Parte quarta
«Soltanto chi è devastato dall’amore sa cos’è l’amore…».
Rumi, Mathnavi, 109
Gloucestershire, Inghilterra
Eliza guardò il cielo immenso sopra la collina coperta di alberi alle spalle della casa di sua madre. La residenza di Anna Fraser era un edificio quadrato, circondato da muri a secco, situata all’angolo di uno stretto incrocio. Le pietre di arenaria chiara del Cotswold brillavano come burro alla luce del tardo pomeriggio. Lo sguardo di Eliza percorse la strada alberata che conduceva ai piedi della vallata, dove si trovava la casa di James Langton. Era una zona verde e amena, anche se lo stesso Brook Park, cupo con le sue torrette, aveva visto giorni migliori. Eliza riusciva a intravedere la cima della torre dell’orologio alzarsi sopra le stalle, ma la casa in sé era nascosta alla vista da filari di abeti scuri.
Diede un’ultima occhiata al cielo, prese la sua borsa, trovò la chiave di scorta nascosta sotto una pietra ai piedi del cespuglio di ortensie, ed entrò dalla porta posteriore.
All’interno la casa era immersa nel silenzio.
Andò in cucina, dove il lavello era pieno di piatti sporchi; le pentole incrostate erano rimaste sui fornelli e il cestino della spazzatura traboccava. Chissà se sua madre si trovava lì o era ancora in ospedale? Controllò il salotto e lo trovò completamente sottosopra. Forse Anna era dovuta correre in ospedale e non era riuscita a sistemare la casa? Eliza iniziò a rassettare, pensando di prenotare poi un taxi per farsi portare in ospedale, quando udì una flebile voce.
«Salve, chi è là?».
Sua madre doveva essere al piano di sopra. Non sapendo in quali condizioni l’avrebbe trovata, Eliza salì le scale con cautela e bussò piano alla porta della camera da letto. Era leggermente socchiusa; la aprì ed entrò nella stanza, fredda e buia.
Riuscì a intravedere sua madre sdraiata nel letto, completamente vestita ma molto pallida. «Sono tornata ieri dall’ospedale», le disse con voce flebile.
Eliza le si avvicinò e le prese una mano. «Cosa dicono i medici?»
«Oh, lo sai come sono. Dicono un sacco di cose».
Accarezzò la mano di Anna e si accorse che lei tremava, poi le disse a bassa voce: «Mamma, non lo so. Devi dirmelo tu».
«Sono tanto stanca, tesoro, tanto stanca. Chiama il dottore. Saprà spiegarti. Parleremo poi». La voce di Anna era inconsistente, proprio come lei. Chiuse gli occhi ed Eliza sistemò delicatamente la mano della madre lungo il fianco. Anna era come intrappolata nel suo fragile corpo, Eliza comprese che non avrebbe potuto raggiungerla. Aprì la finestra, poi tornò al pianterreno e trovò il numero di telefono del medico di famiglia sulla rubrica posata sul tavolo della sala.
Si chiese se Anna fosse al corrente del suo stato, e chiamò subito il dottore. Una volta conclusa la telefonata, si sedette sul pavimento, con la testa tra le mani.
Il dottore le aveva spiegato che all’ospedale avevano scoperto un cancro incurabile, non c’era più niente che i medici potessero fare. L’ictus era stato il male minore; era il cancro che la stava lentamente uccidendo. Spero bene che tu resterai a casa con lei, le aveva detto. Avremmo voluto che rimanesse in ospedale, ma lei ha insistito per tornare a casa. Non le rimane molto da vivere.
Il giorno dopo, mentre Anna dormiva, Eliza cercò di distrarsi passeggiando. Mentre camminava, pensò a sua madre e a Jay, sperando che si ristabilisse completamente. La perdita di entrambi sarebbe stata troppo da sopportare.
Seguì la strada, accanto alla boscaglia tagliata per arginarne la crescita, e notò che le colline, le valli e i tumuli della campagna inglese del Cotswold erano nella loro stagione migliore e brillavano di mille sfumature di verde. Sui pianori, su piccoli prati erbosi, le pecore pascolavano e, sopra di lei, il cielo, con le sue sfumature di blu, grigio e bianco, scintillava al sole quando l’umidità veniva catturata dalla luce. Raggiunse i boschi in cima alla collina dietro la casa, dove gli alti alberi si stagliavano contro l’orizzonte come soldati. Si intrufolò nella piccola selva e discese il lieve pendio, dall’altro lato, fino al bosco di campanule dove da bambina andava a rotolarsi e a sdraiarsi nel mare di fiori blu, sotto un baldacchino di ramoscelli verdi, e dove, presto, si sarebbe diffuso il profumo dell’aglio selvatico. Camminò fino a sentire le gambe e i piedi doloranti, poi si sedette su un tronco a immaginare il proprio futuro con Clifford. Avrebbe voluto affinare ancora l’arte della fotografia, facendo molto di più. Voleva dare voce a chi voce non aveva. Ecco il punto. Ricordò come la fotocamera le facesse dimenticare ogni altra cosa. Decise che avrebbe raggiunto l’altro lato di Cleeve Hill e che avrebbe scattato qualche foto, oppure avrebbe seguito la strada che scendeva fino a Winchcombe, coperta da alberi scuri; in alternativa, sarebbe anche potuta tornare al tumulo della tomba a camera neolitica di Belas Knap, che tanto amava fin dall’infanzia.
Camminò tutto il giorno, per schiarirsi la mente; alla luce del sole, le difficoltà sembravano più gestibili.
Maggio cedette il passo a giugno e, con suo grande sollievo, Eliza comprese che Anna aveva smesso di bere e sembrava essersi ripresa abbastanza da potersi sedere in giardino. Un giorno, mentre sedevano alla brezza leggera che giustificava i loro cardigan, Eliza chiese a sua madre della degenza all’ospedale.
Anna rise. «È stata piacevole».
L’aveva detto con leggerezza, come se si fosse trattato di una gita a Weston-super-Mare. Eliza decise di indagare più a fondo e sfiorò la manica di sua madre come a dirle: “Dài, mamma, parla con me”.
«Ti hanno fatto smettere di bere, no?»
«Credo di sì. Non ho bevuto nemmeno un goccio da quando sono tornata a casa».
Avrei voluto che fosse accaduto prima, pensò Eliza, nel silenzio che seguì. A ogni modo, sua madre era più vigile e attenta, e c’era ancora speranza.
«Sono contenta che tu stia meglio, davvero».
«Mi sono sentita sola. Tanto sola».
«Sono qui adesso».
Non si dissero altro, ma Eliza guardò sua madre, che era così fragile, e si sentì triste.
Nonostante Eliza si preoccupasse moltissimo per la malattia della madre, l’occupazione preferita di Anna divenne quella di starsene seduta con sua figlia a ricordare i vecchi tempi.
«Ti ricordi che belli i nostri primi tempi a Delhi?», le chiese Anna un pomeriggio, quando già si allungavano le ombre della sera.
Eliza ci pensò su. Ricordava le scimmiette che si arrampicavano sui muri del giardini, scuotendo gli alberi, fino a raggiungere la loro cucina per rubare il cibo. Le piacevano le scimmiette.
«E il giardino?», le chiese Anna. «Con tutti quei fiori variopinti?»
«Sì. Me lo ricordo».
Eliza guardò sua madre e vide che stava piangendo.
«Era bello, mamma, era bello stare in India. Ti ricordi tutti i negozi di Chandni Chowk?».
Anna sorrise. «Vendevano di tutto».
«Già. Olio di serpente, diceva papà».
«Sì, diceva così».
Le giornate trascorrevano tranquille ma, di notte, la mancanza di Jay disturbava il riposo di Eliza. I suoi brevi sonni erano interrotti da incubi di esplosioni in cui rivedeva Jay coperto di polvere nera dalla testa ai piedi, a volte morto, a volte vivo. Di notte, Eliza scriveva lettere. Poteva fare soltanto quello per non svegliare sua madre; scriveva un’infinità di lettere a Jay, che poi puntualmente al mattino strappava e gettava nella vecchia stufa a legna. Quando sua madre si lamentava dell’odore, le diceva: «Oh, è soltanto la stufa, sta invecchiando». Doveva fare qualcosa per sfogare il suo dolore, trovare una via di fuga per la mente, ma le domande continuavano a tormentarla, assillanti. Cosa le sarebbe accaduto sposando Clifford? E se non fosse riuscita a smettere di ritrarsi?
Eliza sentiva un’oppressione sul petto, che non accennava a diminuire.
Ma le dolci colline del Gloucestershire erano belle, come sempre in quel periodo dell’anno, con i cespugli e le siepi che esplodevano di boccioli, e con tutti quegli alberi freschi e rigogliosi. Il cielo azzurro le dava conforto, così come l’aria dolce e il tepore del sole, tanto diversi dal calore ustionante e dall’aria secca e bruciante del Rajputana. Quando sua madre dormiva, Eliza si ripeteva che sarebbe migliorata e che non aveva importanza quanto tempo sarebbe dovuta rimanere con Anna.
Passavano i giorni, noiosi e indistinguibili, e le parole di Jay si ripetevano nella sua testa. Ti amo, Eliza. Doveva smettere di pensare a lui. Doveva dedicarsi alla fotografia, sarebbe guarita, sarebbe stata al sicuro dietro la lente della sua macchina fotografica. Avrebbe guardato il mondo con occhi nuovi, senza pensare al passato. Proprio come quando era bambina, decise che il dolore andava trattenuto, controllato; anche se non avrebbe mai più assaporato la vera felicità, le sarebbero rimasti per sempre i suoi ricordi.
Anna non mangiava quasi nulla, ma quando Eliza le chiese di accompagnarla a fare una delle sue passeggiate, Anna rilanciò e suggerì di organizzare un picnic. Lasciarono la casa passando per un cancello del piccolo giardino sul retro e percorsero un sentiero di ciottoli che costeggiava i frutteti di James Langston. Da bambina, uno dei passatempi preferiti di Eliza era arrampicarsi sui nodosi alberi di melo e sedersi tra i rami a mangiare la frutta che rubava. Le dava un piacere segreto e inconfessabile, ma aveva dovuto smettere perché James l’aveva sorpresa e le aveva ordinato di scendere immediatamente. Non approvava che i bambini salissero sui suoi preziosi meli. Col cuore che le martellava in petto, Eliza era scesa dall’albero troppo in fretta; anche se l’aveva fatto mille altre volte, aveva messo il piede in fallo ed era caduta. Non si era rotta niente, si era presa solo una brutta distorsione alla caviglia e le era toccato ascoltare una serie di ramanzine su ciò che capitava alle bambine cattive che si arrampicavano sugli alberi.
Dopo qualche centinaio di metri, le due donne si spinsero nel frutteto ed Eliza stese una vecchia coperta di tartan a terra per far sedere Anna; dopodiché, aprì il cestino da picnic.
«Quando l’hai comprato?», chiese a sua madre.
«Ce l’ho da tanti anni».
«Non l’abbiamo mai usato?»
«Soltanto una volta».
«Be’, almeno lo stiamo usando ora». Eliza ingoiò l’ansia al pensiero che quella sarebbe potuta essere l’ultima volta. Poi si ricordò dell’altro picnic, quello con James Langton. Rivolse lo sguardo al cielo dove gli uccellini pigri svolazzavano da un ramo all’altro. Il mondo sembrava essersi fermato. Si sfilò lentamente il cardigan. «Fa caldo, non è vero?», disse.
Sua madre aveva la testa china.
«Mamma?».
Anna alzò gli occhi. «Mi dispiace».
«Per cosa, mamma?».
Agitò la mano. «Non so. Per i picnic che non abbiamo fatto. Per tutto».
«Sono sopravvissuta lo stesso».
Anna sorrise, come se avesse pensato d’un tratto a una cosa bella e volesse condividerla con sua figlia.
«Arrampicati su un albero. Vai, arrampicati!». La guardò eccitata. «Lì, sali su quello lì».
Deliziata dall’improvvisa gioia di sua madre, Eliza si alzò in piedi. «Davvero?».
Anna annuì.
«Non sono sicura di riuscirci ancora», disse Eliza misurando l’altezza da cui sarebbe potuta cadere.
«Non ho mai capito dove ti sbucciassi sempre le ginocchia».
«Finché James non mi ha trovato sull’albero?».
Anna annuì.
«Va bene. Andiamo».
Eliza trovò agilmente un punto d’appoggio e in pochi istanti si sollevò tra i rami del suo albero preferito. Si assicurò che fossero abbastanza resistenti da sopportare il suo peso da adulta, si arrampicò e rimase seduta con le gambe ciondoloni. La risata di sua madre la raggiunse dal basso.
«Di solito, quando mi sedevo qui, cantavo sempre», ricordò Eliza.
«E cosa cantavi?»
«Canzoncine da bambini». E intonò I do like to be beside the seaside; poco dopo sua madre si unì a lei: cantarono a squarciagola e, una volta finito, scoppiarono a ridere; poi Anna gemette.
«Tutto bene?», le chiese Eliza scivolando indietro tra i rami.
Anna annuì.
«Cos’è successo con lui?»
«Con James?».
Anna si ricompose e guardò Eliza come a ponderare quanto rivelare alla figlia. «Se n’è andato con la nuova moglie».
«Va bene. Non roviniamo questa bella giornata pensando a lui. Mangiamo».
Sua madre batté le mani. «Spero che tu abbia portato la birra allo zenzero. La adoro».
«Non lo sapevo».
«Ci sono tante cose che non sai. Tante, tante cose».
Eliza era serena. Nei due giorni che seguirono i rapporti tra lei e sua madre procedettero allo stesso modo, con Anna felice come non l’aveva mai vista prima. Non smetteva mai di parlare, come se avesse aperto un rubinetto che prima era intasato.
Poi arrivò il postino. Anna non riceveva mai molta posta. Non era arrivato nulla da quando era tornata a casa, ma Eliza riconobbe subito il francobollo indiano, non appena l’uomo le porse la lettera. Si era chiesta se Clifford le avrebbe scritto, viveva nel terrore di ricevere notizie da parte sua. Per il momento era lontano dai suoi occhi, e lontano dal suo cuore. Poteva solo sperare che la lettera contenesse notizie di Jay.
Udì la voce acuta di sua madre.
«C’è posta per me?».
La busta, in effetti, era indirizzata ad Anna, quindi Eliza gliela consegnò quando sua madre la raggiunse all’ingresso. Per un secondo, aveva pensato di aprirla e di dire di non essersi accorta subito che fosse per lei. Anna prese la lettera e salì in camera da letto, lasciando Eliza molto perplessa. Non aveva riconosciuto la calligrafia, ma Eliza era certa che fosse da parte di Clifford.
Chi altro era a conoscenza dell’indirizzo di sua madre? E comunque, perché aveva scritto ad Anna e non a lei?
Sua madre non tornò al piano inferiore, quindi lei decise di fare pulizia nella vecchia mansarda, dove Anna aveva immagazzinato cumuli di ciarpame nel corso degli anni. Non badò alla polvere e al profumo di sandalo, che non gli era mai sembrato così pungente. Pensava che gli odori dell’infanzia fossero più intensi, come i colori, che sembravano sempre più brillanti, e invece il profumo era più forte di quando da piccola, nei lunghi e solitari pomeriggi estivi, si arrampicava sulle scale per andare a nascondersi sotto un telone, mentre sua madre usciva per andare a ubriacarsi. In quei pomeriggi, Eliza si alzava in punta di piedi e andava a guardare fuori dal piccolo abbaino. I campi davanti alla casa sembravano enormi, popolati da robusti braccianti con le schiene chine, intenti a raschiare la terra.
Li guardò di nuovo – erano piccoli lotti rettangolari ora – poi spostò dei rotoli di carta da parati e alcune scatole. In fondo alla stanza, un vecchio baule foderato di pelle era stato spinto contro la parete. Aveva delle borchie di metallo ed era chiuso al centro da due cinghie di tela. Si accovacciò per slacciare le fibbie, fece scattare la chiave nella serratura e sollevò il coperchio, che era più leggero di quel che sembrava.
Non sapeva cosa aspettarsi, forse pensava di trovare il baule pieno; invece, restò stupita nel vedere soltanto una boccetta di olio al sandalo. Aveva trovato l’origine del profumo. All’interno del baule c’era anche una valigia. La tirò fuori e prese la boccetta per annusarla. L’aroma, misto al ricordo dell’odore della pelle di Jay, sembrò diffondersi attorno a lei come se lui fosse lì presente. Si affrettò a riporre la boccetta. Si era detta che avrebbe dovuto ricominciare a vivere, che avrebbe superato la perdita di Jay per imparare a vivere di nuovo, che tutto ciò sarebbe finito, ma non poteva cancellare i propri sentimenti tanto facilmente. Finché fosse rimasta con sua madre, non avrebbe dovuto pensare all’imminente matrimonio. E anche se aveva provato con tutta se stessa a non pensare a Jay, quando si rese conto che quel frammento di India era sempre vissuto con loro, nel baule, per tutti quegli anni, non poté fare a meno di credere ancora una volta che una mano invisibile la riportava sempre indietro, proprio in India. Doveva esserci una ragione, le cose non accadevano per caso.
Sulla parte anteriore delle valigia era attaccata un’etichetta per i bagagli, con un disegno a linee granulose di un palazzo importante, e un nome sopra: Imperial Hotel, Delhi. Dentro la valigia era stato riposto qualcosa di rettangolare, avvolto in carta bianca e poi legato con lo spago. Eliza sciolse il nodo, strappò la carta e tirò fuori la fotografia sbiadita e macchiata di due persone con un bambino piccolo, all’interno di una cornice. La girò e lesse il nome di uno studio fotografico a Delhi.
Più tardi scese alla camera di Anna, perché voleva chiederle chi fossero le persone della foto.
Tuttavia, il suo cuore sprofondò quando aprì la porta: la stanza puzzava di gin. Eliza corse da Anna, le scansò con una carezza i capelli spessi e scuri dalla fronte bagnata – capelli tanto diversi dai suoi – e fu sopraffatta da una tristezza insopportabile. Non riusciva più a giudicare sua madre, provava per lei soltanto una grande pena. Si guardò attorno per vedere che fine avesse fatto la lettera, pensando che Anna fosse rimasta sconvolta da qualcosa che aveva letto in quella missiva. Ben presto la trovò, nel cestino della carta straccia, strappata in due.
Eliza la ricompose alla meglio e lesse che Clifford informava Anna del loro fidanzamento. Aveva sperato di trovarvi notizie dell’esplosione a Delhi; non che Clifford avesse piacere a raccontare ad Anna quello che era accaduto a Jay, ma avrebbe potuto almeno scrivere se le sue stampe e le sue lastre erano intatte oppure no.
A pomeriggio inoltrato, Eliza pensò di preparare qualcosa per cena, poi sentì un respiro simile a un sibilo.
«Stai per partire». Era un’affermazione, non una domanda, detta con voce piena di sconforto.
«Non ancora, mamma, non…». Sua madre la interruppe. «Te ne vai sempre. Sai fare solo questo».
«E invece tu sai soltanto bere gin. Perché? Perché ora? Pensavo che fossi più felice».
Restò in attesa di una risposta, ma Anna sbuffò e distolse lo sguardo.
«Mamma?»
«Non sono felice da quando avevi cinque anni».
«Ma non è colpa mia», commentò Eliza, temendo che sua madre riprendesse con tutte le sue vecchie recriminazioni.
«Hai letto la lettera?».
Eliza annuì. «Ti avrei detto io stessa del matrimonio».
Anna strinse le labbra prima di rispondere. «E invece vengo a saperlo da Clifford».
«Mi dispiace, davvero», e porse la mano a sua madre. Ma quando Anna non la afferrò, la lasciò cadere.
Anna tossì debolmente, poi prese a parlare. «Avevi solo cinque anni quando ho scoperto che cosa faceva tuo padre».
«Parli del gioco d’azzardo?»
«Della sgualdrina».
«Hai scritto che c’era di più, nella tua lettera. Cos’altro, mamma?».
Anna scosse la testa e chiuse gli occhi. Non lì riaprì, sembrava essersi addormentata.
Il buio era sceso e faceva più freddo, perciò Eliza prese un’altra coperta, gliela avvolse intorno e scese al pianterreno.
Due giorni dopo, Anna non si era ancora ripresa a sufficienza per riuscire a scendere le scale. Eliza si prese cura di lei e la notte lasciava aperte le porte delle camere da letto in caso sua madre avesse avuto bisogno. Fu proprio una notte che la sentì chiamare il suo nome. S’infilò rapidamente la vestaglia e corse da lei.
Accese la lampada sul comodino giusto in tempo per vedere Anna agitare il capo, un movimento lento e triste.
«Ho un piccolo conto in un ufficio postale a Cheltenham. Una piccola somma, ma è tua».
«Non ti preoccupare, mamma».
Eliza aveva la gola secca come gesso mentre guardava sua madre aprire gli occhi e poi richiuderli. Mormorava, ma era impossibile comprendere ciò che diceva. Eliza ripensò a tutte le volte che sua madre aveva bevuto. Respirò profondamente; quella era una cosa diversa. La camera era immersa nel silenzio più totale, con l’eccezione del respiro affaticato di Anna. Tacevano entrambe. Poi Anna sospirò, inarcò le sopracciglia e agitò le mani.
«Posso fare qualcosa, mamma?».
Anna fece un sorriso sghembo e, quando riuscì a parlare, la sua voce era sottilissima, più aria che suono. Eliza cercò di darle conforto, ma sua madre la fissava, con gli occhi pieni di lacrime.
«Ho sbagliato».
«Per favore, non agitarti. Che importanza ha?»
«Ha importanza». Tacque e pianse.
Eliza non capiva, e non era troppo certa di cosa dire.
Anna si asciugò le lacrime e le accarezzò la mano, poi prese a tossire e non riuscì ad aggiungere nulla per qualche minuto. Quando finalmente fu in grado di parlare, i suoi occhi erano feroci, il suo volto era cambiato. Eliza tremò, riconoscendo l’antica rabbia di Anna, che, però, durò un attimo soltanto, prima di essere nuovamente sostituita dallo sguardo vacuo e dalla pelle sottile. Sarebbe stato difficile ricordarla diversamente.
Anna le afferrò la mano e tentò di sorridere, ma i suoi occhi erano arrossati e acquosi. «Per favore. Per me è troppo tardi, ma se tu…».
Nel silenzio che seguì, Eliza cercò di capire cosa intendesse dire sua madre.
Anna riprese a tossire, perciò la figlia le avvicinò un bicchiere d’acqua alle labbra. Lei bevve un sorso, poi emise un suono strano, più simile a quello di un animale terrorizzato, quindi riprese a parlare. «Puoi sistemare le cose».
«Non capisco».
Anna fece un bel respiro, cercò di non tossire, e poi disse velocemente, con urgenza: «Voglio che trovi tua sorella».
Eliza rimase a bocca aperta. Sua sorella? Non aveva una sorella. Erano sempre state loro due, sole, per quanto potesse ricordare. Di certo sua madre non poteva essere seria. Guardò Anna, che si era addormentata; il suo respiro era molto debole. Rimase con lei ancora qualche minuto e poi scese al piano inferiore.
Più tardi Eliza prese la boccetta di olio profumato dalla soffitta, per rinfrescare la stanza, ma l’odore della malattia riempiva l’aria.
Sua madre riconobbe il profumo e scoppiò in lacrime, quindi Eliza lo ripose dove l’aveva trovato, dove non avrebbe più sconvolto nessuno.
Cercò di sapere di più su questa sorella di cui aveva parlato, ma Anna sembrava aver dimenticato tutto, perciò Eliza non poté far altro che guardare la madre che la fissava senza riconoscerla. Poi all’improvviso, in uno sprazzo di lucidità le sussurrò: «La tua sorellastra. L’ho trovata a casa, una volta, piccola e sporca».
Poi si allontanò sempre più, mentre Eliza rimaneva seduta accanto a lei, tenendole la mano, a osservare la sua mamma spegnersi.
Senza alcun segnale particolare, il cuore di Anna smise di pulsare nel momento in cui Eliza si stava preparando una tazza di tè. Aveva appena sessant’anni. Eliza soffocò un singhiozzo e strinse la sua mano. Tra le lacrime cantò a sua madre, morta, una delle sue canzoni preferite. Poi pianse come non aveva mai pianto prima. Era troppo tardi, e non c’era modo di tornare indietro.
India, luglio
Armata di quell’unica, piccola fotografia trovata in soffitta, Eliza tornò in India. Era stata via poco più di due mesi, ma le sembrava passata una vita. La casa non apparteneva a Anna, perciò, una volta registrato l’atto di morte e svolto il solitario funerale, Eliza non aveva più ragioni per restare lì.
Per cominciare tornò all’Imperial di Delhi e cercò di rintracciare lo studio in cui era stata scattata la fotografia. Sfortunatamente erano trascorsi troppi anni, perciò si chiese se avrebbe mai scoperto se sua madre le avesse detto la verità sulla sua sorellastra o se stesse semplicemente delirando.
L’unica cosa che le sembrava convincente era che l’uomo ritratto somigliava a suo padre, anche se non era affatto come se lo ricordava lei.
Dopo essere stata a Calcutta e Delhi, viaggiò fino a Juraipore, dove trovò Clifford ad attenderla alla stazione. Gli chiese notizie dell’esplosione di Delhi e le fu risposto che Jay si era rimesso completamente. Eliza gli fu grata per le buone notizie e lo ringraziò per la sua gentilezza.
Il caldo era insopportabile e Clifford era passato da un leggero rossore al rosso scarlatto, e a lei dispiacque un po’ per lui. Gli aveva promesso che avrebbe cercato di amarlo, ma seppe all’istante che non sarebbe mai stato possibile. Prima di accompagnarla da Julian e Dottie, le spiegò che le sue fotografie non erano andate perdute nell’esplosione, ma che gli erano già state rispedite, con l’eccezione di un lotto, prima che il palazzo fosse distrutto. Eliza tirò un sospiro di sollievo, ma quando lui la baciò, cercò di opporsi al pensiero di una maggiore intimità con lui. I profumi del Rajputana l’aiutavano a dimenticare il dolore per la morte di Anna; sapeva che cosa doveva fare, eppure non riusciva a impedire a una crescente disperazione di impossessarsi di lei.
I primi giorni nella casa del medico trascorsero tra cocktail tra amici, pomeriggi a sorseggiare il tè e partite serali di bridge. Faceva troppo caldo per uscire, ed Eliza ebbe l’illusione che le cose andassero bene, anche se sapeva che le fondamenta della sua vita si erano lentamente sgretolate. Ben presto quasi dimenticò l’odore della nebbia e dell’umidità inglese e si abbandonò all’aria secca del deserto.
Una mattina si svegliò, calda e febbricitante, in preda agli incubi, con la visione di se stessa chiusa in una palla di fuoco, circondata da una gabbia in fiamme. Iniziò a piangere, e la moglie del medico corse da lei. Dottie era materna, anche se non aveva figli. Si prendeva cura di suo marito, e ora anche di Eliza. Era gentile, ma Eliza avrebbe voluto tapparsi le orecchie con le mani e gridarle di lasciarla in pace. Non sarebbe stato giusto, perché Dottie era sempre stata amorevole, ma lei voleva annegare sola nel suo dolore e non essere consolata. Anche se Dottie fece del suo meglio per convincerla a vestirsi e a scendere al pianterreno, Eliza si voltò verso il muro, consumata da una rabbia silenziosa.
Poco più tardi udì passi pesanti provenire dal corridoio e qualcuno bussò alla sua porta. Avrebbe voluto che fosse Jay e, per un folle momento, sperando che si trattasse di lui, si alzò dal letto. Quando entrò Clifford, vi si accasciò di nuovo e si rifiutò di guardarlo.
«Avanti, tesoro», le disse, «sono felice che tu sia tornata a casa, ma non devi fare così».
Eliza non rispose. Non mosse un muscolo.
«Il viceré verrà a trovarci la prossima settimana. Voglio vederti in splendida forma».
Lei si voltò verso di lui e aprì gli occhi. «Non sono un dannato cavallo, Clifford».
Riconobbe l’esasperazione negli occhi di Clifford, ma non poté farci nulla. Chissà se lui sapeva qualcosa di sua sorella. Quando sollevò l’argomento, tuttavia, Clifford impallidì e disse che Anna stava delirando. Non era rimasto nessun altro a cui chiedere, quindi Eliza lasciò perdere. Oppose qualche resistenza ai suoi baci umidicci e per fortuna lui non si aspettò molto di più; però, se Eliza pensava a quello a cui andava incontro, si sentiva male. Ogni volta che lui le chiedeva di fissare la data delle nozze, lei trovava una scusa. Troppo vicina alla morte di sua madre. Troppo caldo. Troppo vicina alla fine dell’anno.
Quando non pensava al dolore lancinante della separazione da Jay, pensava a sua madre, schiacciata dalla vita, una donna distrutta. Fu colta da una tristezza insopportabile e si chiese se sua madre fosse mai stata felice. Aveva mai provato quella luce interiore che è la gioia? Era stato David Fraser a spegnerla? Lei stessa era rimasta abbagliata da suo padre, e non aveva mai conosciuto a fondo sua madre?
Una sorellastra?
Quelle parole le tornavano spesso in mente e la lasciavano con un senso di inquietudine. Passò un giorno, poi un altro. Una mattina Eliza andò in bagno, si appoggiò al lavabo e si guardò allo specchio. Vide la sua pelle cinerea e i capelli assottigliati, i cambiamenti in lei non segnavano un miglioramento. Fece un bagno e si riprese un po’.
La camera da letto era stata schermata con pesanti tende, Dottie l’aveva lasciata così perché una volta Eliza le aveva detto che la luce le feriva gli occhi.
Fu proprio Dottie a entrare nella camera con una scatola tra le mani. «Ecco, Eliza», le disse. «Questo è per te. Ma prima devo aprire le tende. Qui dentro si soffoca e tu hai bisogno di luce e aria».
Eliza guardò l’unica lama di luce che filtrava tra le tende; la ferì come un coltello, perciò si affrettò a voltarsi dall’altra parte.
«Non m’importa», replicò Dottie. «Voltati se vuoi, ma io devo areare questa stanza».
Eliza udì il rumore delle tende che venivano aperte e vide la luce che inondava la camera.
Dottie le si avvicinò. «Ti sei lavata i capelli».
«Sì».
«Mi pare un buon inizio». Accarezzò la mano di Eliza. «Apriamo la scatola».
Si accomodarono su un piccolo divano a due posti davanti alla finestra che dava sul giardino. «Da parte di Clifford», le spiegò Dottie con voce neutra.
Eliza aprì la scatola, poi la custodia di pelle, e con sua grande sorpresa trovò un nuovo modello di Leica C, Schraubgewinde, completa di lenti e obiettivi, con tanto di telemetro separato che poteva essere montato sopra la fotocamera.
«Non è tanto premuroso?», domandò Dottie. «Avresti potuto trovare uomini molto peggiori di Clifford».
Eliza sgranò gli occhi e sentì un brivido di eccitazione. Una macchina fotografica nuova avrebbe potuto fare la differenza. «Ma costa un occhio della testa! Non posso crederci».
«So che non lo ami», riprese Dottie, «ma di certo questo dimostra quanto lui tenga a te».
«Come fai a sapere che non lo amo?»
«Mia cara, me l’hai raccontato tu, ricordi? E comunque ti si legge negli occhi. Ci sono passata anch’io, a modo mio».
Sorpresa da una confessione tanto intima, Eliza fissò l’amica.
«Non guardarmi a quel modo», disse Dottie. «Era un umile militare dell’esercito britannico, senza incarico, un londinese, totalmente inadatto a me… Ma io lo amavo».
«Io non ti giudico. E come potrei?»
«In genere non parlo a nessuno di queste cose, quindi confido che tu non lo dica in giro, ma il fatto è che sono rimasta incinta. La vergogna stava distruggendo mia madre, perciò ho accettato di sposare Julian».
«E il bambino?», chiese Eliza, titubante.
«Ho avuto un aborto spontaneo».
«Mi dispiace tanto». Ci fu un momento di silenzio. «Non ne hai mai avuti altri?»
«Non provare pietà per me. A lungo mi sono sentita morta dentro, ma io e Julian siamo felici, e io lo amo sinceramente».
«Scusa se sono impertinente, ma perché non avete figli?»
«Perché purtroppo Julian non può averne».
«Lo sapevi quando l’hai sposato?».
Dottie scosse il capo, e gli occhi le si riempirono di lacrime.
Eliza pose un braccio attorno alle spalle dell’amica. «Sai, quando ero in Inghilterra, mia madre ha farfugliato qualcosa a proposito di una mia sorellastra».
«Davvero? Hai idea di chi sia?»
«No. Non so nemmeno se sia vero».
«Ebbene», disse Dottie. «Lascia che sia io tua sorella».
Erano ancora sedute in quella posizione, commosse, quando Clifford entrò.
«Buon Dio, Dottie. Spero che Eliza non ti abbia contagiato con questa malattia del pianto», esclamò.
Eliza finse di ridere, mentre Dottie si asciugò le lacrime con le mani.
«Non essere ridicolo, Clifford», replicò Eliza. «Non c’è niente che non vada in Dottie».
«Allora? Ti piace la fotocamera?».
Eliza si alzò e gli andò incontro.
«La adoro. La volevo esattamente di questa marca e di questo modello. Ti ringrazio».
E Clifford, soddisfatto, le diede un pizzicotto sulla guancia.
Una macchina fotografica era tutto ciò di cui Eliza aveva bisogno. Scattò foto al bel giardino di Dottie, a Dottie stessa, e supplicò Clifford di mandarle un servo che la accompagnasse in città a esplorare la parte antica. Lì ritrasse volti, fiori, cibo, ogni cosa. Credette di intravedere Indi, ma quando la ragazza in questione si voltò, Eliza si accorse che non era lei; tuttavia, l’episodio la rese ancor più determinata a recarsi di nuovo alla reggia per riprendersi le attrezzature.
Un pomeriggio Eliza vagò senza scopo, finché non si sedette su una panca nel giardino di Dottie inondato di sole, domandandosi come poter comunicare a Clifford che doveva andare al palazzo per organizzare il recupero delle sue cose. Fu allora che Clifford le si avvicinò, con un ampio sorriso sul viso, ed Eliza si pentì di non aver scelto una delle sedie di vimini. L’uomo si sedette accanto a lei sulla panca, ma non disse una parola.
Eliza lo guardò per qualche secondo, immobile, con le mani intrecciate in grembo, cercando di non cedere alla tentazione di scostarsi da lui.
«Allora», gli disse. «Che succede? È chiaro che vuoi dirmi qualcosa».
«Sì, è vero», rispose lui, guardandola negli occhi. «Il fatto è, ragazza mia, che mi sono portato avanti e ho fissato la data delle nozze».
«Oh», esclamò lei, guardandosi i piedi e lisciandosi le pieghe della gonna. Cercava qualcos’altro da dire, ma la sua mente era vuota.
«Non mi sembri entusiasta, pensavo che saresti stata contenta».
Eliza ricacciò indietro le lacrime e respirò, lentamente e a fondo. Clifford sapeva perfettamente che lei stava rimandando e, se così non fosse stato, si sarebbe rivelato ancora più insensibile di quanto Eliza aveva creduto in precedenza. Ricordava di aver pensato, una volta, che fosse un uomo gentile. Quanto si era sbagliata.
Clifford stava ancora aspettando una risposta, quindi Eliza sollevò il viso, ma non lo guardò, nella sua mente era impressa intensamente e dolorosamente l’immagine di Jay. L’attrazione non poteva essere spiegata semplicemente con la ragione: Jay non era solo bello e intelligente, ma anche sensibile; era sempre molto attento, come se qualunque cosa lei dicesse fosse di estremo interesse per lui.
«Quando?», gli chiese infine.
«Ottobre, sarà più fresco. Non come adesso, con questo dannato caldo».
«Dove?»
«Qui, a Juraipore».
No, non qui. Non proprio sotto gli occhi di Jay! Combatté per nascondere l’orrore ma, quando si accorse che si stava torcendo le mani in grembo, cercò di darsi un tono.
«Così presto?»
«Non siamo più tanto giovani, e se vogliamo avere dei bambini… be’, prima iniziamo e meglio è».
Clifford arrossì ed Eliza finse di non essersene accorta, socchiudendo gli occhi. Era luglio. Aveva soltanto tre mesi a disposizione. A quel pensiero, l’immagine di Jay divenne ancora più prepotente.
«Speravo di poter fare la fotografa più a lungo. Prima di avere figli, voglio dire», disse calma, come se fosse una cosa normalissima da obiettare.
«Eliza, hai trent’anni. Non possiamo davvero aspettare ancora. Quindi no, temo di no».
Eliza sgranò gli occhi. «Ma io volevo scattare fotografie al mondo intero! Almeno Parigi o Londra».
Clifford le afferrò una mano. «Non mi stai ascoltando, ho detto di no. Sarai una moglie e una madre, e sarai estremamente capace. Ti assicuro che sarai molto occupata». Le diede una pacca sulla mano e la lasciò andare. «Meglio che la fotografia resti un hobby, come si conviene a una ragazza».
Eliza si alzò in piedi e lo guardò negli occhi, trafiggendolo con uno sguardo d’acciaio. «Se devo sposarti, Clifford, sia ben chiara una cosa. Tu non deciderai cosa devo o non devo fare. E domani io vado al palazzo a riprendermi le mie attrezzature. Spero che mi farai avere una macchina, o preferisci che ci vada a dorso di cammello, con un carretto a rimorchio? Sono arrivata qui a quel modo, dopotutto».
Dopodiché si allontanò, udì Clifford fare qualche passo dietro di lei, ma quando si girò, lui aveva già preso un’altra direzione e stava lasciando il giardino.
Incontrò Chatur in fondo al lungo sentiero che conduceva al cancello principale, e tutti i discorsi che Eliza si era preparata le sfuggirono di mente. Fece un passo verso di lei, agitando in aria dei fogli di carta fotografica annerita, del tipo che aveva sempre usato lei per le sue lastre.
Eliza si accigliò. «Cosa sono? Perché sono tutti neri?».
Lui le mostrò le dita annerite e le passò i fogli di carta.
Li annusò. «Perché sono stati bruciati?».
Chatur si finse addolorato. «Sono desolato. C’è stato un incendio».
Sentiva sì l’odore del fuoco, ma ancor di più quello della menzogna e dell’inganno. «Non ci credo», rispose lei. «Dove?»
«La camera oscura è andata in fiamme, come anche la sua camera da letto».
«Vuol dire come tutti i miei abiti e la mia attrezzatura?», chiese Eliza con voce aspra e dura. Si sentiva come se l’avessero presa a pugni.
«Tutto bruciato, ridotto in cenere». Chatur scosse il capo. «Che peccato».
Eliza ridusse gli occhi a fessure, inclinando la testa per fargli capire che dubitava fortemente di lui, poi si asciugò il sudore dalla fronte, in preda allo sconforto.
«E quando sarebbe accaduto?».
Ancora una volta, Chatur si finse desolato. «Soltanto ieri sera, e pensare che lei è arrivata proprio stamattina. Sfortunatamente è troppo tardi. Che peccato».
Non avrebbe guadagnato nulla da ulteriori discussioni con lui, e qualcosa in quegli occhi freddi e calcolatori la convinse a tacere. Incapace di trovare una risposta adeguata, Eliza strinse la mascella. Guardò l’imponente palazzo, poi voltò le spalle a Chatur, saltò in macchina e se ne andò senza salutare.
Tornata a casa di Dottie, tutta la sua spavalderia era svanita. Sembrava che, ogni volta che riusciva a risalire le pareti del suo pozzo della disperazione, qualcuno la spingesse di nuovo giù. Chiuse gli occhi, pensando alle profondità di un vero e proprio pozzo. Nel Rajputana i pozzi e le spaccature scure del terreno erano stati usati per suicidi e omicidi, e probabilmente si usavano ancora per quello scopo.
Quel pensiero fu sufficiente per scuoterla dal momento di panico, ma si sentiva impotente. Senza la sua attrezzatura e i suoi abiti, tutto ciò che le rimaneva erano i resti dell’eredità di Oliver, i mensili che aveva conservato e il piccolo libretto di risparmio che sua madre le aveva lasciato all’ufficio postale di Cheltenham. Non le rimaneva una fortuna, insomma.
Era tanto infuriata e frustrata che corse dritto alla sua camera, a casa di Dottie. Rabbiosa, senza sapere come sfogarsi, si gettò sul letto e prese a pugni il cuscino, desiderando che fosse Chatur. Dottie doveva averla sentita, perché entrò e si sedette accanto al letto. Eliza si voltò e l’altra la guardò con un sorriso incoraggiante, poi le chiese cosa fosse accaduto. Eliza si sfogò con lei. «Quei bastardi hanno distrutto la mia attrezzatura».
«Chi?»
«Chatur e i suoi, al palazzo. Hanno bruciato tutto. All’inizio non volevo crederci, ma questo è esattamente il genere di cose che fanno di solito. O perlomeno, che di solito fa Chatur. Solo non capisco come sapessero che sarei andata alla reggia proprio oggi».
«Mia cara, forse Clifford ha telefonato per avvisare che saresti andata. Sai… probabilmente voleva esserti d’aiuto. In ogni caso, le attrezzature puoi sempre ricomprarle, no?».
Eliza scosse il capo. «Anche i miei vestiti sono bruciati. Ho soltanto queste poche cose», e indicò l’armadio.
Dottie assunse un’espressione complice. «Non disperare. Alzati e seguimi».
Eliza era perplessa, ma fece quello che le chiedeva. Le due donne lasciarono la camera da letto di Eliza e raggiunsero una stanza angusta, sul retro della casa.
«Cosa c’è qui?», chiese Eliza, guardandosi attorno.
«Gli abiti che sono in questa stanza non mi entrano più. Sono troppo piccoli per me. Ho messo su qualche chilo negli ultimi anni. Un vero peccato, perché alcuni di questi vestiti sono davvero deliziosi. Provane quanti ne vuoi e prendi pure tutti quelli che ti stanno bene».
«Ne sei sicura?»
«Credo che sarà impossibile per me tornare a essere tanto magra. Molti di questi abiti non sono vecchi, perciò non li troverai fuori moda».
«Siamo più o meno alte uguale, no?», constatò Eliza.
«Forse sono un po’ più alta, ma possiamo farli sistemare, se occorre».
Dopo un’ora Eliza era sudata ma felice; aveva trovato tre camicette, due gonne e due vestiti. Purtroppo Dottie non aveva pantaloni, ma quelli avrebbe potuto trovarli al bazar. Dottie le promise che una cameriera sarebbe andata con lei al mercato e avrebbe finto che gli abiti fossero per lei, per tenere il prezzo basso. E così fu. Dopo due ore nella giungla del bazar, sebbene il caldo fosse insopportabile, Eliza pensò di aver trovato tutto ciò che le occorreva.
Anche se le strade puzzavano di pesce e di fogna, si divertì e, quando tornarono da Dottie a fine giornata, il cielo brillava di rosa, poco prima che il sole scomparisse del tutto.
Eliza e Dottie erano assorbite nella riorganizzazione della biblioteca di casa quando udirono bussare alla porta d’ingresso. Era ancora molto presto, ma già un piccolo ventilatore agitava l’aria e faceva danzare i granelli di polvere sotto i raggi del sole. Anche a quell’ora, il caldo era insopportabile e Dottie le aveva spiegato che, proprio poco prima delle piogge, diventavano tutti irritabili per l’afa che non dava tregua.
«Vado io», disse Dottie, asciugandosi le mani sul grembiule, che poi si sfilò e nascose dietro un cuscino.
Eliza inarcò le sopracciglia.
Dottie le sorrise. «Be’, non si sa mai».
Mentre Dottie andava all’ingresso, Eliza guardò il gigantesco albero di pipal fuori dalla finestra, in giardino. Avrebbe voluto sedersi sotto la sua ombra, ma sapeva che persino quella le avrebbe dato ben poco sollievo, perché l’aria era così asciutta che l’umidità traspirava dal corpo.
Poco dopo, Dottie tornò, portando con sé una piccola busta bianca. «È per te», le disse, porgendogliela. «Viene dalla reggia».
Eliza la prese e la fissò, disorientata e inquieta.
«Non la apri?», chiese Dottie con aria inquisitoria.
«Io… Sì, certo. È solo che…».
«Cosa?»
«Probabilmente sono soltanto una sciocca». Strappò la busta e ne estrasse un singolo foglio di carta. Mentre leggeva la missiva, le sue gambe iniziarono a tremare. Si sedette bruscamente e rilesse tutto daccapo, ma non riusciva ancora a crederci.
«Brutte notizie?», domandò Dottie curiosa.
«Non ne sono sicura».
«Dimmi».
Eliza esitò, in dubbio se rivelarle il contenuto della lettera. Dopo una breve riflessione, decise di parlare. Non avrebbe ottenuto niente mentendo a Dottie. «Jay vuole vedermi. È accampato da qualche parte».
Dottie impallidì e si sedette vicino a Eliza. «Pensi che sia una buona idea?».
Eliza scosse il capo.
«Cosa dice precisamente?».
Passò la lettera a Dottie, che la lesse e poi esclamò: «Che presuntuoso! Pensa che tu possa abbandonare tutto per lui!».
Eliza annuì. «Non posso andare».
«No».
Tacquero. Dottie fu la prima a ritrovare la voce. Guardò l’amica e le fece un mezzo sorriso. «Ma non puoi non andare, non è vero?».
Eliza chinò il capo, troppo confusa per riuscire a rispondere.
«Quindi?», disse Dottie. «Da quel che scrive qui…». Indicò la lettera, poi la restituì a Eliza.
«Hai soltanto un’ora. Poi la macchina verrà a prenderti».
«Non posso andare, Clifford si infurierà».
«Sì».
«Anche tu mi odieresti. Tutti mi odiereste».
«Io non potrei mai odiarti. Sei la prima vera amica che abbia avuto qui nel Rajputana. Ero così contenta di poterti avere come vicina di casa… Ma ti capisco, sai. Ti ho vista con Clifford: respingi i suoi approcci, anche se fai di tutto per non darlo a vedere».
Eliza si vergognò, ma era vero che persino la voce di Clifford le dava sui nervi. Si morse l’interno della guancia prima di rispondere. «E se vado laggiù e Jay non mi vuole più?»
«È un rischio che devi correre. Dovresti andare, ma se decidi di tornare, devi lasciare per sempre Jay. Irrevocabilmente. Non voglio essere scortese, ma devi prendere una decisione e rispettarla».
Eliza si alzò insieme a Dottie, e si abbracciarono.
«Sei stata davvero gentile con me, Dottie».
Dottie sorrise. «Ci sarò sempre. Nel frattempo dirò a Clifford che ti sei presa una piccola pausa, che sei fuori con una mia amica».
Mentre il sole saliva sempre più alto nel cielo, Eliza si stava preparando per andare da Jay. Non sapeva cosa sarebbe accaduto, ma non andare sarebbe stato come rinnegare se stessa. Durante il viaggio, il pensiero di lui le bruciò la mente, lasciandola inquieta e spaventata; il desiderio di rivederlo, tuttavia, non riusciva a vincere la paura che lui non la volesse più e che non si presentasse all’appuntamento.
Abbassò il finestrino e un mendicante le sorrise, così gli lanciò qualche rupia, pensando che fosse di buon auspicio. Rise di se stessa. Stava già diventando una selvaggia, come avrebbero detto gli inglesi? Se così era, non le importava. Era libera, sentiva il sangue fluire nelle vene. Splendido, sarò una selvaggia elettrizzata, emozionata, ecco cosa sarò, sussurrava, e le parole le rimbalzarono nella testa fino a diventare vertigine.
L’ansia e la preoccupazione continuarono a tormentarla durante tutta la strada. Superarono una carovana di cammelli in uscita da un villaggio. Più lontano, vide dei contadini e dei ragazzini che tiravano avanti i loro buoi. L’autista passò attraverso villaggi di capanne di fango con tetti di paglia, e i dubbi la attanagliarono. Eliza schiacciò una zanzara che le ronzava attorno al viso e si sentì la fronte bollente. Troppo bollente. Ma cosa aveva in mente? Jay aveva schioccato le dita e lei era corsa da lui. Sentì un’altra voce nella sua testa: quella di sua madre, che la rimproverava e la ammoniva di non essere tanto stupida. Ma la sua non era una semplice ramanzina, era molto, molto peggio, e affondava le sue radici in quei giorni tristi in cui le madri dovevano essere trattate con cautela e i padri non tornavano più.
La sua mente era infestata dalle ombre, ma quando un refolo di vento le soffiò in faccia la polvere, Eliza si risvegliò. Voleva la luce del sole, e voleva stare con Jay, vedere il mondo con lui.
Voleva anche emulare la donna che aveva incontrato alla mostra a Parigi, che era riuscita a diventare una fotografa; anche se aveva messo in conto che un giorno magari si sarebbe risposata, Eliza sentiva che non aveva fatto abbastanza per raggiungere il suo obiettivo. Non sapeva ancora come e quando, ma sapeva che prima o poi sarebbe dovuta tornare alla reggia a recuperare il suo equipaggiamento, per verificare l’entità dei danni subiti. Qualunque cosa fosse accaduta con Jay, avrebbe ancora potuto organizzare un’esposizione all’Hotel Imperial, anche se avrebbe dovuto ridimensionarla e fare tutto da sola.
Il calore, opprimente e continuo, non dava tregua, eppure Eliza sorrideva. Il primo segnale del fatto che erano quasi giunti a destinazione fu un pennacchio di fumo caliginoso che se ne stava immobile nel cielo azzurro. Scacciò via uno sciame di mosche, poi sentì nell’aria l’odore del carbone ardente e il profumo dolce e allettante della carne arrostita al fuoco.
Quando l’accampamento si presentò finalmente alla vista, avvertì i primi veri segnali di preoccupazione: il cuore le batteva all’impazzata e le sudavano le mani. La bellezza semplice e rarefatta del deserto la incantava, ma a catturarla fu un’imponente tenda a righe rosse e argentate, circondata da una dozzina di fiaccole accese. Jay aveva fatto tutto questo per lei oppure si accampava sempre così? Era lei la protagonista di quella scenografia, oppure no?
Si guardò attorno alla ricerca di Jay, ma tutto ciò che vide fu un grande stormo di uccelli che si alzavano in volo sopra la tenda. Per Eliza fu un momento di estrema delusione. Forse Jay stava per arrivare, pensò, mentre l’autista l’aiutava a scendere e portava la sua borsa dentro la tenda.
«Aspetti», lo richiamò. «La porterò dentro da sola».
«La sua stanza è sulla destra», replicò l’uomo.
Ne fu sorpresa. Non aveva idea che le tende potessero avere più di una camera ma, in effetti, quella era davvero immensa.
Il lembo della tenda era fissato in modo da rimanere aperto, perciò Eliza scansò solo le tendine di mussola leggera e si ritrovò in un piccolo vestibolo. Pensa un po’, si disse, una tenda con l’ingresso! Poi spostò una tenda più pesante, sulla destra, ed entrò in quella che doveva essere la sua stanza. L’interno era tutto foderato da drappi di seta color rubino, raccolti in cima proprio come in un classico tendone da circo. Ma fu il letto a catturare la sua attenzione: la testata era dipinta d’oro, mentre il copriletto e i cuscini erano d’argento. Petali di rosa erano stati sparsi ovunque sul letto e sul pavimento, dove c’era il più bel kilim di lana intrecciata che avesse mai visto in vita sua.
C’erano anche una chaise longue, una poltrona, un tavolino e una toletta.
Si sedette sul letto, stupita, ma anche sconcertata. La stanza era profumata, c’erano bruciatori di olio negli angoli, e riconobbe l’aroma dolce dell’essenza di rosa e di arancio. Era tutto incredibile. Ripensò al semplice picnic con sua madre, avrebbe voluto che Anna vedesse tutto quello splendore. Tuttavia, seduta sul bordo del letto, tremava visibilmente. Perché mai Jay l’aveva fatta andare lì? E se la lettera non fosse stata scritta da lui?
Udì un fruscio e alzò lo sguardo. Jay entrò nella stanza, silenzioso e senza sorridere. Il pensiero delle sue mani che correvano fluide sul suo corpo si accese nella sua mente, e si sentì ancora più agitata. Ma lui sembrava distante come il sole di mezzo inverno in Inghilterra, perciò Eliza sbatté le palpebre per non cedere al pianto. Cosa stava pensando? Perché non parlava?
«Ti sei ripreso dall’esplosione?», gli chiese, nervosa.
Lui inarcò le sopracciglia.
«Voglio dire, ho saputo che ti sei ripreso. È stata una bomba?».
Jay si accigliò. «Quindi dobbiamo parlare di bombe, non è vero? E poi magari parleremo del tempo?».
Eliza strinse le labbra, incapace di comprendere il senso del suo leggero sarcasmo, poi deglutì a fatica e lo guardò negli occhi. C’era stato un momento in cui avrebbe dato la vita per poter rivolgere un solo sguardo a quegli occhi color ambra e alle sue lunghe ciglia; ora non poteva sottrarvisi.
«Eliza, perché sei andata via? Ho dovuto sapere dove fossi da mia cognata».
«Te l’ha detto Priya?»
«Non perde mai occasione di mettersi in mostra, o di far sapere a tutti che ha accesso a informazioni riservate. Ma ho provato a contattarti».
«Mi dispiace».
«Non mi importa che ti dispiaccia. Devi dirmi perché».
Lei sospirò profondamente, avrebbe voluto rivelargli del suo accordo con Clifford. Avrebbe voluto dirgli: “L’ho fatto perché ti amo, l’ho fatto per te”.
Faceva molto caldo, quindi si asciugò il sudore dalla fronte. «Sposerò Clifford a ottobre», disse, ma non ebbe il coraggio di osservare la reazione di Jay.
Lui fece qualche passo verso di lei ed Eliza riuscì a sentire il profumo di sandalo sulla sua pelle. Era fin troppo evocativo per lei. Tuttavia, quando Jay parlò, lo fece con rabbia. «Non significo niente per te? La nostra storia non vale di più? Dannazione, Eliza, come puoi farlo?».
Eliza detestava sprecare quei preziosi momenti da trascorrere insieme a lui, eppure rimanendo in silenzio a tormentarsi, era proprio ciò che stava facendo.
«Molto bene», riprese Jay. «Tornerò domani e farò in modo di farti tornare dal tuo promesso sposo».
Glielo disse quasi urlando, scagliandole contro le sue dure parole.
«Nel frattempo c’è qui un’ancella che ti aiuterà».
Detto questo, si allontanò.
Eliza si sdraiò sul letto e si accorse che il soffitto della tenda era punteggiato di stelle d’argento. Rotolò sul ventre e lasciò che le lacrime scendessero. Qual era il suo problema? Era arrivata fin lì perché lo amava, ed era riuscita solamente ad allontanarlo. La verità era che, se non avesse sciolto il fidanzamento con Clifford, non sarebbe mai stata una donna libera; sebbene non fosse molto legata alle convenzioni, non era una donna sconsiderata e insensibile. Come sarebbe andata a finire con Jay? Pianse ancora. Disse a se stessa di essere stata fortunata per averlo conosciuto; seppure per poco tempo, perlomeno era stato nella sua vita e lei avrebbe saputo fare tesoro del suo ricordo. Anche se non poteva stare con lui, almeno aveva conosciuto il vero amore, cosa che a molti altri non era capitata; eppure, a pensarci bene, lo conosceva veramente? Chi era lui? E se fosse stata tutta un’illusione? Forse la risposta non aveva importanza. In fin dei conti, finché avesse potuto ricordare la sua voce profonda e fumosa, Jay sarebbe stato parte di lei. Era l’unico uomo che avesse mai amato, a parte suo padre, e per David Fraser riusciva a provare un amore ancora immenso, a prescindere da ciò che aveva fatto. Non avrebbe mai dimenticato l’amore imperfetto e selvaggio di Jay, tantomeno il batticuore provocatole dalla sua vicinanza. Non ne avrebbe mai parlato, non si sarebbe mai giustificata, e avrebbe imparato a vivere anche senza di lui.
Quando venne l’ancella, Eliza riconobbe subito Kiri.
«Signora». La donna fece il tradizionale saluto a mani giunte.
«Kiri, sono felice di rivederti», disse Eliza angosciata.
Kiri si avvicinò e si inginocchiò accanto al letto. «Mi dia le sue mani, memsahib».
«Oh, per favore, non chiamarmi così».
«Come dovrei chiamarla?»
«Eliza».
La donna le sorrise. «Non posso. Posso chiamarla signora?».
Eliza sorrise involontariamente. «Andrà benissimo».
«Lasci che io le faccia un bagno e le lavi capelli. Si sentirà meglio».
«Dove?».
Kiri si alzò e indicò uno dei drappi che avvolgevano la stanza. «Faremo un bel bagno. Venga».
Eliza seguì Kiri in un un bagno con una spaziosa vasca di metallo, una toilette di terracotta e un tappeto sul pavimento. Su un tavolino erano già pronti dei soffici cuscini e gli asciugamani.
«Ci faremo belle».
«Non sono sicura che la cosa possa aiutarmi ora, ma sono esausta e un bel bagno sarà piacevole».
«Signora, da quando è andata via, al palazzo si sta malissimo. E il principe è, come dite voi, un leone in gabbia».
Eliza si rendeva conto di essere in imbarazzo, e tuttavia le chiese: «Cosa credi che provi lui per me?».
Kiri rise. «Non lo sa?».
Eliza scosse la testa.
«Se qualcuno osava fare il suo nome, lui lasciava la stanza. Sua madre voleva costringerlo a sposare una principessa di una terra lontana e lui l’ha aggredita. È sufficiente guardarlo in faccia, signora, per capire che cosa provi».
Mentre Kiri la insaponava e le massaggiava la pelle con l’olio, Eliza chiuse gli occhi. Poi, dopo averle tolto dai capelli la terra del deserto, Kiri uscì dal bagno e tornò con un abito di seta verdeazzurro che s’intonava perfettamente con gli occhi di Eliza, e con un paio di pantofoline ricamate. Quindi le indicò un angolo sul lato opposto della stanza.
«Devo andare lì, Kiri?»
«Sì, signora, ma non posso seguirla». La donna abbassò gli occhi.
Eliza fece un passo avanti. Avrebbe dovuto aspettarselo, ma in effetti fu solo allora che comprese che Jay non era affatto andato via, ma che la stava aspettando dall’altra parte della tenda. Si fermò e lanciò un’altra occhiata a Kiri, che, però, non alzò lo sguardo.
Eliza spostò il drappo e, pian piano, entrò nella stanza di Jay, che era foderata di seta blu notte decorata con fili di rame, ma, in un primo momento, non lo vide. Sul pavimento c’era un tappeto di un blu più chiaro e fu guardando a terra che notò i piedi di Jay. Si trovava in piedi, accanto a un alto guardaroba. Quando i suoi occhi si abituarono all’oscurità delle candele e delle lampade a olio, Eliza lo vide avanzare verso di lei.
«È il tramonto», le disse. «Posso accendere più lampade, se vuoi».
Lei scosse il capo. «Ci vedo».
Si guardarono, in silenzio. Poi Jay si avvicinò di più e lei gli permise di prenderla per mano e di condurla sul letto coperto di cuscini.
«Stiamo solo seduti, va bene?», le chiese con voce rotta dall’emozione.
Il letto era basso, e nessuno dei due parlò mentre si aggiustavano i cuscini. Nonostante la sua dignità, Eliza percepiva un’enorme tristezza in Jay, che serviva soltanto a amplificare la sua.
Si sistemarono semisupini sul letto, e lui le prese la mano.
«Non te ne sei andato?», le chiese Eliza.
Silenzio.
«Jay?».
Lui sospirò e poi si voltò verso di lei. «Guardami, Eliza».
Si spostò per poterlo guardare meglio. Il dolore nei suoi occhi la atterrì, e si sentì prossima alle lacrime.
Mentre si guardavano, lui le sorrise. «Dimmi la verità, cuore mio. Perché?»
«Clifford?».
Jay annuì senza parlare, ma l’intensità del suo sguardo la spinse a confessare tutto quanto. Si rese conto che non era in grado di mentire a Jay e che con lui poteva essere davvero se stessa.
«Ha promesso di liberarti senza ulteriori conseguenze, garantendo la tua completa immunità da indagini future».
«Se tu avessi accettato di sposarlo?».
Eliza annuì. «In sua difesa devo dire che è stata un’idea di tua madre. Ma, per favore, non essere arrabbiato con lei», aggiunse, quando vide che irrigidiva la mascella. «L’ha fatto per proteggerti, Jay».
«Molto bene. Se è questo che credi sia accaduto, parliamo di qualcos’altro. Ho visto Devdan, il quale ha ammesso di essere stato avvicinato da Chatur, che gli ha chiesto di aiutarlo a incastrarmi per la storia degli opuscoli».
«Perché Dev avrebbe acconsentito?»
«Aveva i suoi motivi».
«Per esempio?»
«Eliza, non posso rivelarlo».
Lei si strinse nelle spalle. «Non ti senti tradito?»
«Credo che Dev si sia trovato in una posizione difficile», ammise con un sorriso amaro. «Nonostante gli sia stato fornito un incentivo irresistibile. Chatur gli ha promesso una macchina da scrivere e la patente».
«Oh, mio Dio!».
«Dietro a tutto questo c’è sempre stato Chatur. Erano mesi che voleva farmi fuori, quindi ha manipolato Dev».
Eliza si sentì male. «Sapevo che Chatur era astuto. Ma Dev?»
«Non lo so, davvero. Finora è stato sempre un buon amico. Abbiamo parlato».
«Come puoi essere tanto cieco? È capace di qualsiasi cosa».
«Suo padre lo era, non Dev».
«Cosa ha fatto suo padre?».
Jay scosse il capo. «Tutto ciò che posso dirti è che qualunque cosa abbia fatto, non è stata positiva».
«Che cosa succederà a Chatur?»
«Anish sta valutando cosa fare».
«Tutto qui?», chiese incredula.
«Per il momento sì. Ora voglio che tu riposi, mangi e dormi, e che possibilmente riesca a far chiarezza nella tua mente».
C’era qualcos’altro che preoccupava Eliza.
«Sai che finché sono fidanzata non possiamo dormire insieme?».
Jay si portò un dito alle labbra. «Non dire niente. Stiamo qui, sdraiati insieme, solo fino all’ora di cena».
Nei due giorni che seguirono il caldo fu insopportabile e devastante; Jay ed Eliza parlavano finché non faceva troppo caldo, poi si sdraiavano vicini, fianco a fianco, indolenti ma senza toccarsi; Jay si metteva supino, con le braccia dietro la testa, e lei rannicchiata su un fianco. Le ore si confondevano, soffocate da sentimenti che non avevano un nome e per i quali non esistevano parole.
«Che cosa stiamo facendo?», gli chiese Eliza, dopo una pausa di silenzio.
Jay la guardò per qualche istante. «Stiamo insieme. Hai bisogno di altro?»
«È tutto così diverso. Non lo so».
«Hai bisogno di dargli una definizione?»
«Non so nemmeno questo».
E Jay le disse che il progetto dell’irrigazione era quasi terminato e che l’aveva lasciato nelle mani di Dev, il quale si era davvero mostrato pentito. Eliza era molto preoccupata per l’apparente redenzione di Dev, ma quando lo comunicò a Jay, lui le assicurò che Dev non avrebbe fatto nulla a danno del progetto. Le disse anche che l’esplosione a cui aveva assistito a Delhi era stata causata da una vecchia lampada a olio che aveva preso fuoco e incendiato dei reagenti chimici malamente conservati; quindi, dopotutto, l’episodio non si era rivelato un attacco terroristico. A Eliza fece piacere saperlo; sarebbe stato davvero troppo assistere all’esplosione di due bombe, entrambe scoppiate a Delhi, la seconda una penosa eco della prima.
Dormivano separati, ognuno nella propria parte della tenda, ma la seconda notte, quando Eliza sentì i suoi passi, fu una vera tortura non andare da lui. Durante la calda immobilità della notte, Eliza rimase ferma nella sua decisione e sopportò il desiderio straziante. Nel bel mezzo della notte, uscì a guardare le stelle e vide il fuoco ancora acceso, luminoso come un faro nell’oscurità del deserto. Sapeva che serviva a tenere lontani gli animali selvatici e sentì la terra scricchiolare sotto i suoi piedi mentre rientrava velocemente nella tenda. La terza mattina, Eliza sedeva a gambe incrociate accanto al fuoco, dopo una notte insonne, aspettando il caffè, quando Jay uscì, ancora in vestaglia. La sua pelle brillava alla luce del fuoco, aveva i capelli umidi dal bagno, ma le occhiaie scure sotto i suoi occhi erano la prova della sua sofferenza. “Nemmeno lui ha dormito”, pensò.
Si accovacciò accanto a lei e la parte superiore della vestaglia gli si aprì; a Eliza venne quasi spontaneo alzare la mano e toccare il suo petto. Voleva sentire i battiti del suo cuore, voleva che i loro cuori battessero all’unisono, insieme, e che i loro respiri si fondessero, proprio come un tempo… Invece gli chiese quanta parte della sua attrezzatura fosse stata danneggiata dall’incendio alla reggia.
Jay sembrò confuso.
«Chatur mi ha detto che un incendio ha distrutto la mia camera oscura e la mia camera da letto».
«Non ne so niente. Me l’avrebbero detto».
«Quindi ha soltanto voluto spaventarmi», dedusse Eliza.
«Sarebbe tipico di Chatur».
«Bene», commentò Eliza, sentendo un tuffo al cuore; poi, non appena riprese il controllo di sé, continuò a parlare. «Ho deciso di scrivere a Clifford». Nessuno dei due aveva più toccato l’argomento da quando aveva confidato a Jay la verità, ma era sempre rimasto lì, come un’ombra scura che non potevano continuare a ignorare.
«E dunque?», le chiese, con gli occhi pieni di speranza. “Anche lui è fragile, nonostante la sua forza e la sua mascolinità”, pensò Eliza.
«Voglio rompere il fidanzamento. C’è un corriere a cui chiedere di far recapitare una lettera?»
«Ho l’uomo che fa al caso tuo. Andrà da lui oggi stesso».
Eliza non poté resistere alla risposta felice di Jay e gli sorrise. «Allora lasciami sola per un’oretta e sarà fatto».
Si ritirò e, quando iniziò a scrivere, la speranza le riempì il cuore. I monsoni si avvicinavano; lo sentiva nell’aria e nel sangue. Grazie a Dio. Non avrebbe sopportato quel caldo ancora molto a lungo, le piogge sarebbero state un sollievo benedetto.
Jay tornò nella tenda dopo averle concesso il tempo stabilito, insieme a un altro uomo. «Pronta?».
Lei gli fece un cenno d’assenso. «Ecco qui».
«Sarà quest’uomo a consegnarla», la informò Jay. «E farà anche sapere alla tua amica Dottie che stai bene e sei al sicuro».
Eliza sorrise e lui la prese per mano.
«Ora dobbiamo affrettarci. Devono smontare l’accampamento prima delle piogge e noi, mia bella inglese… noi siamo diretti a Udaipore».
Udaipore
Il calore non dava requie, ma durante il loro viaggio fino a Udaipore divenne chiaro che le piogge erano imminenti e che le tempeste si stavano radunando, accumulando energia. Il cielo era scuro e, per la prima volta da quando era arrivata in India, nel mese di novembre, Eliza vide le nuvole, scure e selvagge, come percorse da scosse che le scuotevano. Era eccitante, nuovo, diverso. Avrebbe voluto avere con sé la sua fotocamera per catturare le strane luci tra le nubi nere che scivolavano sopra gli Aravalli lontani. Al primo tuono esploso con violenza, Eliza sentì il sangue elettrizzarsi, mentre cavalcava la moto con Jay, diretta proprio verso le piogge.
«E se inizia prima che arriviamo lì?», gridò a Jay.
«Ci bagneremo!».
Eliza scoppiò a ridere, inebriata dalla gioia di averlo vicino ancora una volta, e respirò il suo profumo di sandalo e lime. Erano accadute tante cose prima delle piogge, ma ora davanti a loro un nuovo capitolo stava per aprirsi, proprio come il cielo, che minacciava di squarciarsi da un momento all’altro.
Si avvicinarono a Udaipore, ed Eliza si sentì sempre più emozionata. Aveva desiderato a lungo di vedere la romantica città dei laghi, circondata dagli Aravalli che si estendevano in tutte le direzioni; ora il momento era giunto. Refoli di vento caldo increspavano l’erba e lei si teneva stretta a Jay, anche se avrebbe voluto battere le mani e saltare come una bambina. Alla fine raggiunsero una fortezza che si ergeva sopra una collina, come era tipico di quegli edifici. Jay scese dalla moto e aiutò Eliza a fare lo stesso. Quando si raddrizzò, ammirò le arcate, le torri e le cupole della fortezza.
«Questo è l’unico luogo da cui si può davvero ammirare un monsone», disse Jay.
Eliza guardò in basso e non poté contenere lo stupore quando vide un palazzo che sembrava galleggiare sulla superficie specchiata del lago; rimase assolutamente incantata dalla posizione romantica del luogo.
«Davvero sei stato all’interno del palazzo sul lago?», gli chiese, come se stentasse a credere che qualcuno ci fosse stato davvero e che quel palazzo fosse reale e solido.
Lui inarcò le sopracciglia come a dire, che sì, ovviamente ci era stato.
Dopo aver dato uno sguardo al panorama mozzafiato della città e dei suoi dintorni, i loro bagagli furono portati all’interno e Jay la accompagnò fino a un padiglione coperto da enormi archi e colonne, dietro al quale si trovava il palazzo della fortezza.
«Guarderemo le piogge da qui», le spiegò, mentre la prima goccia cominciava a cadere.
«Iniziano?», domandò Eliza, che allungò una mano per controllare che piovesse.
«Può darsi».
Le nubi ondulate avevano ormai assunto un meraviglioso color porpora, e poi, tutto a un tratto, i lampi fecero brillare il cielo. Eliza sussultò e tenne stretta la mano di Jay.
«Non è meraviglioso?», le chiese.
«Non riesco a credere che esista un luogo come questo».
Jay rise e le strinse la mano. Lei gli si appoggiò contro e a contatto con la schiena sentì il battito del suo cuore.
«Tutta questa zona è circondata da foreste, laghi, e come ben vedi, da colline. Quando smetterà di piovere, ti mostrerò i vicoli della città vecchia».
«Il palazzo sul lago sembra quasi uscito da un libro di favole».
«Si tratta del Palazzo d’Estate».
«Potremo nuotare? Dopo le piogge?»
«Se non hai paura dei coccodrilli».
All’inizio caddero solo poche gocce di pioggia, poi sentirono un’esplosione di tuoni così forte che il mondo sembrò tremare. E solo allora le cateratte del cielo si aprirono. La pioggia cadde fitta, un lenzuolo d’acqua scese sulla città, frangendo il lago e impregnando la terra secca, da cui si alzava un profumo dolce. Si accorse che Jay stava parlando, ma non riuscì a comprendere le sue parole, sovrastate dai tuoni.
Rimasero in piedi ad ammirare la vista per un’altra oretta, la pioggia cadeva come se la tempesta dovesse riversare tutta l’acqua del mondo e il cielo lampeggiava di continuo. Ben presto l’aria divenne bianca e la cortina d’acqua così fitta da celare la vista della città, del lago e del palazzo. Soltanto quando i tuoni cessarono, Jay la fece girare. Al crepuscolo e con la pioggia, Eliza riusciva a malapena a distinguere il suo viso, non fosse stato per i suoi occhi che brillavano.
«Sei pronta?», le chiese. «Questo è ancora niente».
«Sì, andiamo».
La riportò dentro al palazzo. Eliza gli chiese dove fosse il proprietario e se sapesse che loro erano lì.
«È un mio vecchio amico e non devi preoccuparti, è tutto organizzato».
«Sapevi che sarei venuta con te?»
«Ci speravo».
Raggiunsero la loro stanza, dove c’era un enorme letto a quattro piazze, con le tende aperte.
«Vuoi che le chiuda?», le chiese.
Lei scosse la testa e si avvicinò alle grandi finestre. «Teniamo aperte anche queste tende».
«Sì, e anche le finestre, in modo che possiamo sentire…».
Eliza rise. «Sei così romantico, Jayant Singh Rathore».
«È per caso un male?».
Eliza corse da lui e gli gettò le braccia al collo. Lui la spinse via dalla finestra e la portò a letto. La fece sdraiare sui cuscini e le sfilò la gonna e le calze, mentre le sue dita le sfioravano le gambe. «Seta?», le chiese.
«Il mio unico paio. Me le ha regalate Dottie». Eliza non riuscì a trattenere una risata, come se la gioia fosse stata repressa troppo a lungo e adesso dovesse necessariamente scoppiare, sopraffarla, scuoterla. Anche Jay rise; tuttavia, poco dopo, Eliza si ritrovò a piangere e ridere insieme, perciò Jay le asciugò le lacrime. Quando si tranquillizzò, la denudò completamente e la guardò.
«Sei così pallida», le disse, «come una porcellana».
Del tutto stordita dalla notte, Eliza si sentì libera dalle sue incertezze; non sapeva definire precisamente le proprie sensazioni, ma sapeva che quello era un momento meraviglioso, come nessun altro.
«Adesso tocca a me spogliarti», gli disse.
«Voglio prima toccarti».
Eliza chiuse gli occhi e le dita di Jay si mossero piano sulla sua pelle, la sfiorarono dalla punta dei piedi fino alle palpebre; quel che provava era talmente inebriante che si abbandonò completamente a lui. In Jay c’era qualcosa di eterno, ancestrale, come la terra da cui proveniva, e quando Eliza giaceva con lui si sentiva risucchiata nel suo mondo, come se anche in lei ci fosse un briciolo di eternità, sospesa nel tempo.
Lo spogliò e fecero l’amore. Lentamente, a lungo, tanto che Eliza non seppe dire per quanto furono un tutt’uno. Fuori un tuono esplose, mentre il suo cuore batteva forte. Poi giacquero vicini, madidi di sudore. Eliza si chiese se dovesse dire qualcosa, ma il suo amore per lui era talmente intenso che non osò proferire parola per paura di rovinare quel momento di vertigine.
Si amarono più volte, quella notte. La tempesta infuriava rabbiosa, il vento soffiava la pioggia fin dentro gli infissi delle finestre, e il loro desiderio divenne urgenza. Con il sapore di Jay sulla lingua, Eliza decise che quelli erano i momenti più emozionanti di tutta la sua vita. I loro gemiti non potevano essere uditi all’esterno, a causa dei monsoni, ma non le sarebbe importato nemmeno se avessero avuto tutte le orecchie del mondo addosso. Pensò alla gente nella città sottostante, sorridente per il sollievo e per la felicità connessi all’arrivo delle piogge, e si chiese quanti bambini sarebbero stati generati quella notte.
Il giorno seguente, approfittando di una pausa del temporale, Jay la portò alla città vecchia. Eliza si stupì nel vedere quanto fosse salito il livello dell’acqua del lago Pichola, circondato da templi e palazzi, da banchine per i bagni sacri, i ghat, e dalle morbide colline ocra e porpora dei boschi sui monti Aravalli.
Ma il cambiamento non riguardava solamente il lago: piccoli fiumi d’acqua si riversavano nel lago dalle gole e dai canali; tutto era intriso d’acqua e brillava alla luce del mattino. Jay le spiegò che la città veniva spesso chiamata la Venezia d’Oriente e che i suoi tranquilli specchi d’acqua erano circondati da rigogliosi giardini.
«La città è magnifica durante la stagione dei monsoni, perché tutti e cinque i laghi di Udaipore si riempiono e il loro livello sale. Come puoi vedere, persino i palazzi splendono».
«Dev’essere questo il luogo più romantico di tutta l’India».
Jay rise e la prese per mano. «Allora siamo nel posto giusto».
«Possiamo camminare così in pubblico?»
«Cosa t’importa della gente?»
«Intendo che qui è diverso. Non si dovrebbe, vero?»
«Credo che non importi a nessuno. Quando cade la pioggia, la gente viene colta da una sorta di euforia. Ti entra nel sangue e le normali costrizioni vanno a farsi benedire».
«Mi fa piacere che faccia più fresco».
Jay fece un movimento ampio con il braccio destro. «Guardala. La città è stata fondata dal re Rajput, maharana Udai Singh ii nel 1559».
«Meraviglioso, ma la pioggia è finita?», gli chiese. «È tutto qui?».
Lui la guardò sorpreso. «Spero bene di no. Ce ne occorre molta di più, questa è appena sufficiente a rinverdire le colline. A casa abbiamo un nuovo lago da riempire».
«Cielo, l’avevo quasi dimenticato».
Jay non si sbagliò: le piogge monsoniche caddero ancora; la seconda sera Eliza si rese conto che Jay aveva il cuore più leggero. Come aveva potuto non capire quanto dovessero essere importanti le piogge per lui? Abituata com’era al clima piovoso dell’Inghilterra, aveva facilmente dimenticato che in India la pioggia poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
Trascorsero insieme un’altra notte meravigliosa e parlarono molto, al buio, come fanno gli amanti nelle fasi iniziali delle loro relazioni. Era tutto diverso rispetto ai giorni trascorsi al palazzo di Jay, perché stavolta si erano aperti onestamente l’uno all’altra. Jay le raccontò la propria infanzia in Inghilterra, di quando piangeva sul cuscino di notte, di come odiasse il cibo insipido e lo snobismo degli inglesi. Le raccontò di quanto avevano sofferto quando Laxmi aveva perso la bambina, la loro sorella.
«Credo che sia per questo che ci siamo legati tanto a Indi. Soltanto lei avrebbe potuto prendere il posto di mia sorella. Per Laxmi è stata dura. Un figlio è una parte di te e cosa fai quando la perdi?»
«Non so se mia madre si sia mai sentita così», disse Eliza. Gli spiegò che non aveva mai creduto che sua madre la amasse. Gli raccontò che non le era mai piaciuta l’intimità con Oliver e che aveva paura di andare a letto, la notte. Quando Oliver si addormentava, lei andava in salotto, dove rimaneva seduta la maggior parte della notte, e poi dormiva di giorno, quando lui andava via. Pianse, e gli disse che non avrebbe mai potuto immaginare che potesse essere tanto diverso, e poi, col suono regolare e costante della pioggia che cadeva, si addormentò.
La mattina seguente furono svegliati da qualcuno che bussava forte alla porta della loro camera.
Jay scese dal letto, afferrò una vestaglia e, quando aprì la porta, Eliza si tirò il lenzuolo fin sopra la testa. Non era mai stata tanto felice, ma un conto era che i servi fossero a conoscenza della loro relazione, un altro che la vedessero nuda nel letto di Jay. Sentì la porta richiudersi e Jay tornare sui suoi passi. Rimase sorpresa, perché non tornò subito a letto, quindi emerse dalle lenzuola e lo vide alla finestra, in silenzio.
«Che succede?», gli chiese, con un nodo allo stomaco e la voce tremante per l’ansia.
Lui si voltò e le porse un biglietto.
«Ecco qui», disse con voce spenta. «Leggilo».
Eliza scivolò fuori dal letto e lo raggiunse, lesse il biglietto e non riuscì a capire fino in fondo cosa significasse per lui.
«Mi dispiace tanto», gli disse.
«Devo andare», e la guardò con un’espressione così triste che Eliza si sentì percorrere da un brivido.
«Adesso? Devi andare adesso?».
Jay annuì, cupo.
«Ma tornerai?»
«Sediamoci».
«No, dimmelo».
«Come hai appena letto, Anish è morto e io non posso fare altro che tornare alla reggia. Lo capisci?»
«Naturalmente», rispose, consapevole di sembrare una bambina imbronciata.
«Dovrò succedere al trono il prima possibile».
«Ma tornerai?».
Lui scosse la testa. «Non sono sicuro di poterlo fare. Perlomeno non subito».
«Che ne sarà di me?»
«Penseremo a qualcosa». Posò un portafoglio sul comodino. «In caso avessi bisogno di soldi».
«Come? Cosa faremo?», domandò, ignorando il denaro.
«Eliza, non lo so ancora. So soltanto che c’è un cavallo che mi aspetta e che devo andare».
«Non puoi cavalcare con questo tempo».
«È pur sempre più sicuro che spostarsi con la motocicletta».
«Più sicuro?».
Eliza si sedette sulla sedia accanto alla finestra, non riusciva a credere che tutto ciò stesse accadendo veramente.
«Hai perso tuo fratello, tua madre e Priya saranno sconvolte. Capisco che abbiano bisogno di te».
«Non si tratta solo di questo», le spiegò. «Se non rientro, gli inglesi si prenderanno il nostro regno. Sono anni che cercano di sbarazzarsi di Anish, e questa potrebbe essere per loro un’occasione d’oro». Mentre Jay si rivestiva, Eliza lo guardava confusa, consapevole del fatto che lui aveva ragione e che non c’era nulla che lei potesse fare.
«E noi?»
«Fammi prima andare a valutare la situazione. Ti manderò una macchina che ti condurrà al mio palazzo appena il tempo lo permetterà. È meglio che tu stia lì finché le cose non si saranno sistemate».
«Poi mi raggiungerai?»
«Per un po’, ma dovrò vivere al palazzo di Juraipore, almeno all’inizio».
«E verrò anch’io con te?».
Lui chiuse gli occhi per un momento e non rispose.
«Jay?».
Le si avvicinò e la abbracciò stretta, ma Eliza lo spinse via. «Vuoi dire che non potremo mai vivere insieme? Sposerai qualche principessa o una cosa del genere?».
Di nuovo, Jay non rispose.
Eliza lo fissò sconcertata da tutto ciò che comportava la morte di Anish, desiderando qualche parola di conforto. Nonostante gli dispiacesse per la sua perdita, Eliza fu scossa da un forte impeto di rabbia.
Dato che Jay ancora non diceva una parola, si voltò e corse lontano da quella stanza, da quella fortezza, ma soprattutto da lui. Accecata dalla pioggia, risalì la cima della collina con le lacrime che le bruciavano le guance, indifferente al fatto che riuscisse a malapena a vedere dove metteva i piedi. Persa nel buio della tempesta che infuriava, Eliza se la prese più che altro con se stessa.
Che sciocca che era stata, si era fatta sedurre da un luogo romantico.
Quando tornò indietro, completamente fradicia e afflitta, lui era già partito. Era proprio ciò che Eliza voleva: non avrebbe sopportato di doverlo guardare ancora.
Tuttavia, ora che se n’era andato, il suo cuore era spaccato a metà. Si sentiva sporca e lacera, incapace di calmarsi e di alleviare il dolore. Il più bel momento della sua vita si era trasformato nel più orribile. Amare Jay era stato un atto naturale, ma aveva comportato delle conseguenze. La sua infanzia solitaria aveva già segnato tutta la sua vita, ma Jay era stato capace di creare una connessione con lei. Come avrebbe potuto accettare che fosse tutto finito? Sola nella stanza che avevano condiviso, si sentì triste e senza speranza. Cosa doveva fare con l’amore che le aveva riempito la vita? Dove sarebbe andata? Pensò alle parole che una volta Jay le aveva detto: “Devi essere devastata dall’amore per conoscerlo veramente”, ma non le furono di conforto. Si torse le mani, rigirandosele per l’angoscia. Non mangiò nulla per il resto della giornata e, quando la luce svanì, guardò il cielo passare dal viola al nero.
Forse un giorno avrebbe ripensato a quelle notte a Udaipore senza soffrire.
Forse avrebbe finalmente dimenticato i battiti del suo cuore trepidante mentre giacevano vicini, pelle contro pelle. Jay si era impadronito del suo corpo, ma ancor di più le era entrato nell’anima, e nulla sarebbe stato più come prima. Quando la polvere arida del deserto scomparve e la terra fu ammorbidita dalla pioggia, Eliza soffrì per aver condiviso i monsoni con lui, e per averlo perduto per sempre.
Durante la prima mattina al palazzo di Jay, Eliza disfece la valigia e si guardò attorno nella sua stanza. Si sentiva profondamente triste e sfortunata, ed era stata contenta di non aver dovuto affrontare Dev al suo arrivo, la sera prima, specialmente dopo il lungo ed estenuante viaggio, durante il quale erano stati costretti a fermarsi più volte a causa della pioggia intermittente. Le colline azzurre degli Aravalli erano molto più verdi e la vista dalla sua camera pullulava di nuova vita. Per qualche istante fu bello guardare l’alba opalescente e il sole che sorgeva sulle terre di Jay, ma il suo cuore restava pesante.
Aveva ripensato al suo arrivo alla reggia di Juraipore nel novembre precedente: al bel soffitto alto dell’atrio dove aveva visto Jay per la prima volta, con il falco, e dove l’aveva scambiato per un intruso; alle stanze dove si era intrattenuta con Laxmi; ai gioielli, ai pugnali e ai cristalli inestimabili che scintillavano nelle stanze di Laxmi; ai bagni di marmo dove le concubine le avevano lavato i capelli; al tunnel che aveva percorso con Jay la notte dell’Holi festival per raggiungere la città. Fantasticò, finché le immagini non presero a ruotare vorticosamente, fondendosi con i sentimenti, e poi si fermò. Andare oltre sarebbe stato troppo doloroso.
Dopo essersi vestita e aver fatto colazione – Jay manteneva il personale essenziale al suo palazzo anche quando era fuori – si infilò gli stivali, attraversò il giardino e il frutteto, e si diresse verso il lago artificiale appena portato a termine. I profumi della terra ancora umida la fecero quasi vacillare, l’aria era incredibilmente dolce. Come se la pioggia avesse trasformato tutto; i fiori selvaggi, il fogliame sugli alberi e gli aromi della terra bagnata sembravano gareggiare per attrarre la sua attenzione. Ma fu la vista di un’enorme massa d’acqua scintillante alla luce del mattino a lasciarla senza fiato. Il lago argentato si era riempito proprio come Jay aveva sperato, gli argini e le fortificazioni avevano tenuto, ed Eliza notò che le chiuse erano state già messe in posa. Aperte le dighe, l’acqua sarebbe fluita tramite speciali canali artificiali lungo le terre di Jay fino a raggiungere diversi villaggi. Si trattava di un successo fenomenale e il cuore di Eliza si riempì di gioia a quella vista, perché sapeva bene di aver svolto un ruolo importante nella sua realizzazione. Sapeva che Jay avrebbe fatto scavare un altro lago artificiale durante l’anno a venire, e che aveva in mente molto altro, ma tutto in effetti era iniziato quando lui l’aveva portata lì per la prima volta.
Ricordò quei giorni rabbrividendo, come sempre, con orrore al pensiero del terribile destino toccato alla povera ragazza che era stata allora, ma sentendo anche tutto il dolore legato al ricordo delle prime attenzioni di Jay e dell’inizio dell’attrazione tra loro.
Chiusa in se stessa guardava l’acqua e ascoltava i belati delle capre in lontananza; non si accorse dei passi leggeri dietro di sé finché qualcuno non tossì leggermente, e, a quel punto, lei si girò.
«Eccoti qui», commentò Eliza, che dentro di sé gemeva.
Dev non rispose subito, come se stesse decidendo che cosa dovesse dirle. «Troverai quello che stai cercando proprio qui, se lo vorrai», disse poi, ed Eliza ne fu sorpresa.
«Io non sto cercando nulla».
«Tutti noi siamo alla ricerca di qualcosa. Ti ho vista arrivare la notte scorsa, pensavo che fosse meglio lasciarti sistemare prima di venire da te».
Eliza rimase immobile, studiando il suo viso.
C’era qualcosa di diverso in lui. La sua luce si era spenta, sembrava turbato e stanco. Sperò che la fiducia riposta in lui da Jay non fosse un errore; per Eliza era ancora difficile riuscire a perdonare il suo coinvolgimento nel complotto per incriminare Jay.
«Io pensavo che…», iniziò a dire Dev, ma poi si bloccò.
«Pensavi cosa?»
«Che avresti sposato il signor Salter».
Eliza provò fastidio al solo sentir nominare Clifford e rispose secca: «Non credo che siano affari tuoi».
Dev scosse il capo. «Sarebbe stato meglio se tu non fossi mai venuta qui».
«In India…».
Dev annuì e lei lo guardò negli occhi, riconoscendo una malcelata ostilità e anche qualcos’altro, che prima non aveva mai notato. Aveva provato a fare del suo meglio per apprezzare Dev, solo per il bene di Jay, e non era stato facile. Ma doveva ammettere che era molto curiosa.
«Stai badando alla tenuta di Jay?»
«È la mia penitenza. Immagino che te ne abbia parlato».
Eliza annuì senza parlare.
«Io e Jay siamo amici da molto tempo. Ho fatto un errore, ma lui mi ha perdonato».
Eliza guardò per terra e scosse la testa. «Non riesco a capire come tu possa averlo fatto, specialmente considerando quanto lui sia stato generoso con te».
«È complicato da spiegare». Dev non disse altro e dopo quella risposta tanto evasiva, quando lei lo guardò, Dev le voltò le spalle e se ne andò.
Eliza tornò nella sua stanza per preparare di nuovo la valigia. Non voleva rimanere lì con la sola compagnia di Dev, quindi si sedette sul letto a pensare. Una cosa era dolorosamente chiara: doveva mettere a tacere il suo cuore, sigillarlo e tenersi occupata, ma, anche se per lei non c’era più nulla in quel luogo, lasciarlo era difficile, specialmente dal momento che l’aroma di sandalo permeava la stanza. Nonostante ciò, si alzò in piedi e prese a raccogliere le sue cose, impilandole ai piedi del letto.
Guardò fuori, la giornata era calda e limpida, ma non poté apprezzarla perché era troppo triste. Sconfortata, sapeva bene che solo lei sarebbe stata padrona del suo destino, non Clifford, né sua madre, e neppure Jay. Tentò di fare i bagagli, ma, chissà come mai, gli indumenti che riempivano la valigia alla perfezione quando aveva lasciato la casa Dottie, adesso non ne volevano sapere di entrarci. Tirò tutto fuori e ricominciò daccapo, poi, quando ebbe finito, prese il portafoglio che Jay le aveva lasciato. Anche se il primo istinto era stato quello di gettarlo con tutto il suo contenuto nel primo pozzo che avrebbe trovato, il buon senso aveva prevalso. Anche se non voleva essere in debito con Jay, quei soldi le avrebbero fatto comodo.
Appena ebbe chiuso la borsa, Dev si affacciò alla sua porta. Sembrava davvero cambiato, aveva un aspetto forse più vulnerabile e diffidente di prima.
«Possiamo parlare?», le chiese.
Lei si accigliò. «Non c’è molto da dire, non credi?», gli rispose, perché non voleva perdere tempo con lui. Durante il loro primo incontro, non le era piaciuto il suo disprezzo per gli inglesi, eppure l’aveva capito; tuttavia, quello non era decisamente il momento di discutere di un’eventuale partenza dei colonizzatori o cose del genere. In ogni caso, ormai da quel punto di vista era d’accordo con lui.
Dev alzò una mano. «Temo invece di sì».
«Oh?»
«Andiamo a prenderci un caffè in terrazza».
Eliza ci pensò su. Anche se, turbata com’era, non le andava di prendere un caffè con Dev, accettò l’invito.
Non riusciva a definire precisamente l’espressione del suo sguardo ma, mentre scacciava una mosca che le ronzava vicino, si chiese se non si trattasse per caso di senso di colpa.
Andarono in terrazza, servirono loro i caffè e Dev sembrò cambiare ancora. In qualche modo, pareva più giovane e perduto.
«Io non ti sono mai piaciuta», gli disse lei.
«Non sei tu. Io…», e tacque.
«Allora cosa?».
Dev abbassò la testa per qualche secondo e, quando la guardò di nuovo, Eliza vide che aveva gli occhi cerchiati dalle occhiaie. «Non so davvero come dirtelo», riprese lui con un filo di voce.
La donna sorrise. «Ho scoperto che è meglio iniziare dagli argomenti difficili, qualunque essi siano».
Lui chinò di nuovo il capo ed Eliza si chiese cosa potesse essere tanto difficile da dire.
«Forse ti ho detto che mio padre è morto», disse. «Be’…». Un’altra pausa.
«A dire il vero, mi hai detto che tuo padre se n’è andato», puntualizzò lei, «e che sei rimasto solo con tua madre».
«Ha fatto qualcosa di sbagliato, ma per anni io non ho voluto affrontare la faccenda. Poi sei arrivata tu e, quando ti ho vista, mi è tornato tutto in mente».
«Non ha alcun senso. Jay mi ha detto che tuo padre si è messo nei guai».
Dev scosse la testa, poi guardò il giardino rigoglioso. «Scappò via. Non abbiamo mai saputo dove sia andato e tuttora non sappiamo nulla di lui».
«E cosa c’entra con me?».
Ci fu un lungo silenzio. Eliza si mosse a disagio, mentre Dev si fissava nervosamente le dita delle mani.
«Allora?», lo incalzò lei.
Ancora niente. Eliza fece per alzarsi.
«No, aspetta», la implorò.
Lei lo guardò. «Per l’amor di Dio, sputa il rospo».
«Dove andrai?», le chiese, indicando la valigia pronta.
«Penso a Jaipore, a scattare qualche foto alla città rosa. Devo anche recuperare il mio equipaggiamento».
Dev la fissò con sguardo assente come se non avesse capito una sola parola di quanto aveva detto, poi riprese a parlare. «È stato mio padre a lanciare la bomba che ha ucciso il tuo».
Eliza si rimise di colpo a sedere. «Ripetilo».
«Mio padre ha ucciso tuo padre. Mi dispiace, Eliza». Aveva pronunciato quelle parole senza espressione, e fu difficile per Eliza dar loro un senso.
«Ne sei sicuro?».
Era la conversazione più strana che le fosse mai capitato di sostenere, aveva il cuore in gola e si posò una mano sul petto. Di cosa si trattava? Che voleva dire? Era frastornata, non sapeva cosa dire o cosa fare. Il deserto vorticò attorno a lei e, nella confusione, un brivido le disse che lui le aveva detto la verità.
Di nuovo. «Non può essere vero», gli disse.
Dev annuì e la guardò con occhi talmente tristi che quasi desiderò confortarlo, ma non lo fece. Perché le aveva raccontato quella storia? Voleva scoraggiarla? Come doveva rispondere? Mio padre ha ucciso tuo padre. Mio padre. Tuo padre. Le parole le rimbombavano nella testa. Alla fine riuscì a parlare. «Da quanto tempo lo sai?»
«Che fu lui a lanciare la bomba? Da qualche anno, anche se mi è stato chiesto di non parlarne mai con nessuno».
«Intendo dire da quanto tempo sai chi sono io?»
«Da quando Jay mi ha detto quello che è successo a tuo padre». Dev scosse il capo. «Da bambino, avevo bisogno di trovare un capro espiatorio per giustificare l’assenza di mio padre, e non potendo biasimare lui, ho rivolto la mia rabbia verso l’uomo che aveva ucciso. Mi sono detto che non avrebbe dovuto essere su quella strada. Ero convinto che non fosse colpa di mio padre. È folle, lo so, ma è stato l’unico modo in cui ho potuto gestire il mio trauma».
«E poi io sono arrivata qui».
«La logica che mi ero costruito si è infranta. Mio padre era un assassino e tuo padre era morto».
Tacquero per qualche minuto, mentre Eliza si concedeva di elaborare la cosa. Dopo tutto quel tempo…
«Hai mai avuto sue notizie in seguito?», gli chiese infine.
«Nessuna».
«Come fai a sapere che è stato lui? Ci sono le prove? Forse si tratta solo di voci o di congetture».
«Uno degli altri cospiratori ha informato mia madre perché potesse comprendere come mai mio padre fosse fuggito. Mi ha spiegato tutto molto a grandi linee, mi ha detto solo che gli inglesi l’avrebbero impiccato se l’avessero trovato. Solo più tardi mi ha spiegato il vero motivo della sua fuga».
Dev sembrava talmente turbato che Eliza non ebbe altra scelta se non quella di consolarlo, anche se le sembrava una cosa sbagliata da fare.
«Dev, tu non sei tuo padre».
«Non lo so. Ho scoperto tutta la verità quando avevo circa tredici o quattordici anni e, a volte, mi sento in dovere di continuare quello che lui aveva iniziato. Così, quando Chatur ha chiesto il mio aiuto, sapevo che stavo sbagliando, ma ero sicuro che non avrebbe avuto successo, e che non sarebbe accaduto niente a Jay».
«E invece lui è stato arrestato».
«E lì ho capito quanto fossi stato sciocco, perciò ho detto a Chatur che avrei testimoniato il suo coinvolgimento, se non avesse persuaso Clifford a rilasciare Jay».
«E il tuo coinvolgimento sarebbe venuto alla luce?»
«Certo. Ma c’è di più. Chatur lo sapeva, Eliza. Sia lui che Clifford sapevano di mio padre e Chatur ha minacciato di rivelartelo se non l’avessi aiutato. Mi vergognavo. Non volevo che la gente lo sapesse, ma ero anche spaventato per mio padre. Ecco perché ho aiutato Chatur».
«E lui è andato da Clifford? Ha dichiarato che dietro ai pamphlet c’eri tu e non Jay? Che si è trattato di un errore?»
«Sì, e gli ha anche spiegato che non avevo mai avuto intenzione di diffonderli, che era stato soltanto un mio stupido scherzo».
«Clifford non ti ha arrestato».
«No. Jay mi ha fatto venire qui».
«Perché me lo dici proprio ora?»
«Perché stai per andartene e potrei non avere altre possibilità. Ho pensato che tu dovessi saperlo, mi sono tolto un sassolino dalla scarpa».
«Sai che ho assistito all’accaduto?».
Annuì. «Mi dispiace molto».
Eliza sapeva che doveva fare uno sforzo e andare a stringergli la mano; quando lo fece, fu ricompensata da un sorriso ampio e sincero. Tuttavia, non poteva fare a meno di pensare che quel segreto avrebbe dovuto rivelarglielo Clifford. L’avrebbe certamente chiamato al suo ritorno a Juraipore. Clifford le aveva taciuto la verità sul colpevole dell’attentato di Delhi per tutti quegli anni, e adesso lei gliene avrebbe fatto pagare lo scotto.
La macchina con l’autista che Jay le aveva messo a disposizione per il ritorno da Udaipore era sempre pronta all’occorrenza ma, quando Dev se ne andò, lei rimase sul terrazzo e decise che si sarebbe fermata un giorno ancora. La confessione di Dev le aveva chiarito molte cose e, mentre ammirava il paesaggio inondato di sole e tremolante nel calore, provò molta compassione per Dev e per quello che doveva aver patito da bambino. Tuttavia, era lieta che lui avesse deciso di parlare con lei; era come se il cerchio attorno alla vicenda della morte di suo padre si fosse finalmente chiuso. La mattinata aveva preso una piega strana e irreale, e, nonostante la pioggia, l’aria era opprimente.
Eliza rientrò, passò attraverso un corridoio con grate di marmo lattiginoso, lasciò cadere la sua borsa e tornò nella grande sala con le finestre alte, dove la luce sembrava cadere dall’alto, dandole l’impressione che il soffitto fosse un pezzo di cielo. Erano accadute molte cose da quando Jay le aveva mostrato quel posto per la prima volta, e doveva ammettere che andarsene non era facile. Le pareti sembravano d’oro; era facile immaginare i bei tempi andati in cui quel palazzo era considerato una piacevole via di fuga per la famiglia reale. Ma Eliza sapeva che Jay non aveva i soldi per restaurarlo e che aveva investito tutto nella costruzione dell’impianto idrico. Stava per recuperare la borsa che conteneva la nuova Leica donatale da Clifford, quando si accorse che sulla porta c’era proprio Jay.
«Non credevo che saresti arrivato tanto presto», gli disse. «Pensavo che saresti rimasto alla reggia di Juraipore più a lungo».
«Be’, come vedi sono qui», le rispose. «Sono contento di averti trovata. Ho fatto trasferire tutte le tue attrezzature e i tuoi beni dalla reggia a qui. Arriveranno oggi pomeriggio».
Eliza non disse niente, ma guardò il vuoto sopra la testa di Jay. Perché parlava come se tra loro fosse tutto normale? L’atmosfera era immobile, l’aria sembrava aver lasciato la stanza per cedere il posto al calore.
«Eliza?»
«Grazie», mormorò, rigida. «Quindi l’incendio era una montatura?».
Jay annuì e fece un passo verso di lei, ma Eliza non si mosse, anche se avrebbe voluto ritrarsi. «Com’è andato il viaggio?», gli chiese.
Jay inarcò le sopracciglia. «Dobbiamo davvero essere così inglesi? Non abbiamo cose più importanti di cui parlare?»
«Dimmelo tu».
«Ah».
Si guardarono, finché lei non ruppe il silenzio. «Allora diventerai maharajah?».
Jay annuì.
«Lo immaginavo. Molto bene. Stavo giusto per prendere la mia valigia. Se tu potessi provvedere a farmi spedire le mie cose, te ne sarei molto grata». Non era stata capace di trattenere il risentimento; gli voltò le spalle e cominciò ad allontanarsi, ma Jay le corse subito dietro.
«Eliza». Cercò di prenderla per mano, ma lei si girò di scatto e lo allontanò.
«Io mi fidavo di te, Jay. Non mi sono mai fidata di nessun altro, solo di te».
«Puoi ancora fidarti di me».
Eliza si sforzò di ignorare l’espressione affamata nei suoi occhi mentre riprendeva a parlare. «Sapevi che sarei dovuto succedere al trono se fosse accaduto qualcosa ad Anish».
«Sì, lo sapevo. Sono stata sciocca a pensare che fosse cambiato qualcosa. Ora, se non ti spiace, vorrei andarmene».
«Eliza. Qui è diverso, lo sai. Vengono prima i doveri, poi i desideri personali».
«Va bene, non preoccuparti. Il mio desiderio personale sta per renderti la vita più facile».
«Ascoltami», disse. «C’è di più».
«E cosa potrebbe esserci di più, Jay? È tutto perfettamente chiaro».
Jay scuoteva la testa, sconvolto. «Resta qui. Vivi qui. Non voglio che tu vada via. Verrò più spesso che potrò».
Eliza si irrigidì e la mascella le si serrò. «Non sarò la tua concubina».
«Non ti sto chiedendo di esserlo».
«E allora cosa mi stai chiedendo, esattamente? Sai benissimo che devi sposare una donna di qui, non un’europea, se vuoi avere eredi legittimi». Sapeva di suonare amara, ma non le interessava.
Non ci fu risposta.
«Pensi che vivrò qui per il resto della mia vita», continuò, «in attesa delle tue visite, che saranno sempre più rare?».
Jay le rispose, premuroso: «Penso che qui avrai un bel posto in cui vivere, un progetto idrico da mandare avanti, se vorrai, e anche una carriera come fotografa».
Fu il turno di Eliza di scuotere la testa. «Perché non mi hai mai detto del padre di Dev?»
«Credevo che ti avrebbe sconvolto troppo».
«Più che altro, credevi che mi avrebbe fatto detestare Dev».
«Sì, anche forse. Eliza, e se lasciassi tutto questo a te? Pensa, potrebbe essere tutto tuo». E fece un ampio gesto col braccio.
«Pensi davvero di potermi comprare?»
«Per l’amor del cielo, Eliza. Non intendevo questo, ma solo che non voglio perderti».
Eliza sospirò. «Jay, mi hai già persa. Ci siamo persi». Poi tacque, e scese il silenzio. Avrebbe voluto dare in escandescenze e sparire, ma non poteva. «Non ti dimenticherò mai, Jay, ti amerò per sempre, ma tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere. E, per essere onesti, credo che lo avessimo sempre saputo entrambi». Gli tese una mano. Lui la prese e la attirò a sé, poi la strinse tra le braccia per l’ultima volta. Quando si separarono, Eliza aveva gli occhi offuscati dalle lacrime e anche Jay aveva gli occhi lucidi. Anche se la tentazione di restare era grande, si costrinse a rimanere salda sulle sue posizioni, perché non ne sarebbe venuto niente di buono. Forse all’inizio avrebbe anche potuto funzionare, ma una relazione del genere non sarebbe mai durata nel tempo. Doveva andarsene; più riusciva a controllare le proprie emozioni, più forte sarebbe diventata.
«Sei una persona splendida, Eliza. Per favore, non dimenticarlo mai».
Eliza lo guardò dritto negli occhi turbati. «Farò sapere a Laxmi dove far mandare la mia attrezzatura».
«Dove andrai?»
«Prima devo vedere Clifford, poi andrò a Jaipore e, be’, vorrei organizzare un’esposizione fotografica, se riesco a recuperare le mie foto. Sarà prima di quanto avessi pianificato, comunque, poi forse tornerò in Inghilterra. Non lo so ancora».
«Hai ancora il portafoglio che ti ho lasciato a Udaipore?».
Eliza annuì. «Non volevo prenderlo, ma ora potrei averne bisogno per pagare le cornici e l’allestimento della mostra».
«Se c’è qualcosa, qualsiasi cosa, che ti occorre, devi solo dirmelo». Jay tacque e lei gli sorrise tra le lacrime, poi girò sui tacchi e si allontanò. Si sentiva triste come non mai, ma sarebbe stato inutile rinviare quel momento.
Quando Eliza giunse a casa di Dottie, si sorprese nel vedere valigie e bauli accatastati nel giardino anteriore e tutte le tende tirate. Dottie, china a contare le valigie, sembrava esausta, con i capelli disfatti e le guance arrossate; tuttavia, quando vide Eliza, si raddrizzò e riuscì a sorriderle.
«Che succede?», chiese Eliza.
Dottie sospirò profondamente e scansò una ciocca di capelli dagli occhi. «Siamo stati trasferiti».
Eliza era perplessa. «Come mai così presto? Non è molto che siete qui. Pensavo che sareste rimasti qui fino alla fine del mandato».
«Girano voci sul fatto che Anish sia morto a causa del trattamento che mio marito gli aveva prescritto».
Eliza sbuffò. «È assolutamente ridicolo. È morto perché era obeso e pigro».
Dottie si strinse nelle spalle. «A ogni modo, stiamo andando a sud. Fino a qualche tempo fa la parola di un dottore era legge, ora sembra che possano essere radiati per un nonnulla. In ogni caso, ne ho abbastanza. E tu che mi dici?».
Eliza fece un bel respiro prima di profferire parola. Si era preparata il discorso, ma era più difficile parlare, adesso.
«Con Jay è finita».
Studiò la reazione di Dottie, un misto di pietà e sollievo.
«E Clifford?», chiese Dottie, con uno sguardo triste. «Sembrava perso senza di te».
Eliza scosse il capo. «Non tornerò da Clifford, ma ho bisogno di parlare con lui. Sai se è in casa?». Indicò la villa di Clifford.
«Ho notato una macchina che è venuta a prenderlo stamattina presto, ma poi sono stata distratta dai miei impegni». Mostrò le valigie sparse tutt’attorno. «Abbiamo perso alcuni oggetti di valore quando ci siamo trasferiti qui, e non voglio di certo che accada di nuovo».
«Non voglio toglierti tempo, allora, anzi, potrei darti una mano, se vuoi».
«Non ti preoccupare. È tutto sotto controllo». Dottie fece un passo indietro e guardò la casa. «Davvero un peccato. È il posto più bello in cui abbia mai vissuto. Mi mancherà, proprio come mi mancherai tu». Aprì le braccia e si strinsero in un abbraccio.
«Vorrei tanto poter rimanere», dichiarò Dottie. «Ma è difficile essere una moglie. Proprio quando inizi a mettere le radici, la carriera di tuo marito ti porta via lontano. Agli uomini non importa; hanno il loro lavoro, il club. Forse è diverso quando si hanno figli. Ma io…».
«Oh, Dottie, vorrei poterti aiutare».
Dottie scosse la testa. «Qualunque cosa succeda, Eliza, tieniti stretta il tuo lavoro».
Eliza annuì. «Grazie di tutto. Teniamoci in contatto, vuoi?».
L’altra sorrise. «Clifford ti farà avere il nostro nuovo indirizzo. Abbi cura di te, e buona fortuna. Sono felice di averti conosciuta. Mi prometti che continuerai con la fotografia?»
«Puoi scommetterci».
Dottie rientrò in casa, ed Eliza attraversò il cancello del giardino che costituiva un ingresso laterale alla casa di Clifford. Non voleva bussare alla porta principale, preferiva sorprenderlo, sperando di avere su di lui un piccolo vantaggio. Guardò in alto, verso il cielo brillante, schermandosi gli occhi come poté. Da bambina, in India, guardava le nuvole. Era un gioco che faceva con suo padre, ma quel giorno non ce n’era nemmeno una in vista.
Aprì il cancello, che cigolò rumorosamente, e vide che Clifford era in giardino e che l’aveva sentita entrare. Rimase fermo, con l’annaffiatoio in mano, immobile, come se si fosse paralizzato alla sua vista.
«Ciao, Clifford», lo salutò, iniziando a provare una leggera ansia.
Lui sembrò riprendersi e fece qualche passo verso di lei. «Non mi aspettavo di vederti».
Eliza notò che le sue guance erano arrossite e che aveva il collo chiazzato. «Me lo immaginavo».
Le fece un mezzo sorriso. «Sei tornata?»
«Per sempre? No».
«Ah… E allora?»
«Possiamo sederci un po’ all’ombra? Fa troppo caldo per rimanere in piedi sotto il sole».
Clifford le indicò la panchina sotto al pipal. «Va bene lì?».
Eliza annuì e Clifford chiese al maggiordomo di portar loro due lassi dolci, col ghiaccio; dopodiché si accomodarono. A suo agio sulla panchina, Eliza ammirò il giardino. Le recenti piogge l’avevano rinverdito e soffiava una brezza leggera. L’erba era più brillante di prima e gli alberi erano molto più verdi; anche i fiori erano sbocciati. Incredibile quanto l’acqua lì facesse la differenza per le varie forme di vita, pensò Eliza. Tuttavia, non si trovava lì per parlare dell’acqua, voleva delle risposte, e niente l’avrebbe fermata.
«Allora?», chiese Clifford, girandosi di lato per poterla guardare meglio. «Come hai potuto andartene via così? E sì, so con chi sei stata. Non ho creduto un solo istante alla piccola bugia di Dottie».
«Mi dispiace».
«Lo spero bene. Con tutti quelli che c’erano, proprio da Jayant Singh dovevi andare!».
Eliza non disse nulla.
«Eliza, devi esserti ben accorta che questi nobili indiani sono effeminati, con tutti quei gioielli e quegli abiti colorati».
Lei si irrigidì, ne aveva abbastanza dell’arroganza degli inglesi e di tutti i loro pregiudizi, perciò non riuscì a nascondere l’irritazione.
«Se tu avessi preso in considerazione l’idea di sposare un uomo indiano, saresti stata emarginata da entrambe le comunità. Il meticciato è condannato sia dagli inglesi che dagli indiani, sai. Lo considero un tradimento delle norme imperiali».
«Non sono preparata per discuterne con te. Avevo le mie idee sugli inglesi in India e posso solo dirti che ora vedo le cose diversamente. Questo non è il nostro Paese, Clifford, è il loro, e hanno il diritto di gestire le cose a modo loro. Quel che è successo con Jay, invece, riguarda soltanto me e lui».
«Allora è questo che pensi. Devo dire che sono molto deluso».
«Può darsi. Ma ora devo farti alcune domande e apprezzerei molto se tu mi dessi delle risposte sincere».
Clifford sembrava stupito. «Penso che dovrei essere io quello che fa le domande qui. Sei stata tu, dopotutto, a scappare e a rompere il nostro fidanzamento tramite lettera. Non hai avuto nemmeno la decenza di dirmelo in faccia».
Eliza sapeva che aveva ragione, e si vergognava per come si era comportata, ma non doveva farsi scoraggiare.
«Sono davvero dispiaciuta, ma è stato un imprevisto, non era nei piani», disse, e lo guardò negli occhi.
Clifford sbuffò. «E quali erano i piani? Scappare con il principe e poi tornare strisciando dal tuo affidabile, vecchio Clifford? Ti facevo più astuta».
«Non c’era nessun piano», replicò lei, triste.
Rimasero in silenzio per qualche istante, poi Clifford riprese a parlare. «Per me è difficile persino perdonarti di aver convinto Dottie a mentire per proteggerti».
Non gli rivelò che era stata un’idea di Dottie. «Per favore, non discutiamo», gli disse invece, «ho questioni più importanti per la testa. E se dobbiamo parlare di bugie, perché hai mentito tanto spudoratamente sull’arresto di Jay?».
Clifford la guardò, incerto, ma non rispose.
«Sapevi che Jay era già stato liberato quando sono arrivata da te. Chatur era stato da te e ormai ti aveva spiegato che si era trattato di un errore, e che il colpevole era Dev. Non credo che Chatur abbia ammesso le proprie responsabilità, ma tu non hai arrestato Dev. Perché, Clifford?».
Quando si voltò a guardarlo, si rese conto che la stava studiando, come a cercare indizi che avrebbero potuto rivelargli cosa Eliza sapesse veramente. Lei si ricompose. Voglio metterlo a disagio, pensò.
Poi annuì. «Sì, conosco la verità. E per di più, credo di sapere anche perché non hai arrestato Dev».
«E perché?»
«Sapevi che sarei corsa da te nel momento in cui avresti arrestato Jay, non è vero?».
Clifford scosse leggermente la testa. «Non è andata proprio così».
«Basta bugie, Clifford. Contavi sul fatto che avrei acconsentito a sposarti, se tu avessi fatto rilasciare Jay».
«E non ti ho nemmeno dovuto convincere. Ti sei offerta spontaneamente».
Eliza lo fissò. «Ancora più sciocca!».
La mascella di Clifford si irrigidì e lui guardò altrove.
«Sapevi anche che, se Jay fosse stato ritenuto colpevole, non avrebbe mai potuto governare. Tuttavia, credo anche che tu sapessi che il piano non avrebbe mai funzionato».
«Ammetto che la vicenda mi aveva insospettito fin dall’inizio. Non solo, prima che Chatur venisse a dirmi che era stato Dev, anche la ragazza si è precipitata qui per raccontarmi la verità e per supplicarmi di rilasciare Jay…».
Eliza aggrottò la fronte. «La ragazza? Quale ragazza?».
Clifford si alzò in piedi, fece qualche passo e poi si voltò di nuovo. La guardava, ma sembrava incapace di parlare, come se stesse rimuginando qualcosa.
«Quale ragazza, Clifford?»
«Indira, ovviamente».
«Indi? Era coinvolta anche lei?»
«No. Dev si era lasciato scappare con lei quello che stavano orchestrando lui e Chatur. Indira non avrebbe mai fatto del male a Jay, anche se avrebbe voluto far del male a te». Fece una pausa. «Sua sorella».
La brezza si fermò e tutto il giardino rimase immobile.
Eliza sentiva il cuore battere all’impazzata, aveva la gola secca e non riusciva a trovare le parole giuste. Di cosa stava parlando Clifford?
«Indira è la tua sorellastra», dichiarò Clifford, scandendo bene le parole, come se lei fosse stupida. «È la bastarda di tuo padre».
Eliza si alzò in piedi, ma le gambe le tremavano talmente tanto che dovette appoggiarsi alla panchina. «Lo stai facendo di nuovo», disse lei, «stai cercando di provocarmi». Ma la voce di Eliza era poco convinta, qualcosa le diceva che era tutto vero. Pensò alla fotografia che aveva trovato nella soffitta di sua madre e, coprendosi la bocca con la mano, desiderò che lui le dicesse che era tutto uno scherzo. Ma Clifford scosse la testa.
«Mi spiace», le disse. «È la verità».
Eliza aveva voglia di urlare, ma non voleva dargli la soddisfazione di fargli vedere che aveva colpito nel segno. Non lo biasimava del tutto, lei l’aveva fatto soffrire, e adesso lui faceva soffrire lei. Si costrinse a stare ritta in piedi. Proprio come Jay, Indi sarebbe stata sempre con lei, in ogni suo respiro. Si chiese come avesse potuto essere tanto cieca.
«Ti senti bene?», le chiese Clifford gentilmente, ma niente ormai avrebbe potuto placarla. Si rivolse a lui con tutta la rabbia che aveva addosso. «Perché non me l’hai detto prima?»
«Non volevo ferirti. Davvero. Tenevo veramente a te».
«Non sono mica di vetro».
«È una figlia illegittima. Non siete nemmeno riuscite a diventare amiche. Figuriamoci sorelle».
Eliza si sedette di nuovo. «Ho sempre desiderato avere una sorella». E poi si ricordò qualcosa che le aveva detto sua madre a proposito del voltare le spalle ai figli del peccato. Sua madre aveva voltato le spalle a Indi; suo padre era stato infedele. Era tutto vero. Ogni singola accusa che sua madre aveva mosso era fondata. Eliza quasi dimenticò Clifford, immersa in quei pensieri, poi si ricordò anche di quello che le aveva confessato Dev.
«Indi non è il solo segreto che mi hai tenuto nascosto, non è vero, Clifford?», chiese, gelida.
«Non so cosa tu voglia dire», rispose sgarbato, poi raccolse un paio di cesoie da terra e prese a potare un cespuglio lì vicino.
La rabbia di Eliza esplose.
«Santo cielo, sii onesto una buona volta! Sapevi che era stato il padre di Dev a lanciare la bomba che ha ucciso mio padre. Ecco perché Dev ha accettato di aiutare Chatur, perché era terrorizzato che la verità venisse a galla. Temeva per suo padre».
Clifford si fermò per un momento, poi la sua voce si fece seria. «Volevo soltanto proteggerti, Eliza. Che vantaggio ti avrebbe dato saperlo? Non abbiamo mai trovato suo padre». Lo disse lentamente, come se stesse ponderando bene le parole.
«E per quanto riguarda Indi, non stava a te decidere».
«L’avevo promesso a tua madre».
«Eppure hai pensato di farmi venire qui, dove si trovava anche Indira. Perché l’hai fatto?».
Clifford non rispose subito, sembrava nervoso. «Non vedevo come tu potessi scoprirlo».
«Chi altro lo sa? Indi, ovviamente, ma gli altri? Stanno tutti ridendo di me?».
Con gli occhi bassi, accigliato, rispose: «Non l’avrei mai permesso. Non lo sa nessuno, Eliza. L’avevo promesso. La stessa Indi l’ha scoperto di recente. Poco prima di morire, sua nonna le ha detto la verità».
Eliza non replicò, guardò il cielo che si scuriva e poi si piegò in avanti, con la testa fra le mani. Era davvero troppo da sopportare. Non sapeva come comportarsi con Indi, non aveva idea di come affrontarla. Si sentiva terribilmente sconvolta, aveva bisogno di proteggersi da tutti quei sentimenti sconosciuti, il muro attorno a lei si era fatto ancora più solido. Alzò la testa. Il giardino che le era sembrato così grazioso, fresco e luminoso, ora era diventato un luogo di ombre striscianti.
Si accorse che Clifford la stava guardando. Il suo volto era cambiato, sembrava meno rigido.
«Mi hai fatto venire qui davvero per scattare delle fotografie per l’archivio o ero solo una pedina inconsapevole nella cospirazione contro la famiglia reale?»
«Per l’archivio, naturalmente. Ho tutte le tue stampe definitive. Manderò a incorniciare quelle che sceglierai e poi saranno spedite dove vorrai tu. Va bene? E se vuoi portare a termine il progetto, saranno anche tutte archiviate».
«Grazie».
«Ti lascerò le stampe da Dottie. Immagino che tu non abbia piacere a trascorrere il tuo tempo qui con me».
«Devo riportarti la Leica».
«No, era un regalo. Non saprei nemmeno come usarla».
«Sei molto generoso. Grazie. Un giorno ti ripagherò».
Clifford le porse la mano. «Eliza…».
Lei scosse la testa. «Non ti avvicinare». Se avesse detto anche soltanto un’altra parola, sarebbe scoppiata a piangere, perciò si alzò e uscì dal giardino.
Da Dottie, le valigie e i bauli erano stati caricati per essere portati alla stazione. Dottie, che aveva indossato il cappello, le venne incontro, chiamandola.
«Stiamo per partire… Clifford ti ha dato l’indirizzo?».
Eliza scosse la testa e, ora che si era avvicinata, Dottie comprese che qualcosa non andava. «Santo cielo!», esclamò. «Che succede? Sembra che tu abbia visto un fantasma».
Eliza non riuscì nemmeno a parlare, anche se avrebbe voluto. Era tornata in India, nel Rajputana, piena di aspettative, ma mai avrebbe immaginato di potervi trovare una sorella.
«Prendi le chiavi», le stava dicendo Dottie. «Ci sono due camere da letto ancora pronte. Non ci sono dentro mobili nostri. Resta pure qui tutto il tempo che ti serve. L’affitto è pagato fino alla fine del mese prossimo».
Eliza annuì. «Grazie. Devo ancora selezionare le foto, lo farò qui».
«Aspetta un secondo. Ti scriverò il nostro nuovo indirizzo». Dottie entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carta piegato. «Non so cosa sia stato a ridurti così, ma se hai bisogno di un’amica, scrivimi. Vieni a trovarmi. Quello che vuoi…».
Eliza ingoiò il groppo che aveva in gola, desiderando che la sua amica non partisse. Al tempo stesso, però, si rendeva conto di quanto sarebbe stato difficile parlare di quegli argomenti. Dottie allargò le braccia e si strinsero di nuovo, poi, dopo alcuni secondi, si separarono. A quel punto, Dottie salì sull’auto in attesa e se ne andò. Eliza guardò la macchina allontanarsi e sparire in lontananza. Finché c’era stata Dottie, tutto le era sembrato stranamente tranquillo, ma adesso i rumori di Juraipore l’assalirono: bambini che gridavano, mercanti e contadini che vendevano i loro prodotti, la gente della città che viveva la propria giornata. Si coprì le orecchie con le mani e scappò dentro casa.
Eliza trascorse una notte agitata da Dottie; i suoi incubi spaziavano dall’essere arsa viva dai fuochi del deserto alla ricerca dei dolcetti che suo padre si nascondeva nelle tasche; tuttavia, quando aveva sollevato lo sguardo dalle caramelle, si era accorta che non c’era suo padre con lei, ma Chatur. Dicono che nei sogni affrontiamo i nostri problemi, ma quelli di Eliza erano troppi perché potessero essere mai risolti. Ciononostante si svegliò con la certezza di dover parlare con Indi, anche se si sentiva male al solo pensiero.
Dopo aver selezionato le foto da far incorniciare, andò al castello e si meravigliò ancora una volta alla vista delle enormi fortificazioni che salivano dalla roccia nuda sotto il cielo giallo, con i parapetti e merlature che si estendevano per chilometri. Un servo in livrea la guidò lungo i corridoi dalle pareti di stucco lucido, che brillavano come gusci d’uovo, ma Eliza non sapeva se Indi fosse lì o ancora al villaggio. Attraversarono un cortile pieno di fiori, con al centro una fontana scintillante alla luce del sole e circondato da una veranda di marmo, poi entrarono in una zona della reggia che non aveva mai visto prima. L’aria qui profumava meno di gelsomino e più di cardamomo e spezie. L’uomo le spiegò che quello era il giardino dedicato agli ortaggi e alle erbe aromatiche, e che si trovavano nell’ala del palazzo situata proprio dietro alle cucine.
«Per di qua», le disse, quando i cortili terminarono e raggiunsero una rampa di scale seminascosta. Salirono tutta la scalinata, fino in cima, dove superarono una stupefacente serie di cortili comunicanti racchiusi da mura e archi su ogni lato.
Quando arrivarono a una sorta di torretta, l’uomo spalancò una porta che si apriva immediatamente su un’altra scala ripida.
«Da questa parte?», chiese Eliza, a disagio. L’uomo annuì e cominciò a salire. Giunto in cima, tirò la corda di una campanella attaccata a una porta azzurra. Eliza non sapeva cosa aspettarsi, ma sentì il tintinnio dei braccialetti alle caviglie e, con suo grande sollievo, Indi apparve sulla porta.
«Queste sono le tue stanze?», chiese Eliza sorpresa.
«La mia stanza».
«Come mai proprio qui?»
«Entra dentro e lo vedrai».
Eliza seguì Indira all’interno di una camera ottagonale, attaccata al corpo principale dell’edificio solo da un lato. Visto che si sentiva oltremodo confusa, Eliza provò sollievo quando si accorse della brezza fresca che entrava dalle cinque finestre alte e strette. Quel luogo non era affatto come i corridoi scuri e tenebrosi della zenana, divisi nei vari appartamenti di Laxmi, Priya e delle concubine. La camera di Indira era un posto incantato, fresco e luminoso. A Eliza, ipnotizzata, parve di essere in mezzo alle nuvole.
«Questa era una torre di avvistamento», spiegò Indira. «Vieni a vedere il panorama».
Eliza andò a una delle finestre e vide tutta la città sotto di lei, che si estendeva fino alle pianure lontane.
«È piccola, ma io adoro stare quassù. Quando hanno messo i vetri alle finestre è diventato l’unico luogo in cui volessi davvero stare».
Non c’erano altri mobili se non un letto basso, o charpoy, coperto di cuscini, un tappeto sul pavimento, un baule e molti altri cuscini quadrati sul pavimento.
Indira le mostrò dove sedersi, ma Eliza non voleva lasciare la finestra, da dove poteva ammirare quella vista.
Da lì riusciva a sentire il suono dei campanacci delle greggi di capre portato dal vento, il fruscio degli alberi, le dolci fragranze delle rose e dei gelsomini che salivano dal basso. Vide in lontananza spruzzi di colori accesi e si rese conto che erano le stole delle donne stese sui fili ad asciugare.
Si staccò con riluttanza dal panorama e si voltò a guardare Indira, fissandola per alcuni istanti prima di sistemarsi su uno dei cuscini. «Capisco perché ti piace stare quassù», le disse. Ma quello che avrebbe voluto dirle veramente era: come osi essere figlia di mio padre? Sapeva bene che le polemiche non l’avrebbero aiutata, eppure non riusciva a dirimere le sue emozioni contrastanti.
Indira non parlava, stava seduta a piegare e dispiegare continuamente la sciarpa che solitamente portava sul capo. Indossava una gonna semplice e una blusa, un paio di sandali, e aveva i capelli sciolti. Sembrava appartenere a quella torre, pensò Eliza, una damigella in attesa di essere salvata, e forse, in qualche modo, lo era davvero. Provò compassione per quella ragazza dalle mani sottili e dai piedi minuscoli: la sua vita non aveva avuto inizio nel migliore dei modi. Sua nonna aveva fatto del suo meglio per compensare l’assenza della madre e del padre, ma sarebbe mai bastato?
A quel punto Indira iniziò a parlare. «Allora lo sai anche tu? Te lo leggo negli occhi».
Forse Indira riusciva a essere più accomodante, pensò Eliza, forse era riuscita a trovare un modo per affrontare il problema con meno durezza, un modo che Eliza ancora non poteva o non voleva cercare. Si piantò un’unghia nel palmo della mano. «Non riesco ancora a parlarne».
Rimasero in silenzio a lungo, Eliza in ascolto dei suoni provenienti dal mondo esterno.
«Raccontami la tua infanzia», le chiese Eliza.
«Se intendi che io parli di nostro padre…».
Eliza trasalì visibilmente.
«Scusami».
«No. Va’ avanti».
«Non me lo ricordo nemmeno».
«E tua madre?»
«La vidi per l’ultima volta quando avevo tre anni. Pensavo che fosse una danzatrice, ma mia nonna non mi parlava mai di lei. Disse solo che aveva disonorato la famiglia. Sono stata fortunata, perché mia nonna mi ha accolta».
Ci fu un altro momento di silenzio colmo di disagio. Sembrava che nessuna delle due trovasse semplice quella conversazione e, nonostante Eliza sentisse il bisogno di stare lì con Indira, avrebbe voluto essere da un’altra parte. Ma ovunque fosse andata, avrebbe dovuto affrontare la realtà.
«Allora», riprese Eliza, «rimarrai qui?»
«Non tornerò al villaggio».
«Jay ti permetterà di rimanere?». Pronunciò il nome di Jay senza lasciar trapelare alcuna emozione, in tono neutro.
«Be’, suppongo di sì».
Eliza si strinse nelle spalle, la compassione si stava trasformando nuovamente in risentimento. «C’è una cosa che devo chiederti», le disse cambiando argomento. «La bottiglia di pyro che mi è stata rubata. Tu non… Voglio dire, non hai niente a che fare con la morte di Anish?».
Indi sgranò gli occhi e poi scoppiò a ridere. «Vuoi dire che pensi che io abbia ucciso Anish in modo che Jay potesse diventare maharajah, così tra voi sarebbe dovuta finire?». L’immediata reazione di Indira fece vergognare un po’ Eliza per ciò che aveva pensato.
Indi scosse il capo, con le lacrime agli occhi per la risata.
«Non sono un’assassina, Eliza. Sono un sacco di cose ma non quello. Devo confessarti, però, che sono stata io a danneggiare la tua macchina fotografica».
Eliza restò a bocca aperta. «Mi hai davvero ferita».
«Mi dispiace molto. Pensavo che ti avrei convinta ad andare via».
«Credevo che fossimo amiche».
«Mi dispiace». Indira abbassò lo sguardo per un attimo. «Non sapevo ancora chi fossi».
«Quindi per te è giusto far del male a qualcuno che non sia tua…». Si bloccò, incapace di pronunciare quella parola. «Sei stata tu a rubarmi il pirogallolo?»
«Me l’ha chiesto Chatur».
«Perché?»
«Per metterti nei guai. Per far sembrare che tu fossi un pericolo per noi».
«Quindi è stata tutta colpa di Chatur».
Indi annuì.
«Io qui conto davvero poco, sai. Chatur mi serviva. Mi dispiace solo di non averne parlato con Jay. E adesso Priya ha dei piani per lui…».
Eliza era sconvolta. «Priya?»
«È abituata al suo alto rango, è una donna di corte, ed è abbastanza normale che una maharani sposi il fratello del suo defunto marito»
«Oh mio Dio! Non ci avevo pensato. Ma Jay la detesta».
«Non l’hai ancora capito? Anche se Jay è forte e potente, per noi il matrimonio non ha nulla a che vedere con l’amore, come lo chiami tu; qui significa soltanto doveri e famiglia. I nostri sono matrimoni combinati».
Eliza sospirò. Avrebbe mai compreso a fondo l’India? «E che ne è dell’amore?», le chiese.
«Le persone imparano ad amarsi. È così da sempre».
«E chi si occuperà di combinare il tuo matrimonio?».
Indi scosse la testa. «Io sono innamorata di Dev, ma non ho una dote, a parte la casa di mia nonna. L’hai vista. È una capanna di fango senza alcun valore. Sono sola al mondo e credo che sarà sempre così».
Eliza annuì e comprese quanto fosse stato importante per Indira avere come alleato Chatur. Nelle sue condizioni, aveva davvero poca scelta. Tuttavia, Eliza decise di parlarle del suo rapporto con Jay, che era stato molto di più di una semplice relazione piena di romanticismo. Lei lo sapeva, Jay lo sapeva, e voleva che anche Indira ne fosse consapevole.
«Amo Jay», confessò. «E lo amerò sempre».
«E lui amerà te, ne sono certa».
«Ma Priya? Il solo pensiero mi fa stare male».
«Posso soltanto dirti che Jay ci ha sempre stupito. Ha le sue idee sulla vita e farà soltanto ciò che ritiene giusto fare».
«Qualunque cosa esso sia?».
Indi annuì; Eliza si chiese come proseguire la conversazione e come poter essere in qualche modo d’aiuto alla fanciulla. Poi le venne un’idea. «Abbraccerai il movimento indipendentista?», le chiese. «Per la gente comune sarà tutto diverso. Sono convinta che l’autogoverno dell’India sia l’unico modo per andare avanti. Spero solo che si possa raggiungere questo traguardo in modo pacifico».
«Be’, su questo punto Dev è molto convincente. È persuaso del fatto che il mondo come lo conosciamo oggi sia destinato a una fine. Non oggi, forse, non domani. Ma finirà».
Eliza sorrise. «Presumo che tu non intenda la fine del mondo intero, ma solo la fine dell’India britannica?»
«Sì, ma Dev ritiene che anche gli Stati principeschi debbano scomparire, quindi la maggior parte dei nobili combatte per preservare il suo potere. E chi potrebbe biasimarli?»
«Jay sarà un sovrano giusto, finché il regno dura».
Tacquero di nuovo, ed Eliza immaginò facilmente di cosa avrebbero parlato poi.
«Parlami di lui… parlami di tuo padre, per favore».
Eliza fece un bel respiro, poi sospirò. Le era sempre piaciuto ricordare suo padre, ma ora che era piena di livore e risentimento, non sapeva da che parte iniziare. Si ricordò che lui l’aveva portata ad assistere allo sgozzamento di un maiale e che ne era stata disgustata, perché c’era tantissimo sangue in giro. Lui aveva creduto che sarebbe andata meglio quando l’aveva portata ad assistere a una battuta di caccia. Si erano fermati su una piattaforma in alto, tuttavia, quando il viceré aveva sparato a un bell’elefante, Eliza era scoppiata a piangere, con grande imbarazzo di suo padre.
«Amavo mio padre», fu tutto quello che riuscì a dirle.
«E tua madre?»
«L’infedeltà di mio padre le ha rovinato la vita».
«Devi odiarmi».
Eliza guardò Indi, così sola al mondo. «Quando Clifford me l’ha detto, ero fuori di me».
Un’immagine sepolta le si affacciò alla memoria, e si chiese se fosse vera; forse, però, era stata semplicemente troppo piccola per capire cosa significasse, quando aveva visto suo padre mano nella mano con una donna indiana.
«Sei arrabbiata con me?», le chiese Indi.
Eliza, però, persa nei suoi pensieri, non le rispose.
«Sei arrabbiata con me?», ripeté Indira.
Eliza sospirò. «Con te, con mio padre, con Clifford. Ma la rabbia maggiore l’ho rivolta contro mia madre per aver permesso a mio padre di annientarla». Tacque. «Mia madre era un’alcolista».
«Mi dispiace».
«L’ho sempre biasimata per tutto, perché pensavo che mio padre fosse perfetto. Che sciocca sono stata». Si alzò in piedi; quell’incontro stava diventando troppo doloroso. «È meglio che io vada».
«Così presto? Perché non vieni sul tetto a guardare il panorama?»
«Così potrai spingermi di sotto?», chiese Eliza con un sorriso.
Indi impallidì e poi scoppiò a ridere. «Non si sa mai. Dài, da quassù mi sembra di riuscire a vedere oltre i miei problemi. E adesso, prima che il sole sia alto nel cielo, la visuale è persino migliore».
Indi prese per mano Eliza e la condusse per quella che definì scorciatoia. Salirono qualche gradino e raggiunsero una porta in cima a una scala; fu allora che si ritrovarono sul tetto del mondo. Indi allargò le braccia e girò su se stessa, ridendo e urlando di gioia. «Dài, Eliza, fallo anche tu!», le gridò senza fermarsi. Eliza esitò ma non seppe resistere e iniziò a volteggiare con lei. Era esilarante, come se ogni pensiero svanisse dalla sua mente. Eliza si sentiva libera. Vorticava sempre più velocemente, mentre la campagna attorno a lei girava; fu in quel momento che seppe che lì, sopra la città, si poteva perdonare ogni cosa, e che quella ragazza, che aveva così poco, era sangue del suo sangue.
Udì il suono delle campane e sussultò, prima di inciampare e cadere sul pavimento. Com’è bella la vita, pensò: prima ti fa volare in cielo e poi ti scaraventa a terra.
Guardò Indira che ancora girava, vide un’aquila volare sopra le loro teste, nella luminosa distesa di quel cielo tanto azzurro. Faceva ancora caldo, ma la brezza leggera stava asciugando la sua pelle, e in quel momento, nonostante tutto quello che le era capitato, sentì che un giorno sarebbe stata di nuovo felice.
Quando Indi si fermò, senza cadere, Eliza si alzò da terra e la raggiunse. Poi allargò le braccia e abbracciò sua sorella. Quando si separarono, Eliza guardò Indira dritto nei suoi begli occhi verdi e luminosi.
«Non sei sola», le disse. «Ci sarò sempre, bahan, sempre, e non sarai mai più sola. Te lo prometto».
Jaipore
Gli ampi viali che conducevano ai cancelli arcuati della città di Jaipore erano pieni di soldati e di carovane di cammelli coperti di seta, nastri e pompon. Eliza passò sotto un arco e poi sotto un altro, di un rosa intenso e decorato con fiorellini bianchi.
Ricordava la città rosa sin dall’infanzia e si era preparata a una delusione; invece Jaipore era esattamente come se la ricordava, anzi meglio, gli haveli, i palazzi e i balconi brillavano di tutte le tonalità di rosa.
Era arrivata lì per la festa del Teej, e per fortuna aveva trovato una camera con il tipico arco a cuspide in un grazioso hotel haveli proprio nel cuore della città. Sembrava uno scherzo del destino per Eliza trovarsi lì proprio durante il Teej, che era parte di una serie di tre festival che si svolgevano durante i monsoni, quando le donne pregavano gli dei Parvati e Shiva per la felicità coniugale.
Era una festa per le donne, il Teej, riguardava esclusivamente l’amore e la devozione delle mogli nei confronti dei mariti, ovvero qualcosa che Eliza non avrebbe mai avuto. L’amore era bello, ma lei nutriva qualche dubbio a proposito della devozione.
Aveva visto piccoli insetti rossi uscire dalla terra durante le piogge, ma non sapeva che il festival prendesse il nome proprio da loro. Il direttore dell’haveli, un uomo piccolo con gli occhi scuri, sempre agitato, le aveva raccontato tutto. Eliza aveva imparato che, mentre nell’India settentrionale il Teej celebrava l’arrivo dei monsoni, nel Rajputana si festeggiava anche per aver avuto sollievo dalla calura estiva, e quell’anno la pioggia era arrivata tanto in ritardo che la festa si stava svolgendo più tardi del solito. L’uomo le diede moltissime informazioni e non la smise di parlare fino a quando a Eliza non girò la testa, cosa che non gli impedì di spiegarle che durante il Teej si praticava il digiuno e che la festa era rallegrata dai canti e dalle danze delle donne. Eliza decise di andare a vedere i festeggiamenti coi propri occhi e portò con sé la sua nuova Leica.
Appena lasciato l’albergo, si trovò di fronte una città colma di persone che esultavano. Vide le altalene appese ai rami degli alberi, decorate con ghirlande di boccioli in fiore. Aveva sempre trovato strano che le altalene fossero per le donne adulte, e non per i bambini, ma un’occhiata ai volti di quelle donne di ogni età le fece capire quanto fossero deliziate da quel gioco. Guardò le loro mani, disegnate con elaborati tatuaggi all’henné, e i loro corpi coperti di gioielli. O sperano di trovare un compagno, pensò, o pregano per il marito. Nessuna donna voleva restare vestita di bianco, il colore delle vedove, per il resto della sua vita.
Eliza scoprì che avevano sistemato delle giostre proprio nei pressi dell’albergo, perciò tirò fuori la sua macchina fotografica, pronta a immortalare la grande ruota e le bancarelle che vendevano bambole e tessuti.
Sembrava che fossero tutti lì: gli adulti si salutavano e ridevano, i bambini correvano tra la folla creando confusione ovunque andassero. Eliza chiese alle persone se potesse fotografarle, e la maggior parte dei presenti acconsentì sorridendo, lieta di poter essere ritratta nei propri abiti migliori. La cosa divertente era che ogni volta che Eliza prendeva la macchina fotografica, sembravano tornare improvvisamente seri. Immortalò gli elefanti allineati sui viali, con gli howdah traboccanti di seta, e scattò foto alle piccole statuine di Shiva e Parvati sui panni di velluto stesi sui marciapiedi, circondati dalla gente che voleva acquistarle. Che meraviglia deve essere, pensò tra sé e sé, far parte di una comunità che condivide le stesse credenze religiose. Eliza aveva rinnegato Dio il giorno in cui la bomba che le aveva portato via suo padre era esplosa.
La luce sbiadì pian piano e venne il crepuscolo, e la città, illuminata da centinaia e centinaia di lumini di coccio con dentro l’olio e lo stoppino, sembrava davvero uscita da un libro di favole. La reggia rosa scintillava, e i forti incombevano dalle cime degli Aravalli. Eliza ne apprezzò la bellezza, eppure si sentiva profondamente malinconica: non avrebbe mai fatto parte di tutto ciò. Non riusciva a smettere di pensare a Jay e a quel che avevano passato. Avrebbe sempre fatto tesoro dei giorni trascorsi con lui, ma era tempo di andare avanti. Anche se una parte di lei voleva fuggire via, rimase a guardare le danzatrici, e la vista di tutte quelle belle donne che si muovevano come se la loro stessa vita dipendesse dal ballo la rincuorò.
Tutt’a un tratto una delle ragazze le si avvicinò e la prese per mano, portandola in mezzo alla folla. Inizialmente, Eliza si sentì in imbarazzo e cercò di resistere, perché non indossava abiti adatti all’occasione; eppure dopo pochi minuti si lasciò andare.
Quella notte dormì come una bambina, e il giorno seguente decise di indossare il suo abito indiano più elegante. Truccò gli occhi con una linea scura di kajal, proprio come le concubine le avevano insegnato, e ancora una volta si stupì di quanto i suoi occhi sembrassero più verdi. Applicò del pigmento rosso sulle gote e sulle labbra, poi si annodò nastri colorati tra i capelli, sulla nuca e attorno al collo. Sarebbe andata a prendere il caffè sulla veranda che si affacciava sul giardino lussureggiante, avrebbe cercato di essere felice; in seguito, avrebbe fatto una bella passeggiata in città. Quel giorno si sarebbe confusa tra la gente, lo promise a se stessa.
Spinse la pesante porta istoriata che conduceva alla veranda, ma la trovò deserta. Forse era troppo tardi, o troppo presto, e si chiese se fosse il caso di andare a cercare qualcuno. Poi apparve un cameriere, che infilò una rosa rossa in un vaso sul suo tavolino, prima di andarsene di nuovo. Era assorta nei suoi pensieri quando udì una voce maschile. Rimase immobile per qualche secondo. Non poteva essere lui. Si girò e lo vide, in piedi, sorridente, con gli occhi ambrati pieni di dolcezza.
«Jay?».
Lui si posò un dito sulle labbra e le si avvicinò, si inginocchiò al suo fianco e tirò fuori una scatolina da una tasca della tunica. La aprì per mostrarle il contenuto.
Eliza guardò l’anello di zaffiro più splendente che avesse mai visto. Poi guardò il volto di Jay e la sua espressione solenne.
«Pare», le disse, «che io non possa vivere senza di te».
Eliza non riuscì a trattenere le lacrime, non comprese appieno cosa stesse accadendo e si limitò ad annuire senza parlare.
«Mi dispiace molto di averti coinvolta in tutto questo. Pensavo di fare la cosa giusta. Voglio scusarmi e chiedere il tuo perdono».
Eliza all’inizio non riuscì ancora a dire niente. Poi sorrise. «Allora perdoniamoci l’un l’altra».
«Vieni», le disse, alzandosi in piedi con le braccia aperte. «Io e te avremo fiducia l’uno nell’altra, nel dolore e nella gioia». Eliza si alzò e si mosse verso Jay. Mentre stavano abbracciati, sentiva il cuore di Jay battere contro il proprio, e seppe che sarebbe andato tutto bene, anche se era ancora sorpresa e confusa. Poi, si sedettero per qualche istante, in silenzio, per non rovinare quel momento tanto prezioso con delle domande. La luce del sole filtrava tra gli alberi, gli uccelli svolazzavano nel giardino e due scimmiette dondolavano tra i rami; Eliza guardò attentamente la scena, perché voleva mantenere per sempre quel ricordo. Voleva ricordare per tutta la vita la perfezione di quel momento; davvero, quell’istante non poteva che essere definito perfetto e non capita tanto spesso di poter definire un momento tale. Aveva mille domande da fargli e presto gliele avrebbe poste, ma per un minuto si limitò a stringergli la mano e a godersi finalmente quel sublime senso di pace; da allora in avanti tutto sarebbe sempre andato bene. Trascorsero i minuti, e nessuno dei due parlò.
Fu Jay il primo a interrompere il silenzio. «Hai già preso il caffè?»
«Lo so che può sembrare strano, ma sai, non me lo ricordo. Mi sembra di aver perso la capacità di pensare. Comunque adesso non ho sete».
«Allora vogliamo passeggiare, finché la città è ancora calma e c’è fresco?».
Lasciarono l’haveli per un vicolo stretto, popolato solo da qualche gatto indolente che nemmeno si spostò al loro passaggio. Uscirono nelle strade di Jaipore. La luce del mattino svelava l’autentica bellezza della città. Era tutto luminoso, le varie tonalità di rosa erano più delicate del giorno precedente.
La maggior parte dei negozi era ancora chiusa e, quando superarono il Palazzo dei Venti, Eliza gli fece la domanda più scottante.
«Allora Jay? Com’è possibile tutto questo?»
«Sarà mio fratello minore a diventare maharajah, e Laxmi sarà la reggente. Avrà pieni poteri finché mio fratello non avrà raggiunto la maggiore età, e io sarò il suo consigliere».
«E tua madre ha acconsentito?»
«Lei ti adora, Eliza, e, quando ha capito quanto io fossi determinato, mi ha dato la sua benedizione, come anche gli inglesi. Li abbiamo messi di fronte al fatto compiuto e non hanno avuto più nulla a cui aggrapparsi».
«E che ne sarà di Priya?», chiese Eliza con le sopracciglia inarcate e il broncio, per prenderlo in giro. «Pensavo che sarebbe diventata tua moglie».
Jay fece una faccia disgustata. «Mai. D’ora in poi Priya dovrà stare al suo posto, anche se dubito che Laxmi insisterà per farla vestire di bianco e rimandarla dalla sua famiglia».
«Mi dispiace un po’ per lei».
Jay le mise un braccio sulle spalle. «Per questo mi piaci».
«E cosa è successo a Chatur?»
«È stato destituito e ha dovuto lasciare il palazzo. Ho nominato un nuovo dewan».
«Evviva!».
«Ora, la questione che più mi preme è: dove ci sposiamo? C’è un posto speciale per te? Un luogo che significa qualcosa?»
«Vuoi dire davvero che hai rinunciato a diventare maharajah per me? Ne sei proprio sicuro?».
Lui rise. «Non cambiare argomento. Dove? Puoi avere un matrimonio da favola al palazzo qui in città – sai, sono nostri amici – oppure potremmo fare una cerimonia riservata a Delhi. La reggia qui è proprio al centro di Jaipore ed è meravigliosa. Sembra una città, c’è di tutto, dai giardini di cipressi alle palme, fino alle stalle. Ci sono tessitori la cui unica occupazione è quella di tessere sete ricamate con fiori d’oro soltanto per gli elefanti. Il maharajah qui ha fatto ammaestrare dei ghepardi, potremmo usarli nella processione di nozze».
«Mi pare che basti!».
«Hai scelto Delhi?».
Eliza annuì. «La reggia qui sembra straordinaria, e deve essere il sogno di ogni ragazza, ma credo che un matrimonio da favola sarebbe molto triste per me, che non ho famiglia».
Jay si fermò e la guardò negli occhi. «A parte Indira».
«Te l’ha detto».
Lui annuì. «Ma avrei dovuto capirlo. Ha i tuoi stessi occhi».
«Sì, solo che i miei hanno il colore degli stagni e i suoi brillano come smeraldi».
«I tuoi occhi sono belli, proprio come te… Ricordi quando ti dissi che in qualche modo io e Indi eravamo legati, ma non sapevo in che modo?»
«E che stare insieme è il nostro destino? È la stessa cosa?»
«E chi lo sa? La vita a volte ha uno strano modo di combinare le cose. È buffa e imprevedibile».
«È bello, non è vero? Io e te. Noi?».
Jay rise. «Meravigliosamente bello. Anche per Indi. Adesso che diventerà mia cognata potrò provvedere alla sua dote».
«Prima non potevi farlo?»
«Non sarebbe stato facile. Siamo legati a determinate tradizioni, come sai».
Eliza era talmente felice da non riuscire a smettere di sorridere. «Sono così contenta che tu l’abbia perdonata. Temevo che le sarebbe accaduto qualcosa di brutto».
«Conosco un tizio, una testa calda, che finalmente potrà convincere sua madre».
«Dev?»
«Proprio lui».
Poi Eliza ebbe un improvviso moto d’ansia. «Sono preoccupata. E se un giorno tu dovessi prendertela con me? Sai, per aver dovuto rinunciare al trono».
«Ti preoccupi troppo. Credo che ben presto l’India cambierà completamente, prima ancora che possiamo accorgercene. In ogni caso, ho già molto da fare con il progetto idrico».
«Sì».
«A proposito, devo portarti lì per vedere le novità. Ho alcune nuove idee e, soprattutto, ho i permessi per deviare il fiume di cui ti avevo parlato. Farà un’enorme differenza. Inoltre, non dimenticare che dovrò lavorare come consigliere di Laxmi. Ma adesso basta parlare di questo. Ti ho già detto che sei bellissima oggi e che questo è proprio il momento giusto per fidanzarsi?»
«E io ti ho già detto che hai davvero delle ciglia meravigliose per essere un uomo?». Jay sbatté le palpebre e poi scoppiò a ridere.
«E sì, lo so che è la festa del Teej. Pregherò perché ci sia un lieto fine!».
«Ti sta molto bene l’henné sulle mani», continuò lui, poi fece una piccola pausa. «E cosa ne è della tua mostra?»
«Non ho ancora trovato una sede».
«Che ne dici della sala grande al mio palazzo? Dovremo far sistemare il pavimento, certamente, ma la luce è sublime e, se mandiamo tutti gli inviti per tempo, ci sarà la fila».
«Davvero? Oh, grazie. Mi piacerebbe molto».
«Piacere mio». Le sorrise, poi fece una piccola pausa. «Allora, quanti figli avremo?»
«Due forse, o forse tre?»
«Pensavo almeno cinque».
Eliza deglutì. Doveva dirglielo subito, o aspettare un po’, per esserne certa? Esitò, poi parlò con massima serietà: «Veramente, avrei qualcosa da aggiungere a questo proposito».
Anche lui si fece improvvisamente serio. «Non dobbiamo averne per forza. Voglio dire, se vuoi concentrarti sulla tua carriera e non vuoi…».
«Ma no! Sta’ zitto e ascoltami. Ho un ritardo. Soltanto di una settimana, quindi è troppo presto per saperlo con certezza, ma forse abbiamo già iniziato a lavorare al primo».
Jay alzò lo sguardo al cielo e si batté il petto con la mano; poi iniziò a ruggire dalle risate. Anche Eliza scoppiò a ridere. Con la coda dell’occhio vide i mercanti aprire le botteghe e sentì i primi tintinnii alle caviglie delle donne che passavano; tutti si girarono sorridenti a guardare lei e Jay che ridevano come matti.
Il sole era alto nel cielo e per la prima volta Eliza sentì che la sua vita era perfetta: ogni frammento di gioia andava assaporato, e quand’anche il dolore fosse arrivato, l’avrebbe affrontato a cuore aperto, sapendo che sarebbe sopravvissuta. Guardò l’esotica città rosa attorno a sé, ben sapendo che, alla fine, era riuscita ad andare avanti. Anche se avrebbe sempre amato suo padre, nonostante tutte le sue colpe, e avrebbe sempre pensato a sua madre con un senso di rimpianto, adesso le interessava il futuro: la sua carriera, il suo amore per Jay, la futura generazione. Sua madre si era sbagliata. Non c’era alcuna ragione per cui una donna non potesse avere tutto, ed Eliza giurò a se stessa che nei giorni e negli anni a venire lo avrebbe dimostrato. Non solo avrebbe proseguito con il mestiere che amava, avrebbe avuto anche una vera famiglia, tutta sua, che avrebbe incluso la sorella che aveva sempre desiderato. Alzò gli occhi al cielo. Sii felice per me, mamma, sussurrò. Sii felice.
Shubharambh Bagh, tre mesi dopo
Era una fresca giornata di ottobre, e il giorno della mostra fotografica di Eliza era finalmente giunto. Si alzò presto, lasciando Jay ancora addormentato, e, dopo essersi infilata una vestaglia, camminò per i corridoi del palazzo di Jay, che ora era anche casa sua. Eliza amava la luce luminosa del mattino e spesso si alzava prima degli altri solo per poterla ammirare. Talvolta ripensava a quanto era stata fortunata ad arrivare a quel punto. Lei e Jay si erano sposati con calma a Delhi, e adesso si stava abituando all’idea di diventare madre. Soprattutto, aveva portato a termine il progetto per l’archivio di Clifford, ed era stata pagata come da accordi. Sebbene Clifford non l’avesse mai ammesso apertamente, Eliza era ormai convinta che, mentre le sue intenzioni personali nei suoi confronti fossero onorevoli, avesse avuto anche un secondo fine nel farla andare alla reggia; ovvero voleva che, oltre a scattare fotografie, lei tenesse d’occhio la famiglia reale e gli riferisse tutto.
Quando raggiunse la grande sala delle udienze di Jay, con le finestre alte e il pavimento appena ristrutturato, Eliza guardò le settantacinque fotografie che aveva appeso nelle ultime due settimane. Jay si era rimboccato le maniche e aveva lavorato assieme a lei per poter presentare le opere nella miglior luce possibile. Ognuna era stata posta elegantemente in una cornice nera, a uguale distanza dalle altre, lungo tutta una parete. I volti fieri dei nobili attiravano l’attenzione, ma anche le facce degli abitanti dei villaggi, i bambini, e i poveri. Ogni attimo era stato catturato, a volte in un’immagine più granulosa e morbida, a volte con una luce dura e tagliente, a volte persino in ombra. Ogni fotografia era un’opera d’arte ed Eliza ne era molto orgogliosa. Sul muro di fronte, a contrasto con le fotografie in bianco e nero, c’erano dieci vasi di porcellana pieni di rose profumate, i cui petali dondolavano nella brezza leggera, alternati a sedie dipinte per i visitatori che volessero sedersi per ammirare la mostra. Eliza percorse la parete controllando ogni immagine; raddrizzò una foto, toccò la superficie di un’altra, si assicurò che ognuna fosse appesa esattamente al suo posto. Po tornò al piano superiore per svegliare suo marito.
Quel pomeriggio Eliza scivolò in un lungo abito nero, largo sul suo ventre che cresceva, e Kiri, che era venuta a vivere con lei, le adornò i capelli con una rosa rossa. Sopra le spalle aveva uno scialle di seta bianca, e quando Jay la vide fece un fischio. «Be’, mia cara, sei ancora più bella delle tue fotografie».
Lei sorrise felice. Jay indossava un abito tradizionale Rajput, un angharki scuro, con dei ricami neri, rossi e bianchi sulla parte anteriore. Era appena uscito dal bagno e i suoi capelli erano ancora umidi. Lei gli si avvicinò e gli accarezzò la guancia.
«Anche tu fai la tua bella figura».
Poi bussarono alla porta e Jay andò ad aprire.
Indi entrò nella stanza. «Ho appena ordinato altre rose», disse. Indi era la responsabile di tutte quelle decorazioni floreali, aveva organizzato il buffet per il vernissage della mostra e in quel momento indossava un abito di seta rossa di foggia europea. «Sei pronta? Mi sembra di aver sentito arrivare la prima automobile».
Eliza guardò Jay e improvvisamente si innervosì. Cosa sarebbe accaduto se la gente non fosse venuta? O se i suoi lavori non fossero piaciuti a nessuno? O se tutti fossero rimasti a fissare come allocchi la sposa inglese del principe?
«Vado giù», disse Jay. «È meglio se fai il tuo ingresso soltanto una volta che la sala si sarà riempita».
Lei annuì in silenzio e Jay le si avvicinò per baciarla sulla fronte. «Andrà tutto bene. Te lo prometto. Non abbiamo spedito inviti a mezzo mondo?». Si voltò. «Dài, Indi, scendiamo».
Jay aveva ragione. Avevano spedito inviti agli studi fotografici di Delhi, Jaipore e Udaipore. Il «Times» indiano e quello dell’Hindustan erano stati invitati, così come lo «Statesman», oltre a tutti i nobili conosciuti da Jay e agli uomini d’affari. Eliza aveva insistito per invitare anche i locali, affinché vedessero le fotografie e partecipassero al vernissage.
Anche Dev sarebbe arrivato, adesso che era chiaro che Clifford non l’avrebbe fatto arrestare. Da sola, nella camera da letto che condivideva con Jay, Eliza si guardò allo specchio. Anche se la sua pelle era luminosa, sana, e i suoi occhi brillavano, non riusciva a placare l’ansia; per lo meno, però, riusciva a sentire il rumore delle automobili che stavano arrivando in quel momento.
Respirò profondamente.
«Signora?», la chiamò Kiri. «È pronta?». Eliza annuì e deglutì, poi, con l’incedere di una regina indiana, avanzò fino alla cima della grande scalinata che conduceva alla sala. Rimase a fissarsi i piedi per qualche momento, sentendosi avvampare, col cuore in gola.
Quando ebbe il coraggio di guardare giù, dove si era raccolta una piccola folla, si stupì nel vedere la sala piena di persone sorridenti e di sguardi puntati su di lei. Quando mosse i primi passi, partì un grande applauso. Eliza ricacciò indietro le lacrime, sentiva che il cuore le stava per scoppiare; gli applausi entusiasti l’accompagnarono finché non raggiunse il fondo della scala, dove Jay la stava aspettando.
«Lascia che ti presenti a Giles Wallbank», le disse mentre lei gli andava vicino.
«Come sta?», le chiese l’uomo biondo, sorridente, che le tendeva la mano. «Devo ammettere che queste fotografie sono davvero straordinarie. Ci piacerebbe pubblicarne una selezione sul “Photographic Times”. Per lei andrebbe bene?».
Lei gli fece un gran sorriso. «Nulla potrebbe rendermi più felice».
«Allora ne parleremo più tardi, e le farò preparare un contratto il prima possibile. Adesso la lascio a godersi il suo successo».
Quando l’uomo si fu allontanato, Jay la prese per mano e si mise a sussurrarle all’orecchio. «Guarda che reazione», commentò, e indicò la gente che annuiva di fronte alle sue fotografie e che faceva la fila per parlare con lei.
Eliza non avrebbe mai dimenticato quel giorno, mai in tutta la sua vita. Era tornata in India insicura di sé e delle proprie abilità come fotografa. Non sapeva chi fosse realmente. E tutto era cambiato. Non sapeva cosa l’attendesse in futuro, ma per il momento la sua vita non sarebbe potuta essere più perfetta – a parte per un dettaglio, ossia che il suo bambino nascesse sano. Eliza guardò negli occhi Jay, il riflesso della sua anima, e dovette sbattere le palpebre più velocemente di prima.
«Ce l’hai fatta, amore mio», le disse Jay. «Ce l’hai fatta. E io non potrei esserne più orgoglioso».