Seguì un breve silenzio e Louisa vacillò, sentendosi una ragazzina al primo appuntamento. Si sentì un’auto sgommare in strada, un cane che abbaiava e qualcosa che cadeva in cucina. Fu tentata di andare a vedere se si fosse rotto qualcosa, ma capì che sarebbe stata solo una scusa per sfuggire alle emozioni del momento.

«Bene», disse lui. «Pronta?».

Quando la prese sotto braccio, lei abbandonò ogni diffidenza e si sentì colma di gioia.

«Ha smesso di piovere, andiamo a piedi?», le chiese. «Ma prima volevo dirti una cosa», fece trattenendola.

«Dimmi».

«È chiaro che sei ancora ferita, e voglio che tu sappia che lo capisco».

Sopraffatta da un’ondata di emozione, Louisa annuì.

Quando arrivarono al ballo c’era un foxtrot. Lei continuò a tenersi stretta al suo braccio e si guardò attorno. La sala era bellissima, piena di fiori e specchi alti fino al soffitto che riflettevano le luci scintillanti dei lampadari e le coppie che danzavano. Era davvero affollato e, nonostante la recente pioggia, faceva molto caldo. Louisa voleva cercare suo padre per presentargli Leo. Fecero il giro della sala e alla fine trovarono Jonathan che parlava con Elspeth Markham, devota sostenitrice della comunità religiosa locale e responsabile degli arrangiamenti floreali.

«Salve, signora Markham», disse Louisa. «Posso presentare a entrambi Leo McNairn. Leo, questo è mio padre».

Si strinsero tutti la mano e Louisa notò che suo padre stava squadrando Leo. Sapeva che voleva solo proteggerla, ma non poté fare a meno di sentirsi irritata. Lanciò a Leo un’occhiata di intesa.

«Se non vi dispiace, Leo e io andiamo in pista».

Cogliendo al volo l’invito, Leo le mise una mano sul gomito.

«Magari possiamo bere qualcosa insieme più tardi?», disse Jonathan. «Diciamo, al bar tra un’ora?»

«Con piacere», disse Leo.

«Mio padre ti farà il terzo grado. Mi dispiace», gli sussurrò mentre cercavano di farsi largo in pista.

Lui rise e la prese tra le braccia. Iniziarono un valzer e Louisa riuscì ad abbandonarsi e godersi il piacere di stargli così vicina. Sentiva che c’era qualcosa tra loro ed era sicura che lo sentisse anche lui. La teneva stretta e ballarono senza sosta, finché lei non iniziò a sentire caldo e decisero di raggiungere il bar. Trovarono un angolo libero e Leo andò a prendere due calici di champagne.

Louisa chiuse gli occhi, finché non udì chiaramente qualcuno accanto a lei che nel mezzo di un discorso faceva il suo nome.

«Girano molte voci sul marito di Louisa Reeve», stava dicendo una donna.

«Ho sentito che aveva altre donne».

«E lei lo sapeva?»

«Non si sa».

«Pare che abbia anche un figlio illegittimo».

«No, ma che brutto!», disse l’altra in tono sinceramente sconvolto.

«E quante altre donne aveva?»

«Moltissime, pare».

Louisa si alzò proprio mentre Leo stava tornando con i due bicchieri. «Vado a dire a mio padre che siamo qui».

«Tornerai?»

«Tra un attimo».

«Qualcosa non va?».

Scosse la testa. «Stai tranquillo», disse e prese un sorso di champagne. Poi lasciò giù il bicchiere e si avviò lanciando un’occhiataccia alle due donne che stavano sparlando di lei, una delle quali era proprio Elspeth Markham.

Trovò il padre e gli disse dov’era Leo. Subito dopo andò a cercare Margo e la trovò seduta mano nella mano con William.

«Non ballate, piccioncini?»

«Non sono un gran ballerino», disse William. «Louisa, posso prenderti qualcosa da bere?»

«Grazie», rispose lei occupando subito il suo posto accanto a Margo.

«Dov’è Leo?»

«Con mio padre».

«Speriamo che vada tutto bene».

«Perché non dovrebbe?»

«Be’, ti ricordi com’è stato con Elliot all’inizio».

«Alla fine comunque aveva ragione… Margo, ho sentito delle donne parlare di Elliot. Stavano dicendo che aveva molte amanti».

«Se dai retta ai pettegolezzi diventi matta, lascia stare».

«Sono sicura che hai ragione, ma muoio dalla voglia di andare a dirgliene quattro».

«Non ne vale la pena. Dimmi, com’è stato ballare con Leo?».

Louisa chiuse gli occhi e sorrise. «Mi sento a casa con lui. Viene tutto facile. So che forse è troppo presto, ma è così che mi sento». Sospirò. «Perché la vita è tanto complicata?»

«Siamo anche noi che ce la complichiamo, ti pare? Se ti piace e tu piaci a lui, il resto non ha importanza».

Quando William tornò con il suo bicchiere, Louisa lo prese e gli cedette il posto per tornare al bar, dove trovò Leo e suo padre che ridevano insieme. Le fece davvero piacere vedere che andavano tanto d’accordo. E fu in quel momento che prese una decisione imprevista.

«Louisa», disse suo padre. «Vieni, prendi il mio posto».

Si alzò e porse la mano a Leo. Louisa sentì che quella stretta di mano era un’approvazione formale. Ne fu contenta. Era stato orribile quando Jonathan non approvava Elliot.

Quando suo padre si fu allontanato si avvicinò a Leo. «Vogliamo andare?»

«Ma è ancora presto».

«Voglio tornare a Cinnamon Hills con te. Possiamo prendere la mia auto».

«Ne sei sicura?»

«Assolutamente».

37

Salirono in macchina e Louisa si mise alla guida verso Cinnamon Hills. Contro ogni aspettativa, affrontò con calma la strada dissestata attraverso la piantagione e l’arrivo davanti alla casa buia di Leo. Leo le sfiorò con grande dolcezza la mano che era rimasta sul volante.

«Sei ancora in tempo per cambiare idea, se vuoi».

Spense le luci dell’auto e guardò l’oscurità davanti a sé. Era impossibile distinguere il paesaggio, c’erano solo loro due, come in una bolla. Era proprio quella una delle ragioni per cui l’intimità era tanto eccitante, come uno schermo, una calda protezione dal mondo esterno, qualcosa che le era mancato da quando Elliot non c’era più.

Scesero dalla macchina e, guidati solo dalla luce delle stelle, raggiunsero la porta d’ingresso. Si sentiva il voluttuoso profumo dei fiori e degli alberi. Intorno a loro la foresta era viva, vicina, tutt’altro che silenziosa. Si sentivano le cicale, gli animali che si muovevano a terra, le ali degli uccelli notturni. In lontananza, il ruggito dell’oceano. Attorno a loro brillavano le lucciole, e Louisa sorrise. Leo aprì la porta e salirono al piano di sopra, dove gli odori della stanza – tabacco e cannella – contrastavano con l’umidità dell’aria notturna. Leo si piegò ad accendere una lampada a olio e poi la guardò con occhi neri e luminosi. Louisa trattenne il respiro.

«Non pensavo che saresti stato così bene in abito da sera», gli disse.

Per un attimo fu tentata di tirarsi indietro, ma cercò di farsi forza. Leo uscì un momento dalla stanza e lei ne approfittò per guardarsi attorno. Non c’era molto, solo qualche libro, un paio di piante, il suo giacchetto appeso a una sedia, una pila disordinata di fogli, un vecchio giornale e un grande orologio sulla parete. Non era neanche mezzanotte, notò prima di andare a curiosare tra i libri. Sfogliò una copia delle poesie di guerra di Siegfried Sassoon. Si tolse gli orecchini e li lasciò sul tavolino. Avrebbe ricordato per sempre ogni dettaglio di quella stanza, che rivelava tanto di lui. Quanto le piaceva.

Quando Leo rientrò l’atmosfera era carica di promesse, intenzioni, o forse solo desiderio puro, e Louisa sorrise tra sé mentre descriveva mentalmente quella scena momento per momento.

«Che cos’è che ti fa sorridere?», le chiese.

«Non saprei. Questo? Noi? La vita?».

Le si avvicinò.

Sentì il calore invaderla quando si baciarono, all’inizio dolcemente, e le piacque il sapore di champagne che aveva sulle labbra. Accarezzandogli la nuca con le dita si strinse a lui, tirandosi su impercettibilmente e istintivamente. Come in un incantesimo, pensò, mossa dal desiderio di liberarsi di ogni tensione. Da un momento all’altro l’avrebbe guidata verso la camera da letto; respirò contro il suo collo, inebriata dal desiderio.

Iniziò a sbottonargli la camicia, prima lentamente e poi con maggior foga. Lui tirò giù la lampo dell’abito e lo sfilò facendolo scivolare dalle spalle. Il cuore di Leo batteva forte sotto la sua mano e, proprio mentre si stava abbassando per baciarle il collo, si udì un forte rumore venire da fuori. Si separarono di scatto e sentirono un grido. Leo si riabbottonò velocemente la camicia prima di uscire.

«Non ti muovere», le disse.

Cercò di restare calma e rimase in attesa. Dopo qualche minuto tornò.

«Scimmie, solo scimmie», disse.

Invece di condurla in camera, però, le si avvicinò e le tirò su il vestito.

«Louisa, non possiamo».

«Perché no?».

Avrebbe voluto essere più audace, convincerlo che era il momento giusto per andare fino in fondo, ma si scoraggiò.

«E se fosse troppo presto? Se domani mattina ti svegliassi pensando di aver commesso un terribile errore?», le disse lui chiaramente tormentato.

Louisa non voleva rinunciare. «Ma non lo farò, non lo farei».

«Lo so che sei ancora in conflitto».

Fece un passo indietro e scosse la testa, le veniva da piangere, era furiosa con il fantasma di Elliot che ancora incombeva prepotente tra di loro. Era sicura di volerlo fare, convinta che fosse il momento giusto, ma se anche Leo era incerto, che senso aveva?

«Dormirai nel mio letto», le disse guardandola intensamente. «E io dormirò sul divano».

«Non posso rubarti il letto».

«Puoi e devi».

Louisa passò una notte inquieta e si addormentò solo al mattino. La svegliò Leo bussando alla porta prima di entrare. Si ricordò del suo corpo premuto contro di lei e fu travolta da una nuova ondata di desiderio, nonostante lui fosse perfettamente normale, vestito da lavoro e con un vassoio di toast e caffè tra le mani. Aveva anche una busta.

Guardò il suo viso impietosamente illuminato dal sole che entrava forte attraverso le imposte e si passò una mano tra i capelli.

«Sei bellissima», le disse accarezzandole il viso.

Lei gli sorrise, provando al tempo stesso una sorta di malinconia. Le versò il caffè. Avrebbe voluto toccargli il braccio, dove i peli biondi sembravano d’oro.

Invece gli domandò cosa c’era nella busta.

Sospirò e Louisa vide che aveva uno sguardo molto serio. «Sono i risultati delle analisi di Zinnia. Ha la malaria».

Bevve il caffè in fretta. «Allora vado subito in città a prendere il chinino».

«Vengo con te».

«No, resta con Zinnia. Bisogna che qualcuno glielo dica. È meglio che non rimanga sola».

«Non sono ancora passato a vedere come sta, ma ieri sera non stava per niente bene. Ora che ci penso, non ho visto nemmeno Conor».

«Torno appena posso con la medicina, e poi ti riaccompagno a prendere la moto».

In quel momento iniziò a piovere e sentirono le gocce picchiare sul tetto. A Louisa piaceva quel suono quando era al sicuro dentro casa, sia quello della pioggia leggera che le conciliava il sonno, sia quello dei temporali che la tenevano sveglia e raggomitolata sotto le coperte.

«Vorrei poter restare a letto», disse con un piccolo brivido. Senza tuttavia aggiungere “con te”. «Non mi piace l’idea di uscire con la pioggia».

Leo la guardò con occhi socchiusi, in silenzio.

«E riguardo a ieri sera, sei serena?», le chiese infine.

Lo guardò, e annuì trattenendo il respiro.

Restò un istante in silenzio, come indeciso su cosa dire. «Lo sai che lo desideravo moltissimo, vero?»

«Lo so», sospirò Louisa.

Al dispensario scoprì che le scorte di chinino erano finite e che ci sarebbero voluti ancora diversi giorni prima che ne arrivassero altre. Si sentì tristissima. C’erano già state troppe morti nella sua vita, e la malattia di Zinnia le ricordava crudelmente di Julia e di Elliot. Non che li avesse dimenticati, ma li riportò in cima ai suoi pensieri con tutto quel che comportava. Cercò di non scoraggiarsi e decise di andare a Colombo per rimediare il chinino più velocemente, chiedendo a Margo di accompagnarla.

Una volta a casa, trovò una valigia all’ingresso e un attimo dopo arrivarono Wiliam e Margo, quest’ultima con gli occhi gonfi e arrossati.

«William sta andando a prendere il bus», disse. «È arrivato il momento».

Louisa li guardò. «Zinnia ha la malaria, qui non c’è chinino e voglio andare a prenderlo a Colombo. Posso accompagnarti io».

«È molto gentile da parte tua», le disse. «E decisamente meglio del bus».

«Ma figurati, è un piacere. Margo, perché non vieni anche tu? Potreste stare ancora un po’ insieme».

«Io ho prenotato una stanza al Galle Face Hotel», disse William.

«Prenota una doppia, io prenderò la tua singola. Non posso guidare al buio con questa pioggia. Margo può tornare domani con me».

«E poi vengo con te a Cinnamon Hills, Zinnia avrà bisogno di un’infermiera».

«Lo faresti davvero, per lei?»

«Lo farò per te».

Il viaggio fu lento, ma alla fine raggiunsero Colombo e il Galle Face. Li accolse un gruppo di palme ondeggianti, ma per fortuna quando scesero dalla macchina la pioggia era cessata. William portò i loro bagagli alla reception e da lì nella Palm Lounge, oltre le due rampe di scale. Si accomodarono, Louisa guardò gli altri tavolini sparsi nella sala e poi si alzò dicendo che sarebbe andata a verificare le loro prenotazioni.

Alla reception le confermarono che era tutto in ordine, e a quel punto chiese a William e Margo di badare al suo bagaglio mentre lei faceva un salto al dispensario.

«Voglio prendere subito il chinino, non si sa mai».

«Portiamo noi la tua borsa in camera e ci vediamo qui tra un’ora».

Non le piaceva l’idea di rimettersi in macchina, ma pioveva troppo per andare a piedi. La tregua era già finita e l’acqua stava di nuovo inondando alberi e marciapiedi.

Dopo mezz’ora di fila al dispensario ottenne quel che cercava. Un po’ le dispiaceva non tornare direttamente a Cinnamon Hills, ma il tempo era terribile e non voleva guidare col buio. Zinnia avrebbe resistito sicuramente qualche altra ora senza medicine.

38

Quando Louisa parcheggiò davanti a casa di Zinnia il giorno dopo, l’aria sapeva di foglie e terra bagnata. Videro Conor che usciva correndo verso la foresta.

«Che cosa pensi che sia successo?», chiese Margo.

Louisa scosse la testa. «Avrà avuto qualche guaio».

«Mi piacerebbe conoscerlo meglio. In fondo è mio nipote». Poi guardò Louisa e arrossì. «Scusami, non volevo…».

«Non preoccuparti. Lo conoscerai senz’altro», la tranquillizzò. «È un bambino molto chiuso». Scese dalla macchina e Margo la seguì.

«Hai preso il chinino?»

«Sì, è nella mia borsa», disse recuperandola dal sedile posteriore.

«Sembra tutto molto silenzioso», osservò Margo.

La foresta era tranquilla, a parte le gocce che ancora cadevano dagli alberi e il vento che muoveva le foglie, proprio come piaceva a lei, ma era troppo distratta dal pensiero di rivedere Zinnia. Aprì la porta d’ingresso. Capì subito che qualcosa non andava quando vide Leo seduto sul divano con lo sguardo perso nel vuoto.

«Ho portato il chinino», disse velocemente. «Alla fine sono dovuta andare a prenderlo a Colombo. Sono tornata prima che ho potuto. Abbiamo appena visto Conor…».

Leo sollevò una mano per fermarla.

«Che c’è?».

Scosse la testa, cupo.

Gli si avvicinò. «Leo, mi stai spaventando».

Si alzò in piedi e le tese una mano. «Ci siamo mossi troppo tardi».

Louisa sentì un tuffo al cuore.

«Zinnia è morta stamattina».

Poi le lasciò la mano e tornò a sedersi, con lo sguardo basso. Quanto le sarebbe piaciuto trovare il modo di consolarlo, pensò guardando il suo viso distrutto e le sue spalle curve, su cui pesava impietosa la morte di Zinnia. Avrebbe voluto abbracciarlo e accarezzargli i capelli, e invece gli si sedette accanto e aspettò che fosse lui a parlare. La morte di Zinnia, irrimediabile come solo la morte può essere, la sconvolse, e il fatto di esserci già passata non fu di alcun aiuto. Avrebbe potuto fare di più. Avrebbe dovuto fare di più. E ormai era troppo tardi.

«È stata così sola quassù», le disse guardandola finalmente negli occhi. «Ho sempre pensato che questa vita non facesse per lei, che sarebbe dovuta restare a Colombo, con i suoi amici bohémienne».

I suoi occhi scuri, erano così dolenti in quel momento. «E perché ha deciso di venire qui?».

Sospirò. «Non aveva un altro posto in cui crescere Conor. Ma non è mai stato l’ideale, qui».

Margo si intromise. «Abbiamo visto Conor uscire di corsa. È il caso che andiamo a cercarlo?»

«Non ancora», disse Leo. «L’ha appena scoperto. Lasciamo che digerisca la cosa. Meglio che se ne stia tranquillo in uno dei suoi nascondigli».

«Ma è così piccolo…», disse Margo.

«Mi sento in colpa. Sarei dovuta tornare qui ieri sera», disse Louisa.

Leo scosse la testa. «Non avrebbe fatto differenza. Era già troppo tardi. Se c’è un colpevole sono io, avrei dovuto insistere perché si facesse visitare prima. Ma non mi sono reso conto…».

«Non incolparti», gli disse Louisa ben sapendo che l’avrebbe fatto comunque. Perché le persone lo fanno, cercano sempre di addossarsi colpe, di assumersi responsabilità per qualcosa che non hanno fatto. Era successo anche a lei, per Julia e per Elliot.

«E adesso?», chiese Margo.

Per qualche minuto nessuno parlò, poi Leo si alzò, proprio nel momento in cui un raggio di sole illuminò la stanza buia. «Louisa, puoi chiedere al tuo medico di venire per certificare il decesso? Potremmo organizzarci per farla portare all’obitorio di Galle».

«Vado io», disse Margo. «So dove abita, così Louisa può restare qui ad aiutarti». Poi si rivolse a Louisa. «Ti fidi a lasciarmi la macchina?».

Lei annuì.

«Vorrei venire con te per recuperare la mia moto. Non ci vuole molto e potrei averne bisogno. Il mio furgone è ancora dal meccanico. Louisa, tu puoi aspettarmi su. Sono certo che tornerò prima che Conor si faccia vivo. Quando va nei suoi nascondigli ci resta sempre per ore, e non lo trovo mai».

«Ma non sarebbe meglio che tu restassi qui?»

«Farò prestissimo. Ho bisogno della mia moto per tutte le commissioni che saranno necessarie».

«Va bene», gli disse. Anche se in realtà era preoccupata che Leo si sbagliasse nei suoi calcoli su Conor e temeva di doversi occupare da sola di quel povero bambino disperato.

Leo chiuse a chiave la porta di casa per evitare che Conor potesse rientrare e trovarsi con la madre da solo. Dopodiché lui e Margo andarono via assieme e Louisa si mise a sedere su un tronco, in preda a una profonda tristezza per Zinnia. Povera donna. E povero Conor, che era rimasto orfano di entrambi i genitori. Louisa ricordava bene come si era sentita quando sua madre era morta. Il padre aveva provato a risparmiarle il dolore, ma lei era corsa in camera da letto e aveva voluto vederla. La camera era molto calda e c’era un forte odore di gigli. Da quel giorno i gigli non le erano mai più piaciuti ed era diventata un’amante della vita all’aria aperta. Aveva gridato, finché la sua ayah non l’aveva tirata via in lacrime. Per anni aveva avuto paura di tutto, e poi – pian piano – aveva imparato a farsi forza da sola. Era in pensiero per Conor, tutto solo da qualche parte lì fuori. Forse Leo aveva ragione, gli serviva tempo, ma era davvero piccolo e lei continuava a pensare che non fosse giusto abbandonarlo così.

Non faceva freddo, eppure aveva i brividi. Respirò a fondo un paio di volte e poi si alzò. Arrivata in cima alla collina, vide il piccolo seduto sulla panchina davanti a casa di Leo. Non alzò lo sguardo, e lei andò a mettersi accanto a lui.

«Mi dispiace per la tua mamma», gli disse.

Nessuna risposta, solo uno sguardo disperatamente serio.

«Posso raccontarti una storia? Parla di una bambina che aveva la tua stessa età quando la sua mamma morì».

La guardò e vide che aveva gli occhi rossi di pianto.

«Lei pensava che fosse la fine del mondo. Anche tu ti senti così?».

Annuì.

«Credeva che niente sarebbe stato bello mai più».

Annuì di nuovo.

«E che non avrebbe sorriso mai più».

Ci fu un lungo silenzio. Louisa ascoltò gli uccelli e il vento che scuoteva i rami degli alberi. Nel cielo c’erano alcuni sprazzi di luce.

«Che cosa le è successo, dopo?», chiese lui con sguardo spaventato. «Che cosa è successo a quella bambina?»

«Alla fine è stata bene, ma è rimasta triste per tanto tanto tempo».

«Io mi sento triste», disse.

L’inserviente di Leo andò ad avvisarli che dentro c’erano il tè e la limonata, ma Conor sembrò non registrare l’informazione.

«Dài», disse Louisa. «Vieni a prendere un po’ di limonata. Sono sicura che se glielo chiediamo Kamu troverà anche dei biscotti».

Il bambino si alzò ma non disse niente.

Entrarono e lui si sedette un po’ curvo su se stesso, senza toccare la limonata. Louisa sorseggiò il suo tè e pensò a Zinnia. Le dispiaceva per lei, pensò seduta davanti a suo figlio, il figlio che lei aveva avuto da Elliot, un bambino con il cuore spezzato. Com’è crudele la vita, si disse. Si ricordò quel che aveva detto Margo a proposito di Irene, della possibilità che volesse prendere il bambino con sé. Ora che Zinnia era morta era un pericolo ancora più concreto.

Quando sentirono la motocicletta, Conor saltò in piedi e corse fuori. Lo seguì e lo vide andare incontro a Leo per abbracciarlo. Leo aveva lo sguardo addolorato, e anche Louisa si commosse vedendo come lo prendeva in braccio per stringerlo forte. Fu allora che sentì il bambino singhiozzare per la prima volta.

Leo lo portò dentro e il piccolo restò così, con le braccia avvinghiate attorno al suo collo.

«Fa male», diceva. «Fa male».

Leo gli rispose stravolto, con la voce rotta: «Lo so. Fa male anche a me».

Louisa gli versò una tazza di tè e gliela passò. Quando Conor si addormentò lo portò in camera da letto e solo allora bevve il suo tè, con lo sguardo fisso a terra. Seguì un lungo silenzio, durante il quale Louisa sentì solo il suono del suo respiro.

«Ho visto il dottore», disse infine. «Sta arrivando, devo scendere giù da Zinnia».

«Rimango io qui in caso Conor si svegli».

La guardò. «Pensi che abbia bisogno di vederla un’altra volta?»

«L’ha già vista? Intendo dire, dopo che…».

«Sì».

Gli mise una mano sul braccio e scosse la testa. «Allora una volta è sufficiente. Leo, farò tutto quello che posso per dare una mano, voglio che tu lo sappia. Non sei da solo».

Le sorrise tra le lacrime. «Abbiamo finalmente una linea telefonica, sono venuti ieri a finire il lavoro. Ti scrivo il numero, in caso di bisogno».

39

Salutarono Zinnia con un piccolo funerale tranquillo, e Leo fece del suo meglio per stare accanto a Conor, tenendogli la mano e abbracciandolo. Sicuramente erano in molti a pensare che il bambino fosse troppo piccolo per partecipare al funerale, ma Louisa e Leo ne avevano parlato a lungo e alla fine lui aveva deciso per il sì. Era importante che Conor ci fosse. Louisa era stata attenta a mantenere le distanze dalla vicenda di Elliot per poter essere d’aiuto nel migliore dei modi. Leo soffriva in silenzio per la perdita della cugina, ma era teso e affranto e si capiva che doveva essere molto doloroso per lui. Difficile dire quanto fossero legati, pur essendo così diversi, ma che la sua morte lo avesse colpito profondamente era fuori di dubbio.

La vita tuttavia andò avanti.

I lavori all’emporio proseguivano. Di tanto in tanto Louisa vedeva fuori da casa sua un poliziotto di guardia, e non c’erano più stati segni di Cooper o De Vos, cosa che la rallegrava. Il tempo la costringeva a stare quasi sempre in casa, sebbene ci fossero giornate più luminose nonostante il monsone. L’aria però era quasi sempre umida.

Louisa andò all’emporio, e lo trovò davvero splendido. Era tutto pulito e c’erano due operai intenti a montare dei mobili. C’erano già le inferriate alle finestre sul retro e si aveva un’idea dell’aspetto che avrebbe avuto una volta finito. Era davvero impaziente di vederlo pieno di gioielli, stoffe e persone.

Stava tornando a casa con i cani quando arrivò Leo in sella alla sua moto. Non lo vedeva da una settimana e le era mancato, si era chiesta spesso come se la stesse cavando con il bambino. Parcheggiò davanti a casa sua ed entrarono insieme.

«Allora?», disse appendendo il cappello mentre lui si toglieva la giacca. «Come vanno le cose?», indicò il salotto. «Ci accomodiamo?».

Camille entrò a chiedere se volessero un caffè e lei annuì.

«Dimmi».

Leo si accomodò su una poltroncina. «Non bene, a dire il vero. Siamo impegnatissimi e non ho mai modo di occuparmi di Conor come vorrei e come sarebbe giusto fare. Passa molto tempo a girare da solo per la foresta. Kamu lo tiene d’occhio quando non ci sono, ma non è proprio l’ideale».

«Immagino che tu sia preoccupato».

La guardò e sospirò. «Ti eri offerta di aiutare…».

«E dicevo sul serio».

«Sarebbe troppo chiederti di ospitare Conor qui?»

«Oh!», esclamò Louisa sorpresa.

«Solo durante la settimana. Kamu e io possiamo organizzarci per il sabato e la domenica, ma ha davvero bisogno di una presenza femminile».

Louisa ci pensò. Forse era una buona idea, ma… Inspirò, era molto indecisa. «Hai ragione», disse. «E poi ora qui c’è Margo, che sicuramente mi darebbe una mano. In fondo, è sua zia».

«È un sì

«Deve andare a scuola».

«Potremmo convincerlo usando questo argomento», disse. «Passerà un po’ di tempo con la zia mentre è qui per la scuola».

«Pensi che funzionerà?»

«Non sarà felice di lasciare la sua amata foresta e la sua casa».

Lo guardò sconvolta. «Non mi dirai che sta ancora vivendo in casa di Zinnia?».

Scosse la testa. «No, intendevo dire la piantagione, che è casa sua. Ho trasformato lo stanzino in una cameretta. Mi sento in colpa a mandarlo via, ma non ho alternative».

Camille portò il caffè e loro restarono in silenzio. Louisa ripensò alla proposta di Leo. Provava sentimenti molto contraddittori. Da una parte voleva aiutare Leo, ma dall’altra si chiedeva come sarebbe stato per lei trovarsi ogni giorno davanti agli occhi il figlio di Elliot, anche se durante la gita in barca erano stati bene. Guardò fuori dalla finestra mentre Camille finiva di servire e poi prese la sua tazza.

«Che ne dici se facciamo un periodo di prova, e se non si trova bene pensiamo a un’altra soluzione?», propose.

Margo entrò nella stanza in quel momento. «Avete un’aria molto seria, è successo qualcosa?».

Louisa le spiegò nervosamente la sua decisione.

«Ne sei sicura? Da parte mia, ovviamente, farò quel che posso», disse Margo. «A dire il vero non vedevo l’ora di incontrare il mio nipotino un’altra volta».

Louisa provò qualcosa di strano. Era l’unica a non avere con lui un legame di sangue eppure stava prendendosi una responsabilità così grande, e sospettava che non sarebbe stato facile.

«Quando lo porterai?»

«Il prima possibile. Avreste abbastanza tempo per organizzarvi se lo portassi dopodomani?».

Quando se ne fu andato Margo e Louisa andarono a casa di Jonathan a cercare qualche vecchio gioco di quando lei era bambina. Non le erano mai piaciute le bambole e andava soprattutto in bici, ma di sicuro avrebbero trovato giochi da tavola e libri. Magari sarebbero potute andare a Colombo a comprargli dei soldatini di piombo, ma non aveva ancora idea di cosa potesse piacergli.

La porta sul retro era aperta, e salirono tranquillamente fino a una stanza del piano superiore in cui Jonathan teneva i vecchi scatoloni. Louisa ne trovò uno con il suo nome sopra. Dentro c’era un vecchio gioco da tavola.

«Il pirata e il viaggiatore», disse. «Mi ricordo di quando ci giocavo con mio padre. Sceglievi una carta e in base a quella iniziavi il tuo viaggio, poi con una trottola stabilivi di quanti passi ti potevi muovere e chi arrivava prima vinceva. E si basava sulle vere linee ferroviarie e le vere rotte delle navi a vapore. Dio, quanto tempo che non lo vedevo!».

«Pensi che a Conor potrebbe piacere?»

«Non ho idea. Vediamo che altro c’è».

«Forse gli piacerebbero dei soldatini».

«Non ne avevo».

«Mia madre deve aver conservato quelli di Elliot».

Louisa la guardò. «Ti prego, non dire a Irene che Conor verrà da me. Non posso permettermi le sue interferenze in questa fase. Le cose saranno già abbastanza delicate senza di lei».

«Capito», disse Margo.

«Di sicuro avevo un meccano, dev’essere da qualche parte».

«Ma non è un gioco per ragazzi?»

«Era mio padre a comprarmi i regali, e ho ricevuto spesso cose pensate per i maschi. Mi piacevano».

«E poi perché mai le ragazze non dovrebbero poter costruire oggetti come i maschi».

«Sono d’accordo. Comunque, se riusciamo a trovarlo, potrebbe tornarci utile».

In un’altra scatola con il suo nome scritto sopra trovarono un orsetto di peluche con un occhio solo e la pelliccia tutta logora.

«Oddio, è l’orsetto Albert. Ci ho dormito tutte le notti fino ai dodici anni. Guarda le braccia, tutte molli». Lo annusò e lo strinse a sé. «Chissà, magari a Conor potrebbe piacere Albert».

L’orsetto aveva risvegliato in lei molti ricordi, e stare lì circondata da tutti quei cimeli della sua infanzia la turbava un po’. Albert le era stato di grande conforto dopo la morte di sua madre, e a lui confidava i suoi più intimi segreti.

«Che altro c’è?», chiese Margo.

Sospirò, interrompendo il flusso dei ricordi.

«Avevo dei puzzle, ma non ho mai posseduto trenini o macchinine. Vediamo se ci sono altre scatole».

Margo tirò fuori una scatola con su scritto Noè. «Chissà cosa c’è qui?»

«Dovrebbe essere la mia arca di Noè in legno, ci giocavo tantissimo».

Margo sciolse lo spago e aprì la scatola. Tirò fuori una piccola zebra. «Che bella». Continuò a tirar fuori altri animali, la figurina di Noè e di sua moglie, e infine l’arca. «Sono fatti benissimo».

«Me ne ero scordata», disse Louisa.

Era davvero bello ritrovare quei giocattoli, ma Louisa ricordava bene quanto fosse stata triste la sua infanzia, dopo la morte di sua madre. Le sembrava di sentire ancora quella solitudine, la consapevolezza di non essere come le altre bambine. E non le fu difficile immaginare come doveva sentirsi Conor dopo aver perso il padre e la madre. Ora forse si sarebbe sentito anche respinto da Leo. Si augurò con tutto il cuore che fosse la scelta migliore.

Si ricordò improvvisamente di una collezione di farfalle che le aveva regalato un amico di suo padre. Forse Conor l’avrebbe apprezzata.

Trovarono la teca di farfalle, raccolsero gli altri giocattoli e impacchettarono tutto per riportarlo a casa. Prima di uscire Louisa vide suo padre nello studio e chiese a Margo di aspettarla mentre lo salutava.

«Pensavo che fossi al laboratorio», gli disse.

Lui le sorrise. «No, ho un po’ di scartoffie da sistemare qui».

«Sono appena stata di sopra a recuperare qualcuno dei miei vecchi giocattoli», spiegò. «Conor starà da me durante la settimana».

Il padre ne fu sorpreso e si alzò di scatto dalla sedia. «Santo cielo, mi sembra davvero poco assennato. Ne sei sicura?».

Guardò il padre e sospirò. «Per quanto possibile, sì. E poi avrò l’aiuto di Leo».

«Ma… è il figlio illegittimo di Elliot».

«Conor non ha nessuna colpa, ti pare?»

«Non credi che sarà terribile per te?»

«Forse».

Jonathan era molto in pensiero. «Non ti preoccupi di cosa diremo alla gente? Sai quanto sparleranno, staranno tutti a chiedersi chi è il bambino che improvvisamente viene a vivere da te».

«Dirò che… non lo so».

«Pensaci. Le chiacchiere sono già tante, rischia di essere vittima di molti pregiudizi, specialmente se deve andare a scuola. La gente sa essere molto crudele, hai presente Elspeth Markham?».

«Pensavo di mandarlo a scuola, infatti. Ma hai ragione, le persone già sanno che Elliot aveva un figlio, ho sentito qualcuno che ne parlava al ballo».

«Sarà bene che tu sia preparata al peggio».

Louisa annuì.

«Certo, è una decisione tua, ma ti prego pensa a quel che ti ho detto. Per cambiare argomento», aggiunse con un altro tono, «ieri ho incontrato De Vos vicino a casa tua. Quando mi ha visto se n’è andato».

«Immagino che voglia i soldi».

«Non si è più fatto vivo?».

Scosse la testa.

«Assicurati di chiudere bene tutte le porte».

Il giorno in cui Leo accompagnò Conor da Louisa la pioggia era cessata e il cielo era di un color azzurro slavato. Erano arrivati a bordo del furgone, finalmente riparato, che era una vecchia ambulanza militare. Non era il caso di portarlo in moto, soprattutto considerando il bagaglio.

Louisa e Margo lo videro scendere dalla macchina con gli occhi bassi e inespressivi.

«Dài, Conor, di’ ciao a Louisa».

Il ragazzo non parlò.

«E lei è tua zia, Margo».

«Ciao, zia», le disse guardandola timidamente.

«Ciao», gli disse lei. «Spero che diventeremo grandi amici».

Non rispose, ma almeno – pensò Louisa – l’aveva salutata. Forse gli ci sarebbe voluto un po’ di più per comunicare con lei. La cosa la metteva a disagio, ma c’era da aspettarselo in un ragazzo tanto traumatizzato.

«Hai tempo per bere qualcosa, Leo?».

Scosse la testa. «Mi dispiace, sono già in ritardo».

Il piccolo gettò le braccia al collo di Leo e lo strinse forte.

Leo si chinò. «Conor, ti riporto alla piantagione alla fine della settimana, te lo prometto. Ma ora che sei a Galle devi andare a scuola e Louisa ha accettato di prendersi cura di te».

«Ma io voglio te e Kamu».

Leo lo accarezzò. «Dài, lo sai anche tu che non potrebbe funzionare. Sei un ometto, e sono sicuro che sarai coraggioso».

Conor lasciò la presa e diede un calcio alle ruote del furgone.

Leo sospirò, mentre Louisa pensava a quanto le apparisse solo e piccolo quel bambino.

Leo gli si avvicinò di nuovo e si piegò sulle ginocchia. «Te l’ho spiegato, e poi sarà solo temporaneo. Qui avrai tantissime cose nuove da fare, non è vero Louisa?»

«Tantissime».

Conor scoppiò a piangere e Margo si avvicinò, si chinò e gli prese una mano. «Ti va di venire dentro con me? Louisa ha dei giocattoli da mostrarti».

Si tirò un po’ su.

«Ti piacciono i giocattoli?».

Annuì.

«Dài, allora andiamo. Rivedrai Leo il primo giorno di scuola e poi alla fine della settimana. Vedrai che il tempo volerà». Entrarono in casa, lasciando Leo e Louisa fuori.

«Per fortuna c’è Margo», disse Louisa. «Mi odia».

Scosse la testa. «Non ti odia, è che ancora non si fida di te».

«Forse intuisce le mie emozioni, il mio conflitto».

«Se preferisci non…».

Si morse un labbro. «Sembra così triste».

«Vedrai, andrete d’accordo. È tutto molto nuovo per lui, gli serve solo tempo».

«Spero che tu abbia ragione».

Allungò una mano per prendere la sua. «Grazie di tutto».

Capì dal suo sguardo quanto dovesse pesargli la situazione. «E se una sera hai modo di fare un salto qui, ti prego fallo. Ho anche posto per ospitarti a dormire».

«Mi piacerebbe, ma per ora penso sia meglio di no».

Louisa annuì, non senza un brivido di delusione.

Le sorrise. «Ci vediamo il primo giorno di scuola».

40

Quella sera, dopo che Conor si fu addormentato, Louisa restò a leggere in salotto e sperò che Margo fosse ancora sveglia. Era in ansia – in fondo che ne sapeva lei di bambini – soprattutto considerando che fino a quel giorno Conor aveva condotto una vita molto particolare e che stava attraversando un lutto profondo. Aveva fatto del suo meglio perché si sentisse a casa, ma era comunque tesa. E la sua somiglianza con Elliot non era affatto d’aiuto.

Stava per andare di sopra quando sentì un leggero colpo alla finestra. Si alzò per andare a vedere cosa fosse e scoprì con sorpresa che era Leo. Corse ad aprire la portafinestra.

«Che succede?», sussurrò. «Mi devo preoccupare?»

«Avevo solo voglia di vederti. Ti secca che sia venuto qui così tardi?», sorrise. «Non volevo suonare il campanello e svegliare tutti quanti, ma dato che mi avevi invitato a passare…».

Louisa non riuscì a smettere di ridere. «Non intendevo a quest’ora…».

«Ma sono solo le undici e mezzo».

«Entra, dài. Ma non svegliamo la servitù. Non voglio alimentare pettegolezzi».

«Potremmo restarcene seduti qui fuori a guardare le lucciole».

«Ottima idea, prendo il mio scialle».

Leo andò a sedersi sulla panchina più lontana in modo che nessuno potesse sentirli e – una volta recuperato il suo cachemire – Louisa lo raggiunse.

«Mi piace quest’ora della sera», disse accomodandosi accanto a lui senza toccarlo.

Restò in ascolto dei suoni della notte. I ronzii, il gracchiare, il rumore degli uccelli sugli alberi.

«Eccole», disse lui indicando i piccoli puntini di luce.

«Meravigliose».

C’era un che di proibito a stare con lui in giardino mentre tutti gli altri dormivano, le piaceva quella sensazione. Era notte. Erano soli. Trattenne il respiro.

«Ti piace leggere?»

«Sì, ma in genere preferisco disegnare».

«Dipingi, anche?»

«No, mi piace disegnare palazzi. E tu?»

«Non ho molto tempo per i passatempi, ma la sera mi piace leggere». Si interruppe e le prese una mano. «Louisa, di certo avrai capito cosa provo per te».

Aveva di nuovo pronunciato il suo nome in quel modo che le piaceva tanto. In tono basso. Caldo. Lei non rispose per alcuni istanti, godendosi solo la sensazione che le dava il tocco della sua mano che le accarezzava il palmo.

«Voglio che tu sappia che capisco molto bene cosa hai passato e farò il possibile per non metterci sopra altro carico».

«Ma non lo stai facendo».

«Intendo dire…».

«Lo so. Va tutto bene».

«Sei sicura? Ci sono tante cose che vorrei dirti…», e le baciò il palmo della mano.

Louisa deglutì, sperando che lo facesse di nuovo. «Dimmele», sussurrò.

«Da quando ci sei tu mi sento una persona migliore, e ci sono tante cose che desidero fare con te, posti nuovi che voglio visitare, ma voglio andarci piano».

«Mi piace stare con te… e non mi importa quanto tempo ci vorrà».

Louisa gli poggiò la testa su una spalla, lui l’abbracciò rigirandosi tra le mani una ciocca dei suoi capelli. Gli odori notturni del giardino si mescolavano al profumo del dopobarba. Avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre.

«Stai pensando a Conor?», le chiese e lei sentì il suo respiro caldo vicino alla guancia.

«Sì, sono un po’ preoccupata di non riuscire a farcela».

«Non ti preoccupare. Mi fido di te, non ti avrei mai chiesto di tenerlo qui se così non fosse, credimi».

Restarono seduti in silenzio per un po’. Cosciente della tensione che andava crescendo tra loro, Louisa alzò una mano e gli accarezzò una guancia. Sentì il desiderio di essere ancora più vicina a lui e quando la tirò a sé si lasciò andare completamente.

Leo abbassò la testa e sfiorandole la nuca con la mano la girò per guardarla negli occhi; lei era senza fiato. Poi la baciò teneramente sulle labbra. Louisa si sentiva in fiamme, più viva di quanto ricordasse di essere mai stata. Gli restituì il bacio e si sentì sciogliere. Poi si abbracciarono, il cuore di lui che batteva forte contro il petto di lei. Avrebbe voluto chiedergli di restare, ma con Conor in casa non sembrava opportuno.

«Bene», disse lei infine tirandosi leggermente indietro.

«Non vorrei, ma so che devo andare», fece lui scostandole i capelli dal viso.

«Sì».

Al mattino, dopo colazione, Louisa portò Conor in salotto dove aveva sistemato i vecchi giocattoli trovati a casa del padre. I granelli di polvere volteggiavano nell’aria illuminati dalla luce e la stanza sembrava scintillare. Louisa lo prese come un buon segno, l’inizio di un nuovo giorno. Doveva solo trovare un modo per entrare in relazione con Conor, e sarebbe andato tutto bene. Leo si fidava di lei, e poteva cercare di fidarsi di se stessa a sua volta. Leo. Ogni volta che pensava a lui, il cuore perdeva un battito.

Fece un bel respiro e iniziò a mostrare i giocattoli a Conor, ma fu presto evidente che nessuna di quelle cose avrebbe catturato la sua curiosità. Aveva portato anche dei colori e dei fogli di carta, ma il bambino non dava il minimo segno di interesse. Le spezzava il cuore vederlo così, con lo sguardo fisso a terra, poverino. Sembrava che nulla potesse funzionare per tirarlo su, ma ascoltando il canto degli uccelli in giardino le venne un’idea.

«Ho trovato», disse. «Vado a prendere le farfalle».

Salì in camera e tornò con la scatola di legno, pensando che gli sarebbe piaciuto senz’altro.

All’inizio non sembrava interessato, ma quando Louisa aprì il coperchio la curiosità ebbe la meglio e si avvicinò a guardare. Lei gli sorrise. Gli bastò capire che erano insetti senza vita inchiodati a una base di velluto per cambiare espressione e fare un passo indietro, inorridito.

«Sono morte! Le farfalle sono morte!».

Louisa tentò un altro sorriso. «È una collezione. Pensavo che ti sarebbe piaciuta».

Lui la fissò. «Sono bruttissime».

Corse fuori dalla sala e lo sentì salire le scale e sbattere la porta della sua stanza.

Bene, pensò, proprio una meraviglia.

Louisa passò il resto della mattina a cucire, delusa e sfiduciata. Inizialmente aveva pensato di andare in camera sua, ma si era detta che forse Conor preferiva restare da solo e decise di aspettare che fosse lui a uscire. Margo cercava di tirarla su.

«Non so cosa fare», le disse Louisa.

«Il punto è che nessuna di noi due ha esperienza con i bambini. Non c’è qualcuno a cui potresti chiedere un consiglio?»

«Forse. Gwen Hooper. Ne ha due».

«Perché non la chiami? Se è una persona di cui ti fidi…».

«Assolutamente sì. Ha perso una figlia e la sento molto vicina».

Poi, alle undici, squillò il telefono. Sfortunatamente era Irene, che insisteva perché Margo tornasse a casa. Ormai era l’ora di pranzo e Conor non era ancora sceso, quindi Louisa chiese a Margo di andare a chiamarlo.

Anche il pranzo andò storto. Il bambino fissò il piatto per tutto il tempo senza mettere in bocca niente.

«Che cosa ti piace mangiare?», gli chiese Margo.

«Pancake», rispose. «E biscotti alla cannella».

«Se dici a Louisa cosa ti piace farà in modo che te lo preparino».

«Che altro ti piace?», aggiunse Louisa.

Silenzio.

«Domani devo andare a Colombo», fece Margo.

Il piccolo la guardò con occhi tristi. «Tornerai?».

Gli sorrise. «Molto presto».

«E io posso venire con te?».

Margo scosse la testa. «No, tu resterai qui con Louisa».

Lui fece una smorfia. «Ma lei non è mia zia. Perché devo restare qui? Chi si occuperà di me?»

«Sarà Louisa a occuparsi di te».

Posò la forchetta sul piatto, ostinato. «Io voglio te».

«Lo so, tesoro, ma non possiamo sempre avere quel che vogliamo, giusto? Starai benissimo con lei se le darai una possibilità».

«Ho una fantastica divisa scolastica per te, lo sai?», aggiunse Louisa provando una tattica diversa.

Lui scosse la testa.

«Il quadrimestre inizia domani. Vuoi che andiamo a provarla in camera tua?».

Silenzio.

Louisa e Margo si scambiarono uno sguardo. Sarebbe andata sempre così?

Salirono al piano di sopra e con l’aiuto di Margo riuscì a fargli provare la divisa. Nel pomeriggio decise di lasciarlo giocare in giardino, facendo ben attenzione che non scappasse dal cancello sul retro. Giocare con i cani sembrava in assoluto la cosa che lo divertiva di più, e lo lasciò fare. Quando la pioggia lo costrinse nuovamente in casa, Louisa fece un altro tentativo con i giochi.

«Ti piacerebbe fare un gioco?», gli chiese.

Lui si fece serio e tirò fuori il labbro inferiore.

«Non so se questo lo hai mai sentito nominare, si chiama Il pirata e il viaggiatore. Che ne dici? Ti piacciono i pirati?»

«Non mi piacciono i giochi».

Sollevata che gli avesse almeno rivolto la parola, si sentì di nuovo speranzosa. Se riusciva a farlo parlare, almeno aveva una possibilità di far funzionare le cose.

Quella sera telefonò a Gwen: lei e Laurence avevano in programma di stare due giorni a Colombo e da lì avrebbe potuto raggiungerla in macchina, portandosi dietro la piccola.

Al mattino Margo convinse Conor a indossare la divisa prima di prendere il bus per Colombo. Louisa aspettò Leo sulla porta, perché erano d’accordo che avrebbero accompagnato insieme Conor a scuola. Si sentiva eccitata all’idea di rivederlo, anche se sapeva che avrebbe dovuto nascondere i suoi sentimenti per il bene del bambino. Quando Leo arrivò e le sorrise, il calore che vide nel suo sguardo spazzò via ogni tensione.

«Conor è in giardino», disse.

Le strinse un braccio e andò a cercarlo.

Uscirono di casa. Conor teneva la mano di Leo ma non volle stringere quella di Louisa, e si trascinava svogliato e silenzioso. Leo si accovacciò per dirgli qualche parola di incoraggiamento, che si sarebbe fatto tanti nuovi amici e che avrebbe trascorso un bellissimo finesettimana alla piantagione. Conor gli rivolse un mezzo sorriso, e di nuovo Louisa si sentì commossa da quel bambino. Doveva essere davvero strano per lui, che non era mai andato a scuola. Ma era convinta che fosse la decisione più saggia, e quanto meno sarebbe stata una distrazione, oltre al fatto che non riteneva fosse molto sano starsene tutto il tempo a bighellonare da solo. Attraversarono insieme il cortile e andarono negli uffici, dove Leo presentò Conor alla segretaria. Si erano già sentiti quando aveva chiamato per iscriverlo.

Leo ripartì subito, dicendo che gli sarebbe piaciuto restare di più ma aveva troppe cose da fare. Louisa tornò a casa e si sentì improvvisamente molto sola. Andò in camera di Conor e trovò un bel libro sugli insetti e un altro sugli animali selvatici e gli uccelli. La natura gli piaceva molto, e forse poteva essere un buon canale per arrivare a lui. Passò il resto del tempo a occuparsi di futili questioni domestiche e ordinò un pranzo che sperò gli sarebbe piaciuto.

Quando andò a prendere Conor, trovò ad attenderla la segretaria.

«Prego, da questa parte signora Reeve», le disse allontanandola dagli altri genitori.

Louisa la seguì negli uffici, dove il preside la stava aspettando insieme a Conor. Guardò il piccolo e vide che aveva le labbra rosse e gonfie. «Che cosa è successo?»

«Venga con me, la segretaria baderà al bambino».

Entrarono nel suo ufficio, lui si accomodò dietro un’ampia scrivania invitandola a sedere dal lato opposto. Quella stanza la metteva molto in soggezione, si sentì lei stessa una bambina che stava per essere punita.

Il preside giunse le mani e sorrise. «La nostra è una piccola scuola privata, signora, e abbiamo una reputazione da mantenere. Sono certo che non farà fatica a capirlo».

«Ma cosa è successo?»

«Conor è stato coinvolto in una rissa».

«Perché?».

Guardò in alto prima di incrociare i suoi occhi. «Signora Reeve, vorrei che mi rispondesse sinceramente».

«Ma certo».

«Il bambino è un illegittimo?».

Trattenne il respiro. «Ma questo cosa c’entra?»

«Temo che l’abbiano insultato chiamandolo in un brutto modo».

«Chi è stato?».

Il preside si accigliò. «Il figlio di Elspeth Markham, Colin, è stato il primo. Poi gli altri gli sono andati dietro. Lo hanno chiamato bastardo».

Louisa si irrigidì. «Non è una sua colpa».

«Signora Reeve, non può essere tanto ingenua da pensare che io creda sia colpa del bambino. Non è questo il punto».

«E allora qual è?»

«Il problema sono gli altri genitori. Non posso permettermi di scontentarli. La signora Markham è venuta a parlarmi questa mattina, sapeva che Conor avrebbe cominciato oggi. Ha detto che non possiamo permetterci di avere un illegittimo tra gli alunni e che la sua presenza sarebbe stata un pericolo per la moralità degli altri bambini. E, considerando anche quanto accaduto, temo che Conor non possa continuare a frequentare la scuola».

Louisa non riusciva a smettere di pensare a quanto dovesse essere stata dura per Conor.

«Il bullismo non dovrebbe essere incoraggiato in alcun modo».

«Mi spiace».

Si alzò in piedi, furiosa. «E quindi si arrende così?»

«Non ho scelta».

«E come cambieremo, allora, il modo di pensare della gente?».

Scosse la testa. «Il mio lavoro non è cambiare la testa dei genitori, ma educare i loro figli. Mi spiace molto, signora Reeve. Forse una scuola cingalese sarebbe più appropriata?».

Louisa si girò e andò dritta da Conor. Lo prese per mano e uscì praticamente correndo. Il preside doveva ben sapere che la scuola cingalese non era una valida alternativa, in quanto Conor si sarebbe sentito ancora più diverso. Non aveva altra scelta se non quella di educarlo a casa. Era arrabbiata e triste, e anche in ansia. A quel punto l’avrebbe avuto con sé a tempo pieno. Non vedeva l’ora che arrivasse Gwen.

Rigenerata dal pranzo, trascorse tutto il pomeriggio con Conor, cercando di incoraggiarlo a parlare, ma senza alcun successo. Non era abituato a stare con bambini della sua età, questo lo sapeva, ma non era neanche giusto che stesse sempre in compagnia degli adulti… soprattutto se erano adulti a cui non rivolgeva la parola. Quando erano stati in barca con Leo gli era sembrato rilassato con lei, ma adesso che erano soli le cose sembravano più difficili. Gli domandò cosa gli piacesse tanto della piantagione, se era la foresta, il profumo della cannella o il fatto che si potesse sentire l’odore del mare. Niente, non funzionava. Se solo fosse riuscita a scoprire cosa gli mancava, forse sarebbe riuscita a rimediare. Leo le aveva raccontato che gli piaceva nascondersi, e pensò che se avessero giocato a nascondino magari avrebbe potuto trovare nuovi posti segreti anche lì. Ma sfortunatamente si rifiutò, e quando tirò fuori l’arca di Noè dalla scatola lui la calpestò.

«Questo è troppo», disse lei cercando di mantenere la calma. «Sto solo cercando di aiutarti».

Lui la guardò.

«Prendi quei pezzi e rimettili nella scatola».

Non si mosse.

«Conor, ti sto chiedendo gentilmente di rimettere in ordine gli animali dell’arca».

Silenzio.

Sospirò. «Molto bene. Hai deliberatamente rotto un giocattolo. Forse è meglio che tu vada in camera tua a pensare a quello che hai fatto mentre io rimetto queste cose a posto».

Lui uscì dalla stanza, e lei si sentì svuotata. Solo pensare a Leo la faceva star bene. Chiuse gli occhi e immaginò che fosse seduto accanto a lei. “Mi fido di te”, le aveva detto. Doveva fare in modo che le cose funzionassero con Conor, per amore del bambino, certo, ma anche per Leo. Non poteva deluderlo.

La mattina seguente andò in camera di Conor e vide che aveva vuotato i cassetti. Trovò la finestra aperta, e capì che aveva buttato tutti i suoi vestiti di sotto, in giardino. Era in difficoltà, non sapeva come gestire la situazione e fu presa dal panico.

«Vieni con me», gli disse con le mani sui fianchi. «Dobbiamo andare a riprendere i tuoi vestiti».

Lui rimase dov’era, con le braccia conserte. Invece di migliorare, le cose sembravano peggiorare di ora in ora. Udì un flauto che suonava musica cingalese e guardò di nuovo fuori dalla finestra. Si stavano addensando le nuvole e c’era aria di pioggia, dovevano sbrigarsi a mettere in salvo i vestiti.

«Che c’è, Conor?», disse chinandosi. «Perché non me lo dici?»

«Voglio Leo», disse guardandola intensamente. Louisa sorrise, per alleggerire l’atmosfera. «Leo ha molto da fare, lo sai. Ma verrà a prenderti sabato e starete insieme tutto il finesettimana. Magari potremmo andare di nuovo tutti e tre in barca. Ti piacerebbe?»

«Voglio andarci da solo con Leo».

«E sono sicura che lo potrete fare. Adesso vieni giù, e aiutami a recuperare i tuoi vestiti».

La seguì in giardino. Fu lei a fare gran parte del lavoro, ma almeno era sceso di sotto. Una piccola vittoria.

Il resto della giornata trascorse in modo simile. Louisa provò a leggergli qualcosa, mentre lui sbadigliava rumorosamente per manifestare il suo disinteresse. Quando gli chiese se conoscesse l’alfabeto, prese una matita e lo scrisse alla perfezione. Almeno Zinnia gli aveva insegnato qualcosa prima di ammalarsi. Cercò di indagare se avesse anche qualche nozione di geografia, ma si capiva subito che la cosa non gli interessava. Stesso discorso per la storia. Invece non appena iniziò a buttare giù dei numeri Conor mostrò subito interesse. Nel giro di pochissimo risolse tutte le operazioni che gli aveva dato e subito dopo si raggomitolò sul divano a leggere. Ora sapeva che gli piaceva l’aritmetica e che sapeva leggere. Un buon inizio.

41

Gwen arrivò il venerdì pomeriggio, mentre Conor era fuori a giocare con i cani.

«Sono così felice che tu sia qui», le disse Louisa abbracciandola.

«Sono partita presto. Allora, va un po’ meglio?», si guardò attorno e mise la bambina a dormire sul divano circondata dai cuscini. «Non posso più portarla tanto in braccio ora che è più grande, ma per fortuna si fa ancora molti sonnellini. Dovrò tenerla d’occhio se la lascio qui sul divano. Per la notte ho portato una cesta».

«Ha dei capelli stupendi, ricci come i tuoi».

Gwen sorrise. «Allora, va un po’ meglio?».

Louisa la guardò. Non aveva senso mentire. «A dirla tutta, non so proprio che fare. E…», esitò. «C’è qualcosa che non ti ho ancora detto. Questo bambino che sto tenendo non ha perso solo la madre».

«Ah».

«È il figlio di Elliot».

Gwen la guardò con occhi sgranati, impallidendo.

«Vive in una piantagione di cannella, e durante la settimana è qui con me dato che il suo tutore, Leo McNairn, il proprietario della piantagione, ha molto da lavorare. Leo era il cugino della madre di Conor. Ti racconterò tutto, ma ora vorrei evitare di scendere troppo nei dettagli».

Gwen annuì.

«Tranquilla, potrai dirmi tutto quando sarai pronta».

«Grazie».

«Parliamo di Conor, ti va?».

Louisa annuì.

«Dopo la morte di Liyoni ho tenuto molto d’occhio Hugh, perché mi pareva sin troppo tranquillo per la sua indole. Poi ho capito che era il suo modo di affrontare il lutto e ho aspettato che fosse lui a sentirsi pronto a parlare con me».

«Conor sta soffrendo in silenzio, questo lo so».

«Forse potremmo trovare un modo di arrivare a lui».

«Non lo so».

«Sicuramente si sentirà sopraffatto da tutto quello che gli è successo ultimamente. E l’incidente con la scuola dev’essere stato il colpo di grazia».

«Pensi che ci sia qualcosa che posso fare?»

Gwen era pensierosa, e non rispose subito.

«Forse no», disse infine. «Gli serve tempo per fare pace con due perdite enormi. Parla?»

«Più che altro per farmi capire che non gli vado a genio».

«Sii onesta. A te lui piace?»

«Somiglia molto a Elliot, e non è sempre facile per me. Lo vedo riflesso nei suoi occhi, o nella forma della testa, talvolta negli sguardi. La loro somiglianza mi toglie il fiato e il pensiero di come sarebbero andate le cose se non fosse successo quello che è successo… mi turba».

«Dev’essere dura per entrambi».

«Sì».

«Lui è molto triste, e probabilmente anche arrabbiato. Hugh sicuramente lo era. Magari Conor se la sta prendendo con te».

Louisa indicò il giardino. «Ora è fuori, se ci avviciniamo alla finestra lo vediamo».

Conor stava giocando felice con i cani. Lui tirava la pallina, loro abbaiavano e la rincorrevano per poi riportargliela. Era una gioia vederlo giocare così.

«Credo che la chiave di tutto sia la pazienza», le disse Gwen.

Conor si fermò di colpo, sembrava che avesse sentito qualcosa. Dopo un attimo corse dietro un cespuglio. Raccolse qualcosa da terra e lo cullò tra le mani, finché – alzando lo sguardo – vide le due donne alla finestra. Louisa gli fece un cenno, aprì la portafinestra e uscirono.

C’era una lieve brezza che accarezzava gli alberi e le piante. Louisa si passò una mano tra i capelli. «I miei capelli impazziscono con questa umidità».

Gwen annuì.

«Conor, lei è la mia amica Gwen», gli disse. «Ha portato la sua bambina, ti va di vederla?».

Scosse la testa.

«Che cos’hai lì?», gli chiese Gwen.

«È un uccello», rispose con voce tremante. «Ma credo che non stia bene».

«Posso vedere?».

Annuì e Gwen si avvicinò.

«Non vola e sta tremando».

«Fammi vedere». Osservò l’uccello. «È un colibrì, mi pare. Sembra sotto shock. Osserviamolo per qualche minuto, se non si riprende lo portiamo dentro e gli prepariamo un letto nella tua camera, che ne pensi? Succede che gli uccelli si spaventino, ma in genere si riprendono presto».

Passati cinque minuti senza che l’uccellino desse segni di ripresa, lo portarono dentro.

«Louisa, hai una scatola di cartone?», chiese Gwen.

Louisa trovò una scatola, ci mise dentro una stoffa morbida e praticò dei fori sul coperchio per far passare l’aria. «Pensi che possa andare?», domandò a Conor. Lui annuì.

«Dobbiamo lasciare che si riprenda e tornare tra un’oretta a vedere come sta».

Lasciarono la scatola nella stanza di Conor e scesero in salotto ad aspettare.

«Come gli daremo da mangiare?», chiese lui.

«Più tardi potremmo provare con dell’acqua zuccherata in un contagocce. Magari potresti farlo tu», suggerì Louisa.

Dopo un’ora andarono in cucina e Louisa prese il contagocce. Scaldò un po’ d’acqua e chiese a Conor di metterci lo zucchero. Aspettarono che tornasse a temperatura ambiente. A quel punto gli chiese di andare a prendere la scatola e gli passò il contagocce.

«Per tirare su l’acqua lo devi premere, fai molta attenzione quando tiri su il coperchio, mi raccomando», gli disse.

Conor offrì da bere all’uccello che prese una minuscola quantità di acqua aprendo e chiudendo il becco rapidamente.

«Portiamolo fuori e vediamo se è pronto per volare di nuovo», propose Louisa.

Uscirono in giardino e Conor sollevò nuovamente il coperchio. L’uccellino si guardò attorno e poi, con un battito d’ali veloce, volò via.

Louisa sorrise. «Bravo, Conor. Hai aiutato questo uccellino a star meglio».

Sabato era una giornata luminosa, e Louisa non vedeva l’ora di incontrare nuovamente Leo. Dopo la vicenda dell’uccellino le cose erano un po’ migliorate, ma era stata una settimana molto pesante. Si vestì con molta cura e si pettinò fino a far risplendere i capelli, ripetendosi che non lo stava facendo per Leo, e cercando di ignorare il desiderio di sentirlo di nuovo vicino a sé.

Conor era ancora più eccitato di lei e per la prima volta le sembrò un bambino di sette anni. Le scaldò il cuore vederlo più felice, ed era sollevata al pensiero di avere due giorni tutti per sé. Da quando Elliot era morto si era abituata a stare per conto suo, addirittura a dormire da sola – cosa che non credeva sarebbe mai successa.

Fu sorpresa vedendo arrivare suo padre, con un regalo per Conor, che per il momento – disse – aveva lasciato di fuori.

«Allora andiamo a vederlo che dici, Conor?», disse Louisa.

Il bambino non rispose.

Tuttavia, li seguì e rimase senza parole quando vide una bicicletta nuova di zecca appoggiata accanto alla porta.

«Ma è davvero per me?», chiese a Jonathan con occhi sgranati.

Passò una mano sul manubrio, felicissimo, ma dopo un attimo si fece tutto serio.

«Ma io non so andare in bicicletta», disse.

«Tutti quanti abbiamo cominciato da zero», gli disse Jonathan. «Perché intanto non ci sali sopra e io tengo fermo il manubrio mentre tu pedali?».

Conor era diffidente, ma fece come gli era stato suggerito e presto scomparvero in fondo alla strada. Leo arrivò con il furgone proprio in quel momento e Louisa fu contenta di avere qualche minuto per stare da sola con lui. Non era molto, ma meglio di niente. Per un momento restarono a guardarsi in silenzio, poi parlarono del più e del meno mentre un gatto dagli occhi gialli costeggiava una parete. Louisa avrebbe voluto dire di più, ma Leo allungò una mano, come a volerla rassicurare.

«Mi sei mancata», le disse.

«Anche tu».

Le chiese come fossero andate le cose con Conor. Lei sospirò, le dispiaceva deluderlo ma sapeva di dovergli dire la verità. «Non mi dà molto retta, e niente di quello che faccio sembra funzionare».

«Dagli tempo, sono sicuro che gli piacerai».

«È quello che sostiene anche la mia amica Gwen. È venuta a stare qui un paio di giorni per darmi qualche consiglio. Spero che abbiate ragione. A dire la verità è stato molto faticoso cercare continuamente idee per intrattenerlo. Ma la cosa peggiore è che a scuola non lo vogliono più».

Leo si irrigidì. «E perché?»

«Alcuni bambini l’hanno chiamato bastardo, e c’è stata una rissa. Il preside dice che gli altri genitori si sono lamentati che sia un illegittimo».

Si rabbuiò. «Avresti dovuto chiamarmi».

«Scusa. Sapevo che eri molto impegnato».

«Povero piccolo. E adesso dov’è?»

«Mio padre gli ha regalato una bicicletta e ora gli sta insegnando ad andarci».

«Mi sembra una buona cosa».

«Una mossa da maestro. Conor non l’aveva mai visto prima, eppure l’ha seguito senza fare una piega».

«Buon segno».

«Anche con Margo è tranquillo. Solo io non gli piaccio».

«Probabilmente pensa che tu voglia prendere il posto di sua madre».

Louisa restò in silenzio.

Lui le mise una mano sul braccio, trasmettendole calore sulla pelle nuda. «Sappiamo tutti e due che non è così. E dobbiamo fare in modo che lo sappia anche lui».

Furono interrotti da un grido: «Leo! Guarda!».

Era Conor, che pedalava da solo senza alcuna paura. Jonathan lo seguiva cercando di raggiungerlo, ridendo.

«Hai imparato subito», gli disse Louisa mentre lui smontava di sella e parcheggiava la bici lungo il muro per correre da Leo.

Suo padre sembrava molto soddisfatto e strinse la mano a Leo. «Ce l’ha nel sangue, ha imparato in cinque minuti. La parte più difficile è stata convincerlo a rallentare».

«Possiamo portarcela a casa?», chiese Conor con le guance arrossate e lo sguardo acceso per l’eccitazione. «Ti prego, Leo».

Leo annuì. «La metterò dietro sul furgone».

«Devi stare molto attento quando la userai sul sentiero a Cinnamon Hills, ci sono più buche», si raccomandò Louisa.

Conor la ignorò, ma Leo disse che Louisa aveva ragione, e che doveva andarci piano altrimenti rischiava di cadere.

«Starò attento», disse Conor e poi abbracciò Leo.

Leo caricò la bici sul furgone, sorrise a Louisa e nel giro di qualche minuto erano già andati via.

«Grazie, papà», disse Louisa. «Spero che le cose saranno più facili quando tornerà. La scuola non l’ha voluto, sai?»

«Me l’ha detto Elspeth Markham. A quanto pare sanno tutti che è il figlio di Elliot».

«La cosa ti imbarazza?».

Lui si strinse nelle spalle. «In effetti sì, lo ammetto. Ma solo perché sono arrabbiato con Elliot. Conor è un bravo bambino, e ne ha passate davvero tante. Al diavolo i pettegolezzi, quindi».

Gli sorrise, orgogliosa. Suo padre non la deludeva mai. «Il problema è che non posso educarlo da sola, e mi chiedo se non sia il caso di prendere un tutore».

«Non hai una cameriera francese?»

«Sì, Camille».

«Potresti chiederle di insegnargli un po’ di francese. Io ti darò una mano per la storia e la geografia quando posso. Se tu riesci a coprire la matematica, l’inglese e le scienze».

«Sembra perfetto. Non voglio sovraccaricarlo, è ovvio, ma dovrà pur tenersi impegnato in qualche modo. Se tu potessi dedicargli un’oretta lunedì, credo che sarebbe un buon modo per iniziare: da te lo accetterebbe senz’altro. O magari prima potrei portarlo a fare un giro in bici per vedere quali creature incontriamo strada facendo, e tu potresti vederlo dopo».

«Lunedì va bene per me». La guardò. «Andiamo a passeggiare al Forte. Un po’ di vento nei capelli ti farà bene».

«C’è qui Gwen, sta dando da mangiare alla bambina. Vedo se ha voglia di venire con noi».

Un attimo dopo tornò scuotendo la testa. «No, sta cercando di farla addormentare».

Proprio poco prima che si avviassero arrivò il postino con una busta per Louisa. Lei l’aprì e fece un grande sospiro.

«Di che si tratta?»

«È un messaggio di De Vos. Mi chiede di incontrarci lunedì a mezzogiorno in piazza».

«È firmato?»

«Sì. Evidentemente rivuole i suoi soldi».

Mise in tasca la busta e si incamminarono.

«Un debito legale dovrebbe essere ripagato dal patrimonio di Elliot», disse Jonathan.

Louisa sbuffò. «Quale patrimonio? E comunque non si tratta di un debito legale. Quel contratto era un falso».

«E allora restane fuori. Non hai scelta».

«Non potremmo semplicemente trovare questi soldi e liberarci di loro una volta per tutte?»

«Ma è una cifra esorbitante, e non hai ancora chiarito che fine abbiano fatto i soldi che Elliot aveva sul suo conto. Devono pur essere finiti da qualche parte».

«Credo che una parte sia andata a Zinnia, ma ho trovato una lettera in cui le diceva di voler mettere da parte dei soldi per loro. Purtroppo non so dove altro guardare».

«Quindi lo incontrerai?»

«Penso di sì».

«Vengo con te».

«No, preferirei andarci da sola».

«Perché?»

«Perché credo di doverlo affrontare da sola se voglio davvero liberarmi di lui».

Seguì un breve silenzio.

«D’accordo», le disse il padre. «Fammi sapere se cambi idea. E ora, raccontami come procedono le cose all’emporio».

Louisa gli disse che i lavori andavano avanti, e che credeva sarebbero finiti nel giro di poche settimane. Sperava di riuscire a coinvolgere anche un altro gioielliere.

«Posso darti un contatto», le disse Jonathan. «Lavora i metalli, realizza ogni tipo di spazzola, pettine, ornamento e gioiello».

«È proprio quello che avevo in mente».

Louisa e Gwen andarono a pranzo al New Oriental con la piccola Alice nella cesta, anche se non era più così facile ora che era cresciuta. Per fortuna aveva orari regolari, e avevano organizzato il pranzo in modo che coincidesse con il suo sonnellino.

«Dio mio», esclamò Gwen una volta arrivate. «Era Natale l’ultima volta che sono stata qui. Mi sembra che il tempo sia volato».

Attraversarono l’imponente hall piena di fumo e raggiunsero l’elegante sala da pranzo.

Si accomodarono vicino alla finestra, da dove potevano vedere le persone passeggiare, e dopo che ebbero ordinato Gwen le raccontò della sua vita alla piantagione e di quando aveva conosciuto Laurence a Londra.

«L’ho capito subito che era la persona giusta».

«Amore a prima vista?».

Gwen annuì. «Credo di sì. Eravamo a un ballo, e quando l’ho visto avvicinarsi sorridendo con la mano tesa mi sono sentita già persa».

«Molto romantico».

«Dopo quella volta ci siamo incontrati ogni giorno. I miei non erano contenti che un vedovo di trentasette anni volesse sposarmi, ma capitolarono quando Laurence disse loro che era disposto a lasciare la piantagione in mano a un manager per tornare a vivere in Inghilterra. Io non ne ho voluto sapere. Gli ho detto che se lo Sri Lanka era il posto del suo cuore, sarebbe stato anche il mio».

«E così è stato».

«Sì».

Louisa sospirò. «Volevo raccontarti meglio di Conor».

Gwen le sorrise. «Solo se sei pronta».

Louisa annuì, e le raccontò tutta la storia di Elliot, dei debiti, di Zinnia e di suo figlio.

«Continuo a chiedermi perché l’abbia fatto», disse. «La loro storia andava avanti da otto anni, te lo immagini? Per due terzi del nostro matrimonio».

Gwen allungò una mano per prendere quella di Louisa. «Non è colpa tua».

«È quel che mi ripeto».

«Credimi».

«Penso che sarebbe stato diverso, se avessimo avuto un figlio. Io mi sento molto madre, sai?»

«Dev’essere davvero durissima. Mi dispiace».

Louisa vide passare in strada Janesha, la signora del negozio, e alzò una mano per salutarla.

«È stato così premuroso quando abbiamo perso Julia. Ero convinta di non poter desiderare un marito migliore. E ora mi sento una sciocca».

«Lo sciocco è stato lui, a non capire quello che aveva».

«Il punto è questo. Io credo che lui sapesse quello che aveva, ma che semplicemente non sia riuscito a resistere. La tentazione era troppo forte, ed è andato da lei subito dopo il mio primo aborto. Quello è stato il punto di svolta del nostro destino».

«Sarebbe andata diversamente, se avesse interrotto la storia con lei».

«Forse».

«All’inizio mi sembrava che il mondo mi fosse crollato addosso. Continuavo a ripetermi che non valevo niente, che lui non avrebbe mai fatto quello che ha fatto se avesse avuto una moglie che valeva qualcosa. Mi pareva di essere minuscola, quasi invisibile».

«E adesso?»

«L’inganno ancora mi fa male, ma la rabbia dopo un po’ si affievolisce». Sospirò. «E ora mi sembra di essermi ripresa. Almeno in parte».

«Anche io mi sono sentita persa dopo la morte di Liyoni».

«Come mi dispiace. È una sensazione tremenda. Ora sono più forte. Se non lo fossi, non potrei occuparmi di Conor».

«Magari ti senti più forte, ma certe cose hanno la pessima abitudine di sopraffarci quando meno ce lo aspettiamo».

Arrivò il cibo e si misero a mangiare. Alice mormorò qualcosa nel sonno e Gwen si chinò a controllare che stesse bene.

«Sta sognando», disse accarezzandole la guancia. «Dimmi di Leo».

«Siamo amici».

Le sorrise. «E…?»

«Ha una piantagione di cannella non lontano da Galle. È lì che viveva Zinnia. Erano cugini. È un peccato che fossi impegnata quando è venuto a prendere Conor stamattina».

«Quindi?», insistette Gwen.

«La verità è che mi piace moltissimo stare con lui».

«Ah! È proprio quello di cui hai bisogno».

«Non pensi sia troppo presto?»

«Ti rende felice?».

Louisa ci rifletté. «Mi fa sentire viva, mi dà sicurezza. Abbiamo passato un po’ di tempo insieme e mi viene facile parlare con lui. Vorrei tanto che lo conoscessi».

«Forse ci riuscirò quando riporta indietro Conor domani. È mai stato sposato?».

Louisa scosse la testa.

«Uno scapolo indefesso».

«Sembra, ma non è così».

«Comunque, qualsiasi cosa ti faccia sentire bene è benvenuta. Tutte le cose che hai scoperto di Elliot devono aver affossato la tua autostima».

Louisa annuì.

«A caval donato non si guarda in bocca».

«Davvero lo pensi? Ho tanta paura di commettere un errore. Come si fa a essere sicuri che un’altra persona tiene veramente a te?»

«Dobbiamo ascoltare il nostro istinto».

«Già. Io vorrei tanto fidarmi di Leo, ma dopo Elliot…».

«Non permettere che Elliot ti rovini il futuro. Se è Leo che vuoi, volta le spalle al passato. Devi». Gwen sospirò. «Non so, ma… penso che se la vita ci offre delle occasioni, dobbiamo fare di tutto per coglierle».

«Ma tu sei molto felice con Laurence».

«Sì, ma abbiamo avuto anche noi i nostri problemi».

«Certo. Perdere vostra figlia deve essere stato un colpo durissimo per entrambi».

Gwen abbassò lo sguardo e Louisa si domandò se ci fosse qualcosa che la sua amica non le stava dicendo.

Il resto della giornata trascorse tranquillo. Louisa realizzò che, diversamente da quel che si aspettava, Conor le mancava. E quando Gwen andò a fare un riposino con Alice, la casa le parve sin troppo silenziosa, a parte i soliti scricchiolii del pavimento di legno e i rumori che venivano dalle tubature. Si sentiva quasi un’estranea in casa sua. Lesse un po’, si dedicò al cucito, portò a spasso i cani, mentre continuavano a tornarle in mente immagini di Leo. Il modo in cui parlava, in cui si muoveva, e il modo in cui i suoi occhi scuri scintillavano quando le sorrideva. Lo vedeva così chiaramente che era come se fosse lì con lei. Quel che aveva detto a Gwen era vero: l’aveva aiutata a ritrovare sicurezza in se stessa, e non vedeva l’ora di incontrarlo di nuovo.

Il giorno dopo Louisa si svegliò di soprassalto sentendo piangere un bambino. Non appena aprì gli occhi si rese conto che era stato solo un sogno. Non c’era nessun bambino. Poi, per ironia della sorte, sentì piangere la piccola Alice. Pensò a Conor. Aveva un bambino di cui prendersi cura, ora, e un bambino è sempre un bambino. Conor forse era la sua unica possibilità.

Quel pomeriggio si presentarono a sorpresa Irene e Margo. Louisa era parecchio in ansia e lanciò un’occhiata a Margo mentre le invitava ad accomodarsi in salotto. Margo fece una smorfia e si strinse nelle spalle.

«Mi spiace che vi siate perse il tè», disse loro Louisa. «Invece della solita torta della domenica, abbiamo mangiato una tarte tatin francese, fatta da Camille. È davvero molto brava».

Margo annuì.

«Ceneremo presto, ma avviso il cuoco di preparare al volo un panino, d’accordo?»

«Ci accontenteremo», disse Irene.

«Avreste dovuto avvisarmi che sareste arrivate».

«Mi spiace. Abbiamo preso il bus del mattino», disse Margo. «È stato tutto molto veloce».

«Non starò a girarci tanto intorno», disse Irene. «Sono qui per vedere mio nipote. Margo sostiene che è qui. Non voleva dirmelo, eh…».

Margo chiese scusa a Louisa con il labiale.

Louisa sospirò. «Conor non è qui».

Irene la fissò. «E dov’è?»

«Abbiamo deciso che passerà qui la settimana e con Leo il fine settimana finché non sarà abbastanza grande da andare in collegio».

«Non sono d’accordo. I bambini hanno bisogno di continuità, di stabilità. Tutto questo andirivieni non gli farà bene».

«Siamo convinti che andrà tutto per il meglio».

«Penso che mi fermerò almeno una settimana. Harold non è d’accordo, ma io voglio conoscere il bambino».

Louisa sentì un tuffo al cuore. «Non mi sembra una buona idea, Irene. Aspetta che prenda prima confidenza con me».

«Temo che dovrò insistere».

«Ha bisogno di tempo prima di conoscere persone nuove. È stato un grande cambiamento per lui».

«Ma io non sono una persona qualsiasi, sono sua nonna! Ti avviso, ho chiesto al mio avvocato di preparare una richiesta di affidamento».

Louisa sospirò. Ci mancava solo questa.

Irene era l’ultima persona che desiderava intorno mentre cercava di comunicare con Conor. Anche perché sembrava terribilmente seria sulla questione dell’affidamento. Provò a incrociare lo sguardo di Margo, che però sembrava completamente soggiogata. Louisa si chiese se avesse qualcosa a che fare con la storia del divorzio.

Bussarono alla porta e Camille portò un vassoio di panini.

«Chiedo scusa, Ashan è dovuto uscire. Avete bisogno di altro?»

«Un gin e tonic», chiese Irene.

«Per me solo acqua», disse Margo.

«Già che sei qui, Camille, vorrei chiederti se sei disponibile a dare al ragazzo qualche lezione di francese».

«Sarebbe un piacere, signora».

Appena la ragazza se ne fu andata, Irene si rivolse a Louisa. «Hai appena chiesto a una cameriera di insegnare il francese a mio nipote?»

«È una buona idea. Non è mai andato a scuola, e ha molto da recuperare».

«Non può andare a scuola, qui?»

«Non lo vogliono perché è illegittimo. Anzi, i bambini hanno usato parole diverse…».

Irene sgranò gli occhi. «Non dico che non sia un ostacolo, ma se adottassimo Conor questo cambierebbe il suo status, no? E se andasse a scuola a Colombo…».

Louisa la interruppe. «Non credo che Leo approverebbe, Irene. La piantagione è casa sua. Non è mai stato altrove».

«E chi è Leo per il bambino? Da quel che mi dice Elspeth Markham non è che un cugino di secondo grado o qualcosa del genere. In ogni caso, un nonno ha certamente più voce in capitolo».

Camille rientrò con le bibite e la stanza si fece silenziosa. Louisa avrebbe preferito che Irene fosse rimasta a casa sua. La sua presenza complicava molto le cose. Sperò che Conor si comportasse a dovere, altrimenti avrebbe dovuto sorbirsi anche i commenti taglienti della suocera.

42

Leo riportò Conor a casa nel tardo pomeriggio. Il cielo era ancora violaceo e la brezza leggera non annunciava pioggia imminente. Gwen e Louisa uscirono insieme e Louisa presentò Leo alla sua amica.

«È un piacere conoscerti», disse Gwen porgendogli la mano.

«Lo stesso per me», rispose Leo stringendola.

«Com’è stato Conor?», chiese Gwen.

Leo piegò la testa di lato. «Molto bene».

In effetti il bambino sembrava davvero rinato. Sorrise a Louisa e lei notò che aveva anche più colore sulle guance. Si sentì rincuorata e sperò che fosse il preludio di una settimana più facile.

«È andato in bicicletta praticamente tutto il tempo», aggiunse Leo. «Gli ho detto che può andare in bici anche qui se qualcuno lo accompagna».

«Io adoro andare in bicicletta», disse Louisa abbassandosi a parlare con Conor. «Da bambina passavo tutto il tempo in bici. Domattina appena ci svegliamo andiamo a fare una passeggiata insieme, se ti va. E più tardi mio padre ti farà lezione di storia».

Uscì anche Margo e mentre lei e Gwen parlavano con Conor, Louisa prese Leo da una parte. «La nonna di Conor, Irene, si è presentata qui. È piena di progetti».

«Ad esempio?»

«Portarlo a vivere a Colombo, tanto per cominciare. Te lo dico, Leo, è l’ultima persona che dovrebbe prendersi cura di lui. Lo rovinerà».

«Dovrà prima vedersela con me, stai tranquilla».

Sospirò. «Spero proprio che tu abbia ragione».

E così, mentre Conor era distratto da Gwen e Margo, Louisa si abbandonò al piacere che le dava stargli così vicino. Qualsiasi cosa fosse, era forte. Le si riempirono gli occhi di lacrime.

«Tutto bene?», le chiese dolcemente.

Annuì.

«Se hai bisogno di me, non devi far altro che chiamarmi. E non solo per Conor. Capisci cosa intendo?».

Annuì di nuovo.

«Ad ogni modo, prima che vada forse potresti presentarmi Irene?».

Proprio in quel momento uscì Irene e guardò Leo e Louisa con aria inquisitoria.

Louisa era paralizzata, ma Leo allungò una mano per presentarsi. «Leo McNairn, sono il tutore di Conor».

Irene fece una smorfia ma gli strinse comunque le mano. «Irene Reeve». Poi si rivolse a Conor e senza la minima esitazione batté le mani e gli andò incontro. «E questo dev’essere il mio caro nipotino. Santo cielo come somigli a tuo padre. Incredibile, non trovi, Louisa?»

«Già, sono due gocce d’acqua», rispose. E senza bisogno di guardare Conor seppe quanto doveva sentirsi sconcertato dall’inattesa scoperta di avere una nonna. Aveva sperato in un incontro più discreto ed era preoccupata che potesse non prenderla bene.

«Bene», disse Leo. «È stato un piacere conoscervi, Gwen e Irene, ma ora devo proprio andare. Fa’ il bravo, Conor».

Conor gli dette un abbraccio e poi fece un passo indietro, come incerto se dire qualcosa. «È davvero mia nonna?», chiese infine.

Leo annuì. «Sì, ma ricorda, è Louisa che si prende cura di te».

Louisa avrebbe preferito presentare Conor a Irene dentro casa, dopo che Leo se n’era andato, ma ormai aveva visto il modo in cui si guardavano e la sua commozione di pochi istanti prima, e sapeva che non le avrebbe risparmiato commenti e frecciatine. Leo e Louisa si avvicinarono al furgone e lui le parlò a bassa voce. «Pensi di riuscire a liberarti una di queste sere? Mi piacerebbe vederti con calma».

Lei ebbe un brivido di piacere. «Sì».

Le sorrise.

«Pensavo di venire qui come l’altra volta, ma con tua suocera in giro credo che nessuno di noi due si sentirebbe a suo agio».

«Che ne dici di martedì? Così Conor avrà il tempo di ambientarsi».

«Benissimo. E non lasciare che Irene ti innervosisca troppo».

«Non ti nascondo che ha in mente di chiedere l’affidamento del bambino».

Socchiuse gli occhi. «Ma scherzi? Non se ne parla!». Esitò. «Ascolta, puoi allontanarti un attimo mentre Conor è con Irene?»

«Ora?»

«Sì».

Annuì. «Solo per poco».

«Dài, andiamo al Forte».

Camminarono vicini, senza sfiorarsi. Nell’aria c’era l’odore del pesce messo a seccare fuori dal negozio. Tutti salutavano Louisa incrociandola, e lei ricambiava.

«Conosci proprio tutti, eh?»

«Più o meno».

«Ti va un gelato?», chiese fuori dalla piccola gelateria.

«Un sorbetto di mango, per favore», disse.

Prese i gelati e gliene passò uno.

Superarono i profumati alberi di plumeria e raggiunsero le mura antiche, da cui guardarono il mare scintillante e argentato del tramonto.

«Sembra eterno, vero?».

Louisa annuì mentre leccava il suo sorbetto seduta sulle mura. «Adoro il profumo salato del mare e il modo in cui cambia continuamente».

«Perché ti piace vivere qui?», le chiese.

«Qui affondano le mie radici».

La guardò e allungò una mano a toccarle il mento, nel punto in cui si era macchiata di gelato. Lo tolse con le dita e poi se le leccò.

«Grazie», disse lei.

«E non vivresti mai da nessun’altra parte?», le chiese.

«Dipende dal motivo dell’eventuale spostamento. E tu?»

«Credo che la piantagione sia il primo posto che ho chiamato casa. Mi piace avere controllo sulla mia vita».

«Prima non era così?»

«In un certo senso, sì. Ma molte delle mie decisioni erano frutto del caso. Mentre questa è una cosa che ho scelto e a cui ho dedicato effettivamente anni della mia vita».

«E adesso hai anche Conor di cui occuparti».

Annuì. «Questo cambia tutto».

«Leo, tu pensi che la fiducia sia più importante dell’amore?»

«Forse non è possibile avere l’uno senza l’altra».

«Io mi fidavo di Elliot».

«Abbiamo riposto tutti fiducia almeno una volta in qualcuno che non la meritava».

«Ma non si può lasciare che un solo tradimento condizioni tutta la nostra vita, no? Altrimenti è finita».

Leo si girò e le tirò su il mento. «E ora? Cosa provi?»

«Mi sento come rinata».

La serata andò relativamente bene, e quando Conor si fu addormentato Gwen sorrise a Louisa e le disse quanto le era piaciuto Leo. Si capiva che doveva essere una persona genuina, nonostante l’avesse visto per così poco tempo. «Molto autentico», disse.

Louisa fu contenta di sentirglielo dire ed era anche sollevata nel vedere che Conor si era ambientato un po’ meglio. Si era lavato i denti e aveva messo il pigiama senza fare storie. Le aveva anche concesso di leggergli una storia della buonanotte. E le aveva chiesto di quella bambina di cui gli aveva parlato.

«Quella che aveva perso la mamma».

«È cresciuta».

«Ed è felice?».

Louisa gli sorrise. «Conor, quella bambina ero io, e sì, sono stata molto felice. Non significa che non abbia sentito la mancanza della mia mamma».

«La vedi ancora?»

«E tu, la vedi tua mamma?»

«Sempre. La immagino seduta sul mio letto al mattino, immagino che venga con me a passeggiare quando sono alla piantagione. Le racconto degli animali…».

«E questo è un bene. Le persone che amiamo le teniamo nel cuore».

«Anche quando non ci sono più?»

«Sì anche allora».

Lo accarezzò sul mento, poi si alzò e spense la luce. Per alcuni istanti restò fuori dalla stanza con il cuore leggero. Quella conversazione le aveva rammentato che anche lei da piccola vedeva sua madre in cucina che preparava una torta, con i capelli sugli occhi. Oppure tenersi stretto il cappello quando c’era tanto vento, o raggomitolarsi sul divano a sfogliare una rivista quando fuori imperversava il monsone. Non erano ricordi, ma immagini inventate che le erano servite per consolarsi. Perché i ricordi, quelli veri, erano sfuocati, brevi, un mezzo sorriso, o il calore di un abbraccio. Niente di più.

Più tardi, mentre gli adulti sedevano tranquilli in salotto dopo cena, sentirono Alice piangere e Gwen andò di sopra. Fu allora che Irene parlò.

«Dovrei essere io a mettere a letto il ragazzo. Non pensi che si debba abituare a me al più presto? Quando avrò l’affidamento…».

«Magari quando ti conoscerà meglio», la interruppe Louisa sperando di riuscire a mantenere un tono conciliatorio.

Irene sbuffò. «Con tuo marito nella tomba da meno di sei mesi e già…».

Louisa si irrigidì, ma continuò a tenere un tono tranquillo. «Non credo che siano affari che ti riguardano».

«Ma, davanti al bambino…».

Avrebbe voluto risponderle per le rime, ma non voleva darle soddisfazione quindi proseguì con tono calmo. «Ascolta Irene, Leo e io siamo solo buoni amici. Mi è stato molto vicino durante quello che definirei il periodo più difficile e triste della mia vita, mentre facevo i conti con il tradimento di tuo figlio nei miei confronti e nei confronti del nostro matrimonio».

Irene sbuffò. «Se un marito tradisce, è sempre colpa della moglie».

«Cosa vorresti dire?»

«Se avessi avuto dei figli…».

Louisa si sentì colpita. «Quindi accusi me della sua relazione extra coniugale? E dei debiti cosa mi dici? Anche quelli sono colpa mia?».

Irene si strinse nelle spalle.

Louisa era furiosa. Sentì dei rumori dalla cucina, i passi della servitù e poi il ronzio di una radio. Era quell’ora della sera in cui tutti si affrettavano a finire il lavoro prima di andare a dormire. Di lì a poco la casa sarebbe stata silenziosa, e avrebbe potuto gestire la sua rabbia da sola.

Sua suocera era sempre stata insopportabile, ma questo era davvero l’ultimo colpo – e a meno di non buttarla letteralmente fuori di casa, non c’era modo di incoraggiarla ad andarsene.

Margo si era guardata i piedi per tutto il tempo, ma a quel punto alzò lo sguardo sulla madre.

«Questa è stata davvero un’uscita ingiusta e inopportuna. E credo che dovresti scusarti con Louisa».

«Lo sapevo che l’avresti difesa. Preferisci stare qui che stare con me. Non pensare che non lo sappia. Non mi hai voluto dire perché sei tornata da Londra, ma scommetto che a Louisa avrai raccontato tutto».

Irene si alzò dalla poltrona e Margo le rispose: «E ti sei chiesta perché?»

«Sei mia figlia».

«E tu sei mia madre».

«Allora?»

«Mi sono innamorata di un uomo sposato».

Irene si risedette con un singulto. «Avresti dovuto dirmelo. È finita?»

«No. Sta divorziando».

Irene impallidì. «Oh, Margo! Io proprio non ti capisco».

«Esattamente».

«Questa sì che è una delusione. Penso di aver sentito abbastanza per stasera». E così dicendo tornò in piedi e uscì dalla stanza.

«Mi dispiace, a volte mi chiedo cosa ho fatto per meritarmi una madre così», fece Margo vedendo Louisa scuotere la testa.

«Credo che andrò a dormire presto, che dici? Grazie al cielo domani è un altro giorno e magari sarà migliore di questo».

«Almeno mia madre non si alza tanto presto», osservò Margo. «Così avrai modo di uscire tranquilla con Conor».

Louisa le sorrise.

Poco dopo telefonò Leo. Louisa rispose e bastò il suono della sua voce per farle battere il cuore. «Va tutto bene?», gli chiese.

«Volevo solo sapere se Conor è tranquillo».

«Sì. Mi ha parlato di Zinnia».

«Sono contento. È un passo avanti». Lo sentì tossire e poi la sua voce si fece più roca. «In verità, non volevo solo sapere di lui, ma anche sentire la tua voce».

Lei sorrise, felice. «Anche per me è un piacere sentirti».

«Io… ecco, aspetto con ansia di rivederti».

Un’ondata di calore le scaldò il petto, e sentì che qualcosa di molto importante stava per accadere.

43

Louisa si alzò all’alba con Gwen, che doveva rientrare a Colombo in macchina, e aveva deciso di non aspettare l’ora di colazione. Mise su il tè per lei e preparò del latte per la bambina, poi infilò qualche banana in una busta di carta marrone. Le due amiche si abbracciarono, promettendosi di rivedersi presto, e Louisa la aiutò a portare Alice in macchina.

«Grazie per essere venuta. E grazie per il tuo supporto», le disse Louisa prima di baciarla sulla guancia.

«È stato un piacere, davvero. Dobbiamo assolutamente rivederci a Colombo».

«Sarebbe fantastico. Vai piano».

Poi Louisa tornò di sopra e aprì le imposte per guardare il cielo pallido. Forse la pioggia li avrebbe risparmiati? Si lavò e vestì in fretta e tornò in cucina, dove il cuoco stava già preparando il caffè. Dopo un paio di tazze tornò di sopra a svegliare Conor, sperando di riuscire a sgattaiolare fuori casa prima che Irene avesse modo di rovinare tutto. Lo toccò con dolcezza sulla spalla e lui si svegliò all’istante, guardandola sorpreso.

«È un gioco», gli disse sorridendogli, speranzosa che le cose andassero per il meglio. «Voglio vedere se riusciamo a uscire in bici prima che si sveglino tutti».

Con sua grande soddisfazione il piccolo si alzò e si vestì in silenzio. Buon segno. Forse il suo ottimismo era giustificato.

Mangiarono mango, crema di latte di bufala e miele e poi uscirono in giardino a prendere le bici nel piccolo capanno. Le parve un po’ timido e temette che non avesse voglia di pedalare, poi in un attimo furono fuori.

«Ti va di arrivare al Forte?», propose guardando verso il cielo, che era azzurro con qualche nuvola sparsa mossa da una brezza leggera.

Non chiacchierava ancora molto, ma si avviarono per Church Street e poi lungo i bastioni del Forte fino a Clock Tower. «Sai leggere l’ora?».

Conor guardò l’orologio e sorrise. «Sono le sette e mezza».

«Bravo!».

Continuarono a pedalare, poi si fermarono a guardare il campo di cricket oltre il Main Gate. «Ti piace il cricket?»

«Non ci ho mai giocato», le disse.

«Potremmo chiedere a Leo e mio padre di insegnarti. È divertente. Tuo padre ci giocava spesso».

Conor si incupì.

«Scusami, non volevo rattristarti».

Lui scosse la testa ma non rispose. Louisa sperò di non aver rovinato tutto, ma in cuor suo sapeva che era meglio parlare di Elliot piuttosto che evitare di nominarlo.

Superarono il Main Gate e uscirono attraverso l’Old Gate spingendosi fino al Sun Bastion, che aveva una vista spettacolare sul porto.

«So che ti piacciono le barche».

Annuì.

«Una volta potremmo scendere a guardarle da vicino».

«E Leo può venire con noi?»

«Certo». Girarono, superarono il punto da cui si vedeva il New Oriental Hotel e proseguirono. Una volta a Court Square, dove c’erano il tribunale e una serie di uffici costruiti attorno a giganteschi baniani, scesero dalla bici e fecero il giro della piazza.

«Guarda!», esclamò. Louisa vide che stava indicando un calote verde. «È grandissimo».

«Lo è davvero. Ti piacciono le lucertole?»

«Anche gli uccelli e gli insetti. Ho un libro sugli insetti. Mi dispiace non averlo adesso».

«Dov’è?»

«A casa tua».

«Sai che facciamo? Ti comprerò una borsa, così potrai portarti dietro il libro dove vuoi, anche quando esci in bici, e controllare quello che vedi».

Lui le sorrise ma non rispose. Louisa capì che forse temeva di essersi lasciato andare troppo, e ora si stava ritirando nel suo guscio.

Vide un uomo che vendeva papaya fresca, con o senza peperoncino.

«Ne vuoi?», gli chiese. «Senza peperoncino?».

Annuì, e andarono a sedersi con le loro fette di papaya su una panchina a guardare la piazza che lentamente prendeva vita. Erano arrivate delle persone che si erano messe all’ombra dei baniani e avevano un’aria piuttosto preoccupata.

«Penso che stiano aspettando di entrare in tribunale», disse Louisa. «Ecco perché sono così nervose».

Conor continuò a mangiare la papaya.

Louisa cominciava a sentir caldo, e stava pensando a come abbreviare il viaggio di ritorno in bici verso casa.

«Possiamo andare in spiaggia?», chiese Conor. «Leo mi ha detto che c’è una spiaggia».

«In realtà non è proprio una spiaggia, più che altro è una striscia di sabbia. Ma possiamo bagnarci i piedi. Non è distante».

«E non possiamo nuotare?»

«Non abbiamo il costume. A nuotare possiamo tornarci un’altra volta, che ne dici?»

«Vorrei vedere gli uccelli marini».

Louisa era incantata dal cambiamento di Conor. Era così calmo. La preoccupava molto il modo in cui stava vivendo la morte della madre, ma a parte tutto le sembrava che stessero facendo grandi passi avanti. E man mano che le cose diventavano più facili, anche i suoi sentimenti per lui erano meno conflittuali. Non avevano ancora risolto le rispettive diffidenze, ma erano sulla strada giusta e Louisa si stupì di quanto le piacesse stare con lui.

Lasciarono Court Square e sentirono lo strillo di una scimmia che fece ridere Conor. Louisa si sentì sollevata, avrebbe dato qualsiasi cosa per liberare quel bambino dal dolore.

Arrivarono alla spiaggia del faro e lasciarono le biciclette contro un albero. Lui aveva dei pantaloncini corti e gli bastò togliersi i calzini e le scarpe, mentre lei si arrotolava i calzoni. Raggiunsero cauti la riva e annusarono l’aria salata. Lei indicò gli uccelli che volteggiavano tra le onde.

«Sono piovanelli», disse lui. «Cacciano granchi e gamberetti».

Si guardò per un attimo i piedi e Louisa capì che qualcosa non andava.

«Che c’è?», gli domandò.

Conor esitò prima di rispondere. «Mia madre mi portava sempre in spiaggia».

«Oh, Conor, mi dispiace tanto. Vuoi tornare a casa?».

Lui scosse la testa.

«Deve mancarti tanto».

Le sembrò così sofferente mentre stava lì a mordersi le labbra che avrebbe voluto abbracciarlo stretto. Il suo risentimento era svanito, ormai, e voleva solo trovare un modo per consolarlo.

«Mi piace guardare i piovanelli», disse. «Sono così grassi».

«È vero, sono proprio grassi. Si vede che trovano tanti granchi».

Mentre sguazzavano con i piedi nell’acqua a Louisa sembrava quasi di vedere Elliot, come se stesse camminando lì con loro. Era una visione talmente vivida che la lasciò un attimo senza fiato. Le parve persino di sentire l’odore della sua colonia, di sentire sul collo il tocco della sua mano. “Vattene via”, sussurrò, e si sentì sollevata quando l’immagine svanì. Il piccolo raccolse un po’ di conchiglie, poi si rimise le scarpe e continuarono la passeggiata in bici fino al Point Utrecht Bastion. «Visto quanto è alto?», gli disse.

Lui lo guardò. «Deve essere alto, così le persone riescono a vedere la luce anche da lontano quando sono in mare».

«Proprio così. Ti va di arrivare alla Flag Rock?».

Tornarono in sella alle bici per percorrere il breve tragitto e, giunti a destinazione, il piccolo guardò intensamente il mare prima di voltarsi a chiederle perché si chiamasse Flag Rock.

«Perché è da qui che si avvisavano le navi del pericolo degli scogli, usando diversi mezzi di segnalazione. A volte per avvisarle si sparava anche da Pigeon Island».

«Ci sono molti scogli?»

«Sì, moltissimi. E siccome sono in parte sommersi le navi non li vedono. Ci sono stati tanti naufragi qui attorno».

«Naufragi veri», disse lui incredulo.

«Molti», annuì Louisa.

«Leo mi ha parlato dei naufragi. E anche dei pirati».

Restarono lì a guardare l’oceano e ascoltare le onde. Malgrado il cielo così azzurro il mare era molto agitato.

Si spinsero fino al Triton Bastion, che era il punto migliore da cui guardare il tramonto, gli disse Louisa.

«Quello che vediamo è l’Oceano indiano».

Conor era colpito. «Sei mai stata in India?»

«No. Ma mi piacerebbe andarci. E tu?».

Scosse la testa e poi disse pianissimo: «Mamma diceva che un giorno ci saremmo andati».

«Be’, magari Leo ti ci potrà portare quando sarai più grande».

«Ero arrabbiato con mia madre», disse lui con lo sguardo basso.

«Ah».

«Perché era malata».

«Sono sicura che lei sapeva quanto le volevi bene».

Annuì lentamente. «Lo pensi davvero?»

«Assolutamente sì».

Seguì un breve silenzio durante il quale Louisa ripensò a quel che aveva detto Conor. Povero piccolo. Tormentato dal dolore e anche dal senso di colpa. Non c’era da meravigliarsi che non parlasse tanto.

«Come faremo con la scuola?», chiese.

«Leo non ha ancora deciso niente, ma non dobbiamo preoccuparci».

Tornarono verso casa attraverso Pedlar Street, poi Lighthouse Street e infine Church Street. Louisa sapeva che Conor aveva bisogno di parlare di Zinnia e anche se per ora aveva più che altro cercato di tenerlo impegnato sperava che presto si sentisse abbastanza al sicuro da aprirsi. Il fatto che l’avesse nominata spontaneamente, comunque, era un buon segno.

Quando arrivarono a casa era quasi mezzogiorno, l’ora dell’appuntamento con De Vos. Purtroppo Irene andò loro incontro proprio mentre stavano rientrando.

«Dove siete stati? Ho aspettato tutta la mattina! È stato davvero indelicato da parte tua, Louisa».

«Siamo andati a farci un giro in bicicletta, vero Conor?»

«Ho qui delle buonissime caramelle che ti potrebbero piacere giovanotto, ti piacciono le caramelle?».

Annuì ma non rispose.

«Santo cielo Louisa, l’hai stancato. Non sai proprio niente di come si tira su un bambino». E così dicendo portò via Conor mettendogli una mano attorno alla vita e spingendolo verso il salotto.

Louisa li guardò dall’ingresso e vide Irene accucciarsi davanti a Conor, che nel frattempo si era seduto a terra. Aprì un grande libro illustrato e indicò una delle pagine.

«Ti piacciono gli animali?»

«Sì».

«Bene, questi sono dinosauri».

«Mi piacciono i dinosauri. Mia madre una volta mi ha preso un libro. Non grande come questo».

«Ti va se guardiamo insieme le figure e mi dici che dinosauri sono?».

Conor annuì e Louisa, guardandoli, notò che Conor iniziava già a essere più dolce con Irene.

«Devo allontanarmi un attimo», disse alla suocera che le fece un cenno con la mano come a dire “Sentiti libera”.

Guardò l’ora. Doveva sbrigarsi se voleva fare in tempo per le dodici. Uscì in fretta e raggiunse di nuovo Court Square. L’aria sapeva di spezie e sale, come piaceva a lei, ma non poteva indugiare. Individuò De Vos contro un baniano e lo raggiunse.

«Signor De Vos».

«Lei sa perché ci stiamo incontrando», disse più soave che mai e sorridendo.

«Non ne sono sicura. Sa bene che il contratto che mi ha fornito non è valido».

«Mi spiace. Avrei preferito risparmiarla».

«Risparmiarmi da cosa?»

«Dalla verità. Suo marito mi doveva una grossa somma, signora Reeve».

«E per cosa, esattamente?»

«Debiti di gioco». Scosse la testa. «Mi creda, vorrei anche io lasciar correre, ma ci sono alcuni dei miei soci meno disponibili in questo senso».

«Intende dire Cooper, l’australiano?».

Si strinse nelle spalle. «Voglio solo avvisarla: paghi al più presto il dovuto, perché le cose si sono allungate fin troppo».

«Oppure?».

Non rispose.

Si guardò attorno, la piazza era piena di gente. «Non cedo alle minacce, De Vos, nemmeno a quelle più velate. Come può garantirmi che si tratta di debiti reali? Se non ha prove… è la sua parola contro la mia, perché Elliot non può confermare né negare».

«Le dirò una cosa, signora: il giorno in cui è morto, suo marito stava venendo da me per discutere le modalità di estinzione del debito. Come ricorderà, il primo assegno era a vuoto».

Lei lo fissò.

«Le darò una settimana. E devo insistere, signora Reeve, che paghi l’intera somma».

Poi le voltò le spalle e si allontanò fischiettando. Louisa non sapeva davvero cosa pensare, si domandò se De Vos non le stesse dicendo la verità, in fondo. Ed era furiosa con Elliot e il suo gioco d’azzardo.

Sulla via del ritorno andò a trovare il padre al laboratorio di taglio e lucidatura.

Lo trovò immerso nel lavoro, ma appena la vide le sorrise e si scostò i capelli dal viso con la mano. «A cosa devo il piacere?»

«Ho incontrato De Vos», disse notando quanto fosse stanco suo padre e quanto fossero più grigi i suoi capelli.

La guardò serio.

«Sono preoccupata, mi è sembrato molto determinato», gli disse.

«Una ragione in più per non pagare. Se gli teniamo testa alla fine cederà».

«A meno che lui stesso non debba dei soldi a qualcun altro, a quel Cooper per esempio».

«La polizia ci ha detto di non pagare».

Louisa sospirò. «Mi ha detto che si tratta di debiti di gioco».

«Il che può essere vero, ma anche falso».

«È quel che gli ho detto anche io».

Jonathan scosse la testa. «Devo essere onesto, Louisa. A volte penso che non sarò mai in grado di perdonare Elliot per avere ingannato in questa maniera tutti quanti».

«Non ti è mai piaciuto, vero?».

Il padre scosse nuovamente la testa. «E vorrei non aver cambiato idea».

«Non avrebbe fatto differenza. Sarei andata a vivere comunque con lui, magari a Colombo».

«Hai sempre fatto di testa tua, come tua madre».

Gli sorrise. «Grazie per essere così dolce con Conor. Quella bicicletta gli ha cambiato la vita».

«Il bambino è innocente. Non merita niente di tutto questo, ma non posso fare a meno di chiedermi che ne sarà di lui. Dovrà andare a scuola prima o poi».

«Credo che Leo stia mettendo da parte i soldi per mandarlo in collegio».

44

Il giorno seguente passò molto serenamente. Louisa portò di nuovo Conor in spiaggia prima che Irene si svegliasse e giocarono a palla in giardino con Margo. Nel pomeriggio giocarono a Il pirata e il viaggiatore e Io spio. Nel frattempo Irene annunciò che le carte per la richiesta di affidamento erano partite e presto sarebbero potuti andare davanti a un giudice. Nella luce debole del crepuscolo Louisa si domandò se fosse opportuno andare all’appuntamento con Leo. Da una parte moriva dalla voglia di raccontargli quanti progressi avevano fatto e quanto lei stessa iniziasse a tenere al piccolo, ma dall’altra significava uscire subito dopo aver messo a letto Conor, lasciando campo libero a Irene. Dopo avergli letto la storia della buonanotte il piccolo si allungò per un abbraccio, e Louisa ne fu così felice che non avrebbe potuto non condividere la notizia con Leo.

Quando fu certa che Conor dormiva, ascoltò la ripetitiva e malinconica chiamata alla preghiera dei musulmani e uscì da Galle in direzione di Cinnamon Hills. Era già quasi buio quando scese dalla macchina, e alzando lo sguardo al cielo vide una manciata di stelle nel cielo color indaco. Individuò tra gli alberi un gruppo di volpi volanti.

Leo aprì la porta e le andò incontro. Le piaceva tutto di lui: gli occhi scuri, il calore del suo tocco, il suo aspetto così bello e disordinato, i capelli mossi, il modo disinvolto in cui si muoveva, il fatto che tenesse così tanto a Conor, e il modo in cui gli si illuminava lo sguardo quando le sorrideva. Come in quel momento.

«Sono felice di vederti. Prima di salire voglio mostrarti una cosa».

«Mmh?»

«Una sorpresa».

La prese per mano e la condusse tra gli alberi illuminando lo stretto sentiero con una torcia. La foresta sembrava più fitta nell’oscurità, con le rampicanti avvolte sui rami e le radici che si incrociavano a terra sotto i suoi passi. Alla fine intravide danzare delle luci. Per un attimo si arrestò sentendo l’ululato di un cane selvatico, ma lui le strinse la mano e raggiunsero insieme una radura, dove una mezza dozzina di uomini sedevano a gambe incrociate su dei tappetini attorno a un fuoco. Uno di loro stava suonando piano un tamburo mentre un altro cantava.

«Vieni», le disse Leo colpendo il terreno. «Siediti accanto a me».

Uno degli uomini sorrise a Louisa.

L’aria era piena di fumo e lei iniziò a tossire, ma le passò subito e riuscì a concentrarsi.

«È una specie di poesia ritmica, una forma di narrazione», le sussurrò.

«Ci vieni spesso?»

«Ogni volta che posso. Mi piace tenere saldo il mio legame con gli uomini, qui. Devono sapere che capisco quanto lavorano sodo e quanto io tenga in considerazione la loro cultura».

L’atmosfera era seducente e, chiudendo gli occhi, Louisa ascoltò quei suoni ipnotici.

«Credono che queste poesie li proteggano dagli animali feroci. Sono riti che spesso vanno avanti per tutta la notte».

Restarono per una mezz’ora, poi Leo annuì all’uomo che aveva sorriso, si alzarono e se ne andarono. Louisa guardò il fumo salire verso il cielo e fu contenta che Leo l’avesse portata lì.

Una volta a casa indicò le scale. «Ti va di stare in veranda? Ho dell’antizanzare, non preoccuparti».

Louisa annuì, salirono in veranda e si accomodò su una delle poltrone in rattan, godendosi il dolce profumo dei fiori notturni.

«La piantagione va avanti sulla fiducia reciproca», le disse. «Cerco di essere sempre leale con loro e di proteggere i loro interessi. Credo di averti già detto che questi uomini lavorano a provvigione, ma quello che non ti ho spiegato è che non ricevono un soldo finché non arriva il momento dell’anno in cui vengono ridistribuiti i guadagni».

«Dev’essere dura».

«Però è il modo migliore. Garantisce loro una reale provvigione sul profitto. Nel frattempo provvedo io al loro vitto».

«Capisco».

«A proposito di cibo», disse passandole la lozione antizanzare. «Che ne dici di un riso al curry?»

«Delizioso», rispose lei anche se non aveva molta fame. Si passò la lozione sulle braccia e sui polpacci.

In attesa che Kamu portasse loro la cena gli parlò di Irene.

«Credo faccia sul serio con la storia dell’affidamento. Pensi che abbia qualche possibilità, in quanto nonna di Conor?»

«Può darsi, ma certo sarebbe terribile per lui perdere tutto questo», disse indicando la piantagione. «E io sentirei terribilmente la sua mancanza. Ma perché lo vuole tanto secondo te? Non mi sembra il tipo di persona felice di accogliere in famiglia un illegittimo».

«Infatti non lo è. Ne sarebbe sconvolta, in circostanze normali. Ma è il figlio di Elliot, e prendendosi cura di Conor le sembra forse di poter riportare indietro un po’ di suo figlio. Vuole adottarlo».

Leo era pensieroso. «Conosco Conor da quando è nato, e gli voglio molto bene. Normalmente non lo lascerei mai e poi mai andare da lei… ma mi domando se non sia un atteggiamento egoista. Forse potrebbe fornirgli una famiglia più tradizionale, e i soldi per un’ottima scuola. Tutte cose che io non potrei dargli. Non ora, almeno».

«Non sono d’accordo. Elliot l’ha viziato tantissimo, così tanto da convincerlo che tutto gli fosse dovuto».

«Allora forse dovrei iniziare io stesso una richiesta di adozione formale? Finora ho sempre dato per scontato che sarebbe rimasto con me».

Arrivò la cena e scese il silenzio. Louisa ripensava a Irene e non toccò cibo.

«Non hai fame?», le chiese.

«Non molto. De Vos mi ha dato un ultimatum per quel debito di Elliot. Devo pagarlo tra meno di una settimana».

«Oppure?»

«Non l’ha detto».

«Probabilmente è un bluff».

«Ti dispiace se entriamo quando hai finito? Mi stanno divorando».

Dopo aver mangiato entrarono in casa, Louisa era lievemente a disagio, non sapeva bene cosa aspettarsi e si sedette nervosamente sul bordo di una poltrona.

«Non sembri molto comoda», le disse allungandole una mano.

Fino a quel momento aveva quasi trattenuto il respiro, ma quando lui le sorrise si sentì subito sollevata. Tenendola per mano la fece alzare in piedi. Restarono così, a guardarsi negli occhi senza toccarsi. Dopo qualche istante si sentì sicura e facendo un passo avanti lo baciò sulle labbra, poi indietreggiò per vedere la sua reazione. I suoi occhi erano scuri e luminosi.

Gli sorrise. «Io sono pronta. E tu?».

La prese tra le braccia e la tenne così stretta che poteva sentire il suo cuore batterle contro il petto.

La condusse in camera, dove Louisa sedette sul letto e si tolse le scarpe mentre lui accendeva una candela. La luce della fiammella gli illuminava il viso mentre le si avvicinava togliendosi la camicia. L’attrazione tra loro era fortissima, e non riuscivano a smettere di guardarsi negli occhi. Per lei era incredibile trovarsi così vicina a qualcuno che non fosse Elliot. C’era una profondità in Leo, così diversa dal fascino superficiale di Elliot, che le piaceva davvero. Non era l’uomo burbero che aveva creduto all’inizio, ma era anzi una persona sensibile e gentile.

«Sono fuori allenamento», disse lei.

«Credimi, anch’io».

Rise. «Sono passati sette mesi, ma dicono che sia come andare in bicicletta».

Le sollevò il mento e la baciò sul collo. Poi la guardò negli occhi. Louisa sentì il suo corpo fremere. C’era qualcosa di così toccante nel suo viso serio. Lo prese tra le mani e lo baciò, prima sulle guance, poi sulla fronte. Poi lasciò che le sbottonasse la camicia e le prendesse i seni tra le mani, baciandoli lentamente, fino ai capezzoli. Gemette. Era meraviglioso, ma anche spaventoso, lasciarsi andare così. All’improvviso esitò. Lui se ne accorse e si fermò.

«Louisa?».

Gli sussurrò che andava tutto bene, e dopo essersi tolta con il suo aiuto i pantaloni e gli slip si sdraiò sul letto completamente nuda. Era a suo agio. Lo guardò mentre finiva di spogliarsi e andava a stendersi nudo al suo fianco. La luce della candela disegnava ombre sulle pareti e sul soffitto. Louisa si sentì pervadere da un senso di pace, ne aveva così bisogno. Leo le mise una mano dietro il collo e fece scorrere un dito da dietro il suo orecchio fino allo stomaco. La sentì respirare più affannosamente e la baciò di nuovo. Mentre le loro lingue si esploravano, Louisa iniziò a sollevare i fianchi. Le baciò di nuovo il collo e fecero l’amore, perdendosi in un momento eterno in cui esistevano solo lui e lei.

Dopo, Louisa si sdraiò sulla pancia e lui le accarezzò la schiena.

Era così protettivo, così diverso da Elliot. Non le piacque il fatto di averlo nuovamente paragonato a lui e tornò a concentrarsi sul presente, e su quell’incredibile felicità che provava.

«Conor vorrebbe che gli insegnassi il cricket», disse.

«Quando?»

«Che ne dici di sabato, quando lo vieni a prendere? Potrei chiedere a mio padre di partecipare».

Le si avvicinò. «Hai un profumo delizioso», le disse.

«E tu sai di cannella e tabacco».

«Oh», fece lui con aria delusa.

«Lo adoro».

«Puoi fermarti a dormire?»

«Solo fino all’alba. Voglio essere a casa prima che Conor e Irene si sveglino».

«Allora abbiamo molto tempo».

«Per dormire, intendi?»

«Forse».

Rise e si rotolò nuovamente sulla schiena. «Comunque», gli disse, «Conor mi ha abbracciato quando l’ho messo a letto, e non vedevo l’ora di raccontartelo. Mi sono sentita così felice».

Rientrò a casa all’alba in punta di piedi con le scarpe in mano e andò dritta in cucina a prendere un bicchier d’acqua. Lo mandò giù velocemente e raggiunse l’ingresso sperando di potersene salire in camera senza essere notata. E invece trovò Irene con le braccia conserte ai piedi delle scale. La sua faccia diceva tutto. La fissava con un misto di compiacimento e incredulità. Louisa non sapeva cosa dire e si limitò a guardarla.

«Dunque è questo l’esempio che vuoi dare al bambino? Di una che torna in casa di soppiatto, come un gatto randagio».

«Non volevo svegliare nessuno».

«Lo credo!».

«Io…».

«Il bambino ha avuto gli incubi. Tu non c’eri e me ne sono dovuta occupare io. Prima sarà sotto la mia tutela esclusiva e meglio è». Così dicendo le voltò le spalle e salì di sopra.

Louisa sedette sull’ultimo scalino, furiosa che Irene riuscisse a farla sentire così piccola, ma anche dispiaciuta di non esserci stata quando Conor aveva avuto bisogno di lei. Realizzò che quel bambino significava davvero tanto per lei, e si guardò attorno. Teneva davvero a lui, al figlio di Elliot, e doveva proteggerlo da Irene a ogni costo.

45

Louisa si svegliò sentendo piangere Conor nella sua stanza. Aprì la porta ed entrò in punta di piedi senza accendere la luce. Lo trovò seduto sul letto, illuminato dalla luce della luna, con il volto rigato dalle lacrime. Si ricordò del consiglio che le aveva dato Gwen: la pazienza era la chiave di tutto.

«Conor», gli disse.

Vide le sue piccole spalle scosse dai singhiozzi.

«Lo so che sei molto triste». Lui annuì.

Allungò una mano e fu contenta quando lui la prese.

«Ho paura», disse.

«Di cosa hai paura?»

«Ho paura e basta».

Restarono in silenzio per un po’.

«Vuoi dormire in camera con me?».

Il piccolo annuì e lei lo prese in braccio per portarlo di là. «Ecco, mettiti buono qui. Vado a fare un po’ di cioccolata calda. Ti va?»

«Sì grazie», disse piano.

Andò in cucina e tornò con due tazze fumanti, ma lo trovò già profondamente addormentato.

Il resto della settimana passò. Leo chiamava tutte le sere per chiedere notizie di Conor, anche se lei sapeva che non era l’unica ragione e ogni volta che lo sentiva era felice. Il tempo continuava a essere coperto e il mare agitato. Iniziò a spedire gli inviti per l’inaugurazione di Sapphire, il nuovo grande ed esclusivo emporio di Galle, che sarebbe stata di lì a tre settimane. Le piogge sarebbero finite per quel periodo, e preferiva comunque avere più tempo per sistemare tutto e approfittare del Natale. Voleva che iniziasse a rendere il prima possibile.

La notte Conor andava nel suo letto. Lei gli teneva la mano quando era triste e lui si rannicchiava contro di lei come un cucciolo in cerca del conforto materno. Non l’aveva mai detto a Irene e faceva in modo che si alzassero sempre prima che la suocera si svegliasse. Il venerdì mattina finalmente Irene partì, insistendo per portarsi dietro Margo e annunciando che avrebbe preso accordi con il suo avvocato appena arrivata a Colombo. Lousia fu sollevata. Pensò a Leo. Almeno quel sabato non avrebbero avuto Irene alle costole.

Il sabato mattina non pioveva, e Louisa sperò che i campi di cricket restassero asciutti abbastanza a lungo da permettere loro di portarci Conor. Aspettarono in giardino. Conor fu istintivamente attratto da un arbusto sul fondo, pieno di fiori spontanei, farfalle e colibrì. Poi si rotolò sul prato con Tommy e Bouncer. Louisa ripensò al povero Zip. La polizia non era riuscita a rintracciare nemmeno il ragazzino che aveva consegnato il pacco.

Leo arrivò passando direttamente dal giardino e le sorrise, lei sentì la pelle fremere al ricordo della notte che avevano passato insieme. Conor gli saltò al collo e Leo lo portò in braccio in salotto, dove aspettarono Jonathan.

«Allora? Come te la sei cavata?», gli disse tenendolo sulle ginocchia.

«Siamo andati in bicicletta, a nuotare e poi ho fatto un tuo ritratto. E poi so dire bonjour».

«Fantastico. E chi ti ha insegnato?»

«Camille, è francese».

Neanche a farlo apposta Camille entrò in quel momento, sorrise a Louisa e chiese: «Volete che vi prepari un pranzo al sacco per il cricket?»

«No, sono sicura che torneremo in tempo per mangiare qui».

«Molto bene, signora».

«E che mi dici di Irene, ti è piaciuta?», chiese Leo.

«È ok».

«Bene».

Alla fine arrivò anche Jonathan, vestito di bianco, e partirono tutti verso i campi da cricket. Louisa aveva tirato fuori due mazze da cricket di Elliot e due palle da tennis, e Jonathan aveva disseppellito alcuni paletti per il wicket.

«Veramente dovremmo essere tutti vestiti di bianco», disse Leo quando arrivarono al campo. «E avere un’imbottitura fino alle ginocchia».

«La prima cosa che deve sapere è l’obiettivo del gioco», disse Jonathan.

Leo scosse la testa. «Prima gli faccio vedere come tenere la mazza. Stammi a sentire Conor, la cosa importante è tenere la mazza dritta e giocare sempre in avanti, così, in difesa».

«Ma così è troppo complicato per lui», si intromise Jonathan. «Facciamolo provare». Poi si rivolse a Conor. «Ecco, tieni la mazza, Leo tirerà la palla».

«Continuo a pensare che se impara a tenere la mazza dritta è meglio», disse Leo, ma si allontanò per tirare la palla, più piano che poteva. Conor, combattendo un po’ con la mazza che era decisamente troppo grande per lui, mancò i primi due tentativi, ma la terza volta colpì la palla. Louisa esultò e Conor saltò dalla gioia.

«Ottimo», disse Jonathan. «Ora, in genere ci sono due battitori, uno da una parte e uno dall’altra rispetto al wicket. Quando quello che sta davanti al tiratore prende la palla, iniziano tutti e due a correre e si scambiano di posto. Questa cosa si chiama run».

«Louisa e io possiamo essere i battitori», disse Conor. «Devi correre veloce, Louisa».

Lei annuì, ma non riusciva a togliere gli occhi di dosso a Leo. «Agli ordini, capitano».

«Dovremmo spiegargli meglio il gioco», disse Jonathan.

«Prima che sappia tenere in mano una mazza?», disse Leo sbuffando.

Jonathan si fece serio. «Allora, ci sono due squadre di undici giocatori, e l’obiettivo è di accumulare più run possibili senza perdere giocatori».

«E come si perde un giocatore?», chiese Conor.

«Vedi quei paletti che ho messo dietro di te?»

«Sì».

«Insieme formano il wicket. Dovrebbero essercene altri vicino al lanciatore, dove sta il secondo battitore, in questo caso Louisa. Perdi se gli altri prendono la palla quando la batti, o se riescono a rilanciarla al wicket prima che tu finisca la corsa».

«Quindi io colpisco la palla e poi con Louisa corriamo velocissimi tra un wicket e l’altro e accumuliamo punti?»

«Esatto».

«E se sei fuori che succede?»

«Esci ed entra un altro battitore al tuo posto».

«Ecco, ora però vorrei davvero mostrarti come tenere dritta la mazza», disse Leo. «È importante che tu lo sappia dall’inizio».

Jonathan non era d’accordo. «Ma perché non lo facciamo giocare, invece?»

«Perché così ha più possibilità di colpirla».

Louisa rise. «Forza, voi due. È solo un’amichevole».

E così passò la mattina, mentre Jonathan e Leo discutevano su quale fosse il modo migliore di insegnare al ragazzo a giocare a cricket. Louisa li guardava allegra, e fece anche il suo dovere di secondo battitore, ma la facevano sempre fuori.

All’ora di pranzo Jonathan tornò a casa con Conor, mentre Leo e Louisa li seguivano a distanza.

«Grazie per l’altra notte», le disse accarezzandole una guancia.

Lei gli sorrise, sentendo un’ondata di energia invaderle il corpo.

«Sono felice di vederti. E di vedere Conor così contento. Però volevo dirti due parole in privato».

«Dimmi».

«Ho pensato tanto alla questione di Conor e Irene».

«E?»

«E mi sono detto che forse è un bene che Irene ottenga l’affidamento del bambino».

Louisa si fermò di colpo e lo guardò. «Tu non hai idea di che tipo sia».

«Me l’hai detto, sì».

«Non ti fidi?»

«Scusa, non volevo intendere questo». Scosse la testa. «Conor potrebbe comunque venire a trovarmi quando vuole. Magari durante le vacanze».

«Ma come puoi anche solo prendere in considerazione una cosa del genere?»

«Non potrà restare con te per sempre. Lo sai questo».

«E perché no? Io mi sono molto affezionata a lui».

«Lo capisco, per te potrebbe essere un’occasione, ma…».

«Ma cosa? Ha bisogno di una madre».

Si allontanò di un passo e la guardò. «Se le cose dovessero cambiare, non vorrei mai che tu ne soffrissi».

«Niente deve cambiare».

Scosse la testa. «Ci ho ragionato da ogni possibile prospettiva. Per quanto lo desideri, non sono in grado di dargli quello di cui ha bisogno. Mi spezza il cuore dirlo, ma Irene ha il tempo, i soldi, può offrirgli una casa e inoltre lei e Harold sono i suoi più vicini parenti di sangue».

«Non credo alle mie orecchie! Ma non mi hai ascoltato quando ti ho detto di come ha rovinato il carattere di Elliot?»

«Non ti sembra che potresti essere un po’… di parte?»

«Cosa?»

«Dài, Louisa. Dobbiamo pensare a cosa è meglio per Conor. Irene può permettersi di pagargli un’ottima istruzione. Certo, la piantagione sta crescendo, ma non sono ancora così ricco come vorrei».

«Ma tu lo ami!».

«È vero, lo amo. E sono sicuro che lo amerà anche lei».

«Conor ama te, non Irene. Credevo che pensassi che sarebbe stato meglio con te».

«Lo pensavo».

«Ora invece te ne vuoi liberare. È così? Be’, lasciami dire che sono molto, molto delusa».

«Louisa, sii ragionevole».

«No. Non c’è niente su cui ragionare in questa storia».

«Quando possiamo rivederci per parlarne con calma?».

Le mise una mano sulla spalla, ma lei si scansò. «No. Tu non vuoi assumerti la responsabilità di Conor. Sono felice di aver visto come stanno le cose davvero prima che tra noi le cose andassero oltre. Riportami il bambino domani sera, io vado a casa».

E così dicendo camminò velocemente, superò Conor e suo padre e andò nella sua camera. Si sdraiò sul letto, con la delusione che le premeva sullo stomaco. Pensava che Leo fosse diverso, che tenesse davvero a Conor e che avrebbero trovato un modo per prendersi cura di lui. Lasciarlo nelle grinfie di Irene era la cosa peggiore che potesse decidere di fare.

Il mattino dopo suo padre andò a trovarla e le disse che aveva qualcosa per lei fuori in giardino. Attraversarono la portafinestra e lì, tremante in braccio ad Ashan, c’era un cucciolo di spaniel bianco e marrone.

Ashan le sorrise mentre lo prendeva in braccio. Il cucciolo tirò fuori la lingua e le leccò una guancia. «Oh, piccolino adorabile, come ti posso chiamare?»

«L’uomo che me l’ha dato si chiama Oliver», le disse il padre.

«Oliver è un nome perfetto».

Affondò il naso nel suo pelo e scoppiò in lacrime.

«Cara, mi dispiace tanto. Sono stato inopportuno? Lo so che nessun cane può sostituire Zip».

Louisa scosse la testa. «È perfetto. È stato un gesto bellissimo e Conor impazzirà».

Non vedeva l’ora che Conor tornasse, in effetti, e nel frattempo trascorse la giornata a presentare il cucciolo a Tommy e Bouncer, che annusarono il nuovo arrivato dappertutto prima di accettarlo come un nuovo membro della famiglia. Per gran parte del pomeriggio il piccolo restò a dormirle in braccio mentre lei sfogliava riviste, alzandosi di tanto in tanto solo per portarlo in giardino a fare i suoi bisogni. Se gli altri due erano gelosi, non lo davano comunque a vedere. Così come lei non avrebbe mai ammesso quanto la innervosiva il pensiero di rivedere Leo.

Andò alla porta appena sentì arrivare il furgone. Leo era teso e serio e lei lo guardò appena prima di accogliere Conor dicendogli che c’era una sorpresa per lui.

«La può vedere anche Leo?», chiese.

«Magari un’altra volta. Sono sicura che Leo ha molto lavoro da fare».

Conor abbracciò Leo.

Poi Louisa mise un braccio attorno al ragazzo e gli disse di aspettarla in salotto.

«Bene», disse allora a Leo. «Ci rivediamo il prossimo sabato mattina. Addio».

E si richiuse la porta alle spalle cercando di ignorare il battito impazzito del suo cuore. Voleva che si battesse per Conor, non che scegliesse la via più facile.

Dopo, lei e Conor andarono fuori, dove i cani dormivano uno vicino all’altro. All’inizio non fu facile distinguere il cucciolo tra tutte quelle zampe, ma poi si alzò in piedi e corse loro incontro scodinzolando.

«Si chiama Oliver. Ti piace?»

«È per me?»

«È per tutti e due. Ce lo divideremo. Che te ne pare?».

Lo sguardo felice del bambino mentre accarezzava il cucciolo le diede una sferzata di gioia. Si sentiva molto protettiva, non solo nei confronti del nuovo arrivato, ma di Conor stesso. Avevano superato giorni davvero difficili, eppure ora doveva ammettere che iniziava a pensare a lui come a un bambino suo.

46

Lunedì mattina Louisa ricevette una telefonata di Margo: l’avvocato confermava che in tribunale avrebbero utilizzato solo le fotografie, e non era quindi necessario che tornasse a Londra di persona. In seguito, Himal, il costruttore, andò a portarle un pacchetto. C’era molto vento e Louisa lo fece accomodare all’ingresso.

«Che cos’è?», chiese.

Lui sorrise. «Lo apra. L’abbiamo trovato sotto quelle tavole del pavimento allentate».

Dentro c’era un grosso mucchio di banconote. Sospettò subito che si trattasse dei soldi che Elliot aveva ritirato dal suo conto, ma perché li avesse nascosti ancora non lo sapeva – a meno che non li avesse messi da parte per pagare De Vos. E a proposito di De Vos si chiese se si sarebbe fatto vedere più tardi. La settimana che le aveva concesso era finita, ma non si era ancora fatto vivo. Forse aveva perso la speranza?

«Grazie mille, Himal», disse.

«Ho pensato che le avrebbe fatto piacere».

Lo guardò. «Certo, e sono abbastanza sicura di sapere anche da dove vengono». Poi si interruppe, non voleva rivelare troppo. «Grazie per la sua onestà».

«Non è tutto. Abbiamo un problema, temo».

«Sarebbe?».

La guardò con aria dispiaciuta. «Abbiamo quasi finito, ma uno dei miei decoratori si è rotto una gamba e me ne è rimasto solo uno disponibile, quindi ci metteremo il doppio del tempo. So che voleva inaugurare tra due settimane…».

«Non riesce a trovare un sostituto?»

«Non ce n’è nessuno libero tra quelli che uso di solito. Al New Oriental stanno ristrutturando e al momento sono tutti impegnati».

Louisa ci pensò. «Posso mettermici io stessa. Me la cavo».

«Ma, signora, sarebbe quanto meno insolito».

«Ho dipinto il mio salotto da sola. Mi dia il tempo di cambiarmi e la raggiungo».

Il costruttore sembrava confuso. «Se ne è sicura…».

Sorrise, poi si ricordò di Conor. «Ah», disse. «Porterò con me un bambino. Troveremo il modo di tenerlo impegnato mentre lavoro».

«Magari potrebbe leggere qualcosa».

«O meglio ancora potrei dargli un pennello e potrebbe darci una mano anche lui. Poi se si annoia gli darò dei fogli su cui disegnare».

«Questa settimana finiamo di montare gli avvolgibili».

«Fantastico, grazie».

Rimasta sola, contò le banconote. Erano quasi quindicimila rupie.

Poco dopo era già in tuta da lavoro e aveva dato a Conor una delle sue magliette. Si rimboccò le maniche e si guardò allo specchio.

«Ecco fatto. Che te ne pare?»

«Mi piace dipingere. Mi ha insegnato mia madre».

«Ma noi dipingeremo solo delle pareti, lo sai?»

«Sì, e poi possiamo raccontarlo a Leo».

Louisa annuì, ma a sentire nominare Leo si sentì triste.

Dopo che gli operai ebbero coperto il pavimento di legno e i banconi di ebano con la carta oleata, Louisa diluì un po’ di vernice bianca in un bidone grande e ne passò uno più piccolo a Conor. Poi gli diede un pennello e gli chiese di verniciare la parte bassa del muro, mentre lei salì su una scala e iniziò a fare quella più alta.

Andarono avanti per un’ora, si sentiva solo il suono dei pennelli e il canto degli uccelli fuori dalla finestra. Conor sembrava contento di lavorare con lei e quando Louisa iniziò a cantare lui la imitò. Più tardi si mise a disegnare sui fogli che le aveva portato e quando fu ora di pranzo Louisa scese dalla scala e gli disse che avrebbero mangiato in cortile. Gli pulì le mani e pulì le sue, poi spinse la porta. Il vento si era calmato e il sole inondava il cortile lussureggiante. Tolse un po’ di foglie da uno scalino e lo invitò a sedersi.

«Vieni, sediamoci qui».

Mise il cestino a terra e Conor lo aprì.

«Limonata!», esclamò entusiasta.

«E frutta, e panini con le uova. Li ha preparati Camille e scommetto che sono buonissimi. C’è anche un’insalata di lenticchie».

Con il sole che le scaldava la pelle Louisa pensò a quanto era bello star seduta lì con Conor, specialmente ora che il ragazzo aveva riscoperto l’appetito e mangiava di gusto. Aveva anche smesso di fare incubi e le sembrava che si fosse più o meno ambientato.

«Che buoni questi panini», disse. «Posso averne un altro?».

Lei gli diede un buffetto. «Puoi avere tutti quelli che vuoi».

Himal li raggiunse e disse che era riuscito a trovare un decoratore. Louisa era sollevata. Sperava che potessero finire nel giro di quella settimana, in modo che la successiva tutti gli espositori potessero iniziare a portare le loro cose. L’inaugurazione era prevista per la settimana dopo ancora, con tanto di buffet e bevande. A quanto pareva, la tempistica era di nuovo salva. Andava tutto a gonfie vele, a parte la situazione con Leo, che le dava una grande malinconia, le sembrava di aver perso qualcosa di importante e di cui aveva tanto bisogno. Scosse la testa, era inutile continuare a pensare a quel che sarebbe potuto essere. Non sarebbe mai stata d’accordo con l’idea che Conor vivesse con Irene.

Una volta finito di mangiare guardò il bambino. «Forse per oggi abbiamo dipinto abbastanza, che ne dici di una nuotata? Dopo aver digerito il pranzo ovviamente».

«Sì!», esclamò lui saltando.

Ma i problemi all’emporio non erano finiti, come apprese Louisa quando Himal tornò a trovarla il giorno dopo, a seguito di una notte di burrasca che li aveva tenuti tutti svegli. Le spiegò quel che era successo con espressione serissima.

«Una palma da cocco è caduta sul tetto, signora. Dev’essere stata la bufera. L’abbiamo trovata così questa mattina, la cupola è gravemente danneggiata».

«Oh, no! Cosa possiamo fare?»

«Per il momento abbiamo messo una tenda sulla cupola, perché il vetro non c’è più. Ma avremo bisogno di un ingegnere per avere un rapporto più preciso sullo stato del tetto, e verificare che non ci siano stati altri danni».

«Che tempi prevede?»

«Qualche giorno. Per non parlare del fatto che il vetro stesso ha creato un disastro, e dev’essere tutto ripulito».

«E la mia inaugurazione?», chiese triste Louisa.

«Temo che dovrà rimandarla».

«Ma ho già spedito gli inviti, i miei fornitori hanno organizzato l’invio dei loro prodotti».

«Mi spiace molto, signora».

Mercoledì c’era un bel sole, e con il cuore pesante Louisa passò la mattina a spedire le disdette per gli inviti e le lettere in cui spiegava ai fornitori che l’apertura di Sapphire era rimandata. Al pomeriggio ancora non si era vista una goccia di pioggia, i ragazzini giocavano a palla in strada, mandando in tilt il traffico dei carretti e delle persone. Alle tre Conor chiese il permesso di uscire in bicicletta da solo e Louisa gli disse che poteva andare, a patto che rientrasse per le quattro, l’ora del tè. Gli consegnò un suo vecchio orologio in modo che potesse tenere d’occhio l’ora e verificò che sapesse leggerlo correttamente. C’erano poche macchine in giro, e non era preoccupata, inoltre avevano sempre tutti un occhio di riguardo per i bambini.

Continuava a sentirsi triste per Leo. Incapace di concentrarsi su pensieri più felici guardò fuori dalla finestra per un po’ e poi passò un’oretta a leggere Le vacanze di Hangman, una raccolta di racconti di Dorothy L. Sayers, che William aveva regalato a Margo. A Louisa piacevano i racconti, perché poteva leggerli a piccole dosi e poi dedicarsi ad altro, mentre i romanzi le portavano via intere giornate e con Conor e il nuovo cucciolo non poteva permetterselo.

Alle quattro e dieci Ashan andò ad annunciarle che il tè era servito in sala da pranzo. Il loro tè era sempre molto ricco, con panini, biscotti e una torta, e le piaceva condividerlo con Conor. Fece uscire i cani in giardino e guardò in strada per vedere se Conor stesse tornando. Non c’era segno di lui, doveva essersi allontanato più del previsto, ma non era in pensiero. Lei stessa da bambina passava ore e ore in bici. Tornò in casa e decise di aspettare un altro quarto d’ora prima di controllare di nuovo e di iniziare a prendere il tè senza di lui. Poi richiamò in casa i cani, mise il guinzaglio a Tommy e se lo portò dietro in strada, in cerca di Conor. Erano le quattro e quarantacinque.

Girò in tutti i vari vicoli. All’inizio non trovò traccia di lui, poi vide una bici sbucare da dietro una scatola fuori dal negozio di verdure. La tirò fuori e riconobbe che era quella di Conor. Forse era andato a comprare qualcosa? Entrò a chiedere al proprietario singalese se avesse visto un ragazzo con i capelli ricci e scuri. Il tizio ci pensò un attimo.

«L’ho visto che girava in bici quando sono uscito con una cassa di banane».

«E ci ha parlato?»

«No».

Si sentì in ansia, ma forse era solo una sciocchezza. Doveva aver lasciato la bici per fare due passi a piedi, magari era andato in spiaggia. Andò a controllare, ma non lo trovò nemmeno lì. Guardando l’oceano sconfinato sentì la sua apprensione farsi più forte. Conor non sarebbe mai entrato in acqua da solo, giusto?

Tornò nel labirinto di vicoli e girò per oltre un’ora, ma niente. Andò a prendere la bici e parlò di nuovo con il negoziante.

«Mi sono ricordato di una cosa», le disse. «Quando sono uscito a prendere un’altra cassa, quella di rambuta, ho rivisto il bambino».

«E che cosa stava facendo? Era ancora in bici?»

«No. Stava parlando con un uomo in una macchina verde. Mi ha colpito perché in genere conosco tutte le auto che girano da queste parti».

«E quella non la conosceva?»

«No».

«E poi cos’è successo?».

Scosse la testa. «Ero impegnato a portar dentro la frutta. Forse quell’uomo stava chiedendo indicazioni».

«Grazie», fece Louisa.

Chiese ad altri negozianti, ma non scoprì niente di nuovo, poi tornò a casa spingendo la bici con una mano e tenendo il guinzaglio di Tommy nell’altra. Dove poteva essere andato?

Non aveva scelta, doveva chiamare Leo. Si era appuntata il numero sulla rubrica e la sfogliò per trovarlo, cercando di ripetersi che sarebbe andato tutto bene. Conor sarebbe tornato presto, con aria colpevole e pronto a scusarsi.

Fece il numero sperando che Leo fosse in casa. Erano le sei meno un quarto, quindi con un po’ di fortuna l’avrebbe trovato, considerando che stava per fare buio. Rispose Kamu, ma le disse che Leo era in casa. Aspettò e infine, con un tuffo al cuore, sentì la sua voce.

«Leo», disse cercando di non crollare. «Non trovo Conor».

«Che significa?»

«Esattamente quello che ho detto. Manca da due ore e sono uscita a cercarlo, ho trovato la sua bici ma non lui».

«Resta lì in caso dovesse tornare. Prendo la moto e ti raggiungo subito».

«Ti aspetto».

Non lo vedeva da quando le aveva lasciato il bambino la domenica sera, e notò che aveva un’aria tesa e provata. Voleva essere fredda, ma sapeva che per il momento era meglio mettere da parte i propri sentimenti. Dovevano lavorare insieme per ritrovare Conor al più presto.

«Non mi perdonerei mai se…», poi si interruppe e cercò nuovamente di placare la sua ansia.

«Non facciamoci prendere dal panico», disse lui. «Pensiamo a trovarlo. Hai pensato che potrebbe essere a casa di tuo padre?».

Fece un sospiro di sollievo. «Ma certo, non ci avevo pensato! Andiamoci subito».

Raggiunsero in silenzio casa di Jonathan, Louisa suonò il campanello, mentre Leo abbassò lo sguardo e le disse: «Senti…».

Ma fu interrotto dal maggiordomo di suo padre che apriva la porta. Li fece attendere all’ingresso. «Cosa volevi dirmi?».

Lo guardò nei suoi occhi scuri e intelligenti.

Lui scosse la testa. «Niente che non possa aspettare».

Un attimo dopo arrivò Jonathan, pulendosi le mani su un pezzo di stoffa. «Ho appena finito di fare un po’ di giardinaggio approfittando delle ultime luci», disse.

«Papà, Conor è qui?»

«Non l’ho visto mai oggi. Perché?»

«Non lo troviamo. Ho guardato ovunque».

«Anche a Flag Rock?»

«Non si tufferebbe mai da lassù, è troppo piccolo».

«Magari è andato a vedere quelli che lo fanno».

Leo era già alla porta. «Vado io, Louisa, meglio se resti a casa in caso dovesse tornare».

«Vengo con te, tesoro. Non preoccuparti, lo troveremo, dico bene, Leo?»

«Certo», e così dicendo Leo aprì la porta e uscì.

Mentre andavano verso casa raccontò al padre quel che le aveva detto il negoziante.

«Mmm, però non mi piace», disse.

«Magari gli stava solo dando indicazioni».

«Forse».

Arrivarono a casa e Louisa chiese ad Ashan di portare un whiskey per suo padre.

«E tu non bevi?», chiese Jonathan sedendosi sul divano.

Scosse la testa. «Che facciamo adesso?»

«Intanto chiamo la polizia e segnalo la scomparsa». Si alzò e andò al telefono.

Louisa era agitatissima. Continuava a camminare avanti e indietro e a guardare fuori dalla finestra.

Suo padre tornò in salotto. «Lo cercheranno. Hanno mandato un uomo».

«Potrebbe essersi arrampicato sui bastioni ed essere caduto? Magari è da qualche parte con una caviglia rotta? Presto farà buio, non si vedrà più niente».

«Non fasciarti la testa».

Dopo qualche minuto sentirono la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi.

«È tornato Leo», disse Louisa. Invece Ashan rientrò e con espressione solenne annunciò: «Un bambino ha appena portato questa busta».

Louisa l’aprì e lesse il messaggio. Si portò una mano alla bocca.

«Di che si tratta?».

Passò il foglio a suo padre, che lo lesse e poi la guardò. «Santo cielo!».

«Sì», disse lei quasi strozzandosi.

«Vogliono trentamila rupie. Due volte quel che Himal ha trovato sotto il pavimento, da quel che mi hai detto. È una fortuna: abbastanza per comprare un bel po’ di case».

«Leggi il resto, papà».

«Non chiamate la polizia. Ci metteremo in contatto noi».

Louisa sedette con la testa tra le mani dondolando avanti e indietro.

«Signora», disse Ashan. «Come posso aiutarla?».

Incapace di parlare, Louisa si limitò a scuotere la testa e Ashan si ritirò.

Quando Leo tornò dicendo che non aveva trovato traccia di Conor Louisa guardò il padre. «Fagli vedere il biglietto».

Leo lo lesse, sgomento. «Buon Dio, aspetta che gli metta le mani addosso!».

«Dobbiamo pensare», disse Jonathan.

«Non c’è niente da pensare. Adesso usciamo e li troviamo», scattò Leo.

Louisa guardò entrambi, iniziava a sentirsi caldissima, con il cuore che le martellava nel petto e gli occhi pieni di lacrime. «Ma non sappiamo nemmeno dove andare a cercare. E se gli fanno del male? Oddio, solo il pensiero…».

Jonathan camminava avanti e indietro per la stanza. «Non gli faranno del male perché per loro vale un mucchio di soldi. Dobbiamo parlare con l’ispettore Roberts».

«Hanno detto niente polizia», disse Leo.

Louisa iniziò a piangere. «Non avrei mai dovuto lasciarlo uscire da solo. È colpa mia».

«Non lo devi nemmeno pensare», disse, e per un attimo sembrò che le si volesse avvicinare.

Invece fu Jonathan ad andare da lei a braccia aperte, lei si alzò e lui l’abbracciò stretta.

«Penso che tu abbia ragione», disse infine allontanandosi dal padre. «Dobbiamo coinvolgere la polizia, ma chiarendo subito che sarà necessario agire di nascosto».

Jonathan chiamò Roberts e restarono seduti a bere whiskey in attesa dell’ispettore. Gli avevano detto di passare dal giardino, in caso qualcuno stesse sorvegliando l’ingresso principale.

Roberts arrivò che era già molto tardi.

Come prima cosa convocò Ashan per chiedergli chi avesse recapitato la busta.

«Era un bambino», rispose con sguardo preoccupato. «Gli ho chiesto da parte di chi fosse la busta, ma mi ha solo risposto che un uomo gli aveva dato una rupia per consegnarla».

«Ed era un uomo che non conosceva?».

Ashan scosse la testa. «Non so altro. Mi dispiace di non potervi dire di più».

«Grazie Ashan», disse Roberts passandosi una mano tra i capelli. «Puoi andare».

«Allora?», chiese Leo.

«Sul bambino non sappiamo nulla, ma non abbiamo dubbi su chi ci sia dietro tutto questo».

«De Vos o Cooper, o entrambi», disse Louisa con un tuffo al cuore.

«Ha senso. Devono aver capito che non avrebbero avuto i soldi in nessun altro modo».

Roberts si rimise il cappello che fino a quel momento aveva tenuto in mano. «Vado. Chiamatemi pure a casa se ci sono novità nella notte. Altrimenti ne riparliamo domani, ma preferisco non farmi vedere in giro qui attorno durante il giorno. Non voglio che capiscano che mi avete coinvolto».

«E noi cosa facciamo?»

«Cercate di dormire. Non ho altro da suggerirvi».

Anche Jonathan si alzò. «Lei esca da dietro, ispettore. Io vado via dall’ingresso principale. Ha ragione, Louisa, meglio cercare di dormire un po’».

Quando se ne furono andati Louisa guardò Leo. Tra i due c’era uno strano silenzio.

«Louisa», le disse. «Mi dispiace moltissimo. Mi sbagliavo su Irene».

«Dici davvero?»

«Non so cosa mi sia passato per la testa. Ero preoccupato di non essere in grado di dare a Conor quello di cui ha bisogno, e mi è parsa una soluzione. Ma ora…», allargò le braccia. «Dobbiamo ritrovarlo e giuro che appena l’avremo fatto, non lo lascerò mai più».

«Lo ritroveremo?».

Le si avvicinò. «Certo», disse abbracciandola forte.

Quando infine si allontanarono l’uno dall’altra le disse che avrebbe dormito in una delle camera degli ospiti.

«No», gli disse. «Ho bisogno di sentirti vicino».

Andarono di sopra e si stesero sul letto completamente vestiti. «Abbracciamoci», gli chiese mentre la notte li avvolgeva. «Non credo di riuscire a dormire».

Con lo sguardo perso nell’oscurità, Louisa restò in ascolto dell’oceano e delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, e a ogni respiro aveva più paura. Anche con Leo lì accanto e il calore del suo corpo, le sembrava una notte vuota e solitaria.

47

Dalla finestra vide l’alba pallida tramutarsi in una splendida mattina, con un cielo azzurro e il mare turchese e argentato. Fu sollevata. Trovare Conor sarebbe stato più facile senza pioggia.

Scesero insieme a fare colazione, anche se il toast le rimase fermo in gola e aveva lo stomaco annodato. Dopo aver bevuto un po’ di caffè andò a parlare con tutti i membri della servitù. Avevano mai notato qualcosa di sospetto o sentito qualcosa? Solo la ragazza francese arrossì quando le fece queste domande.

Poco dopo la trovò che piangeva in giardino.

«Che succede?», le chiese Louisa.

Camille scosse la testa e guardò in basso, con le spalle ancora scosse dai singhiozzi.

«Qualsiasi cosa sia non può essere tanto grave».

La ragazza la guardò. «Mi dispiace tantissimo, davvero».

«Ti dispiace per cosa?».

Camille abbassò la testa.

«Ti dispiace per cosa?», ripeté Louisa.

«Mi hanno offerto dei soldi».

«Chi ti ha offerto dei soldi?»

«Mi servivano per mettere insieme la cifra del biglietto per tornare a casa».

Un brivido corse lungo la schiena di Louisa. «Che cosa hai fatto?»

«Un paio di volte ho riferito a un uomo quando sareste usciti e dove sareste andati».

«E come facevi a saperlo?»

«Vi spiavo. Una cameriera sente tutto, signora. Non è difficile».

«Quando è successo?»

«Recentemente, e anche un po’ di tempo fa. Ma non immaginavo che avrebbero preso il bambino».

«Come fai a sapere che sono le stesse persone?»

«Perché è stato lo stesso uomo a chiedermi la settimana scorsa se il bambino aveva il permesso di giocare fuori da solo. Non pensavo ci fosse niente di male, stava parlando di bambini in generale».

«Che uomo era?», le chiese prendendola per le spalle. «Che uomo era?»

«Un australiano. Non so come si chiami. La prego, non mi denunci, non avevo idea che fosse una cosa così seria. Non gli ho detto niente, solo che forse Conor avrebbe avuto ogni tanto il permesso di uscire da solo, ma che non ne ero sicura».

«Non ti sei chiesta perché ti stesse facendo quelle domande?».

Camille scosse la testa.

Louisa avrebbe voluto aggredirla. «Santo cielo. Allora sei stata tu a informarli dei miei movimenti. Da quanto tempo va avanti? Mesi? Dal giorno dell’irruzione?».

La ragazza si schermì. «Cosa mi farà?».

Louisa scosse la testa. «Una cosa è certa: la polizia vorrà parlarti. Stupida, stupida che non sei altro. Se dovesse accadere qualcosa al bambino sarà solo colpa tua».

Louisa e Leo uscirono e andarono in ogni casa e in ogni negozio della città a chiedere se qualcuno avesse visto qualcosa. Lasciarono il Forte alla polizia, che aveva assegnato un uomo in incognito alla ricerca di Conor, nel caso lo tenessero nascosto da qualche parte vicino al mare. Un negoziante disse loro di aver visto un’auto verde con due uomini e un bambino a bordo andare verso Old Gate.

«Significa che sono andati fuori città», disse Leo.

«Potrebbero essere ovunque! Non sappiamo nemmeno se si siano diretti a ovest verso Colombo oppure a est».

Leo sospirò. «Andiamo a casa. Qui non possiamo fare altro».

Erano a casa da circa un’ora, a camminare silenziosamente in cerchio, a sfogliare riviste senza leggerle, a chiedere il tè per poi non berlo, quando lo squillo del telefono li fece trasalire. Ashan rispose, Louisa guardò Leo con speranza, lui le sorrise. Era un momento prezioso, di grande intesa. Ashan chiamò Louisa all’ingresso e le passò la cornetta.

«Lo dirò solo una volta», disse una voce molto camuffata. «A mezzogiorno domani vieni al Sun Bastion con le trentamila rupie. Mettile in una scatola di scarpe incartata come un pacco normale. C’è un magazzino, troverai la porta aperta. Lascia lì il pacco. Hai capito?».

Mormorò di sì.

«Se lo farai, ti riporteremo il bambino. Non chiamare la polizia».

E con un click cadde la linea.

Leo la raggiunse e la trovò con il telefono ancora in mano che tremava dalla testa ai piedi. Si sentì invadere dal calore ed ebbe un attacco di nausea improvviso, come quelli che vengono subito prima di svenire. Leo rimise a posto il telefono e la condusse dolcemente verso il salotto.

«Forza», le disse. «Devi sederti».

Gli riferì cosa le aveva detto quell’uomo al telefono. «Devo avvisare mio padre».

«Aspetta ancora qualche minuto, almeno finché non smetti di tremare».

Louisa respirò a fondo mentre lui le massaggiava la schiena, e poi si alzò.

«Vengo con te», le disse.

«No, è meglio che tu rimanga qui, in caso arrivino altre telefonate».

«Potrei andare io da Jonathan al posto tuo».

«Preferisco andare di persona».

Il tempo era cambiato velocemente, come notò guardando fuori dalla finestra, e il cielo si stava scurendo. Prese l’ombrello e uscì dalla porta principale per avviarsi a casa di suo padre.

Non era distante, ma ogni passo le sembrò lungo un chilometro, e quando arrivò aveva il fiato corto.

Jonathan la fece accomodare nello studio e le portò un bicchier d’acqua. «Con calma», le disse. «Bevi piano, mi raccomando».

Finì il bicchiere e gli raccontò della telefonata.

«Dobbiamo dar loro i soldi», disse. «E se gli fanno del male? È così piccolo, papà!».

Suo padre le accarezzò una mano. «E tu gli vuoi bene, lo so».

«Non avrei mai pensato di provare questi sentimenti per Conor ma farei qualsiasi cosa per riaverlo».

«Sono tantissimi soldi, ma sono d’accordo con te. Tu hai ancora la somma che ha trovato Himal e io cercherò di mettere insieme il resto. È un grosso sforzo, ma sono in debito di qualche favore in giro. C’è in ballo la vita di un bambino, in fondo».

Poco dopo, Leo si presentò dicendo che non riusciva a starsene lì seduto con le mani in mano.

«Sento Roberts», fece Jonathan, «per dirgli della telefonata».

«Lo riporteremo a casa, vero?», disse lei.

«Spero. Ma devi essere preparata. Anche se gli diamo i soldi le cose potrebbero non andare come speriamo», fece Jonathan. «Conor è l’unico in grado di identificare chi l’ha rapito».

«Sentiamo cosa suggerisce l’ispettore», disse Leo.

Aspettarono che Jonathan parlasse con Roberts, il quale disse di aver sguinzagliato per le strade alcuni agenti di Colombo in borghese quella mattina, in modo che fossero meno riconoscibili. Disse anche che gli sembrava più giusto che fosse Leo a recapitare il pacco.

«Dovrei andare io», disse Louisa.

Jonathan scosse la testa.

«Roberts dice di no. I colpevoli potrebbero essere in città, nascosti da qualche parte, e crede che la polizia abbia buone possibilità di prenderli. Ma appena presi i soldi avranno fretta di lasciare Galle. Tutta l’operazione potrebbe essere rischiosa».

Louisa passò il resto della giornata divorata dall’ansia, non riuscì a toccare cibo, ma Leo la convinse a bere almeno un po’ di latte. Non faceva che guardare fuori dalla finestra, pregando che Conor fosse, e restasse, incolume.

«Appena lo riportiamo a casa inizio la procedura di adozione», disse Leo.

«Non so quanto sia andata avanti Irene con la richiesta di affidamento».

«Sono sicuro che il giudice preferirà che Conor resti a casa sua, con un tutore più giovane».

«E la scuola?»

«Sto mettendo da parte i soldi per iscriverlo al collegio».

«Io posso aiutarti». Poi con un nodo alla gola aggiunse: «E se dovessero fargli del male…».

«Non pensarci, Louisa. Dobbiamo convincerci che funzionerà. Dobbiamo».

Leo continuò a parlare del futuro, ma lei sapeva che stava solo cercando di distrarla dal terribile pensiero di quel che poteva succedere se le cose invece non avessero funzionato. Non erano passati molti anni dal rapimento Lindbergh, finito così tragicamente, che aveva sconvolto il mondo. E se non avessero mai più rivisto Conor vivo?

48

Il venerdì mattina Louisa si svegliò molto presto, malgrado avesse dormito poco. Cercò di cacciar via ogni paura. Ma dietro l’apparenza i pensieri la intrappolavano in un groviglio di ansia. Sentiva il respiro di Leo disteso accanto a lei, e una parte di sé sperava che potessero restare insieme per sempre. Ma non così, non con quella tremenda angoscia che la divorava. Leo aprì gli occhi e le sorrise.

«Andrà tutto bene», le disse. «Dobbiamo crederci».

Louisa scosse la testa, realizzando ancora una volta quanto significasse quel bambino per lei. «Ho lo stomaco sottosopra».

«Sono i nervi. È normale. Anche io ho la nausea».

Si vestirono velocemente e uscirono a passeggiare verso il Forte. Louisa guardò il mare, così grigio e ancora pieno di relitti nascosti. Il cielo era pesante, avrebbe piovuto presto. Quando si alzò il vento ogni cosa apparve vulnerabile, come se una gigantesca onda avesse potuto spazzar via tutto.

Si girò verso di lui, che l’abbracciò stretta. Non c’erano parole, solo un’istintiva paura, e un istintivo consolarsi. Le tolse i capelli dagli occhi e lei annuì alla sua silenziosa domanda. Ma non era vero, non stava affatto bene e lui lo sapeva. La prese per mano e tornarono a casa.

Alle dieci era così nervosa che quasi non riusciva a respirare. Gli occhi erano colmi di lacrime ma si sforzava di non piangere. Aspettarono in salotto, camminando attorno ai mobili, sedendosi per un po’ e poi ricominciando a camminare, controllando l’orologio ogni pochi minuti. Ogni tanto Louisa prendeva la mano di Leo e la stringeva forte.

Roberts aveva detto che c’erano degli uomini in borghese a pattugliare la zona, ma Louisa aveva comunque paura che qualcosa potesse andare storto. Col passare dei minuti il cuore le batteva sempre più forte, e vide che anche lui era sempre più nervoso. Jonathan arrivò con l’altra metà dei soldi, e per le undici e mezza Leo iniziò a prepararsi per uscire con il pacchetto.

Quando infine andò via, Louisa si sentì persa, angosciata per Conor e ora anche per Leo. Continuavano a tornarle in mente ricordi del bambino, il giorno in cui l’aveva visto per la prima volta e quanto l’aveva spaventata la sua somiglianza con Elliot. Ripensò al loro legame, cresciuto così tanto in così poco tempo, anche se sapeva quanto il piccolo fosse ancora vulnerabile e sofferente per la perdita di entrambi i suoi genitori. Ne aveva passate troppe, e non poteva pensare che gli accadesse qualcosa di brutto.

Era lontano da lei, lontano da tutti. Salì in camera sua e prese l’orsetto Albert, annusò l’odore di Conor sul cuscino. Si portò l’orsacchiotto al viso e lo cullò, dolorosamente, come fosse un bambino. “Dio, ti prego, fa’ che sia al sicuro, ti prego”, pensò. Poi restò in silenzio ancora per un po’, sperando con tutto il cuore che sarebbero riusciti a riportarlo a casa. Cominciò a mettere in ordine le sue cose. Sarebbe stato felice di trovare la camera in ordine, no? Felice che lei l’avesse messa a posto per quando fosse tornato a casa. Un bel sospiro. Per quando fosse tornato, non se fosse tornato. Quando, non se.

Si chinò a guardare sotto il letto e trovò dei disegni che aveva nascosto. Erano le persone della sua vita. C’era Zinnia, con i suoi lunghi capelli rossi, e un uomo con gli occhi verdi e i capelli scuri e ricci, chiaramente Elliot. C’era un disegno di Conor stesso su una barca da pesca con un uomo dai capelli rossi che doveva essere Leo. Aveva disegnato anche il nuovo cucciolo, Oliver, e infine Louisa che pedalava in bicicletta accanto a lui. Fu emozionante realizzare di essere entrata a far parte della sua vita e le si riempirono nuovamente gli occhi di lacrime.

Aprì la cesta dei panni sporchi e tirò fuori qualche indumento per portarlo di sotto. Non era compito suo lavare i vestiti, ma doveva tenersi occupata altrimenti l’ansia l’avrebbe divorata. Mise un pigiama, alcuni pantaloncini e due magliette nella nuova lavatrice, la prima elettrica che possedevano. Mandava al dhobi le cose più voluminose, ma ormai erano in molti ad avere una macchina come quella, e adesso che c’era Conor si era rivelata particolarmente utile. Uscì dalla lavanderia dopo aver avviato il bucato e andò in giardino, dove Jonathan era seduto su una panchina con lo sguardo perso all’orizzonte.

«Posso farti compagnia?», disse.

Le fece segno di sedersi lì accanto.

«Oddio, è insopportabile».

«Lo so».

Oliver era sdraiato sulla schiena ai suoi piedi e Louisa si piegò ad accarezzargli la pancia. «Conor adora Oliver», disse con voce strozzata.

«Sii forte», le disse il padre.

Lo guardò, si vedeva dalla profonda ruga tra gli occhi che era molto teso. Prese in braccio il cucciolo e iniziò a strofinargli piano le orecchie. L’attesa si era fatta insostenibile, e la mente iniziava a tirarle brutti scherzi facendole immaginare i peggiori scenari possibili. Si sentiva uno straccio. Guardava l’orologio ogni pochi minuti e quando fu trascorsa un’ora esclamò sospirando: «Avrebbe dovuto già farci sapere qualcosa, no?»

«Non per forza».

«Sarei dovuta andare io. Pensi che Leo sia al sicuro?»

«È un uomo in grado di badare a se stesso. Non ti preoccupare».

«Non ci riesco».

Seguì un lungo silenzio e Louisa chiuse gli occhi per pregare. Jonathan le prese la mano e la strinse. Era angustiato anche lui, lo sapeva, ma faceva del suo meglio per non darlo a vedere.

Si sentì un rumore provenire dalla strada e Oliver saltò giù per precipitarsi verso il cancello. Louisa si alzò in piedi e vide il cancello spalancarsi. Con enorme sorpresa vide correre in giardino Conor, seguito da Leo. Conor si fermò, tutto sembrò congelarsi, persino il vento smise di soffiare, Louisa allungò le braccia tremanti verso di lui col cuore in gola. Si guardarono un istante, non sapeva che fare. Voleva abbracciarlo, proteggerlo dal male, non lasciarlo mai più andar via, ma doveva essere lui a fare il primo passo. L’attesa sembrò durare in eterno, ma ecco che di lì a pochi secondi le stava correndo incontro con le lacrime agli occhi. Col cuore gonfio di emozione lo portò sulla panchina con sé tenendolo stretto, avvolgendolo di tutto l’amore possibile. Jonathan si alzò e andò da Leo a stringergli la mano.

«Ben fatto, figliolo», gli disse.

Nel frattempo Louisa stava sussurrando nell’orecchio di Conor. «Sei al sicuro adesso, piccolo. Non ti succederà mai più niente di brutto».

Gli asciugò le lacrime dagli occhi. «È tutto finito. Ecco, guarda, anche Oliver è venuto a darti qualche bacio».

Il cane saltò sulla panchina e iniziò a leccare Conor in viso.

«Vedi, Oliver ti proteggerà».

«Anche Leo», disse guardandola con gli occhi verdi ancora pieni di lacrime.

«Anche Leo», disse lei.

«E tu?»

«Certo».

49

Cinnamon Hills, due mesi dopo

Le piogge ormai erano completamente finite, era un magnifico giorno d’inizio dicembre e Louisa e Conor stavano passeggiando per la piantagione. Conor era eccitato perché la stava portando in uno dei suoi posti segreti. Raggiunsero una radura circondata da rododendri e lui fece una giravolta con le braccia aperte.

«Questo è il mio posto», disse.

Louisa sentì gli uccelli arruffarsi le piume e volare da un albero all’altro, annusò il profumo di cannella e le sembrò quasi di sentire in bocca il sapore salato dell’oceano.

«Ti piace?», le chiese.

«È incantevole. Grazie per avermelo mostrato».

«Adesso dobbiamo lanciare un sassolino più lontano possibile e poi camminare in cerchio. Ti faccio vedere».

Scelse un sasso e con grande concentrazione lo lanciò lontano, poi camminò in tondo facendo strusciare i sandali a terra, con i bastoncini che si frantumavano e le foglie che frusciavano sotto i suoi piedi.

«Ora tocca a te».

Louisa fece come aveva fatto lui e poi risero entrambi per la sua grande concentrazione. Poi gli diede la mano: «Allora, sei pronto per il tuo tè di compleanno?».

Annuì e le sorrise.

Tornarono indietro lungo i sentieri tra gli alberi che le erano ormai familiari. Aveva mantenuto la casa di Galle, e Sapphire stava per decollare dopo un ritardo davvero molto più lungo di quel che aveva calcolato, ma aveva trascorso gran parte degli ultimi due mesi con Conor e Leo alla piantagione.

Leo le aveva raccontato che dopo aver lasciato i soldi del riscatto nel magazzino, la polizia li aveva seguiti mentre fuggivano a bordo dell’automobile verde, ed era riuscita ad arrestare De Vos e Cooper presso una casa abbandonata vicino alla spiaggia, qualche chilometro fuori dalla città, dove tenevano prigioniero Conor.

L’unica nuvola nera all’orizzonte era la battaglia per la custodia legale del bambino, e man mano che si avvicinava la data Leo diventava sempre più nervoso.

Nel frattempo Leo era riuscito a dare a Louisa più di una prova di quanto sinceramente l’amasse, e lei s’immaginava senza difficoltà al suo fianco per il resto della vita. Avevano anche pensato di sposarsi, per rinforzare la richiesta di adozione, ma riflettendoci meglio capirono che la fretta non era l’elemento migliore per un buon matrimonio, volevano che fosse una cosa speciale e slegata da qualsiasi altra. Le aveva comunque regalato un anello di fidanzamento con diamante, che un tempo era appartenuto a sua nonna.

In cima alla collina Conor batté le mani vedendo una tavola apparecchiata fuori di casa, con piatti e bicchieri e otto palloncini, legati a due a due ai quattro angoli.

«Dov’è la gelatina?», chiese mentre Leo andava loro incontro.

«Non possiamo portare fuori le cose da mangiare finché non sono arrivati tutti».

«Ma quando arrivano? Quando?».

Louisa guardò Leo. Era rasato e indossava una camicia bianca, che metteva in risalto la sua fantastica abbronzatura.

Sentirono il rumore di una macchina che risaliva la strada.

«Sono arrivati, sono arrivati!», gridò Conor.

La macchina si fermò e scesero Jonathan, Margo e Irene. Louisa e Leo si scambiarono uno sguardo, erano entrambi molto sorpresi di vederla lì.

Margo andò al portabagagli e tirò fuori un carico di regali.

«Prima i regali, direi, e poi il dolce», disse Leo.

«Sì, sì», fece Conor battendo le mani.

«Tanti auguri», disse Jonathan porgendogli un pacco quadrato.

Conor lo scartò. «È un treno!», gridò. «Un treno vero!».

«È il Lionel Blue Comet», precisò Jonathan. «Una copia del vero treno americano che viaggia in New Jersey. L’hanno dipinto di blu per intonarsi al colore delle coste del New Jersey. Apri la scatola e guarda dentro».

Conor aprì e tutti guardarono, meravigliati dalla precisione dei dettagli. C’era tutto, dai sedili alle luci.

«Dev’esserti costato una fortuna, papà», disse Louisa a bassa voce.

«In effetti sì, ma guarda l’espressione del bambino! E poi i nostri soldi li abbiamo riavuti, no?».

Seguirono altri regali, libri, puzzle, occorrente per dipingere. E infine Irene tirò fuori un piccolo pacchetto e Conor scartò un bellissimo album da disegno rilegato in pelle. «Per te, per disegnare tutti i tuoi insetti», disse piena di sorrisi. «E più tardi, altri regali».

Louisa era molto in pensiero sulle ragioni che avevano portato Irene lì quel giorno, ma dopo che si furono rimpinzati di dolci e torta, mentre Margo e Jonathan aiutavano Conor a montare il treno, Irene chiese di poter parlare con loro in privato. Andarono in veranda, e si accomodarono.

«Volevo solo dirvi, per correttezza, che ho riflettuto molto».

Louisa guardò Leo chiedendosi cosa intendesse.

«Dopo averne parlato a lungo con Harold, che si scusa per non essere potuto venire oggi ma, sapete, questioni di lavoro… anche se ormai dovrebbe andare in pensione da un momento all’altro. Comunque, ne ho parlato anche con Margo e ho capito una cosa».

«Cioè?», disse Louisa.

«Ho capito che tutta la mia battaglia per avere l’affidamento di Conor era solo un modo per cercare di riportare indietro il mio Elliot. Margo mi ha fatto capire che non sarebbe stato giusto nei confronti del piccolo chiedergli di prendere il posto di un’altra persona».

Louisa annuì.

«Margo mi ha anche fatto capire che nessuno dei miei amici avrebbe mai accettato Conor, per via del fatto che è illegittimo, e che questo sarebbe stato davvero difficile da sopportare».

«Va’ avanti», disse Louisa.

«Non posso riportare in vita mio figlio, e cercare di usare il bambino per farlo sarebbe un peso terribile per lui. Non posso riportare in vita nessuno dei miei figli morti, Louisa, proprio come tu non puoi riportare indietro la tua bambina».

«Già», disse Louisa.

«Non è stata una decisione facile. Ero convinta che avrei cresciuto il bambino ed è stata dura lasciarlo andare, come lo è stato anche lasciare andare Elliot, in fondo. È stato doloroso. Ma Conor non è Elliot, e deve restare qui con te, Leo. Io sono troppo vecchia per prendermi cura di un bambino ormai».

«È una saggia decisione, e le sono sinceramente grato», disse Leo.

«E dato che ho ritirato la mia richiesta, immagino che ti concederanno una tutela esclusiva, dopodiché potrai sicuramente adottarlo».

Louisa era colma di gioia. Questa sì che era una sorpresa.

«L’unica condizione è che lo accompagni a trovarmi ogni tanto».

«Non c’è nemmeno bisogno di dirlo, Irene», disse Leo commosso. «Faremo in modo che veda sua nonna con regolarità. Ha la mia parola: sarà una persona importante nella sua vita. Grazie, Irene». Irene si asciugò gli occhi con un fazzolettino. «Ho fatto molti errori con Elliot, ora l’ho capito. E anche se forse mi pentirò di questa scelta, so che è l’unica cosa saggia da fare. Il bene del bambino è la cosa più importante, no?».

Louisa guardò Leo, che sorridendo si alzò in piedi e raggiunse Irene tendendole una mano. «Grazie, grazie davvero».

Poco dopo Louisa e Margo stavano parlando di quanto era successo.

«Sono contenta che abbia funzionato», disse Margo. «È stato molto difficile per mamma rendersi conto di tutto. Sai com’è fatta. Ma alla fine è riuscita a vedere la verità».

«Grazie davvero per aver cercato di farla ragionare».

«Raccontami di De Vos e di quell’orrendo Cooper».

«Sono ancora sotto la custodia della polizia e a breve ci sarà il processo. Sicuramente non saranno in giro per un bel po’. Rapire un bambino è un reato molto grave».

«E grazie al cielo per Leo. Sono tanto contenta di vedervi così felici insieme dopo tutto quello che avete passato. Mi piace davvero, sai?»

«Quel che è successo ci ha avvicinati. L’agonia che abbiamo provato al pensiero di perdere Conor ci ha fatto capire che non avevamo tempo da sprecare».

«Anche io ho delle novità. Per il divorzio ci vorrà ancora tempo, ma William arriva il prossimo mese».

«L’hai detto a Irene?»

«No, ero troppo occupata a farle cambiare idea su Conor e non volevo mettere in mezzo altri argomenti».

«Quindi tornerai a vivere in Inghilterra?».

Margo annuì. «Il suo lavoro è lì e per me sarà più facile trovare un lavoro da infermiera».

«Ma… almeno, ti sposerai qui?».

Margo sorrise. «Solo se il divorzio arriva in tempo».

Quella sera dopo che tutti se ne furono andati e Conor era a letto, Louisa e Leo erano seduti in veranda uno accanto all’altra, coperti di antizanzare.

«Sei felice?», le chiese.

«Più di quanto avrei mai pensato di poter essere».

Guardarono il cielo color indaco. Era una sera limpida e calda, piena di stelle. L’aria sapeva di terra bagnata e legna bruciata.

«Senti l’oceano», disse lei. Le sarebbe piaciuto poterlo vedere, in quel momento, argentato nell’oscurità. «È infinito, non è vero?»

«Ma noi no».

«No».

Si avvicinò a darle un bacio sulle labbra, leggerissimo, che le mandò brividi in tutto il corpo.

«Dobbiamo godere al massimo di ogni momento», gli sussurrò mentre lui le accarezzava il collo.

«Nessun rimpianto», disse lui. «E ricorda che con me non devi mai fingere, perché io capirò sempre le tue difficoltà».

Louisa guardò le stelle. Le giunse inaspettata un’immagine di Elliot, ma scosse la testa e l’immagine scomparve. Non aveva più paura di lui.

«Basta Elliot», esclamò. «Basta a ogni angoscia e visione. Esiste solo il qui e ora. Ci siamo solo tu e io».

«E Conor».

«E Conor».

Poi si strinsero le mani e guardarono verso quella notte calda, con le lucciole che brillavano tra i cespugli accompagnate dal canto delle cicale.

«È tutto così bello», disse lei.

«Bello come te».

Louisa sapeva che ci sarebbero stati momenti difficili in futuro, mentre si abituavano a vivere come una famiglia, ma era felice e insieme avrebbero trovato un modo. L’emporio l’avrebbe impegnata molto, ma ora era più forte di quanto non fosse mai stata.

Due giorni dopo il sole splendeva mentre Louisa ispezionava l’emporio. L’area centrale luccicava degli zaffiri nelle loro teche di vetro e i banconi di ebano scintillavano: un contrasto perfetto con il bianco delle pareti, proprio come aveva immaginato. La galleria al piano superiore era piena dei dipinti di Savi Ravasinghe e nella prima delle sale al piano terra le meravigliose stoffe di seta riflettevano la luce dei lampadari. Anche i commessi erano pronti, intenti a dare gli ultimi ritocchi ai vari prodotti. C’era una tavola imbandita con calici di champagne e vassoi di antipasti.

Louisa accolse calorosamente i primi ospiti. Aveva scelto un abito da sera dorato con uno scialle di seta argentato. In fondo era il punto d’arrivo dopo mesi di lavoro, e voleva che fosse tutto grandioso. Aveva immaginato da subito come sarebbe potuto essere quel posto, e ora eccola lì, raggiante. Leo le sorrideva dall’altro capo della sala mentre Conor girava con i vassoi offrendo da mangiare agli ospiti e suo padre stringeva la mano agli invitati.

Erano venuti tutti i suoi amici e conoscenti, e salutò con piacere anche diversi coltivatori di gomma con le loro mogli. Lo spazio si riempì velocemente, e quando Louisa fece suonare una campanella tutti fecero silenzio.

«Grazie a tutti per essere venuti», disse. «Dichiaro questo emporio ufficialmente aperto e mi auguro che passiate una splendida serata».

Gli invitati applaudirono, e lei si fece indietro per osservare la scena a distanza.

La raggiunse Gwen, con Alice in braccio.

«Oddio, non mi capacito di quanto sia già cresciuta», disse Louisa.

«Ha più di un anno ormai».

«Già gattona?»

«Oh, sì. E fa molte, molte altre cose. Sta provando a camminare ed è velocissima a scivolare sul sedere. Praticamente non posso perderla di vista un attimo!». Fece il solletico alla bambina, che la ricompensò con una risata. «È così allegra».

«E Hugh?».

Gwen si guardò attorno. «Credo stia aiutando Conor con i vassoi».

Louisa sorrise. «Sarebbe bello se diventassero amici».

Iniziò a sentir tintinnare le casse, e si congratulò con se stessa per aver portato avanti quel progetto malgrado le difficoltà degli ultimi mesi. Sapphire sarebbe stato un successo. Si sentiva piena di gratitudine per tutti quelli che l’avevano sostenuta, suo padre, Margo, Gwen e Leo. Senza di loro sarebbe stato tutto veramente diverso. I buoni amici, pensò, sono tutto, sono le fondamenta della mia vita. Leo continuava a sorriderle da lontano, poi la raggiunse e le prese la mano e lei sentì il cuore colmo di gioia.

Che anno. Aveva perdonato Elliot? A dire la verità, non del tutto. Le si inumidirono gli occhi. Quei giorni spensierati che aveva vissuto accanto a lui erano ormai lontani e – considerando quel che era successo dopo – era difficile rimpiangerli. Avrebbe preferito ricordare il passato con affetto, senza rabbia, e sapeva che perdonarlo era l’unico modo per poter essere completamente in pace. Ce l’avrebbe fatta, ne era certa. Ricordava quanto l’avesse profondamente amato, ma non le faceva più male come prima, perché lo stava lasciando andare. Ne aveva la forza, il coraggio. E soprattutto aveva molte buone ragioni per tornare a vivere. La nuova Louisa era una donna saggia, che aveva superato momenti veramente dolorosi, e per lei le gioie erano più luminose che per chiunque altro. Alla fine, malgrado le grandi tragedie che le erano capitate, la morte di Julia, di Elliot e di Zinnia, la vita le aveva donato un bambino prezioso di cui prendersi cura. Rivolse lo sguardo alla cupola e fece una promessa: qualsiasi cosa le fosse successa, non avrebbe mai e poi mai abbandonato il suo Conor.