Cosa resterà di quegli anni ottanta
Luigi Necco non l’ho conosciuto di persona, ma è come se l’avessi fatto, perché il suo faccione sempre allegro fa parte della mia infanzia, il suo bel sorriso, i modi educati e la garbata ironia bucavano lo schermo ed entravano nelle nostre case.
La mia infanzia sono gli anni ottanta. Dicono non siano stati anni di spessore, di certo non hanno la valenza politica, letteraria, storica del decennio precedente, pervaso dai grandi cambiamenti, dalle rivoluzioni, gli anni di piombo, dove però fra tumulti e paure la voglia di rendere il mondo più giusto era dilagante. No, gli anni ottanta, forse proprio in risposta alla “pesantezza” precedente, sono stati anni di disimpegno, nei quali arriva nelle case la “piccola” televisione privata con i suoi varietà volgari e la comicità semplice, anni nei quali l’intrattenimento si fa sempre più intrattenimento, a danno delle idee e dell’istruzione. Gli anni, insomma, nei quali si gettano le basi per il medioevo culturale che oggi sembra aver raggiunto il suo apice.
Eppure, non credo sia tutto da buttare. Sarà che ero un bambino e il mio sguardo per forza di cose limitato e ingenuo mi fuorviava, ma io lo ricordo come un periodo romantico, pieno di cose belle, di speranza soprattutto, di allegria. E lo so che non è vero, non è possibile, l’allegria non è una cosa che se ne sta lì, immobile, ma è una specie di vento che un giorno spira e l’altro no, eppure la sensazione è quella di un’epoca serena un po’ per tutti. Si chiama nostalgia e spesso distorce le cose, ce le fa apparire migliori di come erano. Se guardiamo alla Napoli di allora, ci accorgiamo del disastro in cui versavamo: la camorra, divisa fra cutoliani e vecchi camorristi, faceva morti ammazzati ogni giorno, l’urbanistica non ne parliamo, piazza del Plebiscito era un parcheggio, non c’era la metro, se non al Vomero, per collegare piazza Vanvitelli a piazza Medaglie d’oro. C’erano ancora, però, le ideologie, c’erano i partiti, c’erano, soprattutto, alcuni grandi uomini politici. C’era la voglia di stare insieme. Gli ottanta sono stati l’ultimo decennio di vera condivisione, prima dell’uragano tecnologico che ha spazzato tutto; i ragazzini trascorrevano i pomeriggi sotto il palazzo a giocare a pallone, a Un-due-tre stella, a fare la Campana, a saltare e correre tutti insieme, senza distinzioni sociali, dalla mattina alla sera, per tornare a casa sporchi e spossati. E se guardiamo alle immagini di oggi, di questi nostri ragazzi stravaccati sui divani ognuno con il suo smartphone in mano, be’, c’è di che rammaricarsi, c’è da lasciarsi andare allo sconforto. Chi all’epoca pensava che quegli anni fossero il male, che la “superficialità” e il “pop” ci stessero portando alla deriva, non poteva immaginare certo che un domani li avrebbe addirittura rimpianti. Io, l’ho detto, ero piccolo, io li rimpiango per quello che mi hanno donato, per il Subbuteo e per il biliardino, per le figurine e il Super Santos, per Lupo Alberto e Quelli della notte, per i Doemi e Colpo Grosso, per la schedina e Maradona, che potevi guardare solo allo stadio, per Ciotti e Ameri, e per Novantesimo Minuto, dove c’era lui, il grande Necco, passato alla storia (nonostante la sua cultura spaziasse su molteplici argomenti e interessi) per quelle tre dita mostrate in diretta a segno di sfottò nei confronti di Milano, del Milan, che all’epoca non era solo una magnifica squadra, ma rappresentava già quello che sarebbe diventato poi il calcio, il business, la grande impresa, il potente Nord che con l’organizzazione, il lavoro e il denaro vince.
E ha vinto, di certo. Ha vinto quel Milan, ha vinto l’idea berlusconiana che tutto sia show, ha vinto la televisione di intrattenimento, la comicità fatta di slogan e poche idee, la volgarità, ha vinto la tecnologia sullo stare insieme.
“Cosa resterà degli anni ottanta?” cantava Raf. Per quel che mi riguarda, di sicuro il bel faccione sorridente di Luigi Necco, che con solo tre dita rimandò al mittente tutto questo.
Ciao Luigi, rubo l’idea a Maradona, il re incontrastato di quei nostri anni romantici, e ti saluto come facevi sempre tu, con un semplice gesto della mano.