, sudato, stanco. Tutto questo altro non è che un modo, anche semplice a dire la verità, per nutrirsi di ciò che ci circonda, per sentire di essere vivi (nell’accezione più grande del significato), una cosa preziosa alla quale spesso non dedichiamo la meritata attenzione.

Mentre la domenica mattina correvo lungo via Manzoni, io mi sentivo vivo, nel bosco di Capodimonte mi sentivo vivo, sul lungomare mi sentivo vivo, e nello stadio Collana mi sentivo vivo. E come me, credo, tutti gli altri “pazzi” che giravano in tondo per un’ora sulla pista d’atletica, nonostante il vento gelido che ci sferzava il viso. Ci sono tanti modi, per fortuna, per abbandonarsi, per nutrirsi, per mettersi in ascolto e cercare, così, di dare un senso a questa piccola grande cosa meravigliosa e faticosa che è la vita, e la corsa (come ogni altra forma di sport) è uno di questi.

Con il Collana chiuso e in stato di abbandono non restano fermi al palo “solo” ottomila atleti, si vieta a tante persone di dedicarsi a questo nobile “sentire”, si contribuisce ad allargare quella pericolosa macchia d’olio che molti chiamano noia e che, invece, è qualcosa di più grande, più profondo, più grave, ed è la nostra incapacità di entrare in contatto con noi stessi o, almeno, di provare a farlo.

Non prendersi cura dello stadio Collana non è solo un atto di cattiva amministrazione, è un andare contro questa forza vitale, ostacolarla.

È uno sgambetto.

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