Quel lungo istante dell’ottantasette
A Napoli c’è sempre chi guarda avanti e chi guarda indietro. Sono passati ormai trent’anni dalla vittoria del primo scudetto, e alcuni si sono stufati di celebrazioni e ricordi, vorrebbero trionfare di nuovo, pensare al presente. Altri, invece, desiderano dare il giusto valore ai ricordi. Io sono fra questi ultimi: forse perché per scrivere servono proprio dei ricordi, ho un rapporto quotidiano con loro. E fra di essi non può non esserci il 10 maggio dell’ottantasette, uno di quei giorni storici che ti segnano l’esistenza e si infiltrano sottopelle per divenire, negli anni, memoria, lo scrigno dove conserviamo le emozioni più importanti. E allora mi piace tirare fuori per una volta da questo scrigno impolverato il lungo istante dell’ottantasette, mi piace raccontare di quella giornata primaverile tinta di azzurro e di sorrisi, del soffio di speranza che usciva dalle case e si mischiava agli odori della mattina, alla moka e alle graffe.
Mio zio si caricò papà sulla Vespa per scendere giù fra i vicoli a fotografare i palazzi tinteggiati, le scale con disegnato il tricolore, i tombini azzurri, le bandiere che sventolavano a ogni balcone, le automobili con il tettuccio apribile dipinte del colore del cielo e già pronte ad accogliere famiglie intere, gli annunci funebri delle altre squadre che campeggiavano sui muri accanto alle frasi meravigliose, come quella famosa fuori al cimitero: “che ve site perso”.
Nacque un album, quel giorno, un album che riposa da trent’anni su uno scaffale insieme a tanti altri raccoglitori, perché allora le foto si stampavano e si attaccavano alla carta. E sì, quel 10 maggio le fotografie si incollavano, le Vespe si accendevano con una spinta, le telefonate si facevano dalla cabina con il gettone, le partite si ascoltavano alla radio, e i nostri nonni aspettavano uno scudetto da sessant’anni.
Difficile spiegare alle nuove generazioni l’emozione di quei giorni, difficile far capire loro quanto ci mancano i tempi nei quali scattare una foto era roba da appassionati e telefonare per strada era un atto di amore. Difficile trasmettere loro l’aria che si respirava fra i vicoli di una città che per una volta stava per prendersi una bella soddisfazione senza essere costretta a dire grazie a nessuno.
Guardai papà allontanarsi sulla Vespa e un po’ lo invidiai, lui che era adulto e poteva viversi fino in fondo il giro di giostra. E invidiai pure mio zio, che a nemmeno trent’anni poteva salire sulla stessa carrozza di mio padre. Tornarono all’ora di pranzo, con i rullini pieni e il serbatoio della Vespa vuoto, e io mi feci raccontare tutto. Del pomeriggio, dopo la partita, invece, non ho ricordi, non so dove vissi la festa, so però che negli anni successivi il calcio divenne un aggregatore, il nostro modo di festeggiare tutti insieme, un’occasione per abbracciare un po’ di più gli adulti, che ad abbracciare non sono mai bravi.
Perciò aspetto con trepidazione che arrivi finalmente questo benedetto terzo scudetto, per rivedere la città dipinta certo, per scendere di nuovo per strada, per tornare a scattare le foto dei vicoli, seppur con il cellulare. Per tornare, soprattutto, a uno di quegli abbracci istintivi e così veri che scaturiscono da un’esultanza, dalla gioia di un istante, quelli che ti portano fra le braccia di un padre troppo timido o di uno zio troppo distante.
Per permettere anche a mio figlio di godere di uno di questi abbracci.