Ricomincio da te

Sono ventiquattro anni che è venuto a mancare Massimo Troisi, un quarto di secolo. Io avevo vent’anni, e ricordo che piansi davanti alla tv, come mai più mi è accaduto per un personaggio pubblico, come era accaduto invece ai miei per Berlinguer.

Altri tempi quelli, di idee forti che ti guidavano nella vita, di uomini capaci di farsi ascoltare, ammirare, seguire, rispettare, ricordare. Tempi in cui la politica era una cosa seria, sentita. Tempi per cui, a pensarci oggi, non si può non provare un’incredibile nostalgia, tristezza e soprattutto sconforto.

Quando morì Berlinguer avevo dieci anni, eppure ricordo il grande funerale, ricordo quei giorni vissuti in silenzio, rispettoso del lutto che si percepiva in famiglia, come se si trattasse proprio di uno di noi. Non capivo fino in fondo, ma osservavo il dolore negli occhi dei miei genitori, dolore che io vissi dieci anni dopo, quando morì Massimo.

Sì, lo chiamo con il nome di battesimo, come facciamo tutti noi napoletani, perché lo sento come uno di famiglia, un fratello maggiore o uno zio andato via troppo presto. Capisco che il raffronto con il leader del Partito comunista possa sembrare poco intonato, ma non è così, perché Massimo per la mia generazione è stato uno di quegli uomini lì, alla Berlinguer, capace di farsi ascoltare, seguire, ammirare, anche se ovviamente lui non parlava di ideologie e progetti, semplicemente raccontava la vita attraverso le piccole cose, regalandoci il suo sguardo, il suo stare al mondo “leggero”, con quel sorriso incerto e malinconico che subito ti conquistava e nel quale ti identificavi. Non aveva nulla da spiegare a nessuno, Massimo; nessuna verità da impartire, né sulla vita, né su questa città che vogliono sempre e per forza catalogare.

E allora immagino come si sarebbe trovato quest’anima bella e gentile in un mondo così diverso dal suo, in quest’era tecnologica. Come si sarebbe mosso all’interno di una società sempre più fomentata dall’odio, dal razzismo, dall’ignoranza, dall’urlo, dalla prevaricazione, lui che invece sussurrava le sue piccole verità, lui che mai si è dovuto servire di un grido per farsi ascoltare. Immagino la sua difficoltà ad avere a che fare con i social (lui schivo e timido), dove si vomitano giudizi sugli altri celandosi dietro a un monitor, dove tutti hanno un’opinione su tutto, dalle questioni politiche al calcio, persino sulla Costituzione nascono fior di esperti dalla sera alla mattina.

Lui che diceva di non credere in quelli che affermano di sapere ogni cosa si sarebbe sentito soffocare e, forse, si sarebbe anche arrabbiato. No, non era da Massimo arrabbiarsi o, quantomeno, non lo avrebbe dato a vedere, tutt’al più avrebbe trovato un modo garbato per analizzare e denunciare la deriva culturale di questo paese, deriva alla quale sembra non esserci fine né rimedio. Forse in qualche video girato con il telefonino (che sarebbe diventato virale) avrebbe demolito con una battuta delle sue la presunta onniscienza di questo popolo, ci avrebbe fatto ridere con qualche mitica osservazione su Salvini, lui che ebbe appena il tempo di divertirsi a prendere in giro la Lega.

In un’intervista forse ci avrebbe spiegato, con la sua pacata ironia, con il suo sguardo sempre assorto, che questa epoca che corre a mille all’ora faticava a capirla. In un nuovo film avrebbe puntato l’attenzione sulla questione dei migranti, sulla disumanità sempre più latente, chissà, oppure avrebbe continuato a raccontarci le piccole vite, le piccole cose, l’individuo, per raccontare la vita in generale. Avrebbe di certo proseguito a parlare di Napoli senza parlarne, senza metterla volutamente al centro, semplicemente offrendoci il suo sguardo, che era quello di un napoletano intelligente, sensibile, ironico, garbato, profondo, autentico, fragile.

Lo sguardo di un uomo da ammirare, da seguire, da rispettare, da ricordare.

Come (forse) non ce ne sono più.

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