Andateci cuonci con i botti
La mezzanotte del 31 dicembre a Napoli riporta con il pensiero alla Seconda guerra mondiale. Per la verità il bombardamento inizia alcuni minuti prima, perché il napoletano ha un preciso scopo da portare a termine: “mettersi a’ copp”, prevalere, cioè, sul vicinato nella fantomatica guerriglia urbana dei botti. In tal senso alcuni, nel tentativo di anticipare i rivali, salgono sui tetti verso le ventitré, così da liberare gli ordigni allo scoccare esatto del nuovo anno. Può accadere, però, che il fragile equilibrio si frantumi nel caso qualche furbetto anticipi il lancio della prima granata, e a quel punto la competizione ha inizio e tutti danno fuoco alle polveri, cosicché quando poi giunge l’ora prestabilita molti hanno già terminato di sparare. Molti, ma non tutti. C’è anche chi ha tanti di quei fuochi da poter andare avanti per giorni. E, infatti, alle due, mentre la città si riversa per le strade colme di mortaretti, qualcuno è ancora fuori su un balcone a sparare e semmai imprecare perché non può scendere: c’è da consumare l’intero arsenale.
Abbiamo imparato a essere prudenti quella notte, a guardare dove mettiamo i piedi, per non essere costretti a festeggiare all’ospedale. Che poi, io so bene cosa significhi finirci il primo dell’anno, perché una volta un amico si ferì lievemente al volto e fummo costretti a scendere sotto i bombardamenti. Il problema è che la sua auto si trovava a due isolati di distanza, ragion per cui dovemmo correre per cinquecento metri rasente i muri, con il giubbino sulla testa e la schiena curva, che se qualcuno avesse ripreso la scena l’avrebbe tranquillamente potuta rivendere ai media spacciandola per l’istantanea di un conflitto mediorientale. Arrivati all’auto, le complicazioni non erano finite poiché trovammo il blocco al volante. Ricordate quel disco rosso di ferro che pesava un quintale e occupava l’intero sedile di dietro e che per estrarlo occorrevano sette, otto minuti?
Bene, immaginate adesso cosa significhi provare a togliere quel coso infernale sotto un bombardamento.
Una volta risolto il problema, ci mettemmo finalmente in moto, ma non fu affatto facile, ricordo che dovevo guidare a zigzag per contrastare il fuoco nemico dai balconi. A un certo punto trovammo pure un cassonetto della spazzatura in mezzo alla carreggiata e per decidere a chi dei due toccasse spostarlo, facemmo una breve morra cinese. Beata incoscienza giovanile! Eravamo pronti a ripartire quando ci affiancò una coppia, lei urlava e lui aveva la mano avvolta in un panno da cucina inzuppato di sangue. Ci supplicarono di accompagnarli al pronto soccorso e li caricammo in auto. Trecento metri dopo ci imbattemmo in una madre che urlava in mezzo alla strada intimandoci l’alt mentre il figlio adolescente, con un braccio fasciato, si teneva in disparte. “Fatelo per carità cristiana,” disse la donna, e non potemmo che prendere anche loro con noi. Al terzo stop non avevamo più posti liberi, ma le vittime, due ragazzi della mia età, per fortuna riuscirono a saltare su un’altra macchina che, fra un soccorso e l’altro, tentava anch’essa di raggiungere il Cardarelli.
È che qui, si sa, ci sappiamo organizzare, abituati da sempre a far fronte alle tragedie.
Qui una cosa che proprio non manca è la solidarietà.
L’odissea, però, non era finita. Al pronto soccorso c’erano feriti ovunque e barelle in ogni angolo, un putiferio, con i dottori che non sapevano da dove iniziare. Al mio fianco un uomo di mezza età, con la camicia imbrattata di sangue scuro e raggrumato e una flebo in vena, si lamentava guardandosi il dito indice mezzo spappolato della mano destra alla quale già mancavano anulare e mignolo. Nonostante ciò, la moglie, in piedi al suo fianco, imprecava in dialetto stretto perché, a suo dire, per il secondo anno di seguito era costretta a trascorrere la notte di San Silvestro all’ospedale, e perché al marito non era bastato perdere due dita per imparare la lezione. In un biennio il genio ci aveva rimesso tre dita; ancora un capodanno e avrebbe fatto strike.
Insomma, non fu proprio una bella esperienza, sembrava di trovarsi in un ospedale da campo, e a distanza di tanto tempo ancora ricordo ogni dettaglio.
Il racconto, come forse avrete capito, l’ho un po’ enfatizzato, d’altronde inventare è il mio mestiere. Però la storiella dell’uomo che inseguiva meticolosamente lo strike è vera.
Ancora oggi mi chiedo se alla fine ci sia riuscito.