«Non capisco».
«Ha chiesto dei soldi alla banca, che non ha restituito. Dando a garanzia le sue proprietà».
Louisa fu nuovamente colta alla sprovvista, tanto che faticò a resistere alla tentazione di lasciare la stanza. Aveva dei debiti, quindi. Eppure le aveva assicurato di avere solo qualche piccolo debito di gioco.
«Si sente bene, signora Reeve?», chiese Withington.
No, pensò lei, nemmeno un po’. Si ricordò delle mani di Elliot che le accarezzavano i capelli, delle sue labbra che la baciavano, e fu percorsa da un brivido.
Irene e Harold rientrarono a Colombo, mentre Margo decise di fermarsi a dare una mano a Louisa, anche se Louisa era segretamente convinta che in realtà sua cognata trovasse meno doloroso stare con lei che con sua madre. Pensò ad Harold, ai suoi capelli radi, ai suoi folti baffi. Quella sua espressione triste e sconfitta non gli impediva di essere un uomo gentile. E doveva essere stato anche bello, un tempo, come Elliot. Ma ormai era l’ombra di se stesso, e Louisa provava sempre tenerezza per lui quando lo incontrava. Tentava costantemente, sebbene invano, di mettere a tacere i commenti acidi di sua moglie. Che l’amasse era fuori di dubbio, e Louisa pensava che Elliot e Margo fossero diventati degli adulti “decenti” solo grazie al padre. La povera Margo, che aveva pianto così tanto all’inizio, sembrava aver adottato un atteggiamento più pragmatico. Louisa si augurò che non si stesse tenendo tutto dentro.
Mentre Louisa era in riunione con l’avvocato e il commercialista Margo era uscita in giardino e, non appena se ne furono andati, Louisa la raggiunse di corsa.
«Santo cielo!», le disse Margo. «Sei pallidissima».
«Ti dispiacerebbe prendermi un brandy?».
Margo entrò in casa e Louisa si sedette a guardare le foglie mosse dal vento, ripensando a quel che le avevano appena detto. La raggiunse un intenso profumo di gelsomino, le canne gialle e rosse erano più sgargianti che mai.
Prese il bicchiere e sorseggiò il brandy, sollevata e scaldata da quel morbido liquido ambrato. Era incerta se parlare con Margo, perché le sembrava di mancare in qualche modo di rispetto a Elliot. Doveva aver avuto sicuramente una buona ragione per ritirare tutti quei soldi, per chiedere un prestito e per non aver depositato le azioni della piantagione di cannella presso il loro avvocato. Tuttavia, qualsiasi fossero queste ragioni, non le aveva condivise con lei. Alla fine decise di raccontarle tutto.
«Sono sicura che ci sia una risposta per tutto, magari anche molto semplice, ma mi serve il tuo aiuto».
«Qualsiasi cosa».
«Pare che Elliot abbia completamente svuotato il suo conto prima di morire. Ho bisogno di setacciare lo studio per trovare i soldi».
«Oddio. Va bene, ti aiuto a cercare».
«E non è tutto. Devo anche trovare le azioni di Cinnamon Hills. Pensavo che le avesse l’avvocato, e invece lui non ne sapeva niente. Devono essere qui anche quelle».
Una volta nello studio Louisa aprì la cassaforte e la trovò vuota, a parte qualche banconota e i suoi gioielli. Poi si guardò attorno. La camera non era in ordine, la scrivania era piena di fogli e lettere, di cui si occupò Margo mentre Louisa iniziò a cercare nella cassettiera. Due cassetti contenevano duplicati delle transazioni relative al lavoro con le pietre preziose, e solo l’ultimo conteneva documenti personali. Si aspettava di trovarci un’assicurazione sulla vita, ma non ce n’era traccia. Trovò alcune vecchie lettere da parte di Irene, ma niente soldi e niente ricevute delle azioni. Su uno scaffale c’erano diversi scatoloni, decisero di dividerseli e di cercare anche lì, ma non trovarono nulla, eccetto altri documenti relativi al lavoro di taglio e lucidatura delle gemme.
Margo guardò anche nei cassetti della scrivania, ma non c’era niente. «Dove altro potrebbe aver messo quelle ricevute?», disse.
«Scusa se te lo chiedo, ma andresti a controllare i suoi cassetti in camera da letto? Io non mi sento ancora pronta a toccare i suoi effetti personali».
Rimasta sola nello studio, Louisa provò a rimettere in ordine. Se non avevano trovato niente lì, allora l’unico altro posto in cui cercare era l’ufficio alla Hardcastle Gems, anche se era certa che Elliot non tenesse niente di personale lì. Ma che fine avevano fatto i soldi? Era quasi arrivata alla conclusione che fosse tutto in camera da letto quando Margo la raggiunse scuotendo la testa.
«È stato terribile», disse.
«Non avrei dovuto chiedertelo».
«Non preoccuparti».
Louisa si abbandonò sulla sedia.
«Coraggio, Lou, non disperare. Troveremo i soldi, vedrai, e anche le azioni».
Louisa la guardò. «Vorrei solo che Elliot non mi avesse tenuto all’oscuro di tutto».
Seguì un breve silenzio.
«Che c’è?», chiese Louisa vedendo la cognata improvvisamente a disagio.
«So che non è il momento migliore, ma devo andare a Colombo domani. Poco fa ha chiamato mio padre, mamma non si sente bene e non riesce a gestirla da solo. È convinto che abbia bisogno di me».
«Lo capisco».
«Mi dispiace. Ma ti prometto che tornerò appena mamma starà meglio».
Louisa scosse la testa. «Prenditi tutto il tempo che ti serve. Io me la caverò. La mia più grande preoccupazione al momento è recuperare le azioni, o i soldi. Sono l’erede, certo, ma bisogna prima di tutto ripagare il prestito con i capitali che Elliot ha lasciato, in altre parole il denaro, gli investimenti, le proprietà».
«Il prestito?»
«Sì. Aveva un grosso debito con la banca. Dio solo sa cosa dirà mio padre».
«E tu non ne sapevi niente?»
«Assolutamente no, niente».
A quel punto entrò Ashan, visibilmente preoccupato, per annunciarle che l’ispettore di polizia voleva parlare con lei. Louisa sospirò, e lo seguì in salotto.
C’era solo una cosa da fare, e così l’indomani – era una magnifica mattina di sole –, dopo che Margo fu ripartita per Colombo all’alba, Louisa partì da Galle a bordo della loro Triumph Dolomite alla volta di Cinnamon Hills. Sperò di ricordarsi la strada a memoria.
Durante il viaggio ripensò a quello che le aveva detto l’ispettore. La macchina che guidava Elliot apparteneva al suo compagno di vela, Jeremy Pike, proprio la persona con cui aveva detto che sarebbe stato quel giorno. L’ispettore non sapeva perché, ma la cosa era stata confermata anche dalla governante di Pike, poiché lui era fuori città per lavoro. Louisa non capiva: se quel giorno doveva recarsi a Colombo, perché non gliel’aveva semplicemente detto? E perché non aveva usato la loro macchina?
Per fortuna non era arrivato alcun carico di gomma e l’aria lungo la baia sapeva solo di sale. Guardò le navi ormeggiate a largo di Rumassala Hill. Dopo diversi chilometri di costa, svoltò a sinistra e iniziò a salire verso la casa in cima alla collina, quella con la vista meravigliosa. Era più un sentiero sterrato che una strada vera e propria, e sperò di non trovarsi in difficoltà.
Tirò giù il finestrino, l’aria era profumata di cannella, orchidee e rododendro. Quel luogo era molto seducente. Sentì delle voci, forse il grido di un bambino e un adulto che gli rispondeva, ma passò oltre. Non erano fatti suoi.
Poco dopo fu sopraffatta dal feroce vuoto che l’attendeva. Come avrebbe trovato una ragione per alzarsi al mattino, per vivere, per respirare? Tuttavia, si disse, la vita e la respirazione sarebbero andate avanti comunque, senza bisogno della sua volontà. “Dovremmo essere Elliot e io, non io da sola”. Provava una gran paura e un forte senso di solitudine. Se un uomo così giovane e in salute come Elliot poteva morire, quanto era fragile il mondo in cui viveva? Quanto era fragile la vita stessa?
Per un momento considerò l’idea di tornare indietro, ma doveva assolutamente sapere se Elliot conservava le ricevute lì alla piantagione. Era abbastanza sicura che fossero lì, anche perché non le aveva trovate nemmeno nel suo ufficio, quindi non c’era altro posto in cui guardare. Se fosse riuscita a darsi almeno una risposta, forse avrebbe cominciato a sentirsi anche solo un po’ meglio, nonostante il fatto che Elliot non le avesse detto che sarebbe andato a Colombo proprio il giorno in cui aveva perso la vita la turbava molto. Che motivo poteva aver avuto di nasconderle una cosa del genere?
Giunta in cima alla collina si fermò, e scorse la motocicletta di Leo McNairn parcheggiata esattamente nello stesso punto in cui l’aveva vista la volta prima. Esitò ancora, ma poi lo vide affacciarsi alla porta d’ingresso e si ricordò che era venuto al funerale ed era stato gentile.
«Signora Reeve», la salutò mentre lei guardava le ciocche più chiare tra i suoi capelli rossi. «Come sta?».
Lei si strinse nelle spalle. «Be’… insomma. Ma diamoci del tu».
«Mi spiace davvero per tuo marito, dev’essere terribile. C’è qualcosa che posso fare per te?»
«In effetti sì. Avrei bisogno di chiederti una cosa».
Sorrise, con un calore genuino negli occhi. «Non c’è problema. Prego, accomodati, c’è troppa umidità qui fuori».
Raggiunsero un salottino al primo piano, e di là uscirono su una veranda. Aveva una copertura in legno scuro, pareti color ocra e un pavimento in cotto, e dava su un boschetto di palme. Dal soffitto pendevano rigogliose felci verdi. C’era una vista spettacolare.
«Che bello», disse Louisa guardando oltre la cima degli alberi a perdita d’occhio fino all’oceano blu in lontananza.
Le fece segno di accomodarsi.
In fondo alla veranda c’era una vecchia chaise longue, diverse sedie e un tavolino basso ricoperto di libri. Leo chiamò un cameriere e gli chiese di liberare il tavolino e servire il tè. Poi si accomodarono entrambi su due vecchie poltrone in rattan.
«È davvero pesante quando non soffia un alito di vento».
«Sono sicura che non è sempre così quassù».
Annuì. «Hai ragione. Dipende dall’ora del giorno. Per chi lavora la terra sono molto meglio il tramonto e le ore immediatamente dopo il sorgere del sole. Più sopportabili e soprattutto più produttive».
L’attenzione di Louisa fu attirata da una serie di suoni provenienti dalla vegetazione che cresceva selvaggia dietro la casa.
«Scimmie», disse lui indovinando i suoi pensieri. «A nord di qui la giungla è ancora incontaminata».
Louisa sistemò un cuscino e indicò con un ampio movimento del braccio la vista fino al mare. «Devi amare molto questo posto».
«Infatti, anche se inizialmente ho avuto le mie perplessità a rilevarlo».
«E perché?».
McNairn fece una piccola smorfia e scosse brevemente la testa. «È un impegno non indifferente».
«Ma di sicuro il paesaggio è incantevole, no?».
Guardò il suo bel viso abbronzato, con quegli occhi scuri che sembravano riflettere qualcosa del cielo. Era vestito in modo piuttosto trasandato, calzoncini e una vecchia camicia. Di sicuro non sembrava un uomo interessato alle apparenze, né un uomo di troppe parole. E mentre sedevano così, in silenzio, Louisa provò una serie di emozioni contrastanti. Certo, era difficile restargli indifferente, e si stupì di quanto le facesse piacere stare in sua compagnia. Aveva avuto la stessa sensazione al funerale quando le aveva fatto le condoglianze, commuovendola quasi fino alle lacrime.
Il cameriere arrivò con il tè, e il suono delle tazze ruppe il silenzio.
Leo ne prese un sorso e si abbandonò all’indietro sulla poltrona, guardandola. «Allora? Di cosa si tratta, cosa posso fare per te?».
Louisa sospirò, indecisa su quanto rivelare, mentre lui la fissava intensamente, in attesa della risposta.
«Si tratta di questo, so che può sembrare strano, ma mi chiedevo se per caso Elliot avesse lasciato qui le ricevute delle azioni. Non le trovo da nessuna parte».
«Le azioni?»
«Sì, sono davvero dispiaciuta, ma temo di doverle rivendere».
McNairn era perplesso.
«Mi riferisco alle azioni di Elliot nella piantagione. Ha investito dei soldi qui, giusto?».
Leo scosse la testa e si guardò attorno con una certa esitazione prima di abbassare lo sguardo a terra e poi di nuovo su di lei. «Non so di cosa parli, io…».
Louisa lo interruppe. «Ma, veramente è stato Elliot a parlarmene. Mi ha detto che veniva qui spesso per fare delle riunioni, per risollevare le sorti della piantagione…».
«Mi spiace davvero, Louisa, ma Elliot non ha mai investito in questa piantagione».
Louisa restò senza parole per un istante, quasi rifiutandosi di accettare quelle parole. «Che cosa intendi, scusa?».
Lui sembrava altrettanto confuso.
Louisa non sapeva come comportarsi, ma sperava almeno di riuscire a dissimulare il suo shock. Tuttavia, si sentiva così disorientata che le girava la testa. Elliot le aveva raccontato quell’investimento fin nei dettagli… Quando iniziarono a tremarle le mani si alzò e andò ad appoggiarsi contro il legno della balconata.
Tentò di dire qualcosa, ma non riuscì a pronunciare una sola parola, solo un suono che era a metà tra un gemito e un colpo di tosse. Si sentiva spezzata e incapace di ricomporsi, come Humpty Dumpty, si disse. Ma almeno lui aveva “tutti i cavalli e gli uomini del re”. Si voltò a guardare Leo.
«Ne sei sicuro?»
«Temo di sì. La piantagione è mia, non ci sono partecipazioni».
«Elliot ha lasciato dei soldi per te in un conto bancario. Hai idea del perché l’abbia fatto?».
McNairn distolse lo sguardo e lei ebbe la netta sensazione che fosse sul punto di dire qualcosa. L’atmosfera tra di loro era cambiata, ed era palpabile una certa tensione.
«Non lo so», rispose infine Leo.
«Non capisco», disse Louisa. «Perché veniva qui tanto spesso? Veniva davvero qui? E perché raccontarmi di aver investito nella piantagione?».
Leo scosse la testa.
Dopo qualche momento di silenzio Louisa abbassò lo sguardo. «Bene, è ora che vada. La cifra non è altissima, ti farò avere i soldi al più presto».
Le risposte di Leo non avevano affatto aiutato Louisa a capire dove andava Elliot quando diceva di essere a Cinnamon Hills, e moriva dalla voglia di sapere perché l’avesse ingannata. La sua scomparsa improvvisa l’aveva sconvolta, e scoprire che l’uomo che aveva tanto amato, di cui si fidava, le avesse mentito in quel modo... e non solo a proposito della barca a vela, era incomprensibile. Si sentì travolgere dal panico in un’ondata di calore. Se non poteva più credere in quel che c’era stato tra loro, se non poteva credere nel passato, in cosa poteva credere adesso?
Lo guardò. «E tua cugina dov’è ora?»
«Vive nel bungalow, a metà della collina. È un’artista». Si alzò in piedi. «Ascolta Louisa, mi spiace davvero».
Lei sospirò profondamente, ma non rispose.
«Ti accompagno, ora, ma ti prego di farmi sapere in futuro se c’è qualcosa che posso fare per te».
Lo seguì. Una volta in fondo alle scale si strinsero la mano.
Louisa gli rivolse un ultimo sguardo prima di risalire in macchina e iniziare a scendere. Dopo qualche minuto si fermò e scese dalla macchina. Voleva dare un’occhiata alla piantagione. Seguì con cautela un percorso tra gli alberi di cannella, ancora bassi, e presto si trovò più o meno a metà della collina. Vide un esercito di formiche dall’aria feroce attraversare il sentiero e poi uno scoiattolo striato arrampicarsi veloce su un albero. Un rumore improvviso la fece trasalire. Si guardò attorno, ma non vide niente. Si disse che doveva essere stato uno di quegli elefanti utilizzati per aprire i sentieri, per sradicare gli alberi e spostare i tronchi. Restò ferma un istante. Le volò sulla testa un nugolo di farfalle, mentre la gradevole ombra e il profumo intenso degli alberi le risollevavano un poco il morale. In quel luogo era come se il tempo si fermasse, sembrava di essere in un altro mondo; non che questo azzerasse le sue angosce, ma le dava un senso di pace. Poi, in una piccola radura, incontrò una donna dai capelli rossi ferma contro il tronco di un grande albero. Aveva gli occhi chiusi, e dal viso gonfio sembrava avesse pianto molto.
Louisa avrebbe voluto essere invisibile, non sapeva se andarsene in punta di piedi o dire qualcosa. Quella donna era chiaramente agitata – sembrava che non si fosse nemmeno pettinata ed era vestita in modo del tutto casuale. Anzi, non era nemmeno certa che fossero abiti veri e propri, e non una specie di vestaglia da casa.
«Posso fare qualcosa per lei?», chiese Louisa avvicinandosi.
La donna spalancò gli occhi. «Chi sei?»
«Louisa Reeve».
La donna le guardò i piedi.
«Dev’essere la cugina di Leo, vero? Vive in un posto meraviglioso…».
La donna si girò e iniziò ad aprirsi una strada tra gli alberi lontano dalla radura. Louisa tornò alla macchina e uno stormo di una ventina di parrochetti verdi con il becco rosso e il collo rosa volò da un albero all’altro. Si fermò a guardarli, presa da tante emozioni diverse. Non sapeva come quella donna potesse essere tanto sconvolta pur vivendo in un tale paradiso, e provò nuovamente una strana amarezza. Perché? Cosa c’era lì che la toccava così profondamente? Ripensò alle parole di Leo: Elliot non aveva investito in quel posto. Non c’erano azioni. Le aveva detto la verità? Come avrebbe potuto scoprirlo?
Era stato Elliot a dare una struttura, un significato alla sua vita. Le sembrava ancora di vederlo dormire accanto a lei, e quando al mattino apriva gli occhi e girava lo sguardo su quello spazio vuoto dalla sua parte del letto, la percorreva un brivido doloroso al pensiero che Elliot non ci fosse più. Da quando era morto c’erano volte in cui Louisa si dimenticava di respirare, restando spesso letteralmente senza fiato. Respira, si diceva, respira. Ma poi la cosa si ripeteva di lì a pochi minuti e si ritrovava con le mani al petto a risucchiare aria come fosse la vita stessa. Se le aveva mentito su quelle azioni di sicuro aveva avuto solide ragioni per farlo.
Sopraffatta dai pensieri, pensò che le avrebbe fatto bene stare in compagnia di qualcuno che potesse capirla, che avesse subìto una perdita come lei e che l’avesse superata. Suo padre era sempre presente e di grande conforto, ma della morte di sua moglie non parlava quasi mai. Le serviva un’altra donna, qualcuno che avesse provato lo stesso panico, che fosse passata attraverso le stesse notti insonni, la stessa dolorosa disconnessione. Voleva potersi sentire libera di parlare. Gwen non aveva perso un marito, ma aveva perso una figlia. Certo erano due cose molto diverse, ma Gwen era l’unica persona che avrebbe potuto capire davvero come si sentiva lei, e cioè come se un pesante macigno le si fosse piantato sul petto, come se il suo cuore si fosse chiuso per sempre. Allora le telefonò e le chiese se il suo invito era ancora valido. Gwen le rispose di sì e qualche giorno dopo Louisa si mise in viaggio alla volta della Contea del tè.
Non aveva mai guidato così tanto da sola, e malgrado le dettagliate indicazioni di Gwen aveva comunque paura di sbagliare strada. Tuttavia in quel momento qualsiasi prospettiva era migliore rispetto all’idea di rimanere a casa. Dopo aver lasciato Galle attraversò la foresta pluviale e fu sorpresa di notare quanto fosse diverso il paesaggio da quelle parti. Passò accanto al fiume Gin Ganga. Dove un gruppo di bambini mezzi nudi giocavano a tirare sassi a una stazione della polizia. Arrivata al ponte esitò. Appariva ben saldo sui pilastri di cemento, mentre le ringhiere ai due lati, al contrario, sembravano molto esili.
Iniziarono a tremarle le mani e si fermò. Scese dall’auto. Guardò il fiume impetuoso in basso, e poi il cielo pieno di creature volanti. Udì qualche animale che si muoveva nel sottobosco, respirò a fondo. Gli uccelli cinguettavano e, a parte qualche randagio addormentato ai lati della strada, quel posto sembrava pieno di vita. Poi, proprio quando le parve di sentirsi pronta a rimettersi in macchina, fu di nuovo sopraffatta dalla paura e pregò che il coraggio non la abbandonasse.
Afferrò forte il volante e affrontò il ponte senza problemi, poi superò una serie di edifici per la lavorazione della gomma e svoltò infine su una strada più stretta, poco dopo un tempio. Vide un gruppo di monaci vestiti di giallo seduti su una gradinata, uno di loro fumava una specie di pipa. Dopo un po’ girò di nuovo e, attraversato un altro fiume, iniziò a risalire un passo di montagna immerso in una fitta foresta. Gwen l’aveva avvisata che la strada era faticosa e che il viaggio sarebbe durato per buona parte della giornata, ma Louisa non poteva fare a meno di provare una certa eccitazione, nonostante la stanchezza e la fame. Era tutto nuovo per lei, e le stava piacendo. Si fermò presso un secondo tempio e calcolando di trovarsi più o meno a metà strada decise di fare una breve pausa e mangiare i panini che Camille le aveva preparato.
Un gruppo di langur dalla faccia viola la osservava in silenzio, e in quel momento si rese conto di quanto fosse incredibile l’avventura in cui si era lanciata. Le venne da ridere. Se solo Elliot avesse potuto vederla in quel momento.
Riprese a guidare su per le colline, verso Hatton. Dopo l’ennesima curva raggiunse infine la cima della collina che affacciava sulla piantagione di tè degli Hooper, una vista che le tolse il fiato. C’era una fila di liriodendri lungo la strada e vide che la piantagione era a forma di L. Fermò la macchina per godersi il panorama fino al lago scintillante in basso. Era un luogo incredibilmente bello e le parve di provare un debole senso di speranza. Possibile che fosse arrivata nel posto giusto?
Giunse in fondo alla strada e parcheggiò. Gwen uscì di casa correndo con i boccoli che ondeggiavano in ogni direzione.
«Louisa, sono così felice che tu ce l’abbia fatta. È stato un viaggio faticoso? Devi essere esausta».
Louisa scosse la testa. «Sono davvero fiera di me: non mi sono mai persa».
«Ottimo. Lascia pure la valigia. Ci penserà uno dei camerieri a portarla in casa. Andiamo sulla veranda, ti offro qualcosa di fresco».
Entrarono in casa per poi uscire di nuovo attraverso un’elegante portafinestra. Accecata dalla luce, Louisa commentò l’aria fresca e frizzante.
«È davvero pieno di vita qui».
«Sì, specialmente al mattino o nel tardo pomeriggio, come ora».
Arrivarono i loro drink e Louisa apprezzò tantissimo la sensazione di tenere in mano un bicchiere fresco.
«Ti lascerò andare a riposare e a rinfrescarti, ma pensavo che avresti avuto piacere di fare due chiacchiere prima».
Louisa guardò il giardino a terrazze che scendeva fiorito e rigoglioso fino al lago attraverso sentieri e viottoli, e infine il lago stesso, di un magnifico color turchese.
«Allora, dimmi, come te la stai cavando?», le chiese. «Non immagini quanto sia addolorata per quello che è successo. Devi essere stravolta».
«Non è facile. E anche se mio padre è un amore, ora che mia cognata è tornata dai suoi a Colombo… nessuno sa cosa dirmi».
«Sì, mi è successa la stessa cosa dopo la morte di Liyoni. Tutti mi giravano intorno in punta di piedi e io avevo una gran voglia di urlare».
«E come te la sei cavata?»
«È difficile ricordare quei primi giorni. Mi sembrava che il mondo stesse per finire, ma poi ho ricominciato a vivere, semplicemente mettendo un passo avanti all’altro e limitandomi a fare quello che dovevo fare. Non è passato molto da allora, ma posso dire che ora è diventato tutto più facile».
«Io ho tanta paura di non tornare più come prima».
«Be’, sicuramente non sarai più la stessa. Certe cose ti cambiano. È importante, piuttosto, capire chi sei diventata e farci l’abitudine».
«Mi ritrovo a piangere in momenti assurdi».
«Lo so, capita anche a me».
«Ancora adesso?».
Gwen annuì. «E mi sento ancora così piena di rabbia».
Louisa annuì. «Mi travolge quando meno me l’aspetto, ed è così forte da farmi tremare».
«Io mi sono sentita come se il mondo fosse finito, e lo era davvero. Non mi sentivo nemmeno viva, ero distrutta. Letteralmente».
«Grazie per la tua onestà», disse Louisa. «Sono così felice di essere venuta».
«Spero che ti faccia bene. Nella peggiore delle ipotesi, avrai passato qualche giorno diverso. Quando vedi che riesci ad andare avanti, a vivere, a provare emozioni e sentimenti, allora anche il tuo cuore sarà più leggero».
Restarono sedute in silenzio per qualche minuto.
«Abbiamo un ospite a cena. Speravo che potessimo essere solo noi tre ma è arrivato Savi Ravasinghe per discutere alcune questioni con Laurence circa la piantagione. Viene in vece di sua moglie, mia cugina Fran, che ha acquistato delle azioni, qui. Ma Savi ti piacerà, vedrai. È un artista ed è molto gentile. Pensi di farcela?»
«Ma certo».
«Se preferisci possiamo servirti la cena in camera».
«No, mi farà bene. Ho avuto così poca compagnia da quando Elliot è morto».
«Bene. Savi è un uomo delizioso, con lui puoi parlare di qualsiasi cosa, vedrai. E adesso vieni, ti mostro la tua stanza».
Rientrarono in casa e salirono le scale. Poi percorsero un lungo corridoio. Gwen aprì la porta di una camera che aveva finestre su ogni lato. «Amo questa stanza, è così spaziosa e luminosa. Che ne dici? Il bagno è proprio qui accanto. La cena è alle otto».
Louisa si guardò attorno. «Grazie, è deliziosa».
Quando Gwen se ne fu andata Louisa andò ad affacciarsi alla finestra che dava sul giardino e sul lago e prese una bella boccata d’aria fresca. Attorno al lago crescevano cespugli di tè in file ordinate, e c’erano raccoglitrici con sari coloratissimi intente nel loro lavoro. Rosa, verdi, viola e blu. Le dava un tale senso di pace quella visione, si sentiva veramente rilassata. Era un posto magico, e già le sembrava che il peso sul suo cuore si fosse un po’ alleggerito. Per alcuni minuti si era davvero dimenticata di Elliot.
Ma non durò a lungo. Sdraiata sul letto a riposare, era divisa tra il dolore per averlo perso e il peso di tutte le sue menzogne. La paura più grande era quella di non sapere, dopo dodici anni di matrimonio, chi fosse stato davvero Elliot. E se l’amore che aveva creduto vero fosse stato in realtà qualcos’altro?
Ascoltò il canto degli uccelli e vide il cielo scurirsi. Era ora di prepararsi per la cena e indossare una maschera più allegra. Decise di indossare un abito blu scuro, con la vita alta e stretta. Dopo essersi anche spazzolata i capelli biondi, si sentì un po’ meglio.
Entrò nello studio per l’aperitivo e vide una serie di alte finestre che occupavano una parete intera. Le imposte erano state lasciate mezze aperte, e intravide la luce della luna che illuminava il giardino. La stanza dava proprio sul lago scintillante, aveva pareti dipinte in un tenue blu-verde ed era molto accogliente, con poltrone comode e due divani pieni di cuscini ricamati a mano con immagini di uccelli, elefanti e fiori esotici. Su uno dei due divani c’era anche una pelle di leopardo.
«Vieni, siediti qui con Savi», le disse Gwen alzandosi per accoglierla.
In quello stesso momento si alzò in piedi anche un elegante singalese. Aveva capelli lunghi, il naso leggermente arcuato e sorridenti occhi color caramello, con sopracciglia folte. Le prese la mano. «Lei dev’essere Louisa. Piacere, sono Savi Ravasinghe».
«Molto piacere», disse lei stringendogli la mano.
«Vuole sedersi?», le chiese.
«Sì, accomodati», disse Gwen. «Io vado a controllare che la ayah sia con la piccola. Laurence arriverà a momenti. Louisa, mangi volentieri la cucina singalese?»
«Sì, perfetto, grazie».
«Dunque», disse Savi quando furono soli. «Mi dica qualcosa di lei».
Louisa prese un bel respiro. Era strano incontrare persone nuove. «Be’, non so cosa già sappia di me».
«So che ha recentemente perso suo marito. E le faccio le mie condoglianze. Le dispiace che sia stato io a tirare fuori l’argomento?»
«No, tutt’altro».
Le sorrise. «Lo capisco. Come saprà Gwen ha perso una figlia…».
«Sì, lo so. E penso sia per questo che mi ha invitato a passare qualche giorno qui».
«È una donna molto empatica. Mia moglie la adora».
«Dov’è sua moglie?»
«Ha degli affari in Inghilterra, ed è lì che viviamo per la maggior parte del tempo. Ma a me piace tornare a casa ogni tanto e fermarmi qualche mese. Ho un appartamento a Colombo, a Cinnamon Gardens. Fran, mia moglie, viene spesso con me. Ma questa volta è rimasta a casa».
Era piuttosto inusuale incontrare matrimoni misti in Sri Lanka, ma Louisa sapeva che un tempo erano più frequenti.
«Avete avuto molte difficoltà? Lei e sua moglie, intendo».
«Più che altro in Inghilterra, a dire la verità». Sorrise. «Qui siamo ben tollerati».
«Mi fa piacere».
«Ho sentito che vive a Galle».
«Sì, sono nata lì e non la cambierei con nessun altro posto al mondo. Anche se devo dire che qui è una meraviglia, e recentemente ho avuto modo di visitare una piantagione di cannella di cui mi sono innamorata».
«Sapevo di una donna che era andata a vivere in una piantagione di cannella non lontano da Galle. Un’artista piuttosto nota a Colombo che di punto in bianco è scomparsa, o almeno così si diceva. Non ricordo il suo nome».
«Ah».
«Era un nome piuttosto insolito, strano che non mi venga in mente».
Louisa era sorpresa. «Aveva forse i capelli rossi?»
«Sì! Non mi dica che la conosce».
Scosse la testa. «No, non la conosco, ma credo di averla incontrata una volta, seppure molto brevemente».
«Il mondo è davvero piccolo».
«E non sa perché se n’era andata via dalla città?»
«Credo che nessuno lo sappia, in realtà. Ma di tanto in tanto mi capita di vedere le sue tele in vendita, quindi immagino che dipinga ancora».
«E nessuno la vede mai?»
«No. Ah, guardi, è arrivato Laurence».
Louisa annuì, mentre l’alto marito di Gwen si avvicinava. Era un uomo dalle spalle larghe, con i capelli corti, castani, leggermente grigi sulle tempie, e un ampio sorriso. Ripensò all’ultima volta in cui l’aveva visto, alla festa di Natale, quando tutto sembrava ancora perfetto. Di colpo sentì un vento freddo sul cuore. Come poteva cambiare velocemente la vita. E definitivamente.
La mattina dopo al risveglio, subito dopo l’alba, Louisa si alzò e andò a godersi la vista dalla finestra. Una nebbia leggera copriva la superficie calma del lago e l’aria era fresca e pulita. Sarà una bella giornata, si disse. Aspettavano il ritorno di Hugh, il figlio maggiore di Gwen, dalla sua scuola a Nuwara Eliya e avevano in programma di andare a fare un picnic sul lago, mentre il signor Ravasinghe sarebbe ripartito appena sveglio. Prima di scendere a fare colazione si lavò e indossò un abito di mussola verde chiaro a maniche corte, e si legò i capelli.
Laurence indossava un paio di shorts ed era già in piedi accanto al tavolo della colazione con un piatto in mano quando Louisa entrò nella stanza.
«Buongiorno. Vuoi venire con me in veranda?», le chiese. Louisa guardò in quella direzione, verso la portafinestra aperta.
«La colazione è sempre più buona se gustata all’esterno», aggiunse. «Ti pare?».
Gli sorrise e guardò il tavolo dove c’era un grande piatto da portata con un coperchio d’argento.
«È Kedgeree», disse. «Se gradisci qualche altra cosa, suona pure la campanella. Il nostro cuoco è famoso per le sue ottime uova in camicia. A breve serviranno il tè e il caffè insieme con i toast. Ci vediamo fuori».
Vide una ciotola di crema di latte di bufala coperta da una retina, ceste di frutta: mango, frutto della passione, mele e banane. Si servì una ciotolina di crema con un po’ di miele.
Quando si accomodò al tavolino in ferro battuto sulla veranda, la nebbia era già quasi completamente evaporata. La giornata si annunciava molto luminosa, il sole brillava sul lago e c’era una piacevole brezza fresca. Una nuvola di farfalline colorate volò sopra i gigli che crescevano nei vasi sistemati lungo tutta la veranda.
«Spero tu abbia dormito bene», le disse Laurence con un sorriso.
«Molto bene».
«È l’aria della collina».
Annuì e lo guardò. «Sicuramente sì. Sono contenta di essere venuta, e Gwen è stata davvero gentile a invitarmi».
«Permettimi di farti le mie condoglianze, ieri sera non abbiamo avuto modo di parlare».
«No, infatti».
Louisa notò una certa tensione nel muscolo della sua mascella. «Come saprai la mia prima moglie è morta», disse infine.
«Me ne ha parlato Savi Ravasinghe. Mi è dispiaciuto, non lo sapevo».
«È passato molto tempo».
Si chiese cosa fosse successo e si domandò se fosse il caso di chiederglielo. Era una domanda fuori luogo? Tuttavia, la recente scomparsa di Elliot le diede il coraggio di farla.
«Ti va di raccontarmi che cosa è successo?».
Sospirò. «Si è tolta la vita».
Louisa restò senza fiato. «Oh, santo cielo, mi dispiace. Non avrei dovuto chiederlo».
«Te lo ripeto, è passato molto tempo». Restò di nuovo in silenzio. «Ma basta rivangare il passato. Quel che conta, ora, è il presente. Il picnic sarà stupendo, ti farà bene».
«Mi sento già molto meglio anche solo per il fatto di essere lontana da casa».
«Cambiare ambiente ci aiuta a uscire un po’ da noi stessi. Anche se per poco tempo».
Un paio d’ore dopo, Gwen e Louisa erano nel salotto grande con la piccola Alice in attesa di Hugh. Gwen chiese a Louisa se le andava di tenere la bambina mentre lei andava a occuparsi di qualche ultimo dettaglio per il picnic. All’inizio Louisa non era molto a suo agio, ma poi la piccola le si addormentò tra le braccia e la guardò accarezzandole le guance. Si chinò ad annusarle i capelli, e si sentì pervadere da un profondo senso di pace. Fu molto grata a Gwen. Tenere in braccio Alice aveva azzerato di colpo tutte le voci che sentiva nella mente. E andare lì era stata la cosa più giusta da fare.
Dopo qualche momento arrivò un bambino correndo, seguito da Gwen.
«Saluta la signora Reeve, Hugh».
«Ciao Hugh», disse Louisa. «Chiamami Louisa. Sei tornato ora da scuola?».
Annuì.
«Quanti anni hai adesso?»
«Dieci», le rispose con un certo orgoglio.
«Accidenti, sei proprio grande. Sei contento di fare questo picnic?»
«Ci puoi scommettere! Posso vedere Alice?»
«Certo».
La raggiunse e si inginocchiò ai suoi piedi. «È piccolina, non è vero?»
«La vuoi tenere?».
Si alzò. «No, mamma dice che adesso devo andare a cambiarmi». Le sorrise. «Poi vuoi nuotare con me?»
«Oh, veramente non mi sono portata il costume».
«Posso prestartene uno io», disse Gwen.
Gwen e Louisa restarono in salotto per un’altra mezz’ora, e quando Hugh tornò, Gwen sistemò Alice nella cesta e chiese a un inserviente di portarla giù al lago. Andò a chiamare Laurence nel suo studio e si incamminarono tutti insieme. C’erano un paio di servitori che trasportavano la cesta e varie altre borse, insieme ai tappeti. Una volta arrivati tirarono fuori tre seggiole da una rimessa. Laurence, Gwen e Louisa si accomodarono mentre un gruppo di macachi dalla coda lunga li osservava da sotto un albero lì accanto.
Gwen portava un abito in cotone a quadretti con le maniche larghe lunghe fino ai polsi. Aprì un ombrellone bianco fissato alla sedia per proteggere dal sole la sua carnagione delicata.
Hugh corse dalla madre, che gli passò l’asciugamano e il costume da bagno, e andò a cambiarsi nella rimessa. Louisa osservava tutto con gran serenità, era un posto così bello e il cielo era così blu che era impossibile sentirsi triste. Guardò oltre, verso le verdissime piante di tè, dove le donne erano già al lavoro. Le sembrava che facesse davvero troppo caldo per lavorare, sebbene lì fosse effettivamente più fresco che a Galle. Una leggera folata di vento le spostò una ciocca di capelli sugli occhi, che iniziarono a lacrimare. Gwen le si avvicinò subito.
«Va tutto bene?»
«Sì, è solo il vento».
«Bene. Vuoi approfittare anche tu della rimessa dopo che Hugh sarà tornato? Ecco, qui ci sono un costume e un asciugamano. Il costume mi è sempre andato grande ma essendo più alta di me dovrebbe calzarti a pennello». E le passò una borsa.
«Grazie».
Il vento si alzò un po’ e Louisa restò in piedi lasciando che l’aria calda le accarezzasse i capelli. Sopra il lago scintillante un cielo blu cobalto si allungava fino all’orizzonte. Chiuse gli occhi per resistere al giallo intenso del sole che si rifletteva sull’acqua, godendosi quel momento di pace.
Quando uscì dalla rimessa vide Hugh e Laurence già in acqua, che si schizzavano a vicenda felici.
Gwen la raggiunse sulla riva. «Devo far mangiare Alice adesso, ma tu raggiungi pure gli altri. Sta’ solo attenta alle sanguisughe lungo gli argini».
Louisa entrò in acqua lentamente. «È fresca», esclamò. «Che bello».
«Sì, anche io l’apprezzo sempre molto», disse allontanandosi verso la rimessa.
Louisa proseguì, l’acqua diventava via via più alta, e sentire le rocce sotto i piedi la rassicurava. Laurence e Hugh erano più avanti e stavano nuotando verso un isolotto. Non avendo molta confidenza con il lago preferì restare dove ancora toccava. Era meraviglioso scivolare nell’acqua, e sentendo il corpo muoversi senza peso ebbe l’impressione di riconnettersi con se stessa: un piacere semplice e vitale al tempo stesso. Ecco cosa significava continuare a vivere. Non arrancare mettendo in fila un giorno appresso all’altro, ma sperimentare pienamente il significato della parola vita. E tutto questo le era mancato, realizzò, molto più di quanto immaginasse.
Dopo un po’ uscì dall’acqua per stendersi al sole, una volta che si fu tamponata i capelli. Laurence e Hugh si stavano prendendo una pausa sull’isolotto e Gwen era tornata sulla sua sedia sotto l’ombrellone con la bambina addormentata tra le braccia.
Louisa si accomodò accanto a lei. «È stato davvero fantastico».
«Vengo spesso a nuotare qui con Laurence», disse Gwen. «Nostra figlia amava molto l’acqua».
«Deve mancarti tantissimo».
«Mi manca. Ma la sua era una vita difficile. Aveva una malattia rara».
«Mi spiace».
«Ma parliamo di te, come ti senti?».
Louisa fece una smorfia. «Oggi direi che sto abbastanza bene, e tutto questo mi sta aiutando tantissimo, ma… ecco, ho scoperto alcune cose su mio marito che fino a pochi giorni fa ignoravo».
«Che genere di cose? Ti va di parlarne?».
Louisa sospirò.
«È che non so che cosa pensare. Ti prego, non parlarne con nessuno, il fatto è che mi ha mentito a proposito di alcuni investimenti che diceva di aver fatto in una piantagione di cannella».
«Ed è così grave?»
«Passava moltissimo tempo in quel posto, o almeno così credevo. E adesso non so dove andasse quando diceva di essere là. Ha lasciato anche dei debiti di cui non sapevo niente. Ho paura che il gioco d’azzardo possa essergli sfuggito di mano, ed è terribile accettare di essere stata completamente all’oscuro di quel che faceva».
«Gli uomini hanno spesso questa capacità di dividere la loro vita in compartimenti».
«Non direi che sia il caso di Laurence».
Gwen scosse la testa. «Ci ho messo molto prima di conoscere la verità sulla morte della sua prima moglie».
«Mi ha detto che si è tolta la vita».
«E questo mi dimostra quanto sia migliorato negli anni. Considera che quando ci siamo sposati si rifiutava di parlarne. Si teneva dentro tutto da così tanto tempo che non sapeva nemmeno più come liberarsene». Si interruppe un istante. «Forse Elliot si era messo nei guai e te l’ha tenuto nascosto per proteggerti».
«È possibile. Ma mentire circa quelle azioni… non so, non vedo come una simile bugia potesse servire a proteggermi».
«Non lo so. È strano in effetti».
«È una sensazione davvero sgradevole, vorrei sentirmi triste per averlo perso, eppure tutta questa confusione non me lo consente. Ci sono troppe ombre, troppe cose che non so».
«Lo capisco. Ma dimmi, scusa se ti faccio una domanda così personale, era ancora innamorato di te?»
«Penso di sì».
«E tu di lui?».
Louisa annuì. «Ancora moltissimo, dopo dodici anni. Certo, aveva le sue debolezze».
Gwen rise. «E chi di noi non ne ha!».
Restarono in silenzio per un po’, guardando il lago. Louisa ripensava a quel che aveva detto Gwen. Alla fine riuscì a rilassarsi, a godere il momento presente, il sole e la compagnia di una donna che si stava rivelando una buona confidente e una buona amica.
«Posso tenerti io Alice se vuoi farti una nuotata», propose.
«Davvero non ti spiace?»
«Assolutamente no. Dammela pure e vai a cambiarti».
Gwen si alzò e Louisa prese il suo posto sotto l’ombrellone, aggiustando il cappellino sulla testa di Alice.
Guardò Gwen nuotare, ridere e scherzare insieme a Laurence e Hugh. Abbassò lo sguardo sulla piccola addormentata. Come sembrano felici, si disse. Anche se al momento le sembrava impossibile, forse un giorno anche lei avrebbe potuto trovare la stessa felicità. Non poteva cambiare il passato, certo, ma non avrebbe lasciato che quel che era successo determinasse il suo futuro, né poteva permettere che la morte di Elliot fosse l’unica cosa che la definisse come persona. Doveva trovare un modo per evitarlo. Dopo qualche secondo Alice si svegliò e la guardò dritta negli occhi, non sembrava dispiaciuta di non svegliarsi tra le braccia di sua madre. Louisa la mise a sedere perché anche lei vedesse la sua famiglia in acqua.
«Che ne dici, andiamo a vedere che stanno facendo mamma, papà e Hugh?», le disse. Poi si alzò e si avviò con lei verso la riva canticchiando tra sé.
Restò alla piantagione di tè per altri due giorni, poi sentì il bisogno di tornare a casa. Per riuscire a perdonare se stessa di essere viva, quando lui invece non lo era, decise che doveva avere un progetto. Louisa, infatti, apparteneva a quella categoria di persone che hanno bisogno di essere in attività per ricaricarsi. Concentrarsi sulla ristrutturazione della tipografia era proprio quel che ci voleva. Aveva capito che l’unico modo per sopravvivere era mettere un piede davanti all’altro finché non le veniva di nuovo naturale. Vivere minuto per minuto fino alla fine della giornata. E poi ricominciare. Un giorno, quella felicità che aveva riscoperto con Gwen al lago avrebbe fatto finalmente parte di lei.
Era seduta in giardino con i piedi in alto, le cesoie sul tavolino e Tommy e Bouncer che cercavano in tutti i modi di attirare la sua attenzione mentre lei teneva in grembo il piccolo Zip accarezzandogli le orecchie, quando Camille la raggiunse per annunciarle che un signore voleva vederla.
«Chi è?», domandò.
«Non lo so, ma l’ho già visto qui».
«Non gli hai chiesto come si chiama?», chiese seria.
«Ha detto solo che voleva vederla».
«Ashan dov’è?»
«È uscito, ha incaricato me di rispondere alla porta».
«D’accordo, allora fallo accomodare qui fuori e per piacere portaci qualcosa da bere».
Si alzò per mettere via le cesoie, facendo attenzione che non ci fosse una di quelle velenosissime vipere che ogni tanto si nascondevano in giardino. Ci era abituata, sapeva che erano creature innocue se non venivano disturbate. Niente serpenti.
Tornò a sedersi stirandosi la schiena e voltandosi quando sentì arrivare il suo ospite.
Era un uomo basso e robusto, con capelli e occhi scuri. Lo riconobbe subito, era il burgher che aveva visto con Elliot la sera della festa di Natale e poi di nuovo qualche settimana dopo.
Le si avvicinò accennando un inchino. «Pieter De Vos, al vostro servizio, signora».
«La prego, si accomodi», gli disse stringendogli la mano.
I cani ringhiavano.
«Buoni», li zittì allungando una mano per tranquillizzarli. Tommy stava indietreggiando, mentre Bouncer e Zip restarono fermi accanto a lei. Si allungò ad accarezzare Bouncer, che aveva messo le orecchie all’indietro.
«Mi scuso. Talvolta sono molto protettivi nei miei confronti».
«Non si preoccupi, ho anche io dei cani», disse.
Era un uomo serio, e parlava così a bassa voce che Louisa dovette chinarsi un po’ per riuscire a sentire cosa diceva.
Alla fine si accomodò su una sedia poco distante da lei. Arrivò una leggera brezza che agitò le foglie degli alberi mentre gli uccelli volavano da un ramo all’altro e il calore risaliva da terra.
«Mi spiace molto disturbarla in un momento forse sconveniente», disse. «Ma ho pensato che fosse il caso di presentarmi».
«L’ho vista in compagnia di Elliot, ma non credo che ci abbiano mai presentato».
Annuì. «Mi sembrava che fosse il momento».
«La ringrazio per essere venuto».
«Ci mancherebbe. Il piacere è mio».
Poi arrivò Camille.
«Succo di lime e menta?».
Annuì e la guardò con una certa empatia. «Spero che se la stia cavando, dev’essere molto difficile per lei».
Louisa restò in silenzio con le mani in grembo e si guardò attorno pensando al suo giardino e a come l’avesse trascurato negli ultimi tempi. Il gelsomino era sicuramente da potare.
«Dunque», le disse inclinando la testa di lato e sorridendo. «Immagino sappia che suo marito e io avevamo degli affari insieme».
«Mi aveva accennato qualcosa, sì».
«Volevo solo farle presente che sono rimaste alcune cose da risolvere».
«Di cosa si tratta?»
«Non c’è bisogno di entrare nel dettaglio. Avremo tempo», disse. «Suo marito era una persona meravigliosa. Deve mancarle terribilmente».
«Infatti».
Louisa si asciugò le mani sudate sulla camicia e lo guardò mentre sorseggiava il suo drink.
«Bene», concluse lui. «È stato un piacere incontrarla. Volevo solo porgerle le mie condoglianze. E se c’è qualsiasi cosa che posso fare per lei, la prego di non esitare a farmelo sapere».
«Grazie».
Si alzarono entrambi.
«Ci rivedremo, signora Reeve».
«Senz’altro».
Louisa avrebbe dato qualsiasi cosa per poter chiedere a Elliot cosa avesse combinato esattamente e perché le azioni di Cinnamon Hills non esistevano. E soprattutto avrebbe desiderato mettere i suoi ricordi al sicuro, perché non fossero contaminati dal dubbio. Ma l’unico a poterlo fare, a poterle dire che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era stato tutto un malinteso, sarebbe stato lui.
Per il momento doveva arrendersi. Suo padre sarebbe rientrato di lì a poco da un viaggio di lavoro e – per quanto desiderasse confidarsi con lui – non voleva preoccuparlo con le sue angosce.
Il cielo si stava facendo rosa e Louisa andò in casa a prepararsi per la cena. In bagno, si guardò allo specchio. Inizialmente lo sguardo perso che vide nei suoi occhi color nocciola le fece venire voglia di piangere. Si ricompose e, invece di piangere, si lavò e si vestì, si spruzzò un po’ di colonia dietro le orecchie e sedette alla toletta per mettersi un filo di perle. Gliel’aveva regalato Elliot in occasione di un loro anniversario, erano perle vere. O almeno così le aveva detto lui. Se ne portò una alla bocca per sentirla coi denti. Sì, era granulosa, era vera. Si sentì in colpa per averne dubitato.
Udì aprirsi la porta di ingresso e subito dopo la voce di suo padre. Si impose di mantenere la calma e dissimulare ogni preoccupazione. Aveva già deciso di cosa avrebbero parlato: era tempo di pensare a cosa fare della tipografia.
Lo raggiunse all’ingresso per salutarlo.
«Mi spiace per il ritardo», le disse. «Mi sono dovuto trattenere al laboratorio».
«Hai assunto qualcun altro?»
«Non ancora, al momento mi sto occupando io di tutto».
«Capisco. Dài, andiamo a cena».
«Allora», le disse il padre quando si furono accomodati. «Spero che tu ti senta un po’ meglio dopo il tuo breve viaggio. La distrazione sicuramente aiuta».
Louisa si morse le labbra, indecisa su cosa rispondere. «Anche tu hai reagito così? Perché non mi hai mai parlato della mamma?»
«Be’, non esattamente. Io avevo molto da fare. Avevo una bambina piccola di cui prendermi cura e un’azienda da tenere in piedi. Certo, non mi sono mai lasciato andare».
«Pensi che io mi stia lasciando andare?»
«Io e te siamo due persone diverse. Io sono un uomo pratico, mentre tu sei più riflessiva. Quello che volevo dire è che penso ti abbia fatto bene trascorrere qualche giorno in compagnia di Gwen Hooper. Confidarle i tuoi sentimenti».
«Mi è servito molto, sì. Sto cercando di tirarmi su».
«C’è qualcos’altro?».
Annuì. «Sì, c’è una questione che vorrei discutere con te».
«Sarebbe?»
«La tipografia».
«Ah, certo adesso la faccenda si è complicata…».
«In che senso?»
«Tutto il progetto dell’emporio. Non vorrai occupartene da sola?».
Scosse il capo, confusa dai suoi stessi pensieri, e prese un bel respiro prima di rispondere. «In realtà sì, penso di portare avanti il progetto. Ed è proprio quello di cui volevo parlare con te».
«Si tratta di soldi? Vuoi che copra delle spese?».
Sorrise. «Sarebbe fantastico se potessi farlo, ma credo di potermela cavare con il ricavato delle mie azioni, anche se ci sto stretta».
«Non posso lasciarti fare una cosa del genere. Con quali soldi pensi di vivere, poi?»
«Me la caverò».
«No. Qualsiasi cosa tu decida di fare in quel posto, ricordati che il tuo sostentamento dipende solo da quelle azioni e dall’assicurazione sulla vita che ti ha lasciato Elliot».
Louisa abbassò lo sguardo.
«Che c’è, cara?».
Scosse la testa.
«Non dirmi che non aveva un’assicurazione sulla vita!».
Lo guardò, incontrando il suo sguardo impaziente. «Non ho trovato la polizza. Io…», farfugliò.
«Accidenti, tra tutte le mancanze di responsabilità ci mancava questa! Hai verificato con il vostro avvocato?».
Annuì tristemente.
«D’accordo, allora se sei così determinata a portare avanti il progetto della tipografia, ti finanzierò io. Anche se continuo a pensare che venderla sarebbe la cosa migliore».
«Ma io ho bisogno di qualcosa da fare».
«Lo capisco».
«Davvero?».
Annuì. «Certo. Come ho già detto tenersi distratti e occupati aiuta».
«Impazzirò senza un progetto».
«Bene, allora facciamolo. Coraggio, mi sembra un’occasione da festeggiare. Hai dello champagne?»
«Certo».
Sorrise a suo padre, sentendosi pervasa da una nuova eccitazione. La tipografia l’avrebbe salvata. L’avrebbe aiutata a tenersi concentrata sulla strada giusta. Ecco l’opportunità che aveva sempre aspettato.
Margo era tornata a Galle, e la mattina successiva le due donne fecero colazione assieme, con tè, toast e frutta e una crema di latte di bufala.
Era ancora presto e, sebbene il coro dell’alba fosse già finito, in giardino molti uccelli stavano ancora cantando. Louisa aprì le finestre perché potessero godere di quella sinfonia.
«Sto morendo di fame», disse Margo e si stiracchiò sbadigliando. «Mi spiace, ieri sera ero così stanca del viaggio e, devo ammetterlo, della compagnia di mia madre, che non sono riuscita a fare molta conversazione».
«Come sta?», chiese Louisa servendo il tè.
Louisa notò che la cognata appariva veramente esausta, e aveva delle profonde occhiaie. Era molto dispiaciuta di vederla così. Margo fece una smorfia.
«Non bene. Il fatto è che non so proprio come consolarla, né cosa dirle. Onestamente credo che nessuno in questo momento possa davvero aiutarla. Ho fatto del mio meglio e ci tenevo a fare comunque un tentativo ma è stata davvero durissima. Me ne sono dovuta andare per forza».
Louisa capiva molto bene le ragioni di Margo.
«Per lei dev’essere terribile», disse passandole la tazza.
«Tornerò quando saprò di poterle essere d’aiuto. Mi sono sentita in colpa ad andarmene ma sono sicura che per lei sia meglio stare un po’ da sola. Mio padre per fortuna ha il lavoro che lo distrae, e che lo tiene lontano da casa. Dio, spero davvero di non sembrarti insensibile».
«Ma ti pare. So bene quanto possa essere faticosa Irene».
«Sa essere davvero una persona difficile, ma sono preoccupata per lei! Perché, pensaci, adesso sono due i figli che ha perso».
Louisa annuì. «Certo, è impensabile».
Seguì un breve silenzio.
«E, dimmi, tu come stai?», le chiese Margo.
«Se devo dirti la verità, non lo so. Ci sono giorni in cui mi sento ovattata, come se fosse tutto molto lontano da me. O persino di non essere in me. È che le cose si sono complicate. Ho scoperto che Elliot non ha mai comprato azioni per Cinnamon Hills».
«No!».
Louisa annuì. «Così mi ha detto Leo».
«Pensi di poterti fidare di lui?»
«Direi di sì, mi fido. Perché dovrebbe mentirmi?»
«Perché magari ha un interesse nel mantenere il pieno controllo sulla sua azienda, ti pare?»
«Potrebbe. Ma comunque resta il fatto che non so che fine abbiano fatto i soldi, non so dove andasse Elliot quando diceva di essere alla piantagione». Esitò, incerta se aggiungere qualcosa. «È doloroso realizzare che non conoscevi davvero l’uomo con cui eri sposata».
«Povera cara, quanto mi dispiace. È davvero tutto molto strano».
«Ad ogni modo, Elliot ha rilevato la vecchia tipografia poco prima che tu rientrassi da Londra. Non ha nemmeno fatto in tempo a fartela vedere. Avevamo in mente di ristrutturarla e trasformarla in un emporio per vendere gioielli e altri prodotti di artigianato».
«E sei sicura di voler andare avanti? Ci vorrà parecchia energia».
«Non lo so», rispose sospirando. «Ma devo fare qualcosa! Non immaginavo che il lutto potesse stravolgerti in questo modo».
«Ti offrirà un’occasione per distrarti».
«È quel che penso anch’io».
Notò qualcosa nell’espressione di Margo.
«E tu come stai? Voglio dire a parte Elliot, rispetto al tuo uomo a Londra, William dico bene?».
Margo sospirò. «Se solo fosse davvero mio. È che mi manca tantissimo. Non è da me essere così sentimentale, eh?»
«È un lutto anche questo».
«Lo è. Anche se la perdita di Elliot è molto peggiore. Figurati che a volte ancora non mi sembra vero».
«Lo so. Ci sono giorni in cui anche io mi aspetto di vederlo entrare a casa».
Finirono il tè in silenzio, cacciando le mosche con dei rapidi movimenti delle mani. Margo chiuse gli occhi, sembrava assorta nei suoi pensieri. Quando li riaprì disse: «Bene, ora abbiamo proprio bisogno di tirarci su il morale, quindi cosa facciamo oggi?».
Louisa sospirò. «Bella domanda».
«Perché non andiamo fuori città, sulla costa verso sud? Non mi dispiacerebbe farmi una bella nuotata lontana da occhi indiscreti».
Si misero in macchina lungo la costa, tra giacinti e mangrovie, fino alle palme da cocco sulla sabbia dorata. Si fermarono dopo una curva, su una spiaggia proprio sotto Cinnamon Hills.
Mentre parcheggiava la macchina Louisa non poté fare a meno di pensare a Leo. Una parte di lei si sarebbe voluta lanciare su in cima alla collina per costringerlo a dirle tutta la verità su quelle azioni. Di certo le aveva mentito. In fondo Margo aveva ragione, gli conveniva nascondere quelle azioni e mantenere il controllo sulla piantagione. Era meglio aspettare, ritirare i soldi che Elliot aveva lasciato per lui e avere la scusa giusta per tornare a trovarlo.
La spiaggia oltre le palme era piena di gusci di conchiglia e si vedeva in lontananza la barriera corallina. C’erano alcune barchette colorate che galleggiavano nell’acqua azzurra, ma per il resto il luogo era deserto e tutto per loro.
«A chi arriva prima in acqua», disse Margo togliendosi veloce i vestiti e restando in costume.
«Troppo vantaggio! Io devo ancora cambiarmi».
«Ho vinto!», gridò Margo raggiungendo di corsa la riva. Dopo che fu entrata in acqua ed ebbe iniziato a nuotare Louisa si cambiò e la raggiunse, saltando per il freddo quando l’acqua le bagnò la pelle nuda. Che bello essere di nuovo in acqua così presto, dopo il lago. Magari una nuotata ogni giorno l’avrebbe aiutata a rilassare il collo e le spalle.
Iniziò a seguire Margo ma non riuscì a raggiungerla, era troppo brava e veloce, e per quanto Louisa fosse una buona nuotatrice non poteva assolutamente competere con lei. Dopo qualche bracciata si mise sulla schiena e girò la testa per guardare le palme.
Il sole scintillava sulla superficie del mare e il cielo era limpido, sereno, azzurro chiaro. C’era un gran silenzio, gli unici rumori che si sentivano erano lo sciabordio dolce delle onde e ogni tanto un gabbiano. Se solo la vita potesse essere sempre così, pensò mentre nuotava verso riva. Si mise a sedere sulla spiaggia, lasciando che l’acqua le bagnasse le gambe, e allungò le braccia verso il cielo. «Grazie», sussurrò, «grazie per tutto questo». Si ricordò di una volta in cui lei ed Elliot avevano visto le tartarughe deporre le uova su quella stessa spiaggia, e di quanto fossero innamorati, e non provò tristezza. Rimase ferma in quella posizione a lungo, e solo dopo un po’ si accorse di un rumore alle sue spalle. Si voltò.
«Oh», disse vedendolo in costume da bagno. «Salve».
«Vengo a nuotare qui», disse Leo togliendosi i capelli dagli occhi. «Spero non ti dispiaccia».
Nonostante poco prima avesse fantasticato di precipitarsi lassù e fargli sputare la verità, riuscì a sorridergli. «Ci mancherebbe».
Lo guardò immergersi. Era molto atletico. A giudicare dal suo fisico si capiva che era un uomo abituato a lavorare all’aperto e non chiuso in un ufficio. Lo osservò nuotare per un po’, finché non lo vide tornare indietro e uscire dall’acqua per asciugarsi.
«Sono qui con mia cognata», gli disse. «Eccola, è laggiù».
Guardò in quella direzione schermandosi gli occhi dal sole. «Ah, sì».
«È instancabile. Spero solo che non si allontani troppo».
«E tu come stai? Meglio?».
Louisa annuì. «È bellissimo qui».
Poi restarono entrambi in silenzio, e improvvisamente Louisa si sentì a disagio a star seduta così vicino a lui indossando solo il costume da bagno.
«Nuotare è un grande sfogo», disse lui infine accucciandosi accanto a lei. «Le cose alla piantagione sono sempre tese e io mi lascio coinvolgere troppo».
«Magari un po’ di vita sociale aiuterebbe».
«Magari sì».
«E tua cugina? Vi vedete spesso?»
«Zinnia? Sì, la vedo».
«Non sapevo il suo nome, comunque credo di averla vista l’ultima volta che sono venuta».
Leo distolse lo sguardo e parve leggermente a disagio. Non avrebbe saputo dire cosa le aveva dato quell’impressione, forse solo il movimento della mascella o il modo in cui aveva evitato il suo sguardo.
«Sembrava triste», aggiunse sperando di incoraggiarlo a dire qualche altra cosa.
Leo annuì e si rialzò, troppo velocemente, sfiorando il braccio di Louisa con il suo. Le diede un brivido e non poté fare a meno di pensare che si fosse trattenuto dal dire qualcosa.
Ingoiò ogni esitazione e fissandolo dritto negli occhi gli chiese: «A proposito di quelle azioni, sei proprio sicuro che Elliot non ne abbia comprata nessuna? Sicuramente operazioni simili vengono registrate in qualche modo».
La guardò anche lui. «Mi rendo conto che debba essere difficile per te, Louisa, ma te lo assicuro: Elliot non ha mai comprato nessuna azione».
Seguì un breve silenzio. «Ora devo andare».
«Sì».
«Spero di rivederti… presto».
«Sì», ripeté lei, e malgrado tutto avrebbe preferito che si fermasse più a lungo.
«Abbi cura di te». E così dicendo si voltò e si incamminò verso la strada.
Un momento dopo Louisa guardò in mare per cercare di intravedere Margo e con angoscia si accorse che era in difficoltà. Stava cercando di tornare a riva ma la vide sbracciarsi disperatamente e sembrava stesse bevendo.
«Leo! Aiuto!», gridò alzandosi in piedi di scatto e correndo verso l’acqua più alta. Sentì i suoi passi pesanti correre sulla sabbia dietro di lei per raggiungerla.
«Ti prego, vieni con me, dobbiamo aiutarla, c’è sicuramente qualcosa che non va».
Louisa iniziò a nuotare, ma con bracciate potenti Leo arrivò in un attimo da Margo, che stava tossendo acqua e boccheggiando. Nuotò a dorso trascinandola fino a riva. Quando la mise giù Margo barcollò verso Louisa che nel frattempo era tornata indietro.
«Ti eri allontanata troppo», le disse.
Margo fece un bel respiro e si toccò una gamba. «Ora sto bene».
«Però dico sul serio Margo, devi stare più attenta».
«Non mi era mai capitato di avere un crampo prima d’ora». Poi si rivolse a Leo. «Grazie per essere stato il mio cavaliere dall’armatura scintillante».
«Sono felice che ora sia al sicuro. Io sono Leo, Leo McNairn, proprietario di Cinnamon Hills».
«La ringrazio», disse Margo sorridendogli e continuando a massaggiarsi il polpaccio. «Abbiamo letto qualcosa su di lei, dico bene Louisa?».
Leo sorrise. «Ah sì? E dove?»
«In biblioteca, o sbaglio?», disse ancora Margo a Louisa.
Louisa sorrise imbarazzata e annuì.
«Grazie ancora per il salvataggio galante».
La aiutò a uscire dall’acqua e guardò Louisa. Le era impossibile immaginare a cosa stesse pensando, distolse lo sguardo rivolgendolo verso le palme e poi ancora oltre, verso le capanne dei pescatori. Poi tornò a guardare il mare, c’erano molti uccelli marini – egrette, aironi, scolopacidi e martin pescatori – e pensò a quel che le aveva detto. Nessuna azione.
Dopo un po’ Leo chiese a Margo se si sentisse meglio, e lei annuì.
Durante il tragitto verso casa Margo non faceva che parlare di Leo e di quanto era stato galante, tanto che Louisa quasi rimpianse di essere andata alla spiaggia. D’altro canto non poteva negare di esser stata contenta per averlo rivisto. C’era qualcosa in lui che le dava speranza, e sentiva che non tutto era perduto, che il buio non l’avrebbe risucchiata e che, in fondo, non sarebbe precipitata in quel baratro.
«Ti sei innamorata?», le chiese prendendola in giro.
«Puoi biasimarmi? È bellissimo. Mi piacciono i tipi così atletici. Di che avete parlato mentre affogavo?»
«Di niente. Gli ho chiesto di nuovo delle azioni, ma mi ha ribadito che non esistono e non sono mai esistite».
Louisa era andata alla tipografia con Margo e aveva preparato alcuni disegni. La chiave di quella stanza chiusa non era ancora saltata fuori e pensò di chiedere aiuto a un fabbro.
Mentre studiava i suoi progetti – tutti aperti sul tavolino del salotto – Margo uscì a fare una passeggiata in bicicletta. L’idea era quella di dividere lo spazio in quattro stanze, o settori, e lasciare un bancone centrale dove avrebbe esposto i gioielli più costosi. Un arco avrebbe aperto l’ingresso agli altri spazi, uno per i gioielli meno costosi, uno per gli artefatti in legno e un terzo per la seta. Le stanze per i gioielli sarebbero potute essere anche di più se avesse trovato venditori interessati. Aveva già pensato a come avrebbe chiamato l’emporio: Zaffiro, dato che lo Sri Lanka era famoso per i suoi zaffiri meravigliosi. Doveva pensare anche all’assicurazione e a mettere in sicurezza tutte le serrature e le finestre.
Stava cercando di disegnare l’esterno dell’edificio, ma aveva bisogno di vederlo un’altra volta perché alcuni dettagli non le tornavano. Si stava giusto concentrando quando Ashan entrò ad annunciarle la visita di un gentiluomo.
«Fallo pure accomodare», disse lei piuttosto irritata passandosi una mano tra i capelli, seccata dall’interruzione. Le dispiacque esser stata brusca con lui. Era un servitore molto leale, e lo trattava sempre con rispetto. Fu alquanto sorpresa di vedere entrare in casa Leo, e si alzò immediatamente a tendergli la mano.
Lui la strinse brevemente.
«Mi spiace, non ho ancora avuto modo di andare a Colombo a ritirare quei soldi…».
«Non si tratta di questo», disse lui tenendo stretta in mano una cartellina di pelle. Sembrava teso e a disagio, e dava quasi l’impressione di voler essere ovunque piuttosto che in quella casa.
«Posso offrirti un tè?»
«No», rispose con sguardo serio. «Possiamo parlare fuori in giardino?»
«Certamente. Dammi solo un istante per prendere il cappello».
Si fermò all’ingresso a recuperarlo e uscirono dalla portafinestra. Il giardino sfavillava nei riflessi del sole e una brezza leggera agitava le foglie. I tre cani li seguirono e andarono ad accucciarsi all’ombra, ansimanti. Riempì loro la ciotola da un rubinetto esterno e gliela mise davanti.
«Allora», gli disse mentre camminavano.
Lo vide deglutire, come nel tentativo di prendere coraggio. «Si tratta di mia cugina, Zinnia».
«Ah».
«Ho paura che stia male, e non c’è nessuno che si possa occupare di suo figlio Conor».
«Non sapevo che avesse un figlio».
«Ha sette anni. È un bambino dolcissimo, che vive nel suo mondo di fantasia. Zinnia lo educa a casa e non gli capita spesso di vedere altri bambini. Io faccio quello che posso». Prese fiato. «Ha un’amica divorziata che ogni tanto porta la figlia, forse perché pensa di aver in comune con Zinnia questo vivere un po’ fuori dai normali canoni della società. E adesso ho l’impressione che le cose non vadano bene…».
Non gli aveva mai sentito dire tante parole in una volta sola. Era sorpresa. «Mi spiace, non dev’essere facile. Ma non capisco perché tu ne stia parlando con me».
«Ecco, questa in effetti è la parte più difficile». Si fermò e smise di parlare.
Anche lei restò in silenzio. Di qualsiasi cosa si trattasse, sarebbe venuta fuori al momento giusto, si disse.
«Dopo il nostro incontro in spiaggia, ho sentito di voler essere onesto fino in fondo con te».
«Accomodiamoci all’ombra», disse Louisa. «Inizio a sentire caldo».
Andarono a sedersi su una panchina. Il giardino le parve insolitamente calmo, e realizzò che quella visita di Leo così inaspettata in effetti era molto strana.
«Di cosa si tratta?»
«Ecco, ho ragione di credere che i soldi che tuo marito ha lasciato per me siano in realtà per Zinnia».
Louisa sentì un brivido lungo la schiena nonostante il caldo soffocante, e lo fissò a lungo. Aspettò che fosse lui a parlare per primo.
«Non c’è un modo facile di dirlo…».
«Va’ avanti».
«Conor è figlio di Elliot, Louisa».
Le mancò il fiato e sbatté le palpebre incredula. Il giardino sembrò tremare e il cuore prese a batterle così forte nel petto che avrebbero potuto sentirlo tutti.
Lui scosse la testa e abbassò lo sguardo a terra. «So che dev’essere una notizia terribile».
Seguì un lungo silenzio. Louisa ripensò al viso di Elliot, che ricordava così nitidamente, al suo sguardo, così amorevole, così caldo. Era impossibile accettare una notizia simile.
«È per questo che Elliot veniva così spesso alla piantagione», disse Leo guardandola negli occhi.
«Conor è figlio di Elliot? Mi stai dicendo questo?». Era in preda a una tale quantità di emozioni che temeva di svenire da un momento all’altro.
«Sì».
Non poteva essere vero. Elliot non le avrebbe mai fatto una cosa del genere. Le sembrò di risentire la sua voce nella testa. Si rifiutava di crederci. «Non starai dicendo sul serio?»
«Mi dispiace».
«Come puoi mentirmi in questo modo?», disse. «Perché mi stai facendo questo?».
La guardò. «Ho pensato che avessi il diritto di saperlo».
«No! Prima vieni a dirmi che non ci sono azioni, cosa che stento ancora a credere… e ora te ne esci con questa assurdità».
Un altro silenzio. Louisa avrebbe voluto dire qualcosa, ma non riusciva ad articolare alcun suono. Per un attimo ebbe paura che non sarebbe stata in grado di parlare mai più.
«Louisa, io…».
«No», disse lei alzando una mano. «Non un’altra parola».
Si alzò, e si allontanò dandogli le spalle. «Ti aspetti forse che io possa credere che Elliot venisse alla piantagione per vedere lei? Che non c’era alcun interesse economico, che fosse solo lei?».
Lui non rispose.
«E non hai pensato di dirmelo prima?», disse voltandosi a guardarlo come sfidandolo ad ammettere che non era vero niente, cercando di resistere a quella sensazione di soffocamento che le stringeva la gola.
Lui scosse la testa, mortificato. «Non volevo ferirti. Ma è così, Elliot veniva per vedere Conor, e Zinnia naturalmente».
Louisa sentì che aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non distolse lo sguardo. Il tempo sembrò fare una capriola all’indietro, rivide Elliot che sorridendo le porgeva quell’ultimo mazzo di fiori. E non era che un gesto per tacitare il suo senso di colpa. Come se un mazzo di fiori potesse aggiustare una cosa del genere. Si ripromise di non piangere davanti a lui, di cercare di restare salda. Si morse le labbra fino a sentire il sapore del sangue, senza smettere di guardarlo. «Perché dirmelo adesso?»
«Ho sentito che non potevo lasciarti all’oscuro e far finta di non sapere niente. Ho pensato che meritassi di conoscere la verità».
Louisa si accigliò, gli si avvicinò. «Ti presenti qui e mi dici che mio marito ha un figlio illegittimo, un bastardo!».
Leo si alzò. «Ascolta, io mi rendo conto che sia uno shock…».
Indietreggiò socchiudendo gli occhi per la luce del sole. «Ed è proprio così, dannazione, è uno shock!».
Leo alzò gli occhi al cielo e Louisa scoppiò in una fragorosa risata. «È assurdo. Tu devi essere matto. Completamente pazzo».
«Vorrei che…».
«Basta così, Leo», gli disse lei in tono aspro e tagliente. Deglutì, sconvolta dalle sue stesse emozioni. Moriva dalla voglia di insultarlo, di gridare che non era vero niente, che Elliot non l’avrebbe mai e poi mai tradita.
«Non riesco a capire perché tu sia venuto a dirmi una cosa del genere. Adesso fuori, per favore», scattò.
«Mi dispiace», le disse. «Se c’è qualcosa che posso fare…».
«Fuori!».
Si girò e nel giro di qualche secondo uscì.
Louisa si lasciò cadere sulla panchina con i cani che uggiolavano ai suoi piedi. Iniziò a fare i conti con quelle parole, senza fiato, sforzandosi di non piangere. Prese Zip in braccio, annusandolo. Si sentiva come se le avessero appena dato un pugno nello stomaco. Aveva provato a negare, ripetendosi che non poteva essere vero. Eppure Leo non avrebbe avuto alcuna ragione di mentirle. C’entrava qualcosa anche la storia delle azioni? Si piegò su se stessa con la testa tra le mani, poi si tirò su a sedere, con i pugni stretti. Aveva ancora molta voglia di esplodere, tali erano il dolore e la rabbia che provava. Insopportabili. Come aveva potuto mentirle così per tutti quegli anni? Erano sposati da dodici anni ma aveva un figlio di sette. No. Quella frase le risuonava dentro così forte che dovette tapparsi le orecchie. Un figlio. Un figlio. Non poteva essere. Com’era possibile che non avesse mai sospettato nulla? L’aveva presa in giro, per tutto quel tempo? E il loro amore non era mai stato vero? Molte erano le domande che si affollavano nella sua mente, tutte senza risposta.
Quando Margo tornò, trovò Louisa in lacrime. Non si era spostata dalla panchina e, sebbene avesse molto caldo, era come se non riuscisse più ad alzarsi e camminare. Tommy e Bouncer si erano allontanati in cerca di un po’ d’ombra, non senza averle prima manifestato la loro solidarietà. Zip era rimasto in braccio a lei, e stava cercando di divincolarsi proprio in quel momento.
Margo scivolò sulla panchina accanto a lei, mettendole un braccio sulla spalla tremante in attesa che smettesse di singhiozzare e dicesse qualcosa. Quando si calmò, Margo le prese la mano e fece dolcemente scendere Zip.
«Cara, è meglio se andiamo dentro. Ti stai squagliando qui. Ti porto di sopra nello studio e ordino un po’ di succo di mango, così mi racconti tutto».
Louisa continuò a sentirsi distrutta per molti giorni a seguire, la notizia di quel bambino l’aveva colpita così a fondo da svuotarla della sua stessa anima. La sua vita, il suo matrimonio, le sue speranze per il futuro, era tutto distrutto. Lo shock era enorme. Si piantava le unghie nel palmo delle mani per distrarsi dalla nausea e avrebbe disperatamente voluto pensare a qualcos’altro, ma Zinnia e suo figlio erano una specie di ossessione. Si metteva a letto con un cuscino sul viso, come a volersi schermare dalla verità. Margo andava spesso a farle compagnia, ma senza fare domande. Louisa gliene era grata. Non era ancora pronta a pronunciare ad alta voce quelle parole terribili. A volte si rendeva conto di quanto la cognata fosse in ansia, ma non aveva la forza di rassicurarla.
Poi un pomeriggio le raccontò tutto quello che le aveva detto Leo. Margo si portò una mano alla bocca, con occhi sgranati e increduli. E a quel punto Louisa scoppiò a piangere, facendo un orribile suono, forse quello del dolore che finalmente veniva liberato. Anche la cognata pianse con lei, e le due donne si abbracciarono in silenzio.
Alla fine Margo si staccò e disse: «Santo cielo, non ci posso credere. Sei sicura che sia vero?».
Louisa si strinse nelle spalle. «Pensi che mi avrebbe mentito su una cosa simile?»
«È che non riesco a credere che Elliot possa aver fatto una cosa del genere».
«Lo so. Io non faccio che pensarci».
Margo si piegò sulla pancia e Louisa l’abbracciò. Restarono così per diversi minuti. Alla fine si tirò su e si asciugò le guance. «Perdonami, è lo shock. Non riesco ad accettare che mio fratello abbia fatto questo».
«Provo lo stesso anche io».
«Che farai dei soldi che Elliot ha lasciato a Leo? Immagino fossero destinati a questa donna e a suo figlio».
Louisa annuì. «Andrò in banca, ritirerò il denaro e manderò qualcuno a Cinnamon Hills perché lo consegni a Leo. Non è molto, ma può darlo a Zinnia. Che altro posso fare?».
Margo scosse la testa. «Vorrei che Elliot fosse qui. Lui sì che rimetterebbe a posto la situazione».
«Ne sei proprio convinta?»
«Non lo so».
Restarono in silenzio.
«Allora, che facciamo?», disse infine Margo. «Te la senti di fare un bagno e vestirti? Sono giorni che non mangi e tuo padre ha già chiamato due volte, non sapevo più che dirgli. Ti faccio preparare dei toast?».
Louisa annuì e si sentì improvvisamente più energica. «Prima o poi devo affrontare il mondo».
«Non devi per forza raccontarlo a tutti».
«Sono certa che qualcuno già lo sa. Non vedo come avrebbe potuto tenere un simile segreto così bene per tutti questi anni. Credi che la gente mi compatisse, mentre io mi crogiolavo nella convinzione di avere un matrimonio meraviglioso?»
«Però nessuno ha mai detto niente…».
«Mi sento un’idiota totale».
«Al tuo posto sarei furiosa. E infatti lo sono! Sono furiosa con mio fratello».
«E così mentre io continuavo a perdere i suoi figli, lui già ne aveva uno. Fa male, Margo. Fa male davvero».
Louisa cercò di convincersi che fosse una bugia. Non sapeva cosa avesse da guadagnarci Leo, ma era impensabile che Elliot le fosse stato infedele per tutto quel tempo. L’amava, proprio come lei amava lui, e quindi non poteva essere vero. Girava per Galle in bicicletta, sudata e sconvolta, sicura che chiunque l’avesse incontrata per strada avrebbe attribuito quel suo stato al dolore per la morte di Elliot. Eppure, anche rifiutandosi di credere a quel che Leo le aveva raccontato, il dubbio la tormentava, specialmente di notte. Quando succedeva, si alzava dal letto e andava a leggere un libro, o a riguardare i disegni per la ristrutturazione, per poi finire a fissare fuori dalla finestra l’oscurità silenziosa. Tra le varie cose, era soprattutto la scelta di quali prodotti vendere all’emporio a tenerla impegnata, e ogni altro pensiero era relegato in fondo alla mente. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare a una vita normale!
Una mattina, dopo una notte leggermente migliore di altre, si recò alla tipografia con Margo. Avevano appuntamento con il fabbro, che era riuscita finalmente a chiamare. Margo tentò di parlarle del bambino, ma Louisa sembrava proprio non volerne sapere, convinta che bastasse smettere di pensarci per far sì che quella storia sparisse come per magia. Era così che aveva deciso di affrontare la faccenda. Margo preferì non forzare la mano.
Sulla strada dell’emporio sarebbero passate a trovare un gioielliere che pensavano di poter coinvolgere. Il monsone era ancora lontano, ed era una giornata caldissima, mentre il mare appariva più mosso del solito. Louisa era silenziosa. Per comodità avevano noleggiato due risciò, e quando arrivarono davanti alla gioielleria Louisa salutò un ambulante che le superò tenendo in equilibrio una montagna di noci di cocco sulla bicicletta. A parte le sbarre alle finestre e la grossa porta dipinta di giallo, la gioielleria sembrava una casa come tutte le altre. Dentro, però, era tutto un altro mondo.
Tirarono una pesante corda per suonare il campanello. Un giovane le raggiunse e le accompagnò dall’ingresso in legno a una seconda stanza dai soffitti altissimi in cui erano esposti due grandi forzieri olandesi e altri simili tesori protetti da ante di vetro. Louisa chiese se fosse possibile parlare con il proprietario, che era un lontano parente dei Macan Markar, una famosa famiglia di gioiellieri. Dopo qualche minuto di attesa, in cui ammirarono i magnifici specchi alle pareti, videro scendere dalla scala un uomo anziano, leggermente curvo.
«Signora Reeve», disse. «Che piacere. Perché non vi unite a me per un tè alla menta sulla terrazza?».
Louisa guardò Margo, che annuì, e lo seguirono al piano di sopra. La terrazza era fresca e ombreggiata da una pergola su cui cresceva rigogliosa una vite.
«Che meraviglia», disse Louisa ammirando la cima delle palme, i vicoli e l’oceano azzurro in lontananza.
Il gioielliere fece loro segno di accomodarsi. Al posto del pavimento c’era un prato, cosa piuttosto inusuale per una terrazza, punteggiato lungo i lati da vivaci fiori rossi. C’erano anche vasi decorati, con dentro altri fiori, e l’effetto generale era davvero sorprendente e luminoso. Videro alcune donne chiacchierare sui tetti di tegole rosse mentre erano intente al bucato, e sullo sfondo la chiesa olandese in cima alla collina di Rumassala.
Dopo l’arrivo del tè Louisa raccontò al loro ospite il suo progetto e gli chiese se fosse interessato a farne parte.
Lui l’ascoltò con attenzione e rifletté in silenzio in merito alla sua proposta. «Non sono sicuro di avere i mezzi sufficienti ad aprire un secondo negozio qui», rispose infine sospirando. «Non ho passato un buon momento. Ma mio cugino, anche lui gioielliere, che lavora a Colombo, sta cercando l’occasione giusta per allargarsi. Lavora con gli zaffiri. Potrei parlargli del vostro progetto, se volete».
«Grazie», rispose Louisa alzandosi. «Sarebbe davvero di grande aiuto. Mi spiace, ma ora dobbiamo proprio scappare, il fabbro ci attende tra dieci minuti».
Il gioielliere le riaccompagnò al piano di sotto, dove il commesso stava facendo accomodare qualcuno in sala d’attesa. Louisa vide che si trattava del signor De Vos, che la stava guardando a sua volta con un grande sorriso.
«Signora Reeve, che piacere vederla. Volevo giusto passare a trovarla in mattinata. Le spiace seguirmi un istante qui fuori?»
«Certo».
Uscirono in strada, Louisa gli sorrise. «Mi dica».
«Come sa, suo marito e io avevamo fatto un investimento insieme».
«Sì».
«Per saldare la sua parte mi ha dato un assegno post datato – ma quando sono andato in banca mi hanno detto che non era coperto».
«Capisco».
«Suo marito era una persona perbene, e mi chiedevo se – o meglio quando – le sarà possibile saldare questo debito».
Louisa fece molta attenzione a pesare le parole. «Avrete un contratto, immagino, per questa transazione?».
Le sorrise di nuovo. «Certamente».
«E quanti soldi le deve mio marito?».
De Vos scarabocchiò la cifra su un foglietto e glielo passò.
«Mi faccia vedere il contratto e ne riparleremo», fece lei cercando di dissimulare la sorpresa.
«Grazie», le disse prima di congedarsi con un piccolo inchino e rientrare in gioielleria.
Il cuore le scoppiava nel petto. Altri debiti!
«Che voleva quell’uomo?», le domandò Margo raggiungendola.
Louisa deglutì. «Pare che Elliot gli dovesse dei soldi, non so che pensare».
«Dei soldi?»
«Ti dico, Margo, sono anche parecchi, abbastanza per comprare una o due case diciamo… Oddio, speriamo che non abbia chiesto prestiti anche per l’anticipo della tipografia! Mi aveva detto di aver utilizzato i profitti dalla società di esportazione delle spezie».
Margo scosse la testa. «Ne hai parlato con tuo padre?»
«Non ancora. Vorrei cercare di cavarmela senza coinvolgerlo».
«Al posto tuo, glielo direi. Non puoi affrontare tutto questo da sola».
Mentre camminavano nel cielo si addensarono alcune nuvole e per un momento sembrò che sarebbe venuto a piovere. Louisa tirò fuori il mazzo di chiavi e aprì la porta d’ingresso della tipografia. L’aria sapeva di muffa. «Devo far pulire questa cupola per far entrare un po’ di luce, per ora dobbiamo accontentarci di aprire le finestre. Almeno l’aria si rinfrescherà».
«Hai già deciso a chi affiderai i lavori?»
«A Himal, credo, ma devo prima finire i disegni».
Salirono per la scala metallica fino alla galleria circolare del primo piano, dove videro un geco scappare e poi fermarsi e restare immobile.
«Accidenti, ora dobbiamo aspettare che se ne vada o che si nasconda… altrimenti non possiamo andarcene».
«Credi a queste superstizioni?».
Louisa rise. «Le trovo solo divertenti. Ti piace la vista da qui?»
«Molto», disse Margo.
Louisa sorrise. «Pensavo che quassù, con la luce che arriva da sopra, sarebbe perfetto per esporre dei quadri. Le persone potrebbero ammirarli passeggiando e gettando un occhio anche verso il basso, alle altre cose».
«Hai già pensato a tutto, eh?»
«Sì. Certo la notizia di questo nuovo debito di Elliot cambia un po’ la prospettiva…». Scosse la testa. «Una lunga serie di spiacevoli sorprese».
«Andrà tutto bene».
«Tu dici? Non vedo come. Ogni volta che penso a Zinnia e a quel bambino mi sento male».
In quel momento attraverso le ringhiere della galleria videro che era entrato un uomo con una borsa a tracolla che si stava guardando attorno.
«Ah, ecco il fabbro».
Louisa scese di sotto lasciando Margo in galleria.
«Signor Hassid», disse porgendogli una mano. «Grazie per essere venuto. Ecco, è da questa parte».
Gli fece strada attraverso una delle stanze laterali fino alla porta chiusa. «La lascio lavorare».
Il fabbro annuì e Louisa tornò nella sala principale. «Margo, scendi. Voglio chiederti un parere su queste presse antiche. Pensavo di farne ristrutturare una per arredare il centro della stanza».
Margo scese e passò una mano su una delle presse, legata alle travi di legno del soffitto con delle catene. «Certo prenderebbe un bel po’ di spazio. Forse la più piccola».
«Hai ragione».
Sentirono un colpo. «Penso che sia riuscito a entrare».
Lo raggiunsero. «Ho dovuto smontare tutta la serratura. Posso mettervene una nuova, ma in questo momento non ho il modello giusto».
«Non si preoccupi, per ora non serve. Mi dica quanto le devo».
Quando l’uomo se ne fu andato entrarono nella stanza. C’erano solo una scrivania e una sedia con le ruote. «Doveva essere l’ufficio. Vediamo cosa c’è dentro i cassetti».
Aprì il primo. Vuoto. Poi il secondo, che conteneva solo qualche foglio di carta ingiallito. E infine il terzo, vuoto anche quello.
«Qui non c’è niente», disse Louisa.
«Mi domando perché abbiano chiuso a chiave la stanza».
Dopo aver dato una pulita alla tipografia ed essere tornate a casa, Louisa decise di farsi un bagno e prepararsi per la cena, mentre Margo andò a Flag Rock per una nuotata.
Il bagno di Louisa era rivestito con piastrelle blu e bianche e la finestra dava sul giardino. Tirò fuori dall’armadio un asciugamano bianco pulito, aprì il rubinetto, accese qualche candela profumata e poi, con l’acqua calda che la accarezzava, si mise a sentire il coro di uccellini che cantavano tra gli alberi. Allungando il collo vide alcuni parrocchetti lanciarsi in volo da un albero all’altro, poi tornò a immergersi nella vasca. Non c’erano altri suoni, e quella pace la calmò.
Inaspettatamente, si ritrovò d’un tratto a pensare a Elliot. Le capitava spesso negli ultimi tempi. Quando magari era impegnata a cucire o a lavorare in giardino ecco che di colpo le sembrava di sentire la sua voce, proprio come se fosse lì. Non aveva raccontato a suo padre le insinuazioni di Leo circa Zinnia e Conor, perché dirlo a lui avrebbe reso tutto in qualche modo più reale. Eppure, anche se cercava di non pensarci, non poteva fare a meno di chiedersi se quello che le aveva detto Leo fosse vero. E come avesse fatto Elliot, in caso, a tenere nascosto quel figlio così a lungo. La sola idea le tolse il fiato, e si portò le mani agli occhi per ricacciare indietro le lacrime.
Uscita dalla vasca si asciugò e infilò un abito con la vita segnata e la gonna alla caviglia. Aveva le spalline leggermente imbottite e un motivo floreale, un altro dei vestiti cuciti su misura da quel sarto di Colombo. Sistemò i capelli raccogliendoli in un’acconciatura che andava di moda ultimamente. Era abbronzata, anche se non in maniera eccessiva, e si passò un po’ di trucco sulle guance. Solitamente non ci badava più di tanto, ma qualcosa le diceva che quella sera era importante, anche se sarebbero stati solo lei, Margo e suo padre.
Poco dopo scese al piano di sotto e sentì bussare alla porta. Era tardi per una visita di cortesia e si chiese chi potesse essere. Andò ad aprire e fu sorpresa di trovare Jeremy Pike, l’amico con cui Elliot andava spesso in barca e con la cui macchina aveva fatto l’incidente.
«Ho pensato che fosse ora di darti una spiegazione».
«Entra pure».
Restarono all’ingresso e lui si guardò attorno con le mani dietro la schiena. «È dura pensare che Elliot non ci sia più».
«Molto. Ma dimmi, cosa posso fare per te?»
«Volevo spiegarti cosa è successo il giorno in cui è morto».
Louisa rimase un istante senza fiato. «Vuoi accomodarti?»
«No, ci vorrà solo un minuto. Quel giorno avevamo in programma di uscire in barca, ma quando ho visto che si stava alzando troppo vento ho telefonato per rimandare. Sinceramente mi è sembrato che Elliot fosse sollevato, e poi mi ha chiesto di prestargli la macchina».
«Perché?»
«Non lo so. Ma io ovviamente gli ho detto di sì – eravamo molto amici».
«E non ti ha detto altro?»
«No, mi ha solo spiegato che doveva incontrarsi con qualcuno sulla strada per Colombo, un affare in cui era coinvolto credo».
«Tutto qui?»
«Tutto qui».
«Ti ringrazio comunque per avermelo detto».
«Avrei dovuto farlo già da tempo. Mi spiace non essere riuscito a partecipare al funerale, ma sono dovuto andare a Bombay improvvisamente e sono rientrato solo da poco».
«Hai già parlato con la polizia?»
«Ho appena rilasciato una dichiarazione in cui confermo quanto già detto dalla mia governante mentre non c’ero».
«E come farai per la macchina? Posso rimborsarti ovviamente».
«Non devi preoccuparti, sono coperto dall’assicurazione», esitò. «Ora devo proprio andare. Ti prego di accettare le mie più sentite condoglianze».
Louisa andò in salotto, dove trovò Margo che suonava un pezzo di Liszt al pianoforte e suo padre che l’ascoltava. Si sedette a godersi la musica e a ripensare a Jeremy Pike.
Margo era brava e la serata era piacevole, ma Louisa non riusciva a togliersi dalla testa Elliot e il suo incidente, continuava a chiedersi perché dovesse andare a Colombo. Suo padre sorseggiava il suo drink a occhi chiusi, mentre Ashan attendeva in silenzio che Margo finisse il pezzo. A quel punto chiese alle due donne cosa gradissero bere e mentre lui preparava i loro cocktail Jonathan disse: «Allora, Margo, che programmi hai?».
Margo sospirò. «Non ho ancora deciso. Credo che alla fine tornerò in Inghilterra e cercherò di riprendere il mio vecchio lavoro».
«Non ti piacerebbe fare l’infermiera qui? Abbiamo davvero bisogno di operatori sanitari ben preparati».
«Certo, qui mi piace, ed è un’idea che prenderei in considerazione. Ma ho dei buoni amici in Inghilterra».
«Potresti fartene di nuovi qui, e recuperare i vecchi che avevi prima. Pensaci».
«Può darsi».
Ashan porse alle donne i loro bicchieri sorridendo: un cocktail di gin, lime e soda. «Spero che vi piacerà», disse.
«Grazie», disse Louisa.
Jonathan si avvicinò alla figlia stringendole la mano affettuosamente. «Sei deliziosa stasera, Louisa».
«So che sei preoccupato per me, ma ce la sto facendo. E la presenza di Margo mi fa davvero tanto bene».
Margo si alzò dal pianoforte. «Anche io sono contenta di essere qui, ma sono certa che mia madre mi richiamerà presto all’ordine».
«Nel frattempo, se davvero la tua compagnia aiuta mia figlia a non precipitare nella disperazione, saremo più che felici di averti qui con noi, non è vero Louisa?».
«Papà, c’è una cosa di cui volevo parlarti», disse Louisa quando Ashan si fu allontanato. Si avvicinò al padre, ma subito dopo entrò Camille per dire che la cena era pronta e si alzarono tutti in piedi.
Durante la cena Margo parlò molto di Irene e Harold, del modo in cui stavano affrontando la morte del figlio. Così, il momento giusto per parlare con Jonathan di quanto accaduto passò. “Gliene parlerò domani”, si disse Louisa. Suo padre non si era mai fidato molto di Elliot, sin dall’inizio del loro matrimonio, ed era stata lei a convincerlo a dargli una possibilità. Evidentemente, aveva sempre avuto ragione lui.
«Allora, prima di andare al laboratorio di taglio e lucidatura, hai qualche domanda?», le chiese il padre infilandosi gli stivali. «Non sarebbe male se capissi qualcosa in più su come funzionano le cose. So che non te ne sei mai interessata, ma ora che… ora che Elliot non c’è più potrebbe essere il momento per imparare».
«D’accordo. Ma qualcosa so già».
La guardò diffidente. «Mi voglio fidare».
«Ma è vero! Ad esempio so che l’estrazione delle gemme qui avviene da depositi secondari».
«Che ci rende zaffiri, rubini, crisoberilli, granati…».
«…Tormaline, topazi, quarzo», aggiunse lei.
«Allora ascoltavi davvero! Ho sempre pensato che l’argomento ti annoiasse».
Rise. «Non disdegno un bello zaffiro su un anello, ma sai che ho sempre preferito l’architettura».
«Abbiamo le condizioni geologiche perfett…».
«Lo so», gli disse interrompendolo. «Basta così. Sei pronto?».
Uscirono di casa e attraversarono i vicoli, passando davanti a negozi di frutta e verdura e anche davanti al negozio del pesce essiccato. All’angolo di una viuzza stretta c’era un’anziana sdentata che spazzava l’uscio di casa mentre un ragazzino innaffiava un vaso di canne. Jonathan fece un cenno di saluto alla donna e proseguirono verso il laboratorio. Louisa pensava alle pietre preziose e al processo di lavorazione. Dopo essere state estratte, venivano tagliate e lucidate e infine vendute. Elliot era molto orgoglioso del suo lavoro al laboratorio di taglio, ma finora non erano mai stati coinvolti nella fase di progettazione dei gioielli veri e propri.
Entrarono nel buio ingresso dell’edificio e Ravinath, il supervisore, andò loro incontro. Era un singalese di mezza età, dal fisico asciutto e con la schiena leggermente curva per i tanti anni trascorsi a fare quel lavoro.
«Tutto bene, oggi?», gli chiese Jonathan. «Sono passato per mostrare un po’ a Louisa come lavoriamo qui».
«Tutto tranquillo», disse l’uomo. Lo seguirono verso l’ufficio.
Jonathan si accomodò alla scrivania mentre Louisa prendeva un’altra sedia.
L’uomo si congedò con un rapido inchino e Jonathan tirò fuori i conti.
«Prima se ne occupava Elliot, ora ci penso io».
Louisa si guardò attorno. Alle pareti erano appese fotografie incorniciate raffiguranti varie pietre preziose, e ce n’era anche una di Elliot che sorrideva all’obiettivo con un tagliapietre in mano. Per un attimo le parve di sentire il suo odore.
«Scusa papà, possiamo farlo un’altra volta? Ho bisogno di un po’ d’aria».
Louisa uscì e il padre la raggiunse. Si fermò in strada respirando a pieni polmoni l’aria salata del mare per calmarsi. Poi si girò verso il padre e allungò una mano. Un piccolo stormo di gabbiani volò sopra le loro teste. «Mi dispiace, Louisa».
Lo guardò, e nei suoi occhi segnati dal tempo e dal sole vide quanto fosse addolorato per lei.
Aveva la bocca secca, ma sapeva di dover raccontare tutto a suo padre. Deglutì prima di iniziare. «Il fatto è che ci sono alcune cose di Elliot di cui devo parlarti».
«D’accordo, ma non in mezzo alla strada. Andiamo a casa e ci facciamo un bel caffè nero. Poi, non so tu, ma io voglio anche una fetta di torta». Louisa era d’accordo. Lui andava pazzo per la bondahalua, un dolce di cocco e jaggery, ma lei aveva lo stomaco completamente chiuso e l’idea di mangiare non le andava per niente.
Una volta a casa si tolse il cappello. Notò allo specchio quanto fosse pallida. Sentì un rumore provenire dallo studio di Elliot e andò a verificare cosa fosse, mentre suo padre pensava a ordinare il caffè. Di nuovo quelle dannate scimmie, pensò irritata all’idea che qualcuno della servitù avesse lasciato la finestra aperta.
Quando aprì la porta, però, la scena che si trovò di fronte era ben diversa. C’erano fogli dappertutto, una sedia capovolta e i cassetti tutti aperti e rovesciati a terra. Anche le scatole di cartone sugli scaffali erano state vuotate. La finestra era rotta, quindi chiunque avrebbe potuto aprirla da fuori. L’aveva detto che sarebbe stato meglio mettere le sbarre alle finestre del piano terra, ma avevano sempre rimandato. Le cose di valore le tenevano in cassaforte, quindi sapevano di poter aspettare senza correre grossi rischi. Aprì la cassaforte con il codice, sembrava ci fosse tutto: un po’ di liquidi, il necessario per mandare avanti la casa, e i gioielli più preziosi. No, non mancava nulla. Cosa stava cercando, allora, l’intruso?
Chiamò il padre, che davanti a quella scena si limitò a scuotere la testa.
«Chi può aver fatto una cosa simile?», gli chiese. «È tutto sottosopra».
La guardò. «Sarà meglio che facciamo due chiacchiere, che ne dici?».
Si accomodarono sul divano e con voce esitante Louisa raccontò al padre del nuovo debito che Elliot aveva con De Vos e del fatto che secondo Leo non aveva mai comprato azioni di Cinnamon Hills. Gli disse che aveva anche un debito con la banca, che lei stessa aveva ripagato, e che aveva svuotato il conto facendo sparire i soldi che gli aveva mandato.
«Il signor De Vos mi ha detto che c’è un contratto da cui si evince che Elliot gli deve questo denaro».
«Lo studieremo per bene. Non voglio che ti ritrovi a pagare chiunque venga a dirti che Elliot gli doveva dei soldi».
E alla fine, non senza una lacrima e inciampando sulle parole, gli disse anche quel che Leo le aveva raccontato a proposito di Zinnia e del bambino.
Jonathan si alzò in piedi e prese a camminare per la stanza avanti e indietro. «Un figlio nascosto! Davvero non capisco, e men che meno posso perdonarlo».
«Io non so ancora se crederci», gli disse guardandolo, irritata con se stessa per quella lacrima che le scivolava lungo una guancia.
«Se potessi mettergli le mani addosso! Aveva tutto quel che poteva desiderare con te, che altro può volere un uomo?»
«Figli, papà. Ecco cosa», e per poco non si strozzò pronunciando quelle parole dolorose.
«Mia cara», le disse.
Poi le si sedette accanto abbracciandola mentre lei non riusciva a smettere di singhiozzare, con il viso sepolto contro il suo petto e i riccioli biondi che le nascondevano gli occhi.
Jonathan si fermò a dormire e subito dopo la colazione si preparò per andare a denunciare l’effrazione alla polizia.
«Dobbiamo farlo, ci penso io», disse.
Louisa si chiese se l’episodio avesse qualcosa a che fare con Elliot e sentì un morso al cuore. Sbatté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Nonostante il padre fosse lì con lei e fossero in pieno giorno, si sentì vulnerabile come le succedeva spesso di notte, come se non avesse pelle. «E se c’entrasse qualcosa con lui, con i suoi affari?», chiese a bassa voce.
Jonathan sospirò. «Chiederò la massima discrezione. Ma non posso non sporgere denuncia».
«Come facevano a sapere che non eravamo in casa?».
Scosse la testa. «Immagino che ci abbiano osservato per un po’».
«Pensi che fossero in cerca di denaro?»
«Denaro e qualche altra cosa di valore, sì».
«Cosa pensi che abbia fatto Elliot con i soldi?».
Lui si strinse nelle spalle. «Magari li ha spesi per mantenere questa donna e suo figlio».
«Immagino di sì».
«E comunque, scusa se non è il momento giusto ma era un po’ che volevo dirtelo: bisogna che tu vada a prendere in mano anche la società di esportazione spezie a Colombo. Posso rilevarla io o venderla se pensi che sia troppo impegnativo tenerla».
«D’accordo, andrò a Colombo per andare in banca e farò un salto in ufficio mentre sono lì. Non mi dispiacerebbe occuparmene».
Squillò il telefono, udirono dei passi e poi la voce di Margo. Dopo qualche minuto entrò in sala da pranzo. «Vogliono che torni a casa. Sapevo che prima o poi sarebbe successo, è meglio che vada. Spero soltanto di riuscire a essere di qualche aiuto, stavolta. Solo che mi toccherà riprendere il pullman…».
«Devo andare a Colombo anch’io», le disse Louisa. «Potrei darti un passaggio. Ma non credo di essere pronta per partire oggi stesso».
Margo socchiuse gli occhi. «Sei molto pallida. Vorrei potermi fermare ancora un po’ qui».
«No, tua madre ha bisogno di te. Ed è giusto che tu vada. Io me la caverò».
«Non vedo come».
«Mi terrò impegnata», le disse, anche se in fondo era d’accordo con la cognata.
Più tardi, Louisa andò alla tipografia armata di album da disegno e matite. L’edificio del diciottesimo secolo era costruito nel tipico stile architettonico coloniale di Galle, e lei voleva rivedere bene la facciata per capire come e cosa cambiare. In realtà non aveva molta voglia di disegnare: avrebbe preferito mettersi in un angolo con un bel bicchiere di gin e dimenticarsi tutto. Invece tirò fuori una matita 2B dall’astuccio e iniziò ad abbozzare le finestre ad arco con le imposte in legno, davanti alle quali si apriva una veranda. Poi disegnò le finestre, più grandi, del piano della galleria e infine lo splendido tetto di tegole rosse. Mentre lavorava, nonostante cercasse di restare concentrata sul disegno, non riusciva a pensare ad altro che all’umiliazione e l’imbarazzo di dover parlare a suo padre di Zinnia e di suo figlio.
Che doveva fare?
Passare il resto della vita a chiedersi se fosse vero? Continuare a domandarsi se Elliot fosse stato innamorato di un’altra, una donna che aveva saputo dargli un figlio mentre lei non ci era riuscita? Anche se il solo pensiero la faceva sentire male, forse l’unica cosa da fare era andare a parlare di nuovo con Leo.
Entrò nell’edificio e da lì, attraverso un’ampia porta sul retro, uscì nel giardino interno. Sarebbe stato perfetto per servire tè e caffè. Si mise in un angolo a disegnare le colonne e il balcone, che immaginò con una cascata di fiori colorati. Fino a quel momento non aveva ancora preso in considerazione l’esterno, che invece era un luogo perfetto anche solo per star seduti a pensare, circondato da alte palme da cocco. Sebbene invaso da bouganville ed erbacce non ci sarebbe voluto molto per dare una sistemata a quel giardino.
Poi prese l’occorrente da disegno e tornò a casa. Sedette in giardino, godendosi i nuovi boccioli e sorseggiando un tè allo zenzero. Un calote variopinto maschio, con strisce bianche sul corpo e una cresta rossa in testa, la guardava da un ramo. La fece sorridere, ma non appena le tornò in mente il pensiero di Zinnia e di suo figlio capì che non aveva scelta: doveva tornare a Cinnamon Hills.
Due giorni dopo, Margo tornò dai suoi in pullman e Louisa si decise ad andare. Era maggio, l’aria era più umida. Faceva ancora caldo, tra i venticinque e i trenta gradi, e così sarebbe stato per il resto dell’estate, con il monsone che avrebbe portato forti piogge da giugno a settembre. A Louisa non dava fastidio la pioggia, che anzi riteneva portasse un bel sollievo. In quella stagione le strade di Galle si riempivano d’acqua e il mare era tumultuoso. Per il momento, però, l’aria era ancora solo umida. Si asciugò la fronte mentre saliva in macchina. Sarebbe stato un viaggio appiccicoso, ma non avrebbe saputo dire se per via del tempo o di quel che stava andando a fare. Si era vestita con pantaloni leggeri e una camicia semplice in cotone, e si era legata i capelli in un basso chignon. Faceva troppo caldo per portarli sciolti. Aveva deciso all’ultimo minuto di mettere i suoi orecchini di zaffiro preferiti. Erano di sua madre, e indossarli la faceva sempre sentire bene.
In un baleno raggiunse la spiaggia dove era andata a nuotare con Margo. Lei ed Elliot amavano raccogliere grandi conchiglie insieme, ma da quando era morto non l’aveva più fatto. Passeggiò lentamente senza scarpe lungo la riva dell’oceano, con la sabbia calda tra le dita dei piedi, lo sguardo rivolto al mare argentato e la testa piena di pensieri.
Raccolse un paio di conchiglie carine e tornò alla macchina, dove sedette a togliersi la sabbia dai piedi prima di rimettersi in marcia. Subito dopo svoltò per prendere l’ormai familiare salita verso Cinnamon Hills. Aveva il cuore in gola, non sapeva cosa avrebbe detto a Leo, ma doveva conoscere la verità.
Di lì a poco arrivò davanti alla casa in cima alla collina. Bussò, ma il ragazzo che venne ad aprirle le disse che il signore aveva accompagnato un dottore a visitare la cugina e sarebbe rientrato a breve. Forse era l’occasione giusta per girare i tacchi e andarsene, ma decise che era meglio restare e togliersi ogni possibile dubbio. Doveva parlare con Leo.
Si incamminò per qualche metro nella piantagione ma finì per prendere in pieno una tela di ragno gigante tra un albero di cannella e l’altro. Si tolse i filamenti appiccicosi dai capelli e tornò verso la casa, dove sedette su una panchina all’ombra della veranda. E lì, con un coro di suoni e rumori che arrivavano dalla boscaglia, restò ad aspettare nel caldo afoso. Accolse con sollievo la limonata che le portò il cameriere, e la bevve d’un sorso, cacciando le mosche che si affollavano attorno al bicchiere.
Dopo circa mezz’ora riconobbe Leo che risaliva a piedi il sentiero. Quando la vide affrettò il passo e andò a sedersi sulla panchina accanto a lei. Il ricordo del loro ultimo incontro era ancora vivo e per un po’ restarono entrambi in silenzio.
«Louisa».
«Leo».
Lo guardò. Indossava un paio di pantaloncini e una camicia turchese a maniche corte che faceva risaltare la sua abbronzatura. Notò che aveva dei segni rossi sulle braccia. Aspettò che fosse lui a dire qualcosa per primo, ma vedendo che non lo faceva capì che toccava a lei. «Volevo parlarti».
«Andiamo dentro. Oggi mi hanno punto dappertutto mentre toglievo le erbacce».
«Oh».
«Un lavoro infernale. È così che mi sono procurato tutti questi graffi».
Louisa si alzò.
«Dopo di te», le disse tenendole la porta aperta.
Salirono le scale, lei si guardava attorno nervosa, a disagio. Per il momento sembravano entrambi molto attenti uno con l’altra, molto cauti.
«Chiedo a Kamu di portarci qualcosa da bere». Chiamò il ragazzo per poi rivolgersi di nuovo a Louisa come ripensandoci. «Una birra va bene per te?».
Annuì, sempre più convinta di aver fatto bene ad andare lì. In attesa della birra, andò a sedersi e respirò a pieni polmoni il profumo di cannella che avvolgeva sempre Leo. Anche lui si accomodò con uno sbuffo di sollievo. «Kamu ti ha spiegato dov’ero?».
Louisa ingoiò il nodo che le si era formato nella gola. «Mi ha detto che avevi portato un medico da tua cugina».
Annuì. «Non l’ha voluto nemmeno vedere».
Il ragazzo portò le birre.
Alla fine trovò il coraggio di parlare. «Volevo chiederti…».
«Sì?»
«Se quel che mi hai raccontato è vero».
Sorrise. «Temo di sì. Mi dispiace».
Lo osservò, mentre lui guardava verso le cime degli alberi.
Ci fu un altro lungo silenzio. Avrebbe preferito non chiedere, non sapere, eppure sentiva che era necessario.
«Quanti anni ha il bambino?»
«Sette».
«E dov’è ora?».
Incrociò i suoi occhi prima di distogliere nuovamente lo sguardo. «In giro, da qualche parte».
«A fare cosa?».
Scosse la testa. «Lei non vuole mandarlo a scuola, perché si vergogna che sia illegittimo. Lo sanno tutti qui intorno che non ha un marito».
«E un collegio?»
«Troppo costoso».
«Una tata?»
«Ha bisogno di andare a scuola, ormai, non di una persona che lo sorvegli».
«Capisco».
«Zinnia gli fa lezione, ma in questo periodo non sta bene, e se non accetta di curarsi come si deve…», disse allargando le braccia.
Louisa abbassò lo sguardo sul pavimento in cotto, aveva la nausea. «Vedevi Elliot, quando veniva qui?».
Leo socchiuse gli occhi, come trovando quella conversazione particolarmente difficile. «Li lasciavo tranquilli», disse guardandola con una tale compassione che dovette fare un respiro profondo prima di parlare di nuovo.
«E Conor sapeva che Elliot era suo padre?».