Sri Lanka 1935
In una piantagione di cannella
Se ne sta seduto sotto i rami cascanti di un baniano, è piuttosto magro, il che rende difficile indovinare la sua età. Sembra molto solo. La luce del sole filtra tra le foglie lucide e danza sulle sue gambette snelle. Più un folletto che un bambino in carne e ossa, è il tipico ragazzino che una madre vorrebbe stare sempre ad abbracciare. Sceglie un sasso e poi, concentratissimo, lo lancia più lontano che può. Soddisfatto che sia finito più in là di quello precedente, si alza e attraversa la radura recintata dai rododendri, strusciando i sandali tra foglie e ramoscelli e lasciandosi piccoli frammenti di legno sotto le suole scricchiolanti.
Ascolta i gufi che si muovono sull’albero e arruffano le piume, guarda uno scoiattolo striato correre lungo un tronco e annusa l’aria – citronella, terra bruciata, l’aroma di cannella e l’oceano salato che quasi gli sembra di sentire in bocca. Coglie un fiore di albicocca e affonda il naso in quella morbida fragranza fruttata. È per la madre.
Nota una libellula rossa volare da una foglia all’altra e vorrebbe avere con sé il suo libro degli insetti. Non ne ha mai vista una simile dal vivo, ma solo nel libro, insieme alle altre libellule, damigelle e farfalle. Sa che ce ne sono migliaia lì in Sri Lanka, in quel luogo che sua madre definisce una perla.
Una brezza fresca gli accarezza le braccia e sente un fremito sulla pelle. È il posto più bello del mondo quella foresta luccicante, e non vede l’ora di farci una passeggiata con sua madre quando sarà più fresco, in serata. Il calore del giorno la affatica, ma lui conosce tutti gli angoli più in ombra, c’è sempre un posto in cui rifugiarsi dal caldo. Un cambio d’umore improvviso e un velo di tristezza gli oscura lo sguardo. Gli piace giocare da solo, ma una parte di lui vorrebbe qualcos’altro. Prova un piccolo brivido, un fugace e sgradevole senso di colpa.
Poi il momento passa.
Quando camminano insieme il profumo di sua madre lo avvolge, gli piace indicare tutti gli uccelli chiamandoli col loro nome mentre lei ride e finge di stupirsi che ne conosca così tanti. Non ride spesso, sua madre. Nulla di strano, date le circostanze. Eccola, la frase che sente più spesso: “date le circostanze” non è una buona idea. Oppure: “date le circostanze” sarebbe meglio di no.
Ha quasi raggiunto la cima della collina, il suo posto preferito. Da lì si vede lontano lontano, e se chiude gli occhi gli sembra di sentire l’oceano. Si immagina le onde fredde che gli bagnano la pelle calda, lui che corre sulla spiaggia più veloce che può mentre il vento gli scompiglia i capelli troppo lunghi, e poi il pescatore al tramonto, poco prima che il cielo si faccia rosa e il mare diventi lilla.
Un fruscio proveniente dagli alberi lo distoglie dai suoi pensieri. Resta in ascolto. Dev’essere un macaco dal berretto o un entello, quelli con la coda lunga. Mai provare a fare amicizia o dar da mangiare a un macaco dal berretto, dice la mamma. Se gli dai da mangiare ti classificano subito come un subordinato. Cioè pensano che stai più in basso di loro. Subordinato. Una cosa brutta, nessuno vorrebbe mai sentirsi così, no?
Sri Lanka, 23 dicembre
1935
A Galle, una città vecchia di trecento anni
Per tutto il giorno le temperature erano state soffocanti, sopra i trenta gradi, e persino ora – alle sette di sera – dovevano esserci almeno venticinque gradi. La gonna di Louisa Reeve, in seta grigia e tagliata a sbieco, era stata confezionata a Colombo secondo un modello che aveva visto su una copia di «Vogue». La rivista le era arrivata in ritardo di mesi rispetto all’uscita originale, ma bisognava accontentarsi. I sarti di Galle erano molto affidabili ma certamente non moderni, e i loro lavori risultavano sempre di manifattura troppo marcatamente singalese. A Colombo, invece, c’erano sarti capaci di copiare qualsiasi cosa. Data la sua notevole altezza, la linea di quella gonna le donava un tocco di fluente femminilità, era uno stile decisamente diverso rispetto alle pratiche gonne di lino o ai pantaloni larghi che indossava di solito per girare in bicicletta.
Elliot la raggiunse da dietro cingendola in un abbraccio.
«Felice?», le sussurrò in un orecchio accarezzandole i capelli.
«Ehi, ci ho messo un’eternità a pettinarmi». Aveva domato i riccioli biondi in morbide spirali ondulate, fermandoli da una parte con una molletta che aveva sopra uno zaffiro finto.
«Ti senti bene?», le chiese lui serio e preoccupato.
Gli prese la mano. «Sto bene, stavo pensando a Julia poco fa».
«Sicura?».
Annuì. «Tranquillo».
«Ottimo. Sarà un Natale favoloso, e tu sei splendida». Si girò per andarsene. «Se sei sicura di star bene… vado a controllare il vino».
«Sei ancora deciso a uscire in barca il 26?»
«Penso di sì. Magari solo qualche ora, se non ti dispiace. Jeremy ha un nuovo dinghy e vogliamo provare a montarci un trapezio moderno. Lo ha fatto costruire da un locale su un disegno che gli hanno mandato dall’Inghilterra. Perfetto per filare veloce, così dicono».
Le passò accanto per raggiungere la porta, e nel sentire il profumo della sua colonia al cedro sorrise, mentre lo guardava allontanarsi riflesso nello specchio. Anche dopo dodici anni di matrimonio lo trovava ancora bellissimo, con i suoi ricci castani, gli occhi di un verde brillante e un fascino intatto, capace di incantare chiunque. Una di quelle persone a cui veniva tutto facile. Aveva tanti amici e intorno a lui c’era sempre una certa energia. Anche lei aveva diversi amici, ma ci metteva di più a conoscere a fondo le persone, e non aveva i modi diretti del marito. Le piaceva, però, scoprire gli altri, e quando si faceva un amico, in genere era per sempre.
Affacciandosi dalla finestra lì all’ultimo piano, spaziò con lo sguardo sul cielo azzurro e il mare turchese e scintillante attorno a Galle. Le tornò in mente il momento in cui aveva dato a sua figlia il nome Julia. Era stato proprio lì, in quel punto. L’aveva tenuta in braccio per una lunga preziosa ora, finché le lacrime non avevano iniziato a offuscarle la vista. Quando era morta? Prima della nascita o durante? Nascere senza vita. Che senso aveva? Erano queste le domande che ancora la tormentavano. Julia sarebbe stata battezzata presso la chiesa anglicana All Saints, la stessa dove lei ed Elliot si erano sposati e dove lei stessa era stata battezzata.
Persino ora, a distanza di oltre due anni, il passato continuava a farsi vivo, e lei era travolta da un forte senso di colpa, dall’impressione che dovesse esserci qualcosa che avrebbe dovuto – o non dovuto – fare. Chiuse gli occhi e si immaginò una giornata piena di sole, Julia che giocava in spiaggia con i cani, Tommy, Bouncer e Zip, il più piccolo della cucciolata, tutti pieni di sabbia, bagnati e salati, e la sua bambina che rideva felice. Se la immaginava a raccogliere gusci di conchiglia e poi correre veloce e inciampare nella fretta di mostrare il suo tesoro prezioso, pronta a scordarsene alla prima nuova distrazione. E poi, oh, sembrava così vero, immaginava di prendere sua figlia tra le braccia dopo averle fatto il bagno, e di sentire il profumo dello shampoo alla mela e menta tra i suoi capelli.
Sospirando, lasciò che quelle immagini si allontanassero per tornare al presente.
Non le restava altro da fare che assicurarsi che fosse tutto in ordine, che il personale fosse a lavoro e che i fiori non stessero appassendo. Uscì sulla veranda, prese un fiammifero e un accenditoio per le lampade a olio esterne e per le candele alla citronella che tenevano lontane le zanzare. Andò in punta di piedi a controllare una lampada in cui aveva fatto il nido un bulbul dal sottocoda rosso e si assicurò che avessero tolto la lampadina. Sentì il chrick chrick del passero genitore che osservava la situazione. «Va tutto bene», sussurrò lei. «Nessuno rimetterà la lampadina finché i tuoi piccoli non avranno preso il volo». Il giardino circondava la veranda, i fiori di ibiscus rosa si muovevano al vento. Adorava sedersi lì ad ascoltare il coro che si alzava la mattina presto, mentre tutto iniziava a illuminarsi con i primi raggi di sole.
Tornò nel salotto di quella grande casa colonica e alzò lo sguardo verso le travi di legno, da cui lampade nascoste emanavano una luce dorata. Aveva dipinto lei stessa le pareti di quella sala color arancio, e le cornici delle porte in turchese: una scelta che molti non apprezzavano, abituati com’erano alle tenui sfumature color crema delle pareti tipiche dello stile colonico. Lei, invece, adorava quella vivacità. C’erano due ventole in legno scuro appese al soffitto, e in un angolo una palma da interno che animava la parete con le sue ombre. Dal grammofono giungevano le note di I Only Have Eyes for You.
Al piano terra c’era la cucina, la stanza della governante part-time, le sale e gli studi. Le camere degli ospiti e i due bagni erano al piano superiore, e anche la stanza da cucito di Louisa. Poi, all’ultimo piano, c’era la loro camera da letto, il loro bagno e un salottino privato, uno spazio pacifico e luminosissimo che dava su una terrazza. In fondo al giardino c’era un’altra costruzione, dove dormiva la servitù, anche se quasi tutti abitavano in città per conto loro.
Poco più tardi, Louisa ed Elliot erano uno accanto all’altra che accoglievano gli ospiti all’ingresso. Lei alzò lo sguardo verso il lucernaio. Le imposte di legno delle finestre sul davanti erano mezze aperte, ma i vetri erano chiusi, per via degli insetti. Si augurò che le luci fossero abbastanza accoglienti, venendo da fuori. Voleva che i suoi ospiti trascorressero una splendida serata, e fu percorsa da un fremito di eccitazione.
Arrivò un amico di Elliot, Jeremy Pike. Era il figlio di un agiato coltivatore di gomma e aveva conosciuto Elliot a Colombo. Un uomo elegante, con un bel paio di baffi, che – malgrado trascorresse spesso qualche giorno nella residenza estiva di famiglia a Galle e andasse spesso a vela con Elliot – Louisa non conosceva ancora molto bene. Preferiva la compagnia degli uomini. A seguire una coppia più anziana, amici di suo padre, che commentavano il caldo soffocante, e dietro di loro una coppia di coltivatori di tè che stavano scendendo da una Daimler.
«Ah», disse Elliot. «Ottimo, sono arrivati gli Hooper».
Louisa guardò avvicinarsi una donna in abito viola insieme a un uomo piuttosto alto, suo marito. La donna era molto attraente, con capelli naturalmente mossi e occhi che parevano richiamare il colore del suo vestito. Teneva in braccio, fasciata, una bambina. Inciampò leggermente e la vecchia ayah che li seguiva allungò prontamente una mano. L’uomo cinse le spalle della giovane moglie e a Louisa sembrò un gesto molto protettivo.
Elliot si fece avanti per accoglierli, con un grande sorriso. «Laurence e Gwendolyn, che piacere che siate riusciti a venire alla fine».
Louisa allungò una mano all’uomo, mentre sua moglie passò la bambina alla ayah per avvicinarsi a Louisa e darle un bacio sulla guancia. «Sono così felice di rivederti», le disse.
Louisa sorrise. «Sono passati mesi da quando ci siamo incontrate a Colombo l’ultima volta».
«Un tè al Galle Face Hotel, giusto? Quanto mi era piaciuto guardare l’oceano e immaginare Galle in lontananza. E ora, eccoci qui».
«Non avevi ancora partorito».
Gwen scosse la testa. «Dio, è vero. È passato proprio tanto tempo».
«Bene, sono più che felice che siate qui. Che te ne pare di Galle?»
«Mi piace. C’ero già stata una volta, quando mi sono trasferita in Sri Lanka, ma sono passati secoli. La città è così tranquilla. Non vedo l’ora di farci un giro domani mattina».
«Ti posso accompagnare se vuoi».
Gwen annuì. «Se hai tempo».
«Ho molto tempo, e conosco la città come il palmo delle mie mani».
«Hai sempre vissuto qui, vero?»
«Sì, a parte il periodo che ho trascorso in Inghilterra quand’ero in collegio. E passo un sacco di tempo a girare in bicicletta. Come avrai visto siamo su un promontorio, completamente circondati dal mare su tre lati, quindi è molto sicuro».
«Mi piacerebbe conoscere meglio questo posto».
«Allora è deciso. Alloggiate al New Oriental?».
Gwen annuì.
«Ti passo a prendere io. Facciamo alle otto? Prima che sia troppo caldo e salga l’umidità».
«Perfetto. Questa è una piccola vacanza per noi. Mia madre è arrivata dall’Inghilterra e sta badando a nostro figlio Hugh, ma torneremo in tempo per la cena della vigilia». Sorrise al marito che era sul punto di dire qualcosa, ma Elliot lo interruppe.
«Che ne dici di un goccio di buon malto, Laurence?».
Laurence annuì e lui lo trascinò scherzosamente via con sé. «Vi lasciamo tra signore», disse strizzando l’occhio all’amico e sfiorando la mano a Louisa. «Che ne dici?».
Lei gli rivolse uno sguardo che gli altri non videro. Si augurò che non bevesse troppo. Ma no, di certo il gioco d’azzardo e l’abitudine ad alzare il gomito appartenevano al passato ormai. Si girò e sorrise a Gwen. «Come si chiama la tua bambina?»
«Alice. Ha sei settimane oggi. Troppo piccola per non portarla con me». Si guardò attorno.
«Lascia che ti accompagni in una stanza dove puoi lasciare Alice a dormire tranquilla».
Mentre Gwen e la ayah sistemavano la bambina, Louisa girò per la casa occupandosi anche degli altri ospiti. L’aria sapeva di detergente al limone e dell’aroma delicato dei fiori dell’albero di Pongam che avevano in giardino. Ne aveva messi alcuni rami in tutta casa, sistemandoli in lunghi vasi di ceramica. I fiori, che quell’anno erano sbocciati presto, erano i suoi preferiti, piccoli e di un viola pallido.
Aveva invitato alcuni amici di suo padre e suoi, compresi diversi commercianti di Galle. Alcuni erano sulla veranda, indossavano i loro abiti migliori e si erano radunati accanto alle candele di citronella. Il suono delle loro risate echeggiava all’ingresso. La cosa interessante di Galle era il modo in cui certi inglesi si mescolavano con i musulmani, i buddisti, i burgher e gli hindu. Era davvero un luogo multiculturale. C’erano anche tante cose da fare, ad esempio farsi un giro per il labirinto di vicoli dove conosceva tutti per nome, godersi l’odore di zenzero fresco o di tè alla menta nelle mattine scintillanti, o anche tutte le capre, le mucche e le lucertole che incontrava durante le sue passeggiate. Le sarebbe piaciuto mostrare tutto questo a Gwen.
Le piantagioni di tè erano davvero molto lontane da Galle, quindi il fatto che gli Hooper fossero lì era una grande sorpresa. Louisa conosceva già tutti a Galle, e passare un po’ di tempo con Gwen le avrebbe offerto una ventata di freschezza. Si sarebbero divertite. Si erano già viste diverse volte e si piacevano molto.
Poco più in là vide suo padre, un uomo alto, magro, con folte sopracciglia, gli occhiali e un’aria burbera per chi non lo conosceva bene. Ma, al contrario, uomini dal cuore grande come quello di Jonathan Hardcastle erano difficili da trovare. Sempre pronto a denunciare ogni ingiustizia, trattava il suo staff con maniere ineccepibili, sebbene questo suo spirito pionieristico non sempre avesse giovato alla sua posizione.
Le andò incontro a braccia aperte. «Tesoro. È tutto splendido, come al solito».
Si abbracciarono e lei gli sorrise. «Lo dici sempre».
«E aggiungo anche che tua madre ne sarebbe stata orgogliosa».
Si scambiarono uno sguardo. La madre di Louisa era morta quando lei aveva solo sette anni, e se lei a malapena se ne ricordava, sapeva bene che il padre non avrebbe mai potuto dimenticarla. Aveva i suoi stessi occhi color nocciola, e spesso lui le ricordava quanto le somigliasse. Non si era mai risposato e Louisa era cresciuta con una ayah che le aveva concesso più libertà di quanto avrebbe fatto una madre. E dunque sin da bambina montava in sella alla sua bici e se ne andava in giro, come le piaceva dire, godendosi la vita in semplicità.
Non ci voleva molto per fare il giro delle mura antiche della città, e aveva l’abitudine di farlo tutti i giorni fermandosi ogni tanto per scambiare due chiacchiere con le persone che incontrava.
«Vogliamo entrare insieme?», le chiese il padre.
«Vai pure avanti, io vado a cercare Ashan. Credo sia il momento di servire la cena».
«Ci penso io».
«Non preoccuparti», gli disse stringendogli una mano. «Pensa a divertirti, papà».
Attraversando l’ingresso per dirigersi in cucina passò davanti allo studio di Elliot e lo vide in compagnia di un uomo che le sembrava di conoscere di vista. Un burgher dai capelli scuri, con sopracciglia non curate e un’espressione impassibile, discendente di uno di quei portoghesi che avevano scoperto Galle per primi. Le parve strano che Elliot non le avesse detto di averlo invitato alla festa e fece un passo avanti per andarsi a presentare. Elliot la vide entrare e si irrigidì. Qualcosa nella sua espressione la mise a disagio, ma prima di poter dire una parola scorse con la coda dell’occhio una piccola scimmia scappare verso la cucina. Doveva andare immediatamente a rimproverare il personale: certe finestre e certe porte non dovevano mai essere lasciate aperte. Le scimmie erano creature intelligenti, bastava dar loro un dito ed ecco che volevano il braccio. Si ricordò che il padre aveva detto qualcosa di simile riferendosi a Elliot, una volta.
La mattina della vigilia di Natale, Louisa lasciò la sua casa in Church Street sul presto, percorse la discesa, superò Middle Street e andò a prendere Gwen. Avevano appuntamento nella hall del New Oriental Hotel, un albergo in stile Regency dall’aspetto piuttosto imponente, con muri in arenaria spessi quasi un metro. Louisa alzò lo sguardo al soffitto in legno. L’edificio era stato costruito dagli olandesi nel 1684, come rifugio per gli ufficiali dell’esercito, ma col tempo era diventato il luogo d’elezione per i coltivatori e i commercianti di passaggio e ogni tanto ospitava anche qualche turista. L’ingresso era ampio ed elegante, con poltrone e divanetti in ebano e qualche chaise longue in rattan intrecciato sparsa qua e là, e già abbastanza trafficato per essere mattina presto.
Le pareti erano impregnate di cera d’api e fumo di sigaro, e si sentiva ancora qualche traccia dei whiskey consumati la sera prima. Al centro troneggiava un gigantesco abete carico di fronzoli e candele. L’effetto era assicurato, ma anche pericoloso, tanto da richiedere la presenza fissa di qualcuno per controllare che l’albero non prendesse fuoco. L’anno prima un ragazzo si era addormentato rischiando che si incendiasse tutto l’edificio.
Adorava quel posto, in particolare l’ingresso principale, così alto e affacciato direttamente sul porto. L’aveva anche disegnato spesso, come del resto molti altri scorci di Galle. Disegnare le piaceva moltissimo, le sarebbe piaciuto diventare architetto, ma per una donna era impossibile studiare in Sri Lanka e sarebbe dovuta andare in Europa o in America. Non volendo lasciare da solo suo padre, era rimasta lì, ma la passione per l’architettura e gli interni non l’aveva mai abbandonata. Spesso sedeva davanti allo splendido tavolo in mogano della macchina da cucire fino a tarda notte per rammendare tende o cucire federe. Altrimenti si dedicava a disegnare e dipingere acquerelli degli edifici di Galle che poi appendeva al muro. Rovinandosi gli occhi, come diceva sempre Irene, la madre di Elliot.
Irene era snob e pretenziosa come spesso capitava che fossero certi europei, e Louisa non voleva ammettere quanto fosse sollevata che quell’anno non sarebbe andata da loro per Natale. I coniugi Reeve, Irene e Harold, che era un funzionario pubblico, avrebbero trascorso le feste da amici a Colombo, quindi sarebbero stati solo Elliot, Louisa e suo padre.
Un attimo dopo apparve Gwen, con un abito in cotone lungo fino alle caviglie e un ampio cappello parasole. «Buongiorno», disse baciando Louisa sulla guancia prima di sistemare la falda del cappello. «Non molto natalizio, vero? D’altra parte con la mia pelle devo per forza indossarlo, altrimenti mi brucio subito».
Louisa guardò la sua pelle abbronzata. «Per fortuna non è un mio problema. Passo talmente tanto tempo in bicicletta che sembra sempre che mi sia addormentata sotto il sole».
«Almeno va di moda».
«Allora», disse Louisa mentre passeggiavano per i vicoli acciottolati e superavano bassi edifici con favolose architravi decorate davanti alle porte e tetti di terracotta tenuti su da colonne per ombreggiare le verande. «Raccontami un po’ come vanno le cose nella vostra piantagione di tè».
«Siamo piuttosto isolati, e tendiamo a non socializzare granché. Andiamo giusto ogni tanto a Colombo o Nuwara Eliya se siamo invitati a ballare. Una volta siamo stati a New York per un mese intero».
«Dev’essere stato divertente».
«Ce la siamo spassata, sì. Eravamo lì per brevettare il tè Hooper come marchio ufficiale».
«Ed è stato un successo?»
«Direi di sì, anche se personalmente non me ne occupo molto. Io mi interesso più che altro del formaggio».
«Sul serio?»
«Quando ci verrai a trovare devi assolutamente assaggiarlo. È delizioso, anche se non dovrei essere io a dirlo». Sorrise, con gli occhi illuminati dalla luce del sole.
Tutte le case che incontravano avevano le imposte, nei vicoli crescevano alberi di Plumeria e le scimmie si dondolavano sui loro rami scintillanti.
Louisa ripensò a quando lei ed Elliot si erano trasferiti in quella casa, subito dopo che Elliot aveva iniziato a lavorare per suo padre, presso il laboratorio di taglio e lucidatura dei preziosi. Ci era voluto un po’ per convincere il padre ad assumerlo, ma alla fine nonostante le sue riserve, Elliot si era dimostrato all’altezza. Il suo era un incarico di grande responsabilità, considerando la quantità di gemme con cui lavoravano.
Le due donne continuarono a chiacchierare; passeggiando incontrarono monaci buddisti e qualche musulmano in abito bianco, e Louisa fece a tutti un cenno di saluto.
«Non ho molto tempo», disse Gwen. «Dobbiamo partire prima di quanto pensassi».
«Scendiamo un momento di qua, ti va? Voglio farti vedere i bastioni dove andiamo a camminare spesso Elliot e io prima che il cielo si scurisca e scenda la sera».
«Che romanticismo. Sei proprio fortunata. Hai davvero tutto quello che si può desiderare, qui».
Louisa sorrise, senza rispondere.
«È davvero bello, anzi direi magico».
Sentirono l’odore del pesce prima ancora di vederlo, appeso fuori da un negozio a seccarsi al sole. In quel negozio vendevano anche salsa di tonno, che conservavano in grossi barili dall’odore pungente. Il pescivendolo le salutò superandole con la bicicletta carica di ceste piene di pesce da un lato e dall’altro, e una lunga fila di gatti che lo seguivano. Tutti quanti salutavano Louisa.
«Il pescatore porta il pesce a domicilio di chi lo vuole e lascia le teste e le code ai gatti», spiegò. «Come vedi, infatti, sono tutti ben in carne».
Superato un grande e profumatissimo albero di plumaria raggiunsero le mura antiche, costruite con corallo, fango e calce. Da lì osservarono l’oceano scintillante, che si apriva davanti a loro a perdita d’occhio.
«Che bello», disse Gwen. «E che profumo».
Louisa rise. «Di pesce?»
«Sì, pesce, ma anche l’incredibile profumo dell’oceano. Noi viviamo accanto a un lago e mi chiedo spesso come sarebbe abitare così vicino al mare».
«Cambia continuamente, è questo che mi piace tanto. Può essere argentato e calmo, perfetto per la contemplazione, oppure come adesso, punteggiato d’oro».
Mentre erano sedute lì Louisa si sentì rilassata come non le capitava da tempo. Era da tanto che desiderava confidarsi con qualcuno, ma non aveva mai trovato il momento né la persona giusta. Gwen era la prima di cui sentiva di potersi fidare.
«Mi hai chiesto se fossi felice», disse.
«Sì».
«La verità è che… ci sto provando. Due mesi fa ho avuto un aborto».
«Oh, santo cielo. Dev’essere stato orribile».
«Non è stato il primo». Deglutì prima di parlare. La bambina nata morta e questo che aveva perso da poco erano persone per lei, piccole personcine nei confronti delle quali provava sentimenti. Bambini che avrebbero dovuto riempirle le braccia e il cuore. Non era una cosa facile da dire, e lei non ne voleva parlare, eppure in qualche modo non poteva nemmeno continuare a tacere. «Poco più di due anni fa ho avuto una bambina, è nata morta, e otto anni fa un’altra gravidanza interrotta».
Gwen si fece seria. «Mi dispiace davvero, immagino che debba essere stato molto doloroso».
Louisa la ringraziò in un sussurro.
Gwen ebbe un istante di esitazione. «Anche io ho perso una bambina», disse infine. «Mi è ancora difficile parlarne, ecco perché non ti ho detto niente quando ci siamo viste a Colombo. Non ero ancora pronta».
Louisa si morse un labbro nel tentativo di trattenere le lacrime.
«È una storia lunga, e ce la teniamo per noi. Si chiamava Liyoni», aggiunse Gwen. «Perderla mi ha spezzato il cuore».
Louisa la comprendeva bene. «Almeno hai la tua piccola Alice, ora». E già mentre lo diceva sentiva quanto suonasse sbagliato. «Oddio, ti chiedo scusa, ho aperto bocca senza pensare. Non volevo dire…».
Gwen la guardò. «Non ti preoccupare. Solo che niente può sostituire quello che hai perso, come ben sai immagino».
Louisa annuì. Lo scambio di quelle confidenze le aveva avvicinate ancora di più. «Grazie per avermene parlato», disse.
Gwen aveva le lacrime agli occhi. Restarono lì sedute una accanto all’altra ancora per un po’.
La sera dopo, entrambi sazi per il lungo pranzo di Natale, Louisa ed Elliot passeggiarono fino ai bastioni, dove sedettero proprio nel punto in cui era stata con Gwen il giorno prima. C’erano tante persone che mangiavano e una lunga fila di corvi in attesa di rimediare un po’ di cibo.
«Penso proprio di aver bevuto troppo brandy col tuo vecchio», disse Elliot chiudendo gli occhi.
«L’aria fresca ti aiuterà», disse lei lievemente a disagio.
Con la temperatura più fresca, iniziavano a uscire di casa anche i locali per la loro passeggiata serale.
Poi gli sorrise. «La festa è andata bene, vero? Sono così contenta che tu abbia invitato Gwen e Laurence. E come mai non hai invitato a fermarsi con noi anche l’uomo che ho visto nel tuo studio? Il burgher».
«Ci ho provato, ma De Vos aveva altri impegni».
«Sembravi a disagio quando hai visto che stavo per entrare».
«Nient’affatto».
«Cos’era venuto a fare?»
«Questioni di lavoro».
«Oh, Elliot! Avevi promesso, niente lavoro a Natale».
«Mi dispiace», disse prendendola sotto braccio. «Non ne parliamo e godiamoci la serata. Siamo felici, no? Tu te la stai cavando?».
Si appoggiò a lui. «Sì».
Il sole tramontava e il cielo andava colorandosi di rosa e rosso. Sentirono la melodiosa chiamata alla preghiera dalla moschea e improvvisamente tutti gli uomini vestiti di bianco si incamminarono in quella direzione.
Louisa amava quella serenità, anche se a volte c’era un’atmosfera vagamente triste. Galle era molto più tranquilla di un tempo. Suo padre ricordava i tempi in cui dal piroscafo sbarcavano cinquecento persone al giorno, vascelli carichi di spezie affollavano il porto e le imbarcazioni dell’esercito si fermavano a fare rifornimento. Ormai erano pochi gli europei che sceglievano di vivere lì, e anche se continuava a essere un centro importante per le pietre preziose, la cannella e la gomma, il commercio del tè si era spostato a Colombo.
A Louisa piaceva incontrare i commercianti che ancora arrivavano dalla Malesia, dall’India e dalla Cina. Galle aveva un carattere tutto suo, e lei adorava le malinconiche chiamate alla preghiera dei musulmani che risuonavano puntuali all’alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio, dopo il tramonto e due ore dopo. Erano suoni che sentiva da quando era bambina e anche se i musulmani erano rimasti pochi – la maggior parte dei singalesi era buddista – vivevano tutti in armonia tra di loro. Louisa sapeva che ogni tanto c’erano delle proteste contro gli inglesi, ma ora che tutti avevano diritto di voto capitavano più raramente, e lì ce n’erano comunque molti meno che a Colombo. Le cose nel Serendip, come un tempo veniva chiamato lo Sri Lanka, l’isola delle gemme, erano cambiate, e per il meglio.
Una settimana dopo Natale, il giorno di Capodanno, Elliot era andato a tuffarsi dalla Flag Rock, il punto più a sud del Forte di Galle. Louisa lo considerava un passatempo pericoloso, ma Elliot amava il pericolo. Gli piaceva andare forte in macchina e filare veloce sul dinghy, divorava la vita, insomma. A volte trovava difficile stare al passo con lui, anche perché Elliot non aveva la sua stessa capacità di interiorizzare le cose. Anzi, detestava la tensione che a volte percepiva in lei e l’attribuiva a un’eccessiva tendenza a rimuginare. Gli aveva chiesto di riportarle una sorpresa dal mercato dove le aveva preso la molletta con lo zaffiro. Un’imitazione, ovviamente, anche se avrebbe potuto tranquillamente permettersi una pietra vera, ma era una loro abitudine quella di comprarsi a vicenda regali che trovavano al mercato o nei bazar. Lo facevano da anni, sebbene ultimamente Elliot fosse stato parecchio occupato.
La settimana prima era stato in viaggio a Cinnamon Hills, una piantagione di cannella in campagna a una trentina di chilometri da Galle, in cui aveva investito un po’ di denaro. L’azienda era stata mal gestita dai precedenti proprietari, le aveva raccontato Elliot, e siccome bisognava lavorare duro per rimetterla in piedi, si era messo a disposizione anche lui. Il mese precedente era stato a Colombo, per supervisionare la ditta di esportazione delle spezie, un’altra cosa di cui si occupava malgrado l’impiego a tempo pieno presso la società del padre.
Cercava di non rimuginare troppo sull’ultima gravidanza interrotta e di restare positiva, ma non era facile. Ripensò al suo incontro con Gwen Hooper. Le aveva dato l’impressione di essere una donna fragile, ma nonostante la perdita di una figlia sembrava aver conservato un certo ottimismo. Incredibile quello che passano le donne, pensò. Quello che passano pur continuando a sorridere.
Dopo una colazione a base di frutta, crema di latte di bufala e appam – una sorta di crêpe di pane, servita talvolta con dentro un uovo – Louisa prese i suoi tre spaniel e uscì a passeggiare con loro, attraversando l’ingresso principale del Forte e da lì inoltrandosi nel parco. Incontrò il venditore ambulante di fiori e ripensò a quando lei ed Elliot appena sposati passeggiavano fino al parco prima di fare colazione e poi tornavano indietro fino alla spiaggia del faro. Si ricordò di una volta in cui avevano deciso di raggiungere il reef a piedi con la bassa marea. Erano come bambini che esploravano un nuovo mondo, e ridevano così tanto che a un certo punto erano caduti afferrandosi uno all’altra ed erano poi tornati a casa zuppi e pieni di sabbia, salendo in camera in punta di piedi perché nessuno della servitù li vedesse. Era sempre stata divertente la vita con Elliot.
Suo padre era un uomo molto più serio e riflessivo, invece. Di base c’erano quattro tipi di uomini in Sri Lanka: ufficiali dell’esercito, coltivatori, funzionari pubblici e uomini d’affari. Suo padre apparteneva a quest’ultima categoria. Forse perdere la moglie l’aveva reso più triste di quanto sarebbe stato altrimenti. Le dispiaceva non ricordarsi come fosse prima che sua madre morisse.
Dopo la passeggiata andò a stendersi sul letto sotto le pale, con una mano sulla pancia. Elliot non aveva mai dimostrato emozioni rispetto alla perdita di Julia, ma sapeva che ne aveva sofferto. Era nato per essere padre, specialmente perché aveva perso un fratellino morto di colera tanti anni prima. Aveva cinque anni, e lui sette, mentre la sorella più piccola, Margo, imparava appena a camminare. Ecco perché – malgrado tutto – Louisa provava empatia per Irene Reeve, nonostante fosse chiaro che non era quella l’unica ragione per cui la madre di Elliot sembrava sempre così insoddisfatta. Louisa sospirò, e colse una traccia di cocco salire dalla cucina. Irene sarebbe arrivata da Colombo per cena, ed era tempo di acconciarsi i capelli e sistemarsi un po’.
Chiacchierarono del più e del meno davanti a un tipico piatto singalese di riso al curry. Il padre di Elliot non aveva potuto accompagnare la moglie per ragioni di lavoro.
«Peccato che Harold non sia potuto venire», disse Louisa. «Speravamo davvero che ce la facesse, non è vero Elliot?».
Elliot annuì. «Ma non importa. È un piacere averti qui, mamma».
«Sì, infatti Irene», si unì Louisa rispettosamente.
Irene fece una lieve smorfia. Anche dopo tutti quegli anni le dava ancora fastidio che la nuora le desse del tu. «Ognuno fa quel che può, e tu sai com’è fatto. Se ricoprisse un ruolo più alto avrebbe più libertà di scelta ma conosci tuo padre. Non è nemmeno un membro del Colombo Club».
«Sono sicuro che papà farà il possibile».
Sorrise. «Tu, Elliot caro, vedi sempre il meglio nelle persone, ma io so che tuo padre avrebbe potuto fare molto di più. E invece siamo al punto in cui siamo. Fine della storia. Sei proprio fortunata ad aver sposato un uomo come mio figlio, Louisa».
Louisa annuì, sperando che la conversazione si spostasse su un altro argomento. Era sempre lo stesso copione, tanto che era sicura di sapere cosa avrebbe detto subito dopo. In ogni caso, si accontentava di non essere lei sotto i riflettori.
Elliot disse qualcosa di carino, come sapeva che avrebbe fatto, e subito dopo arrivò una cameriera a sparecchiare la tavola mentre la famiglia restava in silenzio. Un’altra cameriera, una giovane dai capelli e gli occhi scuri di nome Camille, servì il pudding di ananas, che Louisa rifiutò.
Camille finì di servire gli altri e lasciò la stanza.
«So che non sono affari miei», disse Irene. «Ma non pensi che il pudding ti aiuterebbe a metter su un po’ di peso? Perché non prendete un cuoco inglese, o francese magari? Sono sicura che questa cucina singalese non ti faccia bene. A parte il pudding, intendo».
«Abbiamo una ragazza francese, Camille, che lavora in cucina. Ed è quella che ci ha appena servito il pudding. Non l’hai notata? È francese, ma indossa sempre un sari, forse è per questo che non te ne sei accorta».
«Ma che stranezza. Un’europea che lavora come cameriera».
«Ha una storia piuttosto curiosa. Pare che si fosse innamorata di un marinaio che le aveva trovato lavoro sulla sua stessa nave, salvo poi abbandonarla qui a Galle senza un soldo».
«E tu l’hai incontrata e l’hai assunta? Hai proprio un cuore gentile».
Louisa capì dal suo sguardo che Irene non lo riteneva affatto un gesto gentile. «È sola al mondo, non ha famiglia. Mi sono sentita in dovere, e poi il nostro cameriere se n’era appena andato».
Irene fece una smorfia. «Capisco. Bene, col vostro permesso penso sia opportuno che mi fermi un po’ più a lungo di quanto previsto inizialmente. Qualcuno deve assicurarsi che tu mangi come si deve».
Louisa soffocò un gemito.
Louisa era distesa accanto a Elliot a rimuginare, mentre lui leggeva. Si era sempre dimostrato molto premuroso ogni volta che era stata poco bene, e forse – pensò – la preferiva quando non era forte, come se la sua vulnerabilità lo facesse sentire più indispensabile. Si rannicchiò al suo fianco accarezzandogli la pancia. Incredibile come anche nei matrimoni più saldi i dubbi si riescano sempre a insinuare tanto facilmente. Ma bastò che lui chiudesse il libro e la abbracciasse perché ogni pensiero si dileguasse. Fecero l’amore teneramente per la prima volta dopo la gravidanza interrotta.
Dopo, lui si addormentò.
Lei non riusciva a riposare, si sentiva prudere dappertutto e aveva le gambe pesanti. Impossibile trovare una posizione comoda, non faceva che rigirarsi. Attese per un’ora e infine si alzò dal letto. Accese una candela per evitare che la luce svegliasse Elliot. Detestava svegliarsi di soprassalto e sarebbe rimasto di pessimo umore per tutto il giorno successivo.
Accese l’interruttore solo una volta in bagno. A Galle l’elettricità era arrivata da sette anni e, sebbene avesse effettivamente trasformato la loro vita, a Louisa mancava il romanticismo delle lampade a olio e il tenue bagliore delle candele. A volte le notti erano difficili per lei, e spesso passava molto tempo seduta in bagno. Si guardò attorno, aprì la finestra e si affacciò respirando a occhi chiusi l’aria profumata. Umida, dolce, salata. In quei momenti di solitudine notturna il tempo le sembrava eterno, e quella sensazione placava ogni inquietudine. Quando aprì gli occhi vide che la luna era piena e il giardino scintillava illuminato dai suoi raggi azzurri.
Non sarebbe stato magnifico se, quella sera, fosse rimasta di nuovo incinta?
Si sciacquò il viso e tornò a letto dopo una mezz’ora, pensando ai suoi bambini. Nella sua immaginazione giocavano e strillavano felici come bambini normali, ma che dolore sapere che non erano reali.
A un certo punto Elliot si svegliò abbracciandola.
«Ti amo», gli sussurrò.
«Ti amo anch’io», mormorò prima di riaddormentarsi.
Anche lei riuscì finalmente a prendere sonno.
Nel corso delle settimane successive la vita di Louisa proseguì tranquilla come sempre. Portò spesso Tommy, Bouncer e Zip a fare lunghe passeggiate, si dedicò al cucito e passò del tempo in giardino a potare le piante. Le sere, poi, erano davvero tranquille, con il cielo che si faceva rosso e viola e il richiamo alla preghiera della moschea. La vista del cielo lilla che si stendeva sull’oceano a perdita d’occhio fino al polo sud le toglieva sempre il fiato. Ma proprio quando le cose sembravano tornate al loro posto e lei si sentiva realmente felice, Elliot partì di nuovo, e stavolta sarebbe rimasto alla piantagione di cannella più a lungo del solito.
Louisa continuò a passeggiare con i cani e a prendersi cura della casa finché, una mattina di febbraio, dopo che Elliot era tornato, suo padre andò a sedersi con lei sulla veranda. Era una giornata tiepida, piena di mosche ronzanti che Louisa continuava a scacciare con la mano. Avevano servito loro il tè, e prima di prendere il «Ceylon Times» suo padre allungò una mano verso di lei. Lei la prese e gliela strinse dolcemente. «Eccola qui, la mia ragazza», disse.
Louisa annuì e lasciò andare la mano. Lui si immerse nella lettura del giornale. Quanto le piaceva passare del tempo con lui. Restò lì seduta a godersi il giardino e il canto degli uccelli che volavano da un ramo a un altro. Si sentiva felice. La vita doveva andare avanti. La terza gravidanza finita male era stata un brutto colpo, ma in fondo aveva una casa bellissima, un buon marito e un padre che adorava. Non era una fortuna che capitava a tutti, e presto avrebbe iniziato a raccogliere fondi per l’orfanotrofio di Colombo. Una cena francese, forse, poteva essere un’idea per qualcosa di diverso e Camille avrebbe potuto aiutarla. Aveva già organizzato colazioni, vendite e pranzi stravaganti in passato, sempre in favore dell’orfanotrofio. Elliot le diceva che ogni volta che andava lì si aspettava di vederla tornare con un paio di bambini mulatti sotto il braccio.
Dopo un po’ anche Elliot e sua madre li raggiunsero sulla veranda. Louisa doveva affrontare Irene e farle capire che era ora che se ne tornasse a Colombo. Si era fermata fin troppo a lungo ormai, era già un mese, e il pensiero che la suocera fosse ancora lì per la loro tradizionale festa di anniversario la terrorizzava.
«Altro tè?», propose Louisa suonando la campanella e ordinando il tè ad Ashan, l’esile maggiordomo che apparve rapidamente accanto a lei con indosso il tradizionale sarong annodato sul davanti. Aveva lunghi capelli neri raccolti in una crocchia e fermati con un pettinino di tartaruga e argento.
«Grazie, Ashan», disse. «Posso sempre fare affidamento su di te».
Lui le sorrise. «Lo spero, signora».
Guardò suo marito. Dall’espressione luminosa sul suo volto sembrava proprio che avesse un annuncio da fare. Eppure continuava a star seduto lì in silenzio con uno sguardo imperscrutabile.
«Allora, cosa c’è?», fece il padre che aveva notato la stessa cosa. «Sputa il rospo».
Anche Louisa guardò il marito con aria inquisitoria. «Elliot?».
Tirò fuori un pacchetto di Camel, e con un fiammifero ne accese una. Esitò un istante. «Ho acquistato la vecchia tipografia», disse prima di poggiare la schiena contro la sedia con espressione soddisfatta.
«Oh, tesoro, ma che notizia favolosa!», esclamò Irene colma di orgoglio materno.
Jonathan Hardcastle sollevò lo sguardo dal giornale, decisamente meno contento. «Cosa hai fatto?»
«Ho avuto un’idea meravigliosa». Malgrado la reazione del suocero Elliot era ancora piuttosto compiaciuto.
«Che idea, tesoro?», chiese dolcemente Louisa.
«Mi è venuta qualche settimana prima di Natale. Quel posto è abbandonato da anni, e ho pensato che avremmo potuto trasformarlo nella più grande gioielleria ed emporio di spezie di tutto lo Sri Lanka. Un vero affare. Mi manca l’ultima tranche di pagamento ed è fatta».
«Ma che ti è saltato in mente? Noi non siamo gioiellieri», protestò Jonathan. «Siamo mercanti di pietre preziose».
Ma l’espressione di Elliot non cambiò e Louisa capì che niente l’avrebbe ricondotto alla ragione. «Ma non credi che sia ora di allargarci un po’, Jonathan? Di correre qualche rischio?».
Il padre scosse la testa. «In un momento come questo, in cui siamo così in difficoltà? Certamente no».
«Perché non ascolti la sua idea, papà?»
«No. Il settore delle gemme è in crisi, a causa delle ottime imitazioni che stanno invadendo il mercato».
«Una ragione in più per espandere i nostri interessi in altre direzioni», disse Elliot.
«No, è una follia. Ho dovuto comprare preziosi di altissima qualità, utilizzando gran parte del nostro capitale».
Ashan portò il tè e rimasero tutti in silenzio finché non se ne fu andato. Era con la famiglia da anni e si era sempre dimostrato molto discreto, ma Louisa preferiva comunque mantenere il riserbo su certe questioni.
«Sono sicura che i soldi per questa cosa li puoi tirare fuori. Mi sembra una buona idea, no?»
«No, nella maniera più assoluta. È la tempistica a essere sbagliata».
«Ma…».
Jonathan sollevò una mano. «Non sono per niente d’accordo, punto e basta. E ora ho del lavoro da sbrigare. Spero di non sentire mai più una parola su questa stupida idea». Così dicendo se ne andò col giornale sotto il braccio.
Elliot sbuffò.
Louisa non sapeva che pensare. Voleva supportare Elliot, ma voleva anche molto bene a suo padre.
«Insomma, è andata a meraviglia», commentò Elliot scuotendo la testa.
«Vado a sdraiarmi un po’», disse Irene con una smorfia. «Sento che mi sta venendo uno dei soliti mal di testa. Sono di costituzione delicata, le discussioni non sono il mio forte».
«Ti porto un po’ di tè alla menta, mamma».
Una volta rimasti soli, Louisa si rivolse a Elliot. Voleva trovare qualcosa da dire che potesse tirarlo su. «Vedrai che cambierà idea».
«Si sbaglia. E sai bene che non cambierà idea». Elliot finì il suo tè. «Non gli sono mai piaciuto».
«Non essere così negativo. Certo che gli piaci. Forse avresti fatto meglio a parlamene prima di uscirtene così a sorpresa».
Si strinse nelle spalle. «Forse. Ma volevo fare un annuncio in grande stile. Pensavo che saresti stata dalla mia parte».
«Elliot, ma certo che lo sono. Ma sai com’è fatto mio padre. Ha bisogno di essere persuaso».
«Pensi di avere ancora qualche chance?»
«Ci posso provare. Promettimi solo che non è uno dei tuoi colpi di testa».
«Cosa sei, la mia sorvegliante ora?».
Louisa sospirò nuovamente. «Certo che no. Ma se hai bisogno del mio aiuto…».
«Ti sei mai chiesta come mi sento a dover ogni volta implorare per ottenere qualcosa?»
«Elliot, io…».
«Ti riferisci alle corse dei cavalli, immagino?».
Louisa sorrise. «Be’, in effetti…».
Si alzò in piedi. «Insomma, Louisa, non possiamo lasciarci quella storia alle spalle? Lo so che sono una delusione per te, ma qui si tratta di un’altra storia».
«Calmati. Non essere sciocco, non sei affatto una delusione per me», rispose lei tendendogli una mano.
Lui la prese e andò a sedersi accanto a lei.
«In verità penso che quest’idea dell’emporio sia davvero buona. Dimmi come l’hai finanziata».
«Gli affari con le spezie sono andati molto bene. E con quei soldi ho pagato l’acconto. Mi hanno fatto un ottimo prezzo».
«Hai considerato i costi di ristrutturazione?»
«Certamente. Non dovrebbero essere eccessivi. Il posto è in buone condizioni, dobbiamo solo dargli una pulita e rinfrescarlo un po’ – niente di impossibile».
«Ci vorrebbe molto?»
«Non se ci affidiamo alle persone giuste».
«Mi chiedo se non sia il caso di finanziarcelo da soli, e dimostrare a papà che era una buona idea».
Sembrò esitare prima di rispondere. «Lou, il punto è che… sono un po’ a corto di soldi al momento».
«Non capisco», fece lei. «Mi hai detto che le cose stanno andando bene».
«Sì, certo. Infatti è così. È solo una mancanza temporanea di liquidità, sto aspettando dei pagamenti su un carico in arrivo a breve».
«Sicuro?»
«Sì».
«Non è una ricaduta…?».
Lui si mostrò sorpreso e ferito. «Assolutamente no. Sarò di nuovo in pista appena entra questo pagamento. Lo sai come vanno certe cose».
Louisa si fidava di Elliot, senza dubbio, eppure non poté fare a meno di esitare. Certe cose non si scordano tanto facilmente, né si perdonano. Ma voleva credergli, e il suo sorriso dolce e disarmante la convinse.
«Certo, è un rischio», concluse. «Ma mio padre potrebbe sbagliarsi».
«Io ne sono convinto».
«Allora studiamo bene i dettagli, e poi se i numeri ci convincono sono sicura di poter versare il saldo io stessa. Non mi dispiace l’idea di occuparmi di un nuovo progetto».
«Non voglio farti litigare con Jonathan».
Scosse la testa. «Sono le mie azioni, e poi siamo o non siamo una squadra? Però devo vedere il posto. Metterò sul mercato qualche azione al più presto in modo da poter concludere l’accordo».
«Favoloso! Sapevo di poter contare su di te».
«E magari verserò io qualcosa sul tuo conto per coprire i costi della ristrutturazione, almeno finché non ti sarà entrato quel pagamento».
«Magnifico».
«Mi divertirò a progettare gli interni». Proprio così, magari era esattamente quello che ci voleva per lei. «Pareti bianchissime per bilanciare i vecchi banconi in ebano? Che ne dici? Il contrasto tra i colori è sempre d’effetto, e l’ebano dello Sri Lanka è così scuro. Sarà bellissimo».
«Quanto speravo che potessi occupartene tu».
«L’hai fatto per me?»
«Be’, non esattamente. Ma ho pensato che una novità ti avrebbe fatto bene».
«E quando mio padre vedrà quant’è bello e quanti gioiellieri vorranno vendere i loro prodotti da noi, sarà anche lui della partita, ne sono sicura».
«Sono fortunato ad averti».
Gli sorrise e gli prese una mano. «Siamo fortunati entrambi».
«Ascolta», le disse poi. «Se ora ti senti meglio, dovrei tornare alla piantagione di cannella, c’è bisogno di me».
Lei sospirò profondamente, nel tentativo di scrollarsi di dosso la delusione. «Di nuovo? E i progetti per l’emporio?»
«Non c’è fretta. Mentre alla piantagione in questo momento c’è parecchio lavoro da fare».
«Fammi un esempio».
«Non mi pare che te ne sia mai importato prima d’ora».
«Ho cambiato idea, parlamene».
Non sembrava a suo agio con tutte quelle domande, ed esitò un poco nella risposta. «Se proprio lo vuoi sapere, sto cercando un modo per renderla più produttiva. Disboscando la giungla. Cose così».
«Allora la prossima volta verrò con te. Un viaggio, solo io e te».
Elliot non rispose.
Cadde il silenzio, ogni cosa attorno a loro sembrò come sospesa.
Quando Elliot tornò dalla piantagione due giorni dopo, era di ottimo umore. Luminoso, a dire il vero. Louisa gli aveva di nuovo proposto di accompagnarlo nel viaggio successivo, e lui l’aveva scoraggiata dicendole che era un luogo troppo primitivo perché potesse piacerle. Tuttavia, lei aveva insistito così tanto che di lì a qualche giorno partirono insieme.
Elliot aveva voluto che fosse proprio quel giorno senza spiegargliene il motivo, dicendole che sarebbero andati e tornati in giornata dato che la Hardcaslte Gems aveva ricevuto un nuovo carico e bisognava che supervisionasse il tutto di persona.
Superarono il Forte e i depositi dove si immagazzinavano la gomma e altri beni prima di venir caricati sulle navi. Louisa si tappò il naso, l’odore della gomma era insopportabile. Attraversarono le calme acque del golfo, dove erano ormeggiati i vascelli più grandi, e la punta più a sud di Rumassala Hill, nota come Watering Point, dove le imbarcazioni un tempo si rifornivano d’acqua. Da lì era possibile vedere due scogliere contro le quali sin troppe barche avevano trovato la fine durante i monsoni.
«C’è una vista magnifica dalla cima di Rumassala, non trovi?», disse lei. «Dovremmo tornare a farci una passeggiata uno di questi giorni».
Superarono il piccolo cimitero, luogo di eterno riposo per marinai e funzionari pubblici inglesi. Solo dopo Louisa abbassò il finestrino per far entrare un po’ d’aria fresca.
«Quanto mi piace la leggenda di Rumassala».
Nel Ramayana, l’antico poema epico, si narrava di quando Hanumat, il dio scimmia guerriero indiano, non riuscì a trovare erbe mediche per curare i feriti del suo esercito dopo la battaglia contro il demoniaco Re Ravana dello Sri Lanka. Si recò quindi in India e riportò qui un pezzo di Himalaya, su cui crescevano le erbe di cui aveva bisogno, e lo fece cadere per sbaglio proprio a Rumassala. Ecco perché i locali andavano tanto orgogliosi delle rarissime erbe mediche disponibili su quella collina.
«Stavo pensando di provare con le erbe», disse. «Magari potrebbero aiutarmi».
«Il dottor Russell di certo non approverebbe».
«Non deve per forza saperlo, e magari vale la pena tentare. I locali le usano da sempre, in fondo è una mia scelta non ti pare?».
Raggiunsero Cinnamon Hills un’ora e mezzo più tardi. L’isolamento di quel posto la incantò. A metà della collina sorgeva una vecchia costruzione, una walauwa, sepolta al centro di un prato selvaggio e circondata da alberi e orchidee piene di farfalle. La giungla là intorno era molto fitta. Un luogo in cui perdersi, pensò, dove nessuno poteva vedere i tuoi movimenti e dove poteva accadere qualsiasi cosa.
Mentre risalivano la collina notò un’altra costruzione, più in alto. Una casa più moderna al centro della piantagione. La raggiunsero e scesero dalla macchina. Louisa abbracciò con lo sguardo la magnifica vista sull’oceano, poi si voltò a guardare le colline violacee contro il cielo azzurro.
«Qui la luce cambia continuamente, per tutto il giorno. Ti piace?»
«Toglie il fiato, davvero».
«Vado a vedere se c’è Leo McNairn. È lui che gestisce le cose qui».
Bussò, e l’inserviente che andò ad aprire alla porta gli disse che Leo era andato a Colombo.
Raggiunse quindi Louisa, che stava ancora guardando verso il mare. «Non c’è, ma possiamo comunque fare un giretto. Vieni, ti faccio vedere gli alberi di cannella».
«Che profumo», osservò lei. «È solo cannella?»
«Anche citronella, credo».
«Non mi sorprende che ti piaccia così tanto venire qui. La prossima volta voglio fermarmi qualche giorno».
«Come ti dicevo, casa di Leo è piuttosto spartana. A me non dispiace, ma…».
«Dovresti sapere che non sono il tipo che si fa certi problemi».
«Dài, facciamoci un giro».
Louisa seguì Elliot lungo un sentiero che si apriva stretto e tortuoso tra cespugli e orchidee, oltre il quale si vedevano alti alberi scuri. Affascinante, e pericoloso.
«Attenta ai serpenti», le disse interrompendo i suoi pensieri.
«Sono velenosi?»
«Solo il bungaro bianco e nero».
«Di solito sono pericolosi di notte, dico bene?», disse lei guardandosi attorno. «Raccontami come si produce la cannella».
«È un po’ noioso».
«Dài».
«D’accordo, allora: gli alberi diventano produttivi dopo tre anni. Devono essere deciduati regolarmente, il che aumenta di parecchio la resa e contribuisce a mantenere gli alberi bassi facilitando quindi la raccolta».
«E la raccolta come avviene?»
«È un po’ laboriosa, in effetti. Ma in poche parole si tratta di rimuovere la corteccia, che poi subisce una serie di fasi di lavorazione».
Dopo qualche minuto di passeggiata Louisa sentì un fruscio alle sue spalle, si girò a guardare in quella direzione ma non vide nulla. Di lì a poco sentì dei passi e si voltò di nuovo. Stavolta intravide qualcosa. Rimase immobile, per un istante le parve che una donna dai capelli rossi la stesse fissando da lontano. Si girò per chiamare Elliot, ma quando tornò a guardare la donna era scomparsa.
«Che succede?», chiese Elliot. «Qualcosa non va?»
«Mi è sembrato di vedere una donna che mi guardava».
«Dev’essere una locale».
«Sì, non sono riuscita a vederla bene. Mi sembrava che avesse i capelli rossi, però».
«Mi sembra strano. Forse era un velo. Sarà stata la moglie di uno dei braccianti, qui».
«Hai ragione. Dài, saliamo fino in cima e godiamoci la vista».
Salendo notò un paio di oriolidi dalla testa nera, passeri neri e gialli in grado di emettere un incantevole cinguettio. Stava per indicarli a Elliot, ma lo trovò distratto, forse sorpreso nel vedere una motocicletta Royal Enfield accanto alla loro macchina. «È proprio ora che rientri in ufficio», disse tradendo una certa tensione.
Dalla casa uscì un uomo alto e magro. La luce del sole filtrava tra gli alberi e disegnava ombre sul suo viso. Indossava calzoncini e una camicia leggermente sbottonata. Era molto abbronzato. Louisa osservò per qualche istante il suo volto, bello, dai lineamenti marcati, e i suoi capelli rossi. Forse era lui, poco prima. “Strano incontrare di nuovo qualcuno con i capelli rossi”, si disse, “eppure no, non mi pare proprio che fosse questa la persona che ho visto tra gli alberi”. Elliot non aprì bocca, e Louisa allungò quindi una mano.
«Salve, sono Louisa Reeve. Elliot mi stava facendo fare un giro».
L’uomo si accigliò appena, e poi si grattò la testa. «Capisco».
«Bene…», esitò lei.
«Chiedo scusa… Sono Leo McNairn», si presentò. Louisa notò che appariva accaldato e sudato.
Lo guardò per qualche istante in silenzio. Qualcosa nei suoi occhi scuri la metteva a disagio. Si aspettò di vederlo sorridere, ma lui continuò a fissarla senza dire una parola. Si sentiva sotto esame, eppure era incapace di distogliere lo sguardo.
Che imbarazzo.
Un momento che sembrò durare sin troppo a lungo, finché finalmente un raggio di sole non la accecò costringendola ad abbassare gli occhi.
«Ero andato a tagliare qualche vecchio albero», disse. «Dall’altra parte».
«Bene», disse Elliot. «Togliamo il disturbo, adesso. Louisa andiamo». Poi si rivolse a Leo. «È stato un piacere rivederti. Mia moglie ci teneva a visitare il posto. Mi avevano detto che eri a Colombo».
Leo socchiuse gli occhi. «Già».
«Sei tornato presto».
«Ho avuto qualche problema con la moto», rispose nervoso Leo. Louisa ebbe l’impressione che fosse stato leggermente scortese.
Elliot le mise un braccio attorno alla spalla e fece per allontanarsi. «Ci vediamo», disse.
L’uomo si limitò ad annuire e Louisa si sentì fortemente a disagio.
«Un uomo di poche parole», commentò poco dopo. «Mi sono sentita molto a disagio. Ma è sempre così?»
«Sicuramente aveva qualche pensiero».
«Perché non ci ha invitati a entrare? Mi è sembrato così strano».
«Non ama la compagnia».
«Mi pare evidente. È stato molto scortese, comunque».
Di lì a poco le tornò il buonumore. «Mi è piaciuto davvero quel posto, così dolce e amaro».
«Dolce e amaro?»
«Sì, non ti sembra?».
Elliot si fece serio.
«Ha qualcosa. È un luogo speciale, e al tempo stesso anche un po’ inquietante. Mi spiace essermene andata così in fretta. E a pensarci bene, ho l’impressione di aver già visto Leo prima, di averlo incontrato da qualche altra parte».
«Potresti averlo visto a Colombo. Con quei capelli non passa inosservato».
Il mattino dopo Louisa stava uscendo per fare spese quando incontrò Irene all’ingresso. Le fece un cenno di saluto, prese la borsa e si diresse alla porta.
«Dove vai?», le chiese Irene.
«A fare compere».
Si accigliò. «Non mi dirai che fai la spesa da sola?».
Louisa sorrise. «Compro qualcosa. È anche una buona scusa per uscire».
«Bene, in questo caso sarò contenta di accompagnarti».
«Non scomodarti, non occorre».
«Ci mancherebbe. Due passi, noi due da sole».
Irene si sistemò il cappello continuando a ripetere che a fare la spesa deve pensarci la servitù, con quella sua tipica arroganza che tanto irritava Louisa. Jonathan le aveva insegnato a portare rispetto per tutti, a prescindere dalla religione o dal colore della pelle. Irene invece non riusciva proprio a comprendere che Louisa si mescolasse così spesso ai locali. Era convinta che, al contrario, gli inglesi dovessero frequentarsi solo tra loro, e in particolare considerava i funzionari pubblici i più importanti in assoluto.
«A me piace molto uscire per conto mio, incontrare la gente», disse Louisa. «Mi servono solo un po’ di candele, non ci vorrà molto. Se preferisci possiamo prendere un risciò».
«No, camminiamo», rispose Irene.
«So che sta per arrivare Margo, immagino che non vedrai l’ora di tornare a Colombo».
Margo, la figlia di Irene, lavorava in Inghilterra come infermiera e aveva deciso di tornare in Sri Lanka, sebbene nessuno sapesse perché.
«Sì. Tornerà presto. Anche se, santo cielo, te la immagini a lavorare in un ospedale qui? Aveva un impiego perfetto al London Hospital. Mi è sembrata una decisione molto strana da parte sua, Margo è sempre stata così coscienziosa…».
Louisa non poté fare a meno di pensare che forse Margo si era stufata di essere sempre così coscienziosa, e che magari avesse sviluppato tanto giudizio solo per reazione alla diabolica personalità di Elliot.
Una volta in strada Louisa guardò verso nord, verso le foreste lilla che si estendevano a perdita d’occhio. Quella vista, pur tanto familiare, non la stancava mai. Così come il suono delle onde contro gli scogli, il verso dei gabbiani e la sirena delle barche che entravano o uscivano dal porto. Le piaceva sentire il suono delle campane e il cinguettio degli uccelli tra gli alberi. Erano queste piccole cose di ogni giorno a consolidare in lei il forte senso di appartenenza a quel posto. Fuori dalle case cresceva una gran varietà di canne e zinnie piantate in vecchi secchi, e sui muri si arrampicavano vivaci bouganville.
Sentirono il profumo di cannella, chiodi di garofano e caffè prima ancora di raggiungere il negozio. Non trovarono pesci appesi a essiccare, e per fortuna, dato che bastava sfiorarli con i capelli per puzzare tutto il giorno.
L’interno era buio. Janesha, una donna singalese del posto con indosso un sari verde e blu, era in piedi dietro il bancone. Aveva i capelli scuri raccolti in una crocchia, profumavano di cocco e legno di sandalo. Era sempre curata e teneva il negozio altrettanto in ordine. Da una parte lo sciroppo e l’ananas, con i sacchi di riso e quelli delle spezie, e dall’altra banane, mango e papaya. Louisa si era sempre chiesta chi mai comprasse la frutta secca data la grande disponibilità di quella fresca.
Parlava un fluente singalese, ma sapeva che Janesha era perfettamente in grado di esprimersi in inglese e dopo un breve scambio sulle candele le chiese come stesse il figlio.
«Mi sta dando molti pensieri, come le ho detto, per via della pagella».
«Sì, infatti».
«Era molto bravo, ma da quando ha compiuto tredici anni sembra che studiare non gli interessi più».
«Mi dispiace. E tuo marito cosa dice?»
«Mio marito è troppo impegnato a pescare per far caso a queste cose. E finisce che devo occuparmene sempre io. E lei, come sta?».
Louisa sorrise. «Sto bene, grazie».
La donna sembrava preoccupata. «Per certe cose ci vuole tempo».
«Tutto sommato credo di stare meglio di quanto osassi sperare».
«Se non altro è di nuovo colorita…».
«Di che state parlando?», le interruppe Irene riducendo Janesha al silenzio. «Parla con un accento talmente marcato che faccio fatica a capire quello che dice».
«Irene, per cortesia, questa persona invece comprende benissimo quello che tu le hai appena detto». Poi si rivolse alla donna. «Sono mortificata, Janesha, ora devo andare».
La donna annuì.
Tornarono a casa facendo la stessa strada. Il vento portava una sabbia sottile. Accadeva spesso, e bisognava chiudere gli occhi a ogni folata. Si schermarono alla bene e meglio e continuarono a camminare. Irene in silenzio e con espressione contrita.
Arrivate a casa entrarono in giardino dal retro, facendo scappare una famiglia di gechi sulle rocce. In cucina Louisa sorrise sentendo il cuoco che imprecava contro il bollitore. Mise giù la spesa e lasciò che la sistemasse lui.
Passando davanti allo studio di Elliot, Irene lanciò dapprima uno sguardo circospetto e poi fece cenno a Louisa. «Sai per caso chi è, quello lì dentro?».
Louisa fece qualche passo e guardò anche lei. Era lo stesso uomo che aveva visto la sera della festa di Natale. «Una persona con cui Elliot sta collaborando, credo. Torniamo in giardino».
Attraversarono l’ingresso principale e uscirono dalla porta finestra del salottino, che dava sulla parte in ombra del giardino. Louisa chiese ad Ashan di portare loro del succo fresco di mango e prese le sue cesoie.
Irene prese una rivista, un vecchio numero di «Vogue America», e stava pigramente sfogliandolo quando Elliot le raggiunse. «Cristo, che caldo», disse passandosi un dito sotto il collo della camicia.
«Allora, come vanno le cose?», gli chiese Irene sollevando lo sguardo su di lui.
Elliot si strinse nelle spalle. «Sono molto preso dal lavoro, più che altro».
«E ti porti il lavoro a casa, vedo».
«Ti riferisci a De Vos, immagino?»
«Sono convinta che il lavoro debba restare fuori dalle pareti domestiche. Un uomo deve potersi rilassare. Lo dico sempre anche a tuo padre».
Elliot sembrò irritato. «Non mi pare che siano affari tuoi, comunque».
Irene non si aspettava una risposta del genere. «Mi preoccupavo per te, tutto qui».
«Non mi serve che ti preoccupi», scattò slacciandosi un bottone della camicia.
«Ma Elliot…», intervenne Louisa. «Tua madre stava solo…».
Elliot la interruppe subito. «Santo cielo, non ti ci metterai anche tu adesso! Siete tremende».
Un tuffo al cuore. «Elliot! Non c’è bisogno di essere così scortese».
Seguì un breve silenzio teso.
«Devo andare a Colombo a incontrare un nuovo cliente per le spezie. Immagino di avere il tuo permesso».
Quel tono irritò molto Louisa. «Bene, in tal caso sarà bene che riaccompagni anche tua madre. Margo arriverà a breve e Irene ha bisogno di tornare a casa».
«A dire il vero ho ancora tempo prima che torni Margo, e preferisco fermarmi qui per darti una mano».
«No, non posso trattenerti oltre. Harold sentirà la tua mancanza».
Elliot si innervosì ma annuì comunque. Louisa era sicura che ci fosse sotto qualcosa, magari erano solo un po’ di preoccupazioni legate al lavoro, ma sapeva anche che se aveva deciso di non parlarne non c’era niente da fare. Quand’era di quell’umore, era inutile insistere.
Nei giorni che trascorse da sola, Louisa si dedicò a leggere diversi cataloghi di semi e iniziò un nuovo copriletto. Lo voleva di patchwork, perché non ci aveva mai provato e aveva scampoli di seta e stoffa da riutilizzare. Quando iniziava a cucire entrava in un altro mondo, in cui la sua mente era libera di vagare mentre lei si concentrava sul lavoro. Non si concedeva spesso il lusso della speranza, perché sapeva che era un sentimento troppo fragile, ma quel giorno si ritrovò a pensare al futuro. Cosa desiderava? Un figlio, ovviamente, ma che altro? Qualcosa che prevedesse un minor rischio di restare delusa?
Elliot era rimasto a Colombo due giorni interi e quando tornò a casa sembrava decisamente di buon umore rispetto a quando era partito. Louisa era alla macchina da cucire con i suoi cani ai piedi e lui salì di corsa le scale con un mazzo di fiori in mano.
«Che bel quadretto domestico», disse avvicinandosi a baciarla sulla fronte. «Sono stato un villano l’altro giorno, mi dispiace. Colpa del caldo. Tieni, questi sono per te».
«Coscienza sporca», disse lei sorridendo e poi scoppiò a ridere.
Finì la cucitura che aveva iniziato e poi si alzò a prendere i fiori. Ha voluto dar la colpa al caldo, si disse, ma io so che le cose stanno diversamente. Comunque, se quel che l’angustiava si era risolto, tanto meglio. Elliot era un uomo difficile, a volte, ma era fatto così.
«Avevi ragione su Margo, comunque», le disse. «È arrivata ieri, e presto verrà a trovarci».
«Non vedo l’ora», commentò Louisa, che aveva una grande simpatia per la cognata e non finiva di stupirsi di come fosse calma e serena a differenza di sua madre, sempre così ostile. «Come stava?»
«Un po’ silenziosa».
«Come mai è tornata?».
Elliot si grattò la testa. «Secondo me un amore finito male. Non che mi abbia raccontato niente, in realtà, ma sono sicuro che preferisce tenere nostra madre all’oscuro. Sicuramente a te racconterà di più».
«Dici?»
«Le persone si fidano di te, no? Che ne dici se ti preparo un bagno con qualche goccia di acqua di rosa e di lavanda? Ti aiuterà a rilassarti, così domattina potremmo iniziare a dare un’occhiata a quei progetti per la ristrutturazione della tipografia».
«Splendido. Tanto qui ho finito».
«Ci vuole una serata tranquilla, amore».
Louisa posò i fiori su un tavolino.
«Chiederò a qualcuno di metterli in acqua», le disse.
«Mi raggiungi a letto?»
«No, ho bisogno di un paio di bicchieri. Quella strada costiera sembra peggiorare ogni giorno».
«Non fare tardi, però».
«Un paio di bicchieri».
Dopo il bagno, Louisa si sciolse i capelli e si accomodò a letto tirando la zanzariera. Sperava di addormentarsi con il profumo dolce del gelsomino che saliva dalla finestra aperta. Dormiva sempre con la finestra aperta, non era un problema dato che avevano una zanzariera anche lì. Si sentiva davvero molto meglio, ma la sera era sempre il momento peggiore per lei, era quello il momento in cui le tornavano in mente i suoi bambini, pensava a come sarebbe stata diversa la sua vita se fossero stati lì con lei. Li vedeva correre in giardino, giocare con i cani, nelle loro uniformi al primo giorno di scuola, timidi e fieri al tempo stesso. Li vedeva correre tra le palme vicino ai bastioni del Forte saltellando gioiosi, o addormentati nei loro letti che sognavano con le ciglia tremanti.
Durante il giorno era contenta, mentre la sera le riportava alla mente quel che con la luce del sole era riuscita a dimenticare. Devo cercare di concentrarmi sulle cose positive, si ripeteva spesso, ed era un atteggiamento che la faceva sempre stare meglio. E poi finalmente Irene era tornata a casa sua. Forse una parte delle difficoltà che aveva con la suocera dipendevano dal fatto che fosse sempre sola e senza niente da fare. Eppure c’erano così tante cose da fare a Galle, che Louisa non capiva come mai Irene preferisse restarsene sempre con le mani dignitosamente in mano.
Era già quasi addormentata quando udì delle voci. Cercò a tentoni la luce chiedendosi chi potesse essere e controllò l’orologio. Era l’una e mezza ed Elliot non era ancora arrivato a dormire. Si alzò, prese la vestaglia da dietro la porta e se la fece scivolare addosso, poi uscì dalla stanza in punta di piedi e si fermò sul pianerottolo. Le voci provenivano dal piano di sotto. Strano che Elliot non le avesse detto che avrebbe ricevuto ospiti.
La sera dopo Elliot andò, così disse, a trovare Jeremy Pike – ma a mezzanotte non era ancora tornato. Le aveva assicurato che sarebbe stato via per un’oretta al massimo, ed era uscito alle otto. Non aveva nemmeno mantenuto la promessa di lavorare insieme ai progetti per la tipografia, perché era stato in barca a vela tutto il giorno, sempre con Jeremy, rientrando a casa la sera giusto il tempo di mangiare qualcosa.
Louisa decise di aspettarlo sveglia. A mezzanotte e mezza sentì un gran baccano all’ingresso, si alzò in piedi di scatto e andò a vedere cos’era. La cappelliera era a terra ed Elliot contro il muro, sconvolto, con i capelli spettinati e la cravatta sciolta.
«È molto tardi», gli disse anche se aveva già sentito l’odore di whiskey e sapeva che sarebbe stato impossibile ragionare con lui in quel momento.
«E allora? Potevi andare a dormire». Non è che stesse proprio biascicando, ma qualcosa nel suo sguardo la disturbava. E il suo tono era irascibile.
«Ti stavo aspettando», rispose.
«Mi pare evidente!».
Louisa raccolse la cappelliera ma lasciò i cappelli a terra. «Avevi detto che saresti tornato presto. Volevo passare un po’ di tempo con te, tutto qui».
Lui chiuse gli occhi senza rispondere.
«E sei stato fuori anche tutto il giorno».
Lui si strinse nelle spalle.
«Allora!», disse lei perdendo la pazienza. «Si può sapere dove sei stato tutto questo tempo?»
«Ah… le mogli».
«Elliot, smettila. Ho il diritto di sapere».
«Il diritto?»
«Sì. Allora?».
Elliot sospirò. «Se proprio lo vuoi sapere ho fatto una piccola partita a poker coi ragazzi».
«Piccola quanto?».
Lui rise. «Be’, non così piccola a dire il vero».
«Cristo santo!».
La superò sgarbatamente e raggiunse il salotto, dove si versò un bicchiere di whiskey prima di abbandonarsi sul divano.
«Non pensi di aver già bevuto abbastanza?».
Si tolse la cravatta e la lasciò cadere a terra, poi – con il bicchiere pericolosamente in bilico sul divano – allargò le braccia. «Quindi? Non vuoi dare un bacio al tuo maritino adorato?».
Louisa socchiuse gli occhi. «Non quando puzza così».
«Bevi anche tu, così non ci farai caso», propose colpendo involontariamente il bicchiere che finì a terra e si ruppe.
«Per l’amor del cielo Elliot, questo è troppo!». Andò in cucina e tornò con uno straccio, la scopa e una paletta.
«Eccola qui, la mia mogliettina perfetta», disse.
A quel punto ne aveva avuto più che abbastanza. Posò le cose, sospirò e si alzò in piedi. «Torni a casa tardi, puzzi di alcol e mi dici che hai giocato d’azzardo quando mi avevi giurato che non ci saremmo più passati».
Lui si strinse nelle spalle e fece un piccolo sbuffo.
«Me l’avevi giurato. Mi sono fidata di te. E non posso continuare a proteggerti».
«Non ho bisogno di soldi».
«Quanto hai perso, stavolta?»
«Abbastanza. Ma tu hai i tuoi capitali, che te ne importa? E poi c’è sempre tuo padre, se serve…».
«Hai appena detto che non ti servono soldi. Ora dimmi che è stata una volta e poi basta, che non lo rifarai più».
Si alzò in piedi barcollando, si avvicinò e le fece oscillare un dito davanti al viso. «Stammi a sentire, maestrina, io faccio quello che mi pare, hai capito?».
Louisa indietreggiò di un passo. «È stata una volta e basta?».
Lui piegò la testa da un lato e sorrise. «Non direi. E ora me ne vado a letto». Si girò per poi fermarsi e aggiungere: «E non preoccuparti, andrò nella camera degli ospiti».
Lo guardò allontanarsi verso l’ingresso e salire le scale, poi si lasciò cadere sul divano con la testa fra le mani. Non avrebbe sopportato di passarci di nuovo, non un’altra volta. Avevano avuto già abbastanza problemi, Elliot l’aveva fatta davvero soffrire tantissimo qualche anno prima, e non riusciva a immaginare di rivivere una situazione del genere.
Louisa non riuscì quasi a chiudere occhio e si alzò presto, con il canto dei galli del Forte e il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli. Si infilò una vestaglia e andò a vedere se Elliot dormiva ancora, ma vide che era già in piedi. Dormiva sempre così poco e nonostante questo riusciva a essere comunque operativo, mentre la mancanza di sonno per lei era una condanna, la rallentava tantissimo, almeno fin quando non prendeva il caffè. Si sentiva come dopo una sbornia, pur non avendo toccato un goccio di alcol, ma fece lo sforzo di lavarsi e indossare un paio di pantaloni e una camicia bianca leggera. Dopodiché andò in cerca di un buon caffè, e di suo marito.
Camille stava servendo il caffè in salotto, dove Elliot sedeva circondato da fogli e matite.
Alzò lo sguardo e la salutò.
«Pensavo che potremmo iniziare i progetti», le disse. «Ovviamente dopo che avrai preso il caffè. Che ne pensi?».
Lei non gli restituì il sorriso. «Non te la puoi cavare spazzando tutto così, sotto il tappeto».
«E se ti dicessi che sono sinceramente dispiaciuto?».
Lo guardò. «Mi hai detto che non è stato un episodio isolato. È così?»
«No, certo che no. Ero ubriaco e mi sono comportato da stupido. Cara, mi dispiace, so che divento terribile quando bevo troppo. Credimi, lo giuro su Dio, è stato solo ieri e non capiterà di nuovo».
Lei fece un respiro lento e profondo. Forse era sincero.
«Louisa, è stato solo ieri. Non trasformare questo episodio in qualcosa che non è».
«Sei stato molto sgradevole. E mi hai ferito, Elliot. Non voglio passare di nuovo quell’inferno».
Si alzò in piedi. «Mi dispiace tanto, davvero. Vieni qui».
Lei si avvicinò e lui la prese tra le braccia. Poi le sussurrò in un orecchio: «Ti giuro sulla mia vita che non accadrà mai più. Sono mortificato. Davvero. Guardiamo al futuro, vuoi? Con questo meraviglioso progetto su cui concentrarci».
Aveva ragione. Il progetto era eccitante. Non era tanto il bere che la preoccupava, quanto il gioco d’azzardo… specialmente ora che aveva dato l’anticipo per la tipografia e lei avrebbe dovuto metterci il resto dei soldi.
Prese due tazze di caffè nero con tanto zucchero e, nonostante il suo stato d’animo, decise di dare un’occhiata a quel che aveva fatto Elliot. Doveva fidarsi di lui e lasciarsi il passato alle spalle.
«Guarda», disse. «La mia idea è quella di fare uno spazio centrale aperto e una galleria che gira tutto intorno al piano superiore. Si capisce? Disegno malissimo, ma l’idea si intuisce?».
Louisa annuì.
«E poi queste arcate in tutte le stanze al piano terra. Se riusciremo a convincere abbastanza gioiellieri a vendere da noi avremo modo di iniziare a mettere in piedi l’emporio in tutta tranquillità».
«Hai già in mente qualcuno?»
«Sì, più tardi vado a sondare il terreno. Dài, dimmi cosa ne pensi».
Louisa si sentiva ancora insicura, ma se dovevano andare avanti insieme… non c’era ragione di rimuginare ancora su quanto era successo. Doveva solo sperare che le sue scuse fossero state sincere, e continuare a tenere gli occhi ben aperti.
«Penso che dovremmo farlo in stile art déco, elegante e semplice», disse. «E magari potremmo dedicare una parte dello spazio alla vendita di quadri. Ci sono così tanti bravi artisti a Colombo».
«Potresti esporre qualcosa anche tu».
«Sarebbe il posto perfetto anche per accogliere i coltivatori di gomma quando vengono in città, così potrebbero portare le loro mogli. Potremmo servire loro il tè».
«Giusto, un assaggio di autenticità, invece dei soliti ricevimenti al New Oriental».
Annuì. «Sono certa che le mogli saranno tentate dagli acquisti, ma non penso che dovremmo vendere solo arte e gioielli, credo che dovremmo considerare anche le ceramiche e altri oggetti d’artigianato».
«Allora, da dove iniziamo con i disegni del progetto?»
«Ci penso io. Sicuramente mi verrà in mente qualcosa».
Elliot si alzò in piedi. «Ti senti meglio, ora?».
Louisa annuì di nuovo, anche se le corse un brivido dietro la schiena. Una parte di lei, malgrado tutto, non riusciva a credere che non sarebbe accaduto di nuovo. Ricordava bene com’erano andate le cose l’ultima volta – le liti, le ripercussioni – e le si strinse lo stomaco.
«Volevo chiederti una cosa», gli disse e lui tornò malvolentieri a sedersi. «L’altro ieri sera ho sentito delle voci provenire dal salotto dopo un bel po’ che ero già andata a letto. Non stavate giocando a poker, vero?».
Elliot si fece serio. «Non ci riesci proprio, eh?»
«A fare cosa?»
«A non trattarmi come se fossi un bambino».
«Ti sbagli, non è questo. Ma capirai bene che sono preoccupata».
Guardò per un istante il pavimento con la mascella serrata, poi si alzò in piedi e la raggiunse con aria più docile. «Naturalmente. Hai tutto il diritto di esserlo. E comunque no, non era poker, te lo assicuro». Le si inginocchiò davanti e le prese una mano, stringendola delicatamente.
Il giorno dopo fecero una breve passeggiata e raggiunsero a piedi la tipografia. Il vecchio edificio, che prima di essere una tipografia era stato un magazzino, si trovava all’angolo con Pedlar Street e da fuori appariva piuttosto malconcio – malgrado le deliziose finestre a semicerchio. Niente che una bella mano di pittura e un po’ di stucco non avrebbero potuto sistemare, insomma. L’interno era molto buio ed Elliot aprì le vecchie imposte.
«Alcune hanno bisogno di un po’ di manutenzione, ma fondamentalmente sono tutte intere», osservò.
«Potremmo dipingerle color crema, come le nostre. Non mi piace il marrone scuro. Trovo che tutto lo spazio dovrebbe essere più luminoso».
«Magari potremmo mettere dei lampadari».
«Sì», disse lei guardandosi attorno. «Questa cupola di vetro è meravigliosa. È ricoperta di foglie e chissà che altro, ma se riuscissimo a pulirla ci sarebbe tantissima luce, e potremmo mettere i lampadari nelle altre stanze».
Si guardarono attorno. I vecchi proprietari avevano lasciato tantissimi fogli di carta a terra e anche un paio delle macchine più vecchie.
Elliot si grattò la testa. «Potremmo restaurare una delle presse e usarla come pezzo di arredamento. Ma prima di tutto voglio vedere cosa c’è dietro queste porte».
Così dicendo andò ad aprire quattro grandi porte, una dopo l’altra, che davano su altrettante ampie camere. Solo l’area centrale aveva un primo piano, dove volevano mettere la galleria. Le stanze invece erano perfette per la parte espositiva. In una di esse c’era un’altra porta, che Louisa provò ad aprire senza riuscirci.
«Lascia, faccio io», disse Elliot. «Probabilmente è solo un po’ arrugginita». Diede un giro alla maniglia spingendo con la spalla contro la porta, ma niente. «Pazienza, sono sicuro che da qualche parte ci sarà una chiave».
«Non lo trovi strano? È l’unica porta a essere chiusa a chiave».
«Ci sarà un cadavere», disse lui ridendo.
Tornarono nello spazio centrale ed Elliot si accese una sigaretta. «Allora? Che te ne pare?», le chiese. «Dipinto di bianco con i banconi in ebano come hai suggerito tu, non trovi che sarà un emporio favoloso? Ci sono anche altre stanzette piccole in fondo che potremmo affittare come laboratori finché non ci servono».
Louisa gli sorrise, felice.
«Ti piace? Andiamo avanti?»
«È un posto perfetto. Chiederò alla banca di vendere le mie azioni in modo che tu riceva al più presto i soldi sul tuo conto. Grazie al cielo le cose sono migliorate, dopo il crollo finanziario».
Lasciarono l’edificio e fecero il giro lungo, passando accanto al gioielliere e poi al faro, dove le onde li bagnarono un po’.
«Mi piace pensare che la luce del faro arrivi fino all’Antartide», disse lei.
«Ne dubito, ci divide una gran bella distesa d’acqua», disse lui con un brivido.
«Che c’è?»
«Non lo so. È che a volte una grande distesa d’acqua fa impressione».
«E noi siamo così piccoli a confronto», disse lei.
«Esattamente».
«C’è molto vento», osservò Louisa. «Senti, Elliot, perché non arriviamo fino alla spiaggia del faro, ricordi come facevamo un tempo?»
«C’è l’alta marea, magari un’altra volta».
«Mi piace tanto sentire la sabbia sui piedi. Andiamo solo a dare un’occhiata, dài».
Passarono dietro al faro e raggiunsero una sottile striscia di sabbia piena di gusci di conchiglia. Lei si tolse le scarpe e lanciò un gridolino quando l’acqua le arrivò alle caviglie.
«Dài, Elliot, vieni anche tu, scommetto che non riesci a prendermi», e iniziò a correre.
Sentiva il vento tra i capelli e la sabbia bagnata sotto i piedi, ed era esattamente quello di cui aveva bisogno. Sì, avevano litigato, e sì, Elliot aveva passato una serata a giocare a poker, ma erano ancora una bella coppia. Si girò e vide che la stava seguendo con le scarpe in mano.
La raggiunse, lanciò le scarpe lontano, poi la prese in braccio e fece per buttarla in acqua.
«Mettimi subito giù!», strillò lei prima di scoppiare a ridere. Rise anche lui, e in quel momento fu certa che ogni cosa sarebbe tornata al suo posto.
Dopo essersi tolti la sabbia dai piedi ed essersi rimessi le scarpe proseguirono la passeggiata godendosi lo spettacolo delle onde.
«Stavo pensando», gli disse una volta tornati su Hospital Street, «che mentre tu sei dal gioielliere faccio un salto al mercato di Court Square. Mi è venuta un’idea per qualcosa che potremmo vendere all’emporio. Ci vediamo a casa».
«Bene, a dopo allora».
Louisa adorava quel mercato polveroso, così pieno di cose colorate – un accecante caleidoscopio di odori e suoni, abiti ricamati, elefanti di ebano, gioielli e altri ornamenti ad opera dei fabbri della città. Quel giorno in particolare c’era un’atmosfera vivace, qualche capretta intenta a mangiare le piante di palma rossa, bastardini addormentati, tante donne in vena di compere e venditori ambulanti che strillavano le loro offerte. C’era un gruppo di persone rapite dal suono melodioso di un flauto, Louisa lanciò qualche moneta al musicista e restò per un momento ad ascoltarlo. Poi vide un banco che vendeva tovaglie e pizzo e andò a guardare se ci fosse qualcosa di adatto per il loro emporio.
La donna dietro al banco aveva la pelle color nocciola molto segnata dal tempo e sembrava decisamente troppo anziana per lavorare ancora. La sua era una famiglia di merlettai, di quelli che si vedevano spesso seduti a lavorare fuori dalle loro case. La signora invece ormai vendeva e basta. Louisa osservò tutto con molta attenzione e infine le disse che sarebbe tornata un’altra volta. Quel giorno cercava qualcosa di diverso, cercava il banco che vendeva scatole decorate con fiori e animali intagliati. Lo gestiva un giovane singalese, che la accolse calorosamente. Le mostrò una scatola, poi lei ne prese un’altra, che aveva all’interno un pannello scorrevole che nascondeva un cassetto segreto. C’erano anche altri pannelli che potevi spingere per aprire altri piccoli scomparti. Queste scatole di mogano andavano molto di moda e avrebbero venduto bene. Tradizionalmente venivano usate per tenere le gemme, ma in pratica potevano andare bene per qualsiasi altra cosa fosse piccola e preziosa. Una chiave, una lettera ripiegata, magari una ciocca di capelli di un bambino. Sospirò. No, forse quello no.
Chiese al giovane quante scatole fosse in grado di produrre la sua famiglia, e poi lo fece contento acquistandone una. L’avrebbe regalata a Elliot. Avrebbe potuto usarla per custodire la chiave di quella porta, quando l’avesse trovata. Un ricordo carino della loro prima visita alla tipografia.
Due giorni dopo Margo era arrivata da Colombo con la corriera, dopo un viaggio durato tutto il giorno e costellato da numerose soste e inevitabili ritardi. La mattina dopo il suo arrivo, dato che Elliot non c’era, le due donne andarono a passeggiare in bicicletta attorno al Forte.
Margo era una donna semplice e sportiva, aveva gli stessi capelli ricci e scuri di Elliot, gli stessi occhi verdi e un sorriso caldo. Non si faceva fatica a immaginarla sposata con una miriade di figli che avrebbe saputo crescere con pazienza e competenza. In realtà, invece, non era sposata e non aveva bambini. Strano come le persone siano spesso lontane dall’idea che se ne fanno gli altri, pensò Louisa. Margo aveva colto al volo l’opportunità di andare a lavorare a Londra come infermiera. Adesso era tornata, ma non sembrava aver molta voglia di parlare dei suoi progetti futuri, il che ovviamente rendeva tutti molto curiosi.
«Allora», disse Louisa mentre pedalavano lungo i bastioni una accanto all’altra. Svoltarono verso l’interno, evitando una lucertola che attraversava la strada e i cani randagi che sonnecchiavano davanti alle porte o davanti ai negozi. «Ci dirai finalmente cosa ti ha spinto a tornare? O è un segreto?»
«Era arrivato il momento».
Louisa annuì. Superarono una mamma macaco che cullava il suo piccolo in un vicolo. «Quindi hai intenzione di fermarti?»
«Non ho ancora deciso».
«Capisco. Non mi dirai altro, vero?»
«Il mio segreto non è un granché. Ho incontrato la persona sbagliata e avevo bisogno di prendermi del tempo per chiarirmi le idee».
«Una persona sbagliata in che senso?»
«Louisa!».
«Scusami».
Dopo alcuni momenti di silenzio Margo si fermò. «Se proprio vuoi saperlo… è sposato. Ma ti prego, tienilo per te. Non è una cosa di cui vado fiera».
«Ne sei innamorata?», le chiese Louisa preoccupata.
«Penso di sì».
«E ora?».
Margo scosse la testa.
«Non ha intenzione di lasciare sua moglie, se è questo che intendi. Anche se in un certo senso ne sono contenta. Mi sentivo troppo in colpa».
«Mi dispiace davvero. Ma sapevi dall’inizio che era sposato?»
«Ho finto di non saperlo…».
«Oh, Margo».
«Ma mi vergogno di dire che invece lo sapevo. Lui non mi ha mai ingannata».
«Scusami, non volevo essere invadente».
«Sono l’unica responsabile», disse Margo con labbra tremanti.
«Non ti resta altro da fare che lasciarti questa storia alle spalle».
«Esatto. Vorrei tanto che le cose fossero diverse, ma così non è. Sono una donna immorale, e devo accettarlo».
«E cosa mi dici del loro matrimonio?»
«Be’, di certo non è un matrimonio felice, almeno così dice lui… Ma ora basta parlare di me. Pedaliamo, dài».
Louisa le prese una mano. «Se ti va di parlarne, sappi che su di me puoi sempre contare».
Superarono un canale di scarico a cielo aperto dove sonnecchiava un varano.
«Non mi piacciono per niente», commentò Margo indicandolo.
«Sei stata a Londra troppo a lungo! Lo sai che sono inoffensivi. Anche se…», esitò per creare un po’ di suspense. «Ho sentito dire, ma prendila con le pinze, che uno di questi una volta ha rapito via un bambino…».
Margo sorrise con aria diffidente.
Davanti ai gradini della biblioteca Louisa si fermò.
«Che ne dici di fare una pausa?», propose. «Potremmo leggere i giornali».
Entrarono in un edificio piuttosto buio, con pavimenti in cemento lucido, la cui stanza principale ospitava una biblioteca. Le pareti erano interamente occupate da altissimi scaffali con file e file di libri rilegati in pelle e protetti da ante di vetro. Sui tavoli c’erano piccole lampade per aiutare il lettore a leggere più chiaramente il testo che aveva scelto.
La stanza aveva un vago odore di muffa, e il bibliotecario, un vecchio musulmano dai capelli bianchi, sedeva in un angolo circondato da pile disordinate di libri. Un tempo faceva l’insegnante, e aveva colto di buon grado la possibilità di trascorrere i suoi ultimi anni tra le pagine scritte che tanto amava.
«Come va, mia cara?», chiese alzandosi dal suo angolo e andandole incontro con la schiena curva.
«Sto bene, grazie signor Bashar».
«Cerca qualcosa in particolare?»
«Vorremmo sfogliare qualche giornale».
«Bene, allora i più recenti sono lì sul tavolo, sono quelli locali e quelli di Colombo. Se cercate numeri più vecchi li trovate in archivio, ordinati per data».
Louisa si accomodò e prese a sfogliare i giornali.
«Stai cercando qualcosa in particolare?», le chiese Margo.
Louisa scosse la testa. «No. Ma sono rimasta molto colpita dalla piantagione di cannella che siamo andati a visitare qualche giorno fa, e vorrei imparare qualcosa di più sulla produzione. Avresti dovuto vedere che posto. C’è una vista splendida e l’aria intrisa di questo profumo meraviglioso».
«Non mi stupisce che Elliot ci abbia investito dei soldi e che gli piaccia così tanto andarci».
«Però qualcosa non mi ha convinto».
Margo non colse quest’ultima allusione. «Sono sicura che qui troverai tantissimo materiale sulla cannella».
Trascorsero una piacevolissima ora al fresco di quel vecchio edificio, sfogliando giornali e riviste. Poi di colpo Louisa esclamò: «Oddio! Non me l’aspettavo, guarda: un articolo su Cinnamon Hills. È dove si trova Elliot proprio adesso, dovrebbe rientrare più tardi. Ci va molto spesso ultimamente», aggiunse in tono triste.
«Forse gli lasci troppa libertà».
Louisa si strinse nelle spalle e tornò a leggere l’articolo, vecchio di un anno.
«Qui dice che Leo McNairn ha rilevato Cinnamon Hills dopo la morte del nonno. Dice che la piantagione grazie a lui ha guadagnato una ventata di freschezza. Dice anche che ora vive lì con sua cugina. Effettivamente ho incontrato questo Leo quando sono andata lì, ma non lei. Non so perché, ma ho la sensazione che sia una specie di eremita. Vedi? C’è una foto di lui ma non di lei», concluse sollevando il giornale.
«Però, niente male».
Louisa sorrise. «Non saprei».
«E dài, lo so che adori mio fratello ma apprezzare non è mica peccato».
«Se ti piace il tipo trasandato…».
«Direi di sì!».
Louisa rise. «Sul serio?»
«Perché no? Sono i più virili».
«E il tuo uomo, a Londra, era…».
«Virile?»
«Sì».
«Molto. William è un giardiniere, lavora nel Kent. Comunque ora basta, se hai trovato quel che cercavi per me possiamo anche andarcene, sono stufa di stare sepolta qui dentro».
Elliot era tornato in tempo per la cena, un arrosto di capra con mousse di mango, e si stavano godendo il caffè tutti e tre insieme.
Le lampade erano accese ed era una serata tranquilla.
«Dico davvero, Elliot», stava dicendo Margo. «Ti sembra opportuno lasciare Louisa da sola così spesso? Sei quasi sempre fuori per lavoro o in barca a vela».
«Louisa se la cava benissimo».
«Sì, ma…».
«Margo, per favore. Ho delle cose da sbrigare. Non posso starmene a casa tutto il tempo a giocare alle bambole».
«Ma una donna ha bisogno di…».
Sollevò una mano per farla tacere. «Sono perfettamente consapevole della situazione. Louisa sta bene. È forte e indipendente. Talvolta persino troppo».
Louisa fece una smorfia.
«Comunque dovresti essere più presente», insisté Margo.
Lui scosse la testa. «Louisa ha suo padre, e nostra madre è stata qui fino a pochissimi giorni fa, e ora ci sei tu».
«Se vuoi saperlo, secondo me mamma è stata fin troppo a lungo, mi chiedo come tu abbia potuto incoraggiarla a fermarsi tutto quel tempo. E poi è di te che Louisa ha bisogno».
«Si è forse lamentata?», chiese preoccupato.
«Sai bene che non lo farebbe mai».
Louisa prese la parola. «Santo cielo, guardate che io sono qui! Smettetela di discutere per favore. Posso badare a me stessa, Margo, e non mi servono baby sitter».
«Però sono convinta che…», continuò Margo.
Louisa fece scorrere la sedia all’indietro e si alzò sorridendo. Aveva già assistito ad altre scene simili tra Elliot e Margo. «Bene, vi lascio alla vostra discussione, io vado a letto. Non dimenticate che domani dobbiamo decidere le ultime cose per la festa del nostro anniversario».
La mattina del loro anniversario, il 26 febbraio, Elliot le portò la colazione a letto con una bellissima rosa in un piccolo vaso di vetro. Era stato di nuovo via un paio di giorni, ma era tornato di ottimo umore.
«Finirai per viziarmi», disse lei.
«Siediti meglio, ti sistemo il vassoio sulle gambe».
Obbedì.
«Sei bellissima appena sveglia», le disse accarezzandole i capelli biondi. «Sono un uomo fortunato».
«Per via dei miei capelli?».
Sorrise. «No. Perché sei così buona con me, e io spero di esserlo altrettanto con te».
Louisa servì a entrambi una tazza di caffè, e dopo che ebbero finito di berla Elliot spostò il vassoio a terra. «Ho in mente qualcosa di meglio adesso».
Si liberò della vestaglia, ed era completamente nudo. Scivolò nel letto e la baciò sulle labbra. Lei lo abbracciò forte: quanto le piaceva sentire il suo corpo così vicino.
«Ti amo», gli sussurrò.
«E io amo te. Ti senti tranquilla a…».
Annuì. «Sì, certo. Ma non è la prima volta dopo…».
«Lo so, ma preferisco essere sicuro», disse lui continuando ad accarezzarle i capelli.
Le era mancata quell’intimità, sentì il loro legame rinsaldarsi, tornare forte come prima. Tra di loro le cose erano sempre andate bene a letto, ma negli anni aveva imparato ad apprezzare di più la loro amicizia. Le piaceva il modo in cui la prendeva in giro e poi scoppiava a ridere, finendo per far ridere anche lei quando capiva che aveva solo scherzato. È vero, a volte non era perfetto, ma forse era una cosa normale in ogni relazione. Anche lei aveva le sue pecche. Era distante, a volte, troppo distratta dai suoi pensieri. Le era sempre piaciuto stare da sola, e niente le dava più soddisfazione che lasciar vagare i pensieri nel silenzio della casa. Forse neanche lei era una persona facile con cui vivere, in fondo.
Ecco, la stava accarezzando dolcemente proprio dove più desiderava, accendendo in lei una passione che la travolse completamente. Dopo, restarono avvinghiati tra le lenzuola uno accanto all’altra.
«Tutto bene?», le chiese lui baciandole le dita.
Gli sorrise. «Pensi che potremmo aver concepito un altro bambino?»
«Mia adorata. Chi può dirlo? In ogni caso non smetteremo di provarci finché non ci riusciamo. E speriamo che non ci voglia tanto».
«E se ricapitasse…?»
«Non pensiamoci. Affronteremo insieme qualsiasi cosa accada».
«Lo so», rispose lei pensando al futuro. «Bisogna che mi alzi, adesso. Il tempo è tiranno, come si dice. E ho un mucchio di cose da sistemare prima della festa di stasera».
«Ti ricordi che oggi esco in barca con Jeremy Pike? Facciamo un giro con l’ultimo dinghy che gli è arrivato dall’Inghilterra. Dobbiamo riprovare quel trapezio, perché l’ultima volta non è andata molto bene».
«Fate attenzione. C’è molto vento».
«Andrà tutto bene», la rassicurò. «Il vento non durerà».
«Comunque, non preoccuparti, tanto oggi saresti stato solo d’impaccio. E poi c’è Margo a darmi una mano. Tutto sotto controllo».
Louisa passò il resto della giornata a verificare che fosse tutto a posto per la festa. Lei e Margo montarono delle bandierine davanti all’ingresso e misero fiori di loto, gelsomino e ninfee in ogni stanza. La governante si era offerta di occuparsi lei dei fiori, ma Louisa si divertiva a farlo da sola. Sistemò anche dei bastoncini di incenso alla cannella e al sandalo per profumare l’aria del giardino, e sperò che il vento non spegnesse le candele alla citronella.
La cucina rimase tutto il giorno in piena attività, il cuoco perse la pazienza con uno dei ragazzi e Camille – la ragazza francese – fu ben attenta a tenersi alla larga.
Quando arrivò il momento, Louisa si fece un bel bagno e indossò il suo abito argentato, con un filo di perle attorno al collo e orecchini coordinati. Sentì puntuale la chiamata alla preghiera delle sei, e iniziò a preoccuparsi che Elliot non fosse ancora tornato. Era decisamente in ritardo anche solo per darsi una rinfrescata prima dell’inizio della festa, che era fissata per le sette.
Bussarono alla porta ed entrò Margo. Indossava un abito rosso di satin lucido lungo fino alla caviglia che metteva in gran risalto i suoi occhi verdi e i capelli neri.
«Ho pensato di darti una mano con i capelli», disse.
«Grazie, ogni volta che ci provo da sola finisco per perdermi sempre le mollette».
«Che ne dici se li facciamo cadere qui davanti così e li fermiamo dietro?».
Margo si mise all’opera, e Louisa continuava a preoccuparsi. «Sono in pensiero, Elliot non è ancora tornato».
«Arriverà all’ultimo minuto. Come sempre. Una rinfrescata al volo e dopo cinque minuti farà la sua entrata da stella di Hollywood».
Louisa sospirò. Margo aveva ragione, eppure non si sentiva affatto tranquilla. Non che fosse affidabile in genere, ma almeno in quell’occasione avrebbe potuto fare uno sforzo.
Le donne scesero in cucina, dove la cuoca versò loro un bicchiere di champagne, e quando arrivarono le sette erano entrambe più sorridenti.
«Meglio che io stia qui all’ingresso ora», disse Louisa. «Ma vorrei che Elliot si sbrigasse, non ci faremo una bella figura».
I primi ad arrivare furono due coltivatori di gomma con le loro mogli. Louisa chiacchierò con loro del costo della gomma, finché non arrivò un’altra coppia. E così via per una mezz’ora. Di Elliot ancora nessuna traccia. Louisa aveva ingaggiato un quartetto, e mentre le persone chiacchieravano si sentiva qua e là una piacevole musica. Gwen e il marito non c’erano, e non sarebbero venuti: abitavano davvero troppo lontano.
C’erano anche alcuni dei locali, Derek Muller, l’avvocato burgher, con sua moglie; il signor Bashar, il vecchio bibliotecario; e infine Edward Russell, il loro medico di famiglia. Erano arrivati anche suo padre e alcuni altri amici.
La casa era già piena. Margo trovò Louisa con lo sguardo fisso sull’orologio. «È ora di far servire la cena, che ne dici?», le disse.
Louisa annuì. «Proprio un bell’anniversario. Comunque, sì, per favore, pensi tu ad avvisare Ashan? Io devo fare un breve annuncio».
Chiese ai musicisti di smettere un attimo di suonare e fece tintinnare una campanella. La sala si fece silenziosa e chi era in giardino entrò a vedere cosa stesse succedendo.
«Voglio ringraziarvi tutti per essere venuti stasera. Sfortunatamente mio marito è in ritardo, ma vi prego di mangiare, bere e divertirvi». Poi fece segno al quartetto di riprendere e la stanza tornò a riempirsi di musica e chiacchiere.
Alle nove bussarono alla porta. Andò ad aprire Ashan, e Louisa con una certa ansia vide entrare l’ispettore Roberts, coi suoi capelli crespi e la carnagione rossa. L’espressione suggeriva che fosse arrivato con delle cattive notizie. Le si seccò la bocca e si dovette appoggiare alla porta per non cadere.
Margo gli si avvicinò. «Cosa è successo?».
L’ispettore guardò Margo ma si rivolse subito a Louisa. «Signora Reeve».
Louisa fece qualche passo verso di lui.
«Possiamo parlare in privato?»
«Mi dica solo se Elliot sta bene».
«Andiamo nel tuo studio, Louisa», suggerì Margo facendo strada.
I tre salirono al piano di sopra, Louisa affrettandosi, confusa dalla paura. Era davvero impaziente di sapere.
«La prego», lo implorò sempre più agitata. «Mi dica subito di cosa si tratta».
L’agente si schiarì la voce. «Mi rincresce doverle dire che suo marito, il signor Elliot Reeve, ha avuto un incidente fatale questo pomeriggio».
Margo e Louisa si scambiarono uno sguardo incredulo. Louisa si sentì svenire.
«Cosa significa?», chiese Margo.
«È morto, signorina. Mi dispiace, le porgo le mie più sincere condoglianze».
Louisa fu presa dalla rabbia. Ma che diavolo stava dicendo? Aveva sentito chiaramente la sua voce ma le sue parole non avevano alcun senso per lei. «Può ripeterlo?»
«Temo che suo marito sia deceduto, questo pomeriggio».
No. Impossibile. Fu percorsa dai brividi, malgrado il tepore dell’aria. «Deceduto? Come? Come può essere?»
«Ha avuto un incidente con la barca a vela?», chiese Margo. «È così?».
Roberts scosse la testa.
«Ma… non doveva essere fuori in barca col suo amico Jeremy Pike, Louisa?».
Proprio mentre Louisa annuiva, l’agente si spiegò. «Temo sia morto in un incidente stradale mentre si recava a Colombo».
Louisa scosse la testa. «No. Non è possibile. Non aveva in programma di andare a Colombo oggi».
«Mi spiace, signora. La macchina, una Vauxhall del ١٩٢٨, era completamente accartocciata».
«Ma non è nemmeno la nostra auto! Noi abbiamo una Triumph Dolomite. È proprio sicuro che si tratti di mio marito?»
«Gli abbiamo trovato addosso i documenti».
«Io…», provò a dire Louisa prima che le parole le morissero in gola.
«Se c’è qualcosa che posso fare per voi…», si offrì l’ispettore.
«Devo sapere se è veramente lui», disse infine Louisa con grande freddezza.
Era un incubo. Si aspettava di svegliarsi da un momento all’altro. Non poteva essere vero. Elliot non poteva essere morto così giovane, così pieno di vita. No, non era possibile. Lei e Margo si guardarono, entrambe desiderando con forza che tutta quella storia finisse in un altro modo. Non questo. Per pietà. Non questo.
«Quando potrò vederlo?», chiese lei cercando di mantenere il controllo. «Sono sicura che ci sia stato uno sbaglio».
«Vi sconsiglio di farlo stasera. Vi sarei grato se poteste identificare il corpo, ma sicuramente sarà meglio domani. O magari potrebbe occuparsene il signor Hardcastle. Il corpo è… non è in ottime condizioni. Preferirei che lo sistemassero prima che…».
«Non voglio che lo sistemiate!», gridò. «Voglio vedere mio marito adesso! Dov’è?»
«All’obitorio, signora».
«Bene». Poi si rivolse a Margo, sconvolta. «Ti prego, Margo, dimmi che non sta succedendo davvero».
Margo fece un respiro profondo e proprio in quel momento il padre di Louisa entrò nella stanza. Rivolse un cenno all’agente di polizia.
«Temo sia capitato un incidente, signore. Un incidente fatale».
«Si tratta di Elliot, papà. Dicono che…».
Jonathan la raggiunse e tentò di abbracciarla, ma lei fece un passo indietro e scosse la testa. Non gliel’avrebbe permesso. Non ora. Voleva restare forte e salda. Cercò di spiegarsi ma le parole le uscirono di bocca in modo confuso, e riuscì solo a scuotere la testa un’altra volta. Una parte di lei avrebbe voluto scomparire tra le braccia di suo padre, ma sentiva di dover affrontare quella situazione con le sue forze.
Appariva calma, ma una voce dentro di lei continuava a urlare. Elliot morto. Elliot morto. Cominciò a tremare. Si afferrò a Margo, che dal canto suo era pallida e stravolta. «Verrai con me, Margo? Devo vederlo con i miei occhi».
Margo deglutì, era molto scossa. «Ne sei sicura? Non so se ce la faccio. Non preferisci aspettare domani, come ha suggerito l’ispettore?».
Louisa cercò invano di cacciare indietro le lacrime. Non avrebbe mai potuto crederci se non lo vedeva con i suoi occhi. «No. Dobbiamo andare adesso».
«Chiederò ad Ashan di prendersi cura degli ospiti», disse suo padre. «Saprà cosa dire. Però, tesoro, io vengo con te».
«No. Ti prego, resta qui. E chiedi ad Ashan di non dire cosa è successo a meno che non sia strettamente necessario».
Il padre la guardò. «Louisa…».
«Davvero, papà. Preferisco che tu rimanga qui».
L’ispettore le accompagnò in macchina fino all’obitorio. Aspettarono in un’anticamera che il corpo venisse sistemato in una piccola cappella. Louisa si sentì invadere da un orribile presentimento, e la velocità con cui era accaduto tutto la travolse assieme alla consapevolezza improvvisa di quanto la vita possa cambiare inaspettatamente da un momento all’altro. Aveva paura, anche se in fondo la cosa più spaventosa di tutte era già avvenuta. Niente al mondo avrebbe più potuto spaventarla, pensò. Avrebbe condotto un’esistenza piatta, senza incidenti, senza sorprese. Niente di niente. Una vita senza Elliot.
Poco prima che fossero invitate a entrare, Louisa sentì il cuore batterle così forte che temette di vederlo saltar fuori dal petto. Poi vide Elliot disteso su un carrello con un lenzuolo sul corpo e il volto scoperto. Sentì Margo trattenere il fiato e rimase paralizzata, con un nodo allo stomaco che le si piazzò come un grosso sasso in mezzo alle costole. Sarebbe riuscita a guardare il volto esanime di suo marito?
Si fece coraggio e si avvicinò. Aveva il viso pesto, livido. Si sforzò di toccargli la fronte, trattenendo il respiro. Tirò giù il lenzuolo e vide che aveva una ferita al collo con il sangue rappreso tutto intorno al taglio. Sentì un’ondata di calore e di nausea. Chiuse gli occhi, sperando di riuscire a resistere ancora un po’. Attese qualche istante e quando si sentì meglio lo guardò di nuovo. Ma non aveva strumenti per elaborare quel dolore. Vederlo ridotto in quelle condizioni era davvero troppo per lei. Era stato sempre così bello, così vivo. Com’era possibile?
«Ti prego, Elliot», sussurrò. «Ti prego, dimmi che è solo un sogno». Si girò a guardare l’ispettore. «Ma come, com’è stato possibile?»
«È finito contro un albero. Ipotizziamo che stesse correndo molto».
«Elliot era un guidatore esperto».
L’ispettore era chiaramente a disagio.
«Ho bisogno di sedermi un istante», disse Louisa.
Le offrì una sedia, che sistemò accanto alla salma. Louisa si sedette e chinò la testa, poggiandola sul bordo del carrello. Margo era in piedi accanto a lei, ma improvvisamente si irrigidì e disse che sentiva il bisogno di uscire. «Devo prendere un po’ d’aria».
Louisa annuì e la sentì allontanarsi.
Non appena l’ispettore e Margo ebbero lasciato la stanza Louisa chiuse gli occhi. Non riusciva a crederci. Elliot era vivo, solo poche ore prima, e ora… Nel silenzio innaturale della stanza, soffocò un singhiozzo e coprì l’orribile ferita al collo con il lenzuolo. Ora capiva perché l’ispettore avesse insistito che aspettassero l’indomani.
Lo guardò di nuovo. Non avrebbe mai e poi mai dimenticato quell’immagine. Era lì disteso, con i suoi ricci scuri, ma le sembrava comunque un impostore. E quella stanza il set di un film. Non c’era nulla di reale. Nulla. Avrebbe voluto che aprisse gli occhi, per vederlo vivo ancora una volta, per poterlo salutare. Ma, ovviamente, non avrebbe potuto farlo. Mai più. Un pensiero assurdo. Louisa si alzò, pulì con un dito una macchia di grasso che aveva sulla fronte e gli accarezzò i capelli.
«Caro, mio caro», disse. «Come farò a vivere senza di te?».
Fu assalita di colpo da una sensazione che non aveva mai provato prima: come se fosse affacciata sull’orlo di un pozzo, consapevole che di lì a poco sarebbe stata inesorabilmente trascinata in quelle profondità, e resistere era inutile.
Louisa non riuscì a dormire nonostante Margo fosse rimasta accanto a lei. Passò la notte tormentata dalle immagini di Elliot. Il contrasto tra l’immagine di lui da vivo, così pieno di energia, e il suo corpo morto era davvero troppo per lei. Continuava a credere che prima o poi si sarebbe tirato su dicendo che era stato uno scherzo. Hai visto, Lou? Te l’ho fatta! Si sentiva come intrappolata dentro se stessa, con una gran voglia di piangere e un nodo che le strozzava la gola. Non versava una lacrima, non diceva una parola. Non riusciva a credere che l’aspettasse una vita senza amore.
L’ispettore aveva promesso che sarebbe tornato il mattino dopo alle dieci per poter dare loro tutti i dettagli possibili su quanto era successo. Louisa si preparò in maniera meccanica secondo i soliti rituali. Lavarsi. Vestirsi. Pettinarsi. Bere il caffè. Margo era in un fiume di lacrime, cosa di cui continuava a scusarsi. A parte i singhiozzi di Margo la casa era silenziosissima, come se la malta e i mattoni avessero assorbito il colpo e stessero facendo del loro meglio per tenere quello spazio al sicuro. La servitù, sempre molto discreta, era praticamente invisibile, si muoveva per la casa fluida e silenziosa e persino il cuoco che era solito alzare la voce sembrava ammutolito. La sera prima la notizia era comunque trapelata durante la festa, perché le brutte notizie viaggiano veloci – ma Ashan e suo padre erano riusciti a congedare gli ospiti tranquillamente.
Quando Margo chiamò sua madre a Colombo, la sentì crollare in una disperazione fuori controllo. Nessuna delle due fu in grado di spiegarle perché avessero atteso la mattina invece di avvisarla prima. Forse, si dissero, avevano bisogno di elaborare quanto accaduto prima di essere in grado di comunicarlo a lei. Irene era talmente sotto shock che non capirono quando, o se, sarebbe arrivata.
Jonathan si era fermato a dormire lì, e cercava di essere d’aiuto e di conforto. Iniziò molto presto un andirivieni di persone che volevano offrire sostegno e condoglianze. Louisa voleva occuparsi di tutto personalmente, ma chiese comunque al padre di restarle accanto. Servì il tè, annuì educatamente ai suoi ospiti mentre in realtà fissava, oltre i loro volti, le nuvole che andavano addensandosi nel cielo. Passarono a trovarla il signor Bashar, il bibliotecario, e Janesha della bottega di pesce e spezie. Ricevette anche visite meno gradite, come quella di Elspeth Markham, la fiorista della chiesa, una vera snob oltre che una pettegola di prima categoria. Louisa trovò il modo di rispondere alle loro domande. Come ti senti, cara? Bene, grazie. C’è qualcosa che possiamo fare? Terrò presente la vostra disponibilità. Ringraziava, chiedeva a tutti come stessero, o notizie delle rispettive famiglie, sentendo le loro voci senza tuttavia ascoltare le risposte. Era come se Louisa non fosse veramente lì. Era con Elliot, ovunque egli fosse in quel momento. Certamente quel pallido corpo insanguinato non era lui. E lei voleva il suo Elliot, non poteva credere che non avrebbe mai più sentito il tocco delle sue mani su di sé.
Il flusso costante di persone iniziò presto a stancarla e lasciò che fosse suo padre a occuparsene. Uscì in giardino con un bicchiere di gin, cui aveva dimenticato di aggiungere il ghiaccio. Ma che importanza aveva che fosse tiepido? Era l’alcol che le interessava, perché solo con l’alcol sarebbe riuscita a mantenersi in quello stato catatonico. Solo con l’alcol avrebbe potuto affrontare tutto il resto. Per un istante pensò al funerale, ma le sembrava un’idea così assurda che l’abbandonò immediatamente. Incapace di piangere, si giudicò fredda e impassibile. Non avrebbe forse dovuto disperarsi, gridare, infuriarsi con Dio, crollare in un mare di singhiozzi? Aveva fame, ma il suo corpo era in qualche modo separato da lei, e quella che sentiva era una fame che nessun cibo avrebbe mai soddisfatto. Non faceva che ripetersi la stessa domanda: come poteva il mondo andare avanti così, come se niente fosse? E perché le persone si preoccupavano tanto delle loro sciocchezze, senza capire che l’unica cosa importante era la vita, la vita stessa?
L’ispettore e il medico locale arrivarono poco dopo le dieci, e Louisa iniziò a sentirsi incomprensibilmente accaldata, le sudavano le mani e fu assalita da un forte senso di panico.
Si accomodarono in sala da pranzo, mentre Jonathan continuava a ricevere le condoglianze nel salone. Margo aveva appena parlato di nuovo al telefono con Irene. Elliot era l’idolo di sua madre, l’unica cosa positiva in una vita che aveva finito per rivelarsi deludente sotto molti aspetti. Louisa e Margo si scambiarono uno sguardo solidale.
Si sedettero sul divano, davanti ai due uomini.
«Ci dica», iniziò Margo.
«Come sapete, la strada per Colombo è piena di curve. Il signor Reeve ha attraversato il ponte sull’insenatura del lago Rathgama, un pescatore ha detto di aver visto la sua macchina arrivare a gran velocità. A quel punto è andato fuori strada finendo addosso all’albero. Potrebbe aver sterzato all’improvviso per evitare un elefante o un carro. Il pescatore su questo non ha saputo aiutarci. Ma è stato lui a dare l’allarme. Sfortunatamente quando sono arrivati i soccorsi era ormai troppo tardi. Mi dispiace. Non siamo ancora riusciti a capire di chi sia la macchina che stava guidando, ma siamo sicuri che con lui non ci fosse nessuno».
Louisa piegò la testa un momento e poi alzò di nuovo lo sguardo. «Ma… perché stava guidando la macchina di qualcun altro? Potete almeno dirmi questo?».
Erano passati due giorni e c’era già stato il funerale. Impossibile rimandare troppo a lungo, con certe temperature i corpi non duravano molto. Louisa era riuscita a organizzare tutto, muovendosi in uno stato di trance, dagli omaggi floreali – ibiscus rossi – alla messa vera e propria. Margo invece si era occupata di avvisare gli amici di Elliot, alle piantagioni e a Colombo. Irene non faceva che piangere, mentre Harold sosteneva stoicamente la moglie. Louisa l’aveva visto abbracciarla, sussurrarle qualcosa all’orecchio, tentare insomma di rendere sopportabile qualcosa che era impossibile sopportare. Aveva un’espressione rassegnata, continuava a pulirsi le lenti degli occhiali con il fazzoletto come se questo gesto potesse liberarlo dal dolore che tentava disperatamente di nascondere. Sia Margo che Louisa non versarono lacrime. Subito dopo il funerale strinsero le mani di tutti, accettando le loro condoglianze.
C’erano tantissime persone, com’era prevedibile. Le morti improvvise innescavano quel genere di reazione nella gente, a prescindere da chi fosse morto. Ma Elliot era davvero molto amato, il suo sorriso, i suoi modi affabili, conquistavano sempre tutti. Louisa ricordò tutte le volte in cui aveva trovato eccessivo il suo eterno ottimismo, e si sentì in colpa per averlo pensato, sia in passato che quel giorno in particolare.
L’unica assenza notevole era quella di Jeremy Pike, il suo compagno di vela. Era convinta che fossero davvero buoni amici, soprattutto considerando la quantità di tempo che trascorrevano insieme. Invece c’era Leo McNairn, della piantagione di cannella, e le strinse le mani guardandola con una compassione sorprendentemente intensa.
«Sono sinceramente dispiaciuto», le disse. Louisa cercò con tutte le sue forze di mantenere un contegno, ma sentì che stava per piangere. Non adesso, si disse. Non davanti agli altri. Alla fine, dopo aver salutato tutti, era esausta.
Una volta a casa, la realtà di quanto era successo la colpì come un pugno dritto sul petto. Telefonò a Gwen, alla piantagione di tè. Aveva bisogno di confidarsi con qualcuno, e a Galle non se la sentiva di parlarne con nessuno. Raccontò a Gwen cos’era successo a Elliot e dirlo a voce alta l’aiutò a far diventare tutto in qualche misura più vero.
«Se te la senti», propose Gwen, «potresti passare un po’ di tempo qui da noi, saresti la benvenuta. Il posto è molto tranquillo, e ti permetterebbe di evitare di incontrare tante persone in un momento così difficile».
«Sei gentile. Posso pensarci?»
«Certamente. Sono così dispiaciuta per te».
Louisa soffocò un singhiozzo e riagganciò. Il dolore per aver perso Julia non l’aveva abbandonata, non l’avrebbe mai abbandonata. E adesso anche questo. Fu allora che iniziò a piangere. Per la prima volta realizzò quello che fino a quel momento si era rifiutata di credere, e cioè che Elliot non sarebbe più tornato a casa. Salì in camera da letto, tirò le tende e si rannicchiò nel letto abbracciata al cuscino, piangendo finché non le si gonfiarono gli occhi e il volto. Pianse per se stessa, per la sua perdita, ma anche per Elliot, morto così presto, senza aver avuto l’occasione di essere padre. Era troppo ingiusto. Dopo aver finito di piangere, quando tutto tornò silenzioso e le emozioni si quietarono un poco, sentì la sua voce. Lo vide parlare, ridere, fare l’amore. E non era più morto.
Una dimensione incredibile quella in cui si stava muovendo, come poteva essere vivo quando non lo era più? Cercò di parlarci, ma ecco che era sparito di nuovo. La sua assenza le parve a quel punto enorme, spaventosa e incomprensibile. Lui c’era ancora, eppure non c’era più. L’assenza non era uno spazio vuoto, in fondo, ma pieno di immagini, ricordi ed emozioni, oltre che della triste consapevolezza che non ci sarebbero stati più altri ricordi. Gli parlò ad alta voce. «Dove sei, Elliot? Dove sei andato?». Ma non ricevette alcuna risposta. E quando gli domandò perché le avesse mentito dicendo che sarebbe andato in barca quando in realtà era diretto a Colombo, nella macchina di qualcun altro, il silenzio fu ancora più assordante. Un silenzio che Louisa colmò di brutti pensieri.
I soldi ricavati dalla vendita delle azioni di Louisa erano stati trasferiti sul conto di Elliot diversi giorni prima che morisse. La sera dopo il funerale Louisa aveva appuntamento con l’avvocato e il commercialista che si erano occupati del testamento. Ne conosceva già il contenuto, ovviamente, ma era una formalità che bisognava rispettare, e inoltre era importante che iniziasse da subito a prendere in mano le redini della sua situazione finanziaria.
L’avvocato era un singalese di nome Silva, nipote del loro storico avvocato di famiglia che era andato in pensione. Era un uomo magro, dall’aspetto serio, molto giovane ma al tempo stesso molto competente. L’aveva autorizzato a recarsi nella loro banca di Colombo a nome suo e a farsi dare l’estratto di entrambi i conti, in modo da avere una visione d’insieme più precisa. Legalmente sarebbe dovuta andare di persona a richiedere quei documenti, ma in considerazione di quanto accaduto il direttore della banca, un vecchio amico di famiglia, aveva accettato la delega.
Il loro commercialista, Bob Withington, lo conoscevano da anni. Sedevano tutti e tre in quello che fino a pochi giorni prima era stato lo studio di Elliot. Le era sembrata una buona idea inizialmente, anche se trovandosi di colpo circondata dalle cose del marito pensò che forse sarebbe stato meglio seguire il suggerimento di incontrarsi a Colombo.
Lessero il testamento e subito dopo Margo portò loro un caffè. Elliot aveva lasciato tutto a Louisa, eccetto il saldo di un altro conto che sarebbe andato invece a Leo McNairn.
«Si tratta di una piccola somma, ma lei sa come mai suo marito volesse lasciare dei soldi a questo beneficiario in particolare?», le domandò il commercialista.
«Non ne ho idea. Gestisce una piantagione di cannella, Cinnamon Hills, di cui Elliot aveva comprato delle azioni. Forse voleva investirci altri soldi?»
«Non ne sapevo nulla. Sa dirmi dove recuperare le ricevute di quelle azioni?»
«Deve averle depositate presso di lei».
«Temo di no».
«E allora saranno qui, da qualche parte». Indicò una cassettiera. «Controllerò con calma».
«Bene, signora Reeve, Louisa», disse il commercialista. «La cattiva notizia è che il conto principale di suo marito era praticamente vuoto».
Si accigliò. «Non è possibile. Avevo trasferito da poco una grossa somma dal mio conto al suo».
«Sì, vedo, è sulla lista dei movimenti».
«La metà di quella somma serviva per saldare l’atto di acquisto della tipografia, quindi non mi sorprende di non trovarla più sul conto. Ma l’altra metà dovrebbe esserci ancora».
Il commercialista scosse la testa.
«E dove sono finiti i soldi?»
«Sembra che suo marito li abbia ritirati in contanti».
«Allora deve averli messi qui, da qualche parte», disse guardandosi attorno. «Anche se non mi spiego come mai li abbia ritirati così presto».
«E abbiamo trovato anche traccia di un prestito che non ha mai ripagato», disse l’avvocato.