Una forma di poesia

In quella famosa domenica di fine novembre dell’ottanta avevo sei anni. Alle diciannove e trentaquattro, quando la terra iniziò a tremare, mi trovavo cavalcioni su un triciclo a forma di ape che aveva le antenne che si libravano nell’aria, le ali di seta e un bel sorriso dipinto sul volto giallo. Ricordo che pensai di non sentirmi bene mentre la stanza mi ruotava attorno; d’altronde, chi aveva mai avuto a che fare con un terremoto. Eravamo a casa di amici e in televisione i grandi guardavano Paolo Valenti condurre Novantesimo minuto, in attesa di vedere finalmente i gol del Napoli.

Di calcio all’epoca mi occupavo poco, eppure quel faccione simpatico alla tv non lo dimentico perché, quando tutto iniziò a girare, mi voltai d’istinto proprio verso quell’uomo che stava parlando agli adulti, anche se il suo viso sparì dallo schermo l’attimo seguente, sostituito dalla classica matassa di puntini grigi e neri che compariva in assenza di segnale.

Ecco, io, di quel momento tragico, che per la precisione durò un’infinità, qualcosa come novanta secondi, non porto con me la stanza che girava, la paura di cadere dal triciclo o lo choc per le urla dei grandi, no, porto quella televisione che smette all’improvviso di parlare di calcio e di ricordarci che è domenica, una giornata di festa e serenità, porto il fruscio dello schermo, l’abbaio incessante di un cane che chissà da quanto si era accorto che la sua e le nostre vite stavano per cambiare, e lo stridio delle pareti che resistevano, mentre uno sbuffo di polvere cadeva dal soffitto.

E proprio mentre fissavo a bocca aperta l’intonaco venire giù, con le mani ancorate al manubrio della mia ape sorridente, arrivò mio padre, il quale mi afferrò per un braccio e mi tirò a sé, e poi arrivarono mamma e tutti gli altri. Dei successivi ottanta secondi non ho grandi ricordi, mi sembra che ci riparammo sotto una porta e restammo ad attendere che passasse, un’attesa infinita. Invece, per fortuna, anche gli attimi più terribili alla fine vanno via e in men che non si dica eravamo sul pianerottolo, insieme alle altre famiglie che urlavano mentre affrontavano le scale. Non ho mai più visto tanta gente correre, tutto il condominio era lì, a piangere e a fuggire. E giù fu ancora peggio: palazzi svuotati di colpo, persone in mutande, in pantofole, in pigiama, che singhiozzavano, urlavano, si guardavano attorno smarrite.

Ci riparammo su una scalinata e lì restammo per non so quanto. Faceva freddo e noi bambini non avevamo neanche il giubbino, perciò bastò uno sguardo delle madri affinché tutti i padri tornassero indietro, negli edifici instabili, a recuperare qualcosa di caldo con cui affrontare la lunga notte. Già, la lunga notte. La trascorremmo nella Cinquecento di mio zio, e non so chi ci fosse accanto a me oltre a mia madre. So che, passato il grande spavento, la cosa iniziò ad affascinarmi e a sembrarmi divertente. Trascorrere la notte in auto era divertente, guardare i grandi che accendevano il fuoco all’aperto era divertente, tutta quella gente per strada di notte era divertente.

In realtà, allora non potevo capirlo, non ero divertito, ero sedotto, incuriosito e affascinato dal comportamento strano degli adulti. Ognuno si prodigava per dare una mano, per aiutare gli altri, ognuno era pronto a fare la sua parte. Stavo imparando a conoscere la solidarietà, che è la caratteristica forse più nobile degli esseri umani.

Da quella notte, quando mi scopro impotente davanti alle immagini in tv di un nuovo paese distrutto, non guardo le macerie di una chiesa o la disperazione di un sopravvissuto in primo piano, bensì mi concentro sullo sfondo, dove c’è sempre qualcuno che si sta dando da fare per aiutare il prossimo, e così riassaporo l’antica sensazione di sicurezza provata quella sera, il convincimento che, con il sostegno degli altri, alla fine se ne viene fuori.

Solidarietà si chiama, ed è una forma di poesia.

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