Parte terza

24

Una volta che si fu completamente ripresa dal morso del ragno, piena d’amore per Jay, Eliza tornò presto alla reggia di Juraipore.

Dottie aveva saputo che Eliza era stata male, quindi trovò finalmente il coraggio di andare al palazzo, entrare nelle sue stanze e portarle un mazzo di fiori.

«Devo dire che sei in splendida forma. Mi aspettavo di trovarti pallida ed emaciata».

Eliza sorrise e si appoggiò al divano, rilassata.

Dottie la fissò. «Oh, cielo! Clifford ti ha chiesto di sposarlo?»

«Clifford?».

Dottie posò i fiori su un tavolino. «Hai l’aria di una donna che ha appena detto sì».

«No».

«E allora che altro?». Dottie abbassò la voce. «O forse dovrei dire chi altro?». Ci fu una pausa di silenzio, poi Dottie si portò la mano alla bocca. «Non l’hai fatto, vero?».

Eliza non rispose.

«Ti sei innamorata di uno di loro. Non è vero?».

Eliza sorrise impotente e annuì. «Si tratta di Jay».

Dottie rimase in piedi e la guardò, con le mani sui fianchi. «Be’, ti sei davvero cacciata in un bel guaio».

«Non riesci a essere almeno un po’ felice per me?».

Dottie si avvicinò alla finestra e guardò fuori, prima di voltarsi verso Eliza. «Tesoro mio, finirà in lacrime. Come sempre, in questo genere di cose. Anche se immagino che sia davvero romantico». Aveva pronunciato queste parole con un tono molto malinconico.

«Parleresti con Clifford per calmare un po’ le acque?», le chiese Eliza.

Dottie scosse il capo. «No, mia cara. Non posso. Il mio consiglio è quello di porre fine a questa storia prima che vada troppo oltre».

«Non credo di poterlo fare».

«Diciamo che non vuoi. Non ti biasimo, sinceramente, no. Dev’essere molto eccitante, irresistibile, ma lui non potrà mai sposarti. Sposerà una donna uguale a lui».

«Non ne sono così sicura».

«Io sì, invece, e a te rimarrà una pessima reputazione».

«Ma sono già stata sposata. Non sono più vergine».

Dottie si avvicinò a Eliza e andò a sedersi accanto a lei sul divano, poi le prese una mano. «La gente perdona un marito morto, ma non una donna gettata via, specialmente se ha avuto una relazione con un uomo che non è uno di noi».

Eliza sospirò. Non era quello che avrebbe voluto sentirsi dire.

«Sinceramente, mia cara. Chiudi questa storia, e al più presto».

Jay aveva dato a Eliza le chiavi del suo studio perché lei lo potesse usare a suo piacimento, sia per scattare fotografie, sia per preparare dei documenti in sua assenza. Pensò di ritrarre singolarmente ogni membro della famiglia, oltre a qualche altra persona, anche se in realtà gli scatti migliori erano quelli che aveva rubato alla gente in città o nel deserto. Nella loro selvaggia spontaneità le persone ritratte sembravano emergere più rilassate e nitide.

Indi era tornata dal villaggio di sua nonna ed Eliza fu sollevata di sapere che la corsa in motocicletta attraverso il deserto non aveva minato ancora di più la salute dell’anziana donna.

«Ne sarai felice», disse Eliza mentre sistemava il treppiede della sua fotocamera per scattare una foto a Indira nello studio. La Rolleiflex non le era ancora stata riconsegnata.

«Odiavo vedere mia nonna consumarsi a quel modo», rispose Indi. «A essere sincera, non credo che stia meglio. Sta facendo la coraggiosa, ma mangia assai di rado».

«Non sei voluta rimanere con lei?»

«Ha insistito perché tornassi qui… Allora?», chiese Indi, dopo una piccola pausa. «Sei stata via un’eternità».

Eliza pensò a Jay e alla sua recente conversazione con Dottie, perciò decise di mantenere un atteggiamento composto. «Ho aiutato Jay con il progetto idrico. Alcuni documenti devono ancora essere firmati dai nuovi investitori, prima di poter avere accesso ai fondi. I lavori potrebbero decollare in qualsiasi momento».

«Mi piacerebbe vederli».

«Sono sicura che Jay te li mostrerà. Ora potresti sederti sulla scrivania?»

«Sulla scrivania?»

«Voglio un ritratto disinvolto e rilassato».

Indi si appollaiò sul bordo del tavolo. «Che ne pensi se fingessi di leggere un libro?»

«Buona idea».

Indi prese uno dei libri aperti sulla scrivania di Jay e fece finta di essere assorta nella lettura.

«Adesso guardami e fammi un sorriso».

Indi fece come le era stato ordinato ed Eliza restò di nuovo stupita dalla bellezza di quella ragazza. Avrebbe voluto chiederle della sua relazione con Chatur, ma dato che se ne era già occupato Jay, decise di non agitare le acque.

«Vuoi scattarmene una anche in piedi?», stava chiedendo Indi.

«Prima forse un’altra con il libro in mano».

«He bhagavana», esclamò Indi voltando la pagina. «Perché mai Jay legge un libro sui composti chimici tossici?»

«Non ne ho idea», rispose Eliza cambiando subito argomento. «Ti ha detto che tua nonna è venuta ad aiutarmi quando sono stata morsa dal ragno?»

«Me l’ha detto lei. È stato strano, in realtà; ha parlato molto di te. Ma quante storie… nessuno muore mai per il morso di una vedova nera».

«Credo di aver avuto una reazione allergica. Jay è stato meraviglioso». Eliza non poté fare a meno di sorridere al ricordo della sua premura quando lei stava male.

«Oh, lo credo bene», commentò Indi. Sorrise, ma non la guardò negli occhi.

«Indi, io…».

«Oh, non ti preoccupare; te lo leggo negli occhi. E anche nei suoi, per la cronaca. Ma stai attenta, se riesco a vederlo io, può vederlo chiunque».

«Mi dispiace. È partito tutto da un’amicizia».

«Non essere dispiaciuta, ho superato tutto. Ma se fossi in te, non mi innamorerei di lui. Non sei la prima, Eliza. E Laxmi non approverà affatto».

«Laxmi non lo sa», disse Eliza, con tutta la calma che il suo cuore in subbuglio poteva concederle. In mente aveva le gambe di Jay intrecciate alle sue, così scure in confronto al pallore delle sue cosce.

Indi sollevò il viso, poi scosse la testa. «A te Laxmi sembrerà anche molto gentile, ma se si tratta dei suoi amati figli è inflessibile. A loro non è concesso sbagliare. Non illuderti, non permetterà che la cosa continui. Guardati le spalle».

Eliza si fissò le mani, fingendo di esaminarsi le unghie, e rimase in silenzio. Poi domandò a Indira, con voce quasi sussurrata: «Vuoi dire che non sono la sua prima donna inglese?»

«Certo che no, ma di sicuro te ne avrà parlato. Non è questo che fanno gli innamorati? Si parlano. Ma tu non sei più vergine, quindi che importa? Di solito predilige quelle sposate. Rompi al più presto».

Eliza deglutì. Quante saranno state?

«Ecco perché Jay sta leggendo questo libro sulle sostanze chimiche tossiche», disse Indi.

«Non ti seguo».

«Per avvelenare Laxmi!». Indi scoppiò a ridere, ma Eliza era terrorizzata; Jay aveva di sicuro cercato di approfondire l’argomento pirogallolo.

In quel momento, Jay entrò nella stanza ed Eliza colse la preoccupazione nei suoi occhi, quando la guardò.

«È uno scherzo, Eliza, solo uno scherzo!», la rassicurò Indi.

«C’è qualcosa che non va?», chiese l’uomo, guardando prima l’una e poi l’altra.

Eliza scosse la testa. «Solo uno scherzo, ci sono cascata».

Lui si accigliò. «Tutto qui?»

«Rilassati», disse Indi. «Come sei teso. Hai fatto qualcosa che non dovevi, Jay?»

«Indira sa di noi», lo avvertì Eliza, pensando che fosse meglio giocare a carte scoperte.

Jay scrollò le spalle. «Si sarebbe saputo comunque, prima o poi. Ora, Eliza, dove vuoi che mi metta?», le chiese Jay allontanandosi da Indi.

«Seduto alla scrivania. Va bene?»

«Buona idea», s’intromise Indi. «Il principe al suo desco. Piacerà molto agli inglesi».

Jay rise, ma Eliza sapeva esattamente cosa gli stava passando per la mente. Poco prima di lasciare il suo palazzo per tornare alla reggia, l’aveva trovato a fare avanti e indietro nel suo studio. Le aveva chiesto di andare ad aiutarlo a sistemare le carte sparse ovunque nella stanza, ma appena aveva fatto un paio di passi verso di lui, l’aveva presa e messa a sedere sulla scrivania. Poi le aveva baciato il collo.

«Pensavo che avessi bisogno di me», gli aveva detto, accennando alle carte.

«Ho bisogno di te, più di quanto immagini».

Era scoppiata a ridere mentre lui le slacciava la camicetta e le sollevava la gonna.

«Sono contento che non indossi i pantaloni», le aveva detto.

Eliza l’aveva aiutato a far scivolare via la biancheria intima e poi Jay si era sfilato i pantaloni, aveva chinato la testa e le aveva baciato il ventre.

Eliza aveva gettato indietro il capo, guardando il soffitto, senza pensieri, assaporando l’avvolgente sensazione delle sue labbra sulla pelle e delle sue mani sul seno. Quando il piacere fu troppo intenso da sopportare, gli aveva stretto le braccia attorno al collo l’aveva attirato a sé. I fogli di carta erano volati in aria e si erano posati sul pavimento, disordinati, mentre facevano l’amore. Quando avevano finito erano talmente madidi di sudore che si erano spostati nella stanza di lei, ed Eliza gli aveva asciugato la pelle. Jay aveva fatto lo stesso con lei, e non si era fermato. Le aveva lavato i capelli, massaggiandole delicatamente la cute. Un massaggio indiano, le aveva spiegato. L’aveva fatta sedere su uno sgabello e aveva proseguito il massaggio, sulla testa, sul collo e sulle spalle, finché i suoi muscoli non si erano sciolti al punto che Eliza li aveva sentiti liquefarsi.

Poi l’aveva portata a letto e avevano fatto di nuovo l’amore, questa volta lentamente ed Eliza si era lasciata completamente andare.

Stava iniziando a imparare che cosa Jay preferisse, il modo in cui toccarlo per strappagli un gemito, come muoversi quando lui era dentro di lei; Jay, invece, sembrava già sapere esattamente cosa le piacesse, forse anche prima di lei. Durante quei pochi ultimi giorni al palazzo, non erano stati in grado di controllarsi, non si erano mai fermati. Vivevano nel loro mondo, al sicuro da tutto ciò che potesse ferirli, tutto era perfetto. I tramonti erano particolarmente splendidi, le albe struggenti, il vento soffiava il profumo dei frangipani e del gelsomino, il sole splendeva.

L’amore di Eliza per Jay, per la vita e per quel palazzo meraviglioso, si diffondeva ovunque, abbracciava tutto. «Cos’è questa sensazione?», gli aveva chiesto lei.

Jay le aveva spiegato che erano le conseguenze della paura di poterla perdere, era stata colpa del morso del ragno. Voleva renderla profondamente sua.

«E tu mio», rispondeva Eliza. «Hamesha».

«Sempre», le faceva eco lui.

Eliza tornò con un sussulto nella stanza con Indi e Jay. Si rendeva conto di essere arrossita a quel ricordo e si chiese se avrebbe mai potuto guardare una scrivania allo stesso modo.

Jay vide il suo rossore e le sorrise, ma anche Indi l’aveva notato. «Per carità, se volete mantenere il segreto, fatela finita con questi sguardi persistenti».

Eliza non era consapevole di quegli sguardi, ma naturalmente era una cosa connessa all’essere innamorati. Quella strana, dolce pazzia che rendeva impotenti e completamente legati a una persona, ignari del resto del mondo. Eliza sapeva bene che quella era una follia, ma non voleva fermarsi. Mai. Decise soltanto che avrebbe cercato di essere più discreta, anche se da qualche parte nella sua mente non era certa di volere che quella storia rimanesse un segreto.

Se avessero spiegato a Laxmi che si amavano, lei avrebbe compreso? Poi il pensiero andò alle insinuazioni di Indi sulle relazioni che Jay avrebbe avuto in precedenza. Era davvero un uomo capace di innamorarsi follemente e di stancarsi subito dopo? Mentre si poneva quella domanda, lo guardò. Gli occhi di Jay risplendevano d’amore. No. Non era quel genere di uomo, non poteva esserlo.

25

Il giorno seguente, con sua grande sorpresa, Eliza fu mandata a chiamare da un’ancella, perché Clifford la stava aspettando nella sala del durbar e voleva parlare con lei. Erano soltanto le dieci del mattino e faceva già molto caldo, quindi Eliza scivolò in un abito estivo che si era cucita da sola: di un verde vibrante, con dei pois e il colletto bianchi, e un corpetto a maniche corte che le aveva richiesto molto impegno per calzare alla perfezione. Si diresse alla sala del durbar, dove trovò Clifford in piedi, che le dava le spalle. Eliza si soffermò a guardarlo per qualche istante. Aveva le spalle rigide e strette, e lo immaginò nudo. Non c’era confronto tra il suo corpo pallido e quello di Jay, la cui pelle splendeva alla luce delle lampade come rame brunito. Immaginò di toccare Jay come piaceva a lui, i loro corpi che si fondevano, che si muovevano insieme come se fossero nati per essere uniti.

Le dispiaceva per Clifford, ma quando lui si voltò a guardarla, rimase stupita dallo sguardo trionfante nei suoi occhi.

«Allora, Eliza, quindi non andrai a Shimla».

«Lo sai già. Devo fare delle cose qui».

«Fare delle cose, Eliza?».

Anche se era chiaro che Clifford volesse metterla in imbarazzo, Eliza si rifiutò di abbassare gli occhi e sostenne il suo sguardo.

«Dunque?», la incalzò.

Fece un bel respiro. «Clifford, sono molto occupata. È successo qualcosa?»

«Sì. Eccoti la tua macchina fotografica», le disse, porgendole una scatola.

«Grazie, Clifford. C’è qualcos’altro?»

«Oh, sì, certo. Anche le tue fotografie arriveranno presto». Ancora non accennava ad andarsene.

«E che altro?»

«Camminiamo un po’ nel giardino».

Fuori faceva molto caldo ed Eliza stava già sudando.

«Non hai caldo con la giacca di lino?», gli chiese.

«Non preoccuparti per me, ragazza mia. Sono abituato al caldo».

Andarono verso un enorme albero fiamma e si misero comodi su una panchina all’ombra.

Gli uccelli dormivano sui rami e tutto ciò che si sentiva era lo scroscio dell’acqua che cadeva da una piccola fontana e il mali, il giardiniere, che lavorava piano sulle aiuole dall’altra parte del cortile.

«Quindi vorrai sapere come mai sono venuto».

Eliza levò gli occhi sull’infinito cielo blu, desiderando che lui se ne andasse. Voleva restare sola, a pensare a Jay. Voleva ripercorrere col pensiero ogni momento trascorso assieme a lui, era una cosa che amava, e ogni volta che lo faceva provava un brivido di piacere. Iniziava a diventare dipendente da quei momenti troppo emozionanti per essere condivisi, anche se sapeva che avrebbero dovuto presto dirlo ad altra gente. E con “gente”, ovviamente, intendeva Laxmi. Era ancora assorta nei suoi pensieri, quando Clifford riprese a parlare, e per un attimo Eliza pensò di non aver capito bene.

«Come, scusa?»

«Jayant Singh sta per essere arrestato».

Eliza si girò verso di lui, pensando che fosse uno scherzo. Ma Clifford non stava affatto sorridendo.

«Perché?».

Clifford si accarezzò il mento. «È sospettato di aver istigato l’insurrezione».

«Non essere ridicolo. È inglese quasi come te e me».

«Ma non nelle cose fondamentali». E si batté il petto. «Il suo cuore è indiano. Chiunque venga sorpreso a far circolare documenti sediziosi può essere imprigionato, senza distinzioni. Chiunque. Senza appello. E per i membri delle famiglie reali questo significa la preclusione dal loro diritto di regnare. Per sempre».

«Ma non farebbe mai una cosa simile», disse Eliza, che cercava di non piangere.

«E tu come lo sai?»

«Lo so. È buono e onesto».

«E tu hai trascorso molto tempo con lui».

Eliza si irrigidì. «Non è affar tuo».

«Sua madre lo sa?».

Lei guardò lontano, ben sapendo che i suoi occhi non avrebbero potuto mentire.

«Io penso di no e non le farà piacere».

«Clifford, per favore, non dire nulla. Te lo chiedo come amica».

Clifford le fece un sorriso ossequioso. «Vedremo».

Eliza odiava quella risposta. Quella e “Fammici pensare” o “Ci penserò”, le frasi sprezzanti che sua madre usava per farla sentire insignificante, come se qualunque cosa le avesse chiesto fosse di poca o di nessuna importanza. Si alzò in piedi. «Lo sai, Clifford? Non me ne importa niente. Fai pure del tuo peggio».

Clifford guardò in alto, verso la galleria che circondava il giardino, protetta dagli schermi jali. «Non si sa mai chi sta osservando. Personalmente non riesco a immaginare che una persona voglia rimanere in un posto come questo. Non dare a questi osservatori silenziosi qualcosa su cui spettegolare. Calmati e siediti. Non è per questo che sono qui».

Ecco dunque perché l’aveva portata fuori. Clifford sapeva che sarebbero stati sotto gli occhi della zenana, in piena vista, e che lei non avrebbe potuto fare nessuna scenata.

«Ora sorridi e fai la brava», proseguì, facendole cenno di rimettersi a sedere. Eliza respirò profondamente e si sedette, ma in realtà avrebbe voluto prendere a schiaffi quella sua faccia compiaciuta.

«Allora, cosa avrebbe fatto Jay? Dimmelo con precisione».

«Non posso ancora dirlo».

«Non hai prove, non è vero?». Lo guardò negli occhi. «Nessuna prova».

«Eliza, ti assicuro che ho tutto ciò che mi occorre per sbattere il tuo principe Jay dietro le sbarre molto a lungo».

Anche se faceva un caldo terribile, Eliza tremò. Forse stava bluffando, anzi, di sicuro. A lei sembrava di sprofondare di minuto in minuto. Prima tutte quelle cose che Indi le aveva raccontato su Jay e le altre donne, e poi questo. Ma Eliza non riusciva a credere alle parole di Clifford.

«Perché mi racconti queste menzogne, Clifford?», gli disse. «Non voglio più saperne di te».

«Mi serve che tu mi faccia entrare nello studio di Jay senza che lui sia presente. Puoi farlo? C’è una via che possiamo prendere senza essere visti?»

«Perché?»

«C’è una cosa che devo controllare».

Lei lo guardò con gli occhi ridotti a fessure. «Vuoi che ti aiuti a provare la sua slealtà nei confronti della Corona britannica?»

«Vedila così, se preferisci. Ma, d’altro canto, potremmo anche verificare che lui non è un ribelle».

Eliza sbuffò. «E che questa è tutta una ridicola montatura».

«Esattamente».

«Chi l’ha accusato?»

«Non posso dirtelo».

«Molto bene. Suppongo di non avere molta scelta, anche se non capisco che bisogno ci sia di ordire questo inganno».

«Hai la chiave?».

Lei annuì.

«Deve fidarsi molto di te».

Percorsero lentamente i lunghi corridoi, ma a Eliza il fresco di quelle mura non portava un vero sollievo. Aprì la porta dell’ufficio di Jay ed entrarono. Clifford non guardò nulla, ma andò dritto alla macchina da scrivere. «Dove tiene la carta?»

«Nel secondo cassetto. Perché?».

L’uomo non rispose, aprì il cassetto, tirò fuori un foglio e lo inserì nella macchina, facendolo scorrere nel rullo fino in cima. Eliza si irritò molto e non poté impedirsi di pensare che tutta quella cosa, qualunque cosa fosse, non fosse altro che una sceneggiata. Clifford batté a macchina qualche frase, e poi tirò fuori il foglio.

«Penso che possa bastare», disse lui, rialzandosi in piedi e mettendosi in tasca il foglio piegato.

«Cos’hai scritto?»

«Dai un’occhiata. Nulla di importante, te lo assicuro». E le porse il foglio di carta, dove lei lesse frasi senza senso sul fatto che il Kent fosse il giardino d’Inghilterra.

«Tu sei originario del Kent?»

«Già».

«E quindi cos’avrebbe a che fare il Kent con Jay?»

«Il Kent? Un bel niente. Ora devo andare».

Eliza rimase perplessa. «Ma non hai detto che volevi dare un’occhiata al suo studio?»

«Ho visto tutto ciò che dovevo vedere. Grazie mille».

«Hai intenzione di darmi una spiegazione?»

«Un’altra volta». E con questo le fece un bell’inchino e se ne andò, lasciando Eliza incerta su cosa pensare. Aveva peggiorato le cose? O aveva messo Jay in una posizione migliore?

Come se non bastasse, il giorno seguente fu convocata nelle stanze del maharajah. Quando Eliza entrò, Anish stava già seduto su un piccolo gaddi con Priya al suo fianco. Di fronte a loro stavano Jay e Laxmi. La postura ribelle di Jay – braccia conserte, gambe larghe – stava a indicare che c’erano guai in vista. Inoltre, anche Chatur era presente, seduto su una sedia appoggiata al muro.

«Grazie per essere venuta», disse Anish, facendo cenno a Eliza di avvicinarsi, ma non di accomodarsi. Priya non la guardò nemmeno e Jay si limitò a farle un cenno di saluto col capo. Laxmi si allontanò, ma Eliza notò che la madre di Jay aveva gli occhi arrossati. Cosa diamine stava succedendo?

«Ti sei assunto tutta la responsabilità della cosa, no?», stava dicendo Anish.

«Sì. Ho fatto tutto da me», rispose Jay.

«E tu, madre?»

«Io…».

«Lei non ha niente a che vedere con tutto ciò», intervenne Jay.

Laxmi scosse il capo, ma rimase in silenzio.

«E come sei riuscito a prendere la chiave senza l’aiuto di tua madre?», s’intromise Priya sputando parole con tono sprezzante e sottolineando con enfasi il “tua madre”.

Jay guardò a terra prima di rispondere, poi alzò la testa e incontrò lo sguardo furioso di Anish. «Sapevo dove teneva le chiavi della cassaforte dei gioielli».

«E che mi dici dell’ipoteca sui gioielli di famiglia? La mia eredità, per essere precisi. Non la tua».

Priya emise un suono acuto, ma Anish le tenne la mano, come per avvertirla di tacere. Se uno sguardo potesse uccidere, Anish sarebbe morto all’istante, per mano di Priya.

Laxmi scosse le spalle. «Sono stata io a suggerirlo. Non è colpa di Jayant».

Priya di alzò di scatto. «Ripetilo!».

Laxmi raddrizzò la schiena e guardò sua nuora.

«Gli ho dato io la chiave! È stata mia l’idea di ipotecare i gioielli. L’irrigazione di quei campi è cruciale per la gente che deve sopravvivere all’ennesima siccità. Tu, Anish, non stavi facendo nulla. Tuo padre si vergognerebbe di te. Non capisci che, se non inizi ad agire, gli inglesi ti accuseranno presto di malgoverno e perderemo tutto?»

«Madre!», esclamò Anish stupefatto.

«Madre!», ripeté Jay, triste. «Non posso permettere che tu ti prenda questa colpa».

Priya tornò a sedersi. «Mandala via. Fallo, Anish».

Laxmi tenne il punto. «Ti avevo avvisato, Anish. Non ti sei occupato della riforma del sistema fiscale e non hai trovato un accordo migliore e più giusto per la gestione del territorio. La gente si rivolterà contro di noi, se non facciamo nulla per aiutarla. Sai bene che la Conferenza degli Stati sottoposti serve solo a indebolire i principi».

Anish si guardò le mani e giocherellò con gli anelli che portava, almeno due per ogni dito. Priya lo osservava disgustata, al punto che Eliza provò pena per Anish. Era un debole, cosa per cui sua moglie lo disprezzava. Inoltre, era anche incredibilmente effeminato, e Priya non aveva certo l’aria di essere una donna soddisfatta.

«Vuoi che i contadini si rivolgano agli inglesi anziché a noi?», chiese Laxmi.

«Non ha senso, madre. È una preoccupazione inutile», continuò Anish. «E naturalmente non verrai biasimata per il furto dei gioielli. La responsabilità è di Jay, non tua».

Priya sbuffò, senza preoccuparsi del fatto che tutti la sentissero, e poi riprese a parlare. «E allora quando verrà rimborsata questa cosiddetta ipoteca?»

«Abbiamo dovuto prolungarla quando i primi investitori inglesi si sono tirati indietro, ma ne abbiamo trovati altri e tra pochi giorni firmeremo i documenti», confermò Jay.

«E di quanto ti sei indebitato?».

Jay deglutì. «Migliaia di rupie, fratello, migliaia».

Anish balbettò. Era diventato tutto rosso e poi, premendosi il petto, sussultò come se provasse dolore. Laxmi fece un passo avanti, ma Priya la fermò e poi spiegò con amarezza: «È già successo prima. Passerà. Quel dottore inglese che ci hanno mandato è stato inutile. E il tuo dottor Hopkins ha detto a mio marito di perdere peso e di fare più esercizio fisico. Noi, però, volevamo delle medicine».

«Non ti agitare, figlio mio», disse Laxmi, scuotendo tristemente la testa.

Sotto lo sguardo di Eliza, Anish tornò al suo colorito normale e sembrò stare meglio. Eliza cominciò a pensare che Clifford avesse immaginato che Anish avrebbe favorito l’arresto di Jay a causa del furto dei gioielli. Ecco che cosa c’era sotto, non c’era alcun messaggio sedizioso o rivoluzionario; Eliza temette anzi che fosse stato Anish in persona a denunciare il fratello. Tuttavia, non riusciva proprio a capire come mai Clifford avesse voluto usare la macchina da scrivere di Jay per scrivere un paragrafo sul Kent; se si il problema erano i gioielli, perché Clifford aveva parlato di slealtà nei confronti della Corona britannica?

Anish indicò Jay. «Ritengo te responsabile, te soltanto. Che ne sa una donna di queste cose? Se l’ipoteca verrà ripagata entro la fine di questa settimana, passerò sopra alla vicenda; se non accadrà, pignorerò le tue terre a titolo di rimborso per la perdita dei gioielli. È chiaro?».

Eliza trattenne il respiro quando Jay la indicò con il capo e chiese: «Perché hai fatto venire qui Eliza?»

«Perché è partito tutto da lei», rispose Priya.

Anish la ignorò. «Perché ho bisogno che lei, come testimone, sottoscriva i documenti che ho dovuto scrivere nel caso in cui la tua ipoteca non venga ripagata per tempo. Anche Chatur firmerà».

Eliza si era sentita a disagio durante l’intera conversazione, ma finalmente respirò. Dovevano soltanto farsi firmare i contratti dei prestiti per tempo, poi l’ipoteca sarebbe stata rimborsata e tutto si sarebbe aggiustato. Guardò Jay come per chiedergli il permesso di firmare. Lui semplicemente annuì in segno di assenso, poi guardò altrove. Chatur sorrise a Eliza, ma il suo sorriso le fece gelare il sangue.

26

Eliza guardava fuori dalla finestra in attesa del corriere che le avrebbe portato le stampe delle sue fotografie da Delhi.

Il caldo era già soffocante, ma le piaceva osservare le scimmiette che saltavano tra i rami, da un albero all’altro, mentre la distesa di tetti della città dorata le toglieva ancora il respiro, come sempre. Le case cubiche, vicine alle mura della fortezza, erano ormai pallide e scintillanti nella calura, mentre nel cielo argenteo correvano e si tuffavano stormi di parrocchetti verde brillante.

Notò un convoglio di automobili che si inerpicava sulla collina. La prima auto suonò il clacson e si fermò; ne uscirono Clifford e un altro uomo, entrambi vestiti in abiti eleganti e scuri. L’automobile subito dietro trasportava due ufficiali dell’esercito inglese, che si asciugavano la fronte con dei fazzoletti bianchi. Chiunque fosse nella terza auto, rimase chiuso dentro e non uscì. Eliza restò a osservarli finché gli uomini non scomparvero dalla sua vista e non entrarono nella reggia; poi, confusa, corse giù dalla scalinata principale e quasi inciampò scendendo gli ultimi gradini.

Nella grande sala non c’era nessuno e il giardino era deserto. In realtà il palazzo era stranamente silenzioso. Si sedette su una delle enormi altalene, assaporando il profumo dolce del gelsomino che cresceva lì attorno, tendendo le orecchie per cercare di carpire qualche voce. Gli aromi delle cucine riempivano già l’aria: zenzero, cardamomo e coriandolo. Non aveva desiderio di lasciare il Rajputana, era cresciuta con i profumi delle spezie e dei fiori.

Lei e Jay non avevano ancora parlato del futuro, preoccupati solamente che i progetti per l’irrigazione finissero per tempo; grazie alla concessione dei finanziamenti, il primo passo era ormai fatto. Jay le aveva promesso che, una volta portato a termine il primo stadio del progetto, l’avrebbe condotta a Udaipore, il posto migliore per ammirare il cielo che diventava viola e le nubi dei monsoni in arrivo, prima dell’inizio delle piogge. Eliza chiuse gli occhi e immaginò la scena.

Li riaprì giusto in tempo per vedere Jay tra i due ufficiali dell’esercito dirigersi verso l’uscita. Si voltò a guardarla e con le labbra le mimò le parole “Non ti preoccupare”. Eliza si gelò. Certo che si sarebbe preoccupata. Jay procedeva con la schiena dritta, a testa alta, regale, mentre gli ufficiali lo tenevano per i gomiti. Fu davvero sconvolgente assistere al suo arresto. Eliza si guardò attorno e vide Laxmi, desolata ma ritta in piedi, e Priya, trionfante. Eliza corse da Laxmi.

«Non possiamo fare nulla?»

«Possiamo soltanto metterci nelle mani degli dèi».

Eliza la guardò. «Ma questo è folle. Ci sarà pur qualcosa che si può fare. Parlerò con Clifford Salter. Sono certa che l’aiuterà».

«È stato proprio il tuo signor Salter ad arrestare mio figlio».

«Ma Anish ha detto che avrebbe aspettato che i contratti fossero firmati. Jay deve andare a Delhi domani, proprio per siglare i documenti. Come può farlo se è in arresto? Perché Anish non ha aspettato?».

Laxmi si morse il labbro. «Questo non ha niente a che fare con ipoteche e gioielli. Mio figlio è stato accusato di tentato sabotaggio, per aver scritto volantini incendiari contro gli inglesi e per aver incitato alla ribellione, sempre contro gli inglesi».

Eliza la fissò. «Ma tutto ciò è ridicolo. Di sicuro Jay non può averlo fatto, e poi che cosa avrebbe mai sabotato?»

«Il suo stesso progetto d’irrigazione».

Eliza quasi scoppiò a ridere. «Queste sono accuse senza senso. Vedrai. Lo aiuterò». E, detto questo, fece un passo avanti, come per correre dietro ai soldati e a Jay.

Priya fece un sorriso beffardo, ma Laxmi riuscì ad afferrare Eliza per la manica. «Non mettere in ridicolo te stessa e noi».

Eliza era furiosa. «Ti interessa solamente questo? Non sei in grado di reagire?»

«Non in questo modo. Se li rincorri, finirai dritta nella loro trappola. Comportati dignitosamente e guadagna tempo per pensare. Hai ancora molto da imparare. Adesso vieni con me».

Eliza lasciò Priya e seguì Laxmi. Quando giunsero alla zenana, Laxmi le fece cenno di seguirla nelle sue stanze. Stranamente non si sedette, suonò invece la campanella, poi prese a fare avanti e indietro nella stanza. Eliza aveva un milione di domande da farle, ma per rispetto nei suoi confronti tenne a freno la lingua. Era davvero una cosa insolita per un membro della famiglia reale essere arrestato, e la madre di Jay doveva essere seriamente preoccupata. Oppure furibonda. O forse entrambe le cose. Quindi Eliza aspettò che fosse Laxmi a parlare per prima. Dopo circa dieci minuti, arrivò il tè e finalmente l’anziana donna si sedette.

«Credevo che tu avessi una buona influenza su mio figlio, invece guarda che è successo!».

Eliza era attonita. «E biasimi me per questo?»

«Ricordi quando ti dissi che il signor Salter sarebbe stato un buon marito per te?»

«Non è mai stato contemplato come tale».

Laxmi ignorò la risposta di Eliza e proseguì come un fiume in piena. «Ti ricordi anche che ti dissi di aver trovato una sposa perfetta per mio figlio?».

Eliza tacque, a bocca aperta.

«Vuoi davvero parlare di matrimonio quando Jay è stato appena trascinato via come un ladro qualunque?»

«Non è stato trascinato. Atteniamoci ai fatti».

Ancora una volta a Eliza fu impartita la lezione sulla prospettiva di matrimonio di Jay, e su come le cose sarebbero andate se non si fosse sposato rispettando le tradizioni.

«Non hai a cuore la felicità di Jay?», chiese Eliza, quando l’altra ebbe terminato.

Laxmi sorrise. «L’amore romantico passa veloce come la vita di una libellula. Sono le somiglianze a rendere salda una coppia. Troppe differenze la rovineranno».

«Io non sono tanto diversa da Jay».

«Lo sei abbastaza. Mio figlio pensa di amarti, ma…».

«Te l’ha detto lui?».

Laxmi non rispose. «Come stavo dicendo, qualunque cosa lui pensi di provare è soltanto il risultato della lussuria, non dell’amore».

«Come puoi saperlo?»

«Perché l’ho provato io stessa».

Eliza trattenne il fiato e poi lo liberò in uno sbuffo. «Possiamo non parlarne adesso, per favore? Cosa possiamo fare a proposito della cattura di Jay?»

«Le due cose sono connesse, mia cara». Laxmi la fissò. «Il signor Salter ha le prove, mi spiace. Mi ha mostrato un pamphlet stampato con la macchina da scrivere di Jay. La lettera “j”, come vedi, si incastra e non viene stampata in modo corretto».

«Ma non avrebbe mai fatto una cosa simile. Forse è stato qualcun altro che ha accesso allo studio?»

«Può darsi, sì, ma hanno costruito un caso contro mio figlio, e il danno è fatto».

«Ma non è giusto», esclamò Eliza quasi in lacrime.

«Questo mondo raramente è giusto, cara. Ma mi fa piacere sapere che hai fiducia in mio figlio. Ora, io ho un’idea di come uscire da questa situazione. Se ti dicessi cosa vorrei che tu facessi, mi prometterai di seguire le istruzioni alla lettera?»

«Certamente. Farò tutto ciò che posso per far sì che Jay venga rilasciato».

«Non ti piacerà».

Mille pensieri le vorticarono in testa, ma Eliza annuì. «Non importa. Dimmelo».

«Dovrai sbrigarti, perché Priya è determinata a convincere Anish a bandirti dalla reggia. Priya e Chatur sono entrambi molto decisi nelle loro meschinità. Nessuno di loro ti voleva qui fin dal principio ed entrambi pensano che tu abbia avuto una cattiva influenza su Jayant. E devo dire che anch’io sarei incline ad abbracciare la loro opinione, alla luce di quanto è accaduto».

Seguì una pausa di silenzio, che servì a Eliza per digerire le sue parole.

«Bene, la mia idea prevede che tu parli nuovamente col signor Salter… e forse che tu faccia anche qualcosa di più».

Eliza fissò Laxmi, mentre la donna le spiegava il suo piano.

Quando terminò di parlare, Eliza non riuscì a dire una sola parola. Era davvero quella l’unica soluzione?

Scossa dal progetto di Laxmi, Eliza tornò con orrore nelle sue stanze per pensare, e trascorse il resto di quella giornata a fissare la finestra della sua camera da letto, chiedendosi come poter uscire da quell’incubo. Ricordava ogni momento trascorso assieme a Jay. Era certa che lui ricambiasse il suo amore: la sua dolcezza e la sua passione erano diverse da qualsiasi cosa avesse mai sperimentato.

Tutto ciò che voleva era vivere il resto dei suoi giorni accanto a lui, un sentimento che non avrebbe mai immaginato di poter provare per qualcuno. Aveva deciso che il lavoro sarebbe stato la sua vita. Ma lei e Jay stavano bene insieme, persino quando stavano in silenzio, anche se sembravano sempre trovarsi sull’orlo di un burrone, cosa che rendeva la loro relazione così eccitante. A volte la tensione era tale da rendere dilaniante l’amplesso; sembrava sgorgare dall’intenso bisogno che avevano di penetrarsi l’un l’altra, fino all’anima, nell’unico modo che conoscevano, come se cercassero di diventare una persona sola. Altre volte l’amore era dolce e tenero, ed Eliza si rilassava in modo nuovo e languido.

Nuda, sdraiata sul letto, Eliza sapeva che non era stata la semplice lussuria a guidare Jay. L’aveva detto anche lui. Il destino aveva svolto un ruolo fondamentale nella vicenda.

Poi, all’improvviso, a Eliza tornarono in mente le parole di Jay, il suo desiderio di vedere l’India finalmente libera, governata dal suo popolo. Aveva scritto lui quei pamphlet rivoluzionari?

Proprio mentre si interrogava in proposito, sentì bussare alla porta e sussultò; il colpo interruppe il flusso di pensieri dubbiosi. Fu tentata di non aprire, ma poi, pensando che potesse trattarsi di novità riguardanti Jay, indossò una vestaglia e andò alla porta.

«Indi?», chiese, trovandosi davanti la fanciulla. «Stai malissimo. È accaduto qualcos’altro a Jay?».

Indi scosse la testa. I suoi occhi erano rossi di pianto. «No. Si tratta di mia nonna. Sta di nuovo male e devo andare da lei. Ha bisogno di me…».

«Mi dispiace molto per lei».

«Non sono qui per questo. Ho una cosa per te». E porse a Eliza una busta.

Quando Indi si fu allontanata, Eliza aprì la lettera. Era scritta in inglese, ma la calligrafia non era quella di sua madre. Nella busta trovò un singolo foglio di carta. Capì immediatamente che il mittente era James Langton.

Mia cara Eliza,

non ho mai pensato che sia stato ragionevole da parte tua fare i bagagli e abbandonare tua madre proprio nel momento di maggior bisogno. Mentre tu ti trovavi dall’altra parte del mondo (per un capriccio, aggiungerei), anche io sono dovuto partire per diversi mesi per importanti questioni di lavoro.

Quando sono tornato, ho scoperto che tua madre aveva avuto un ictus; ora si trova ricoverata all’ospedale. I dottori pensano che non si tratti del primo attacco.

Mi dispiace dirlo, ma c’erano già tutti i segni. Le sue difficoltà nel parlare potrebbero essere state causate da questo, e non dal gin, come hai sempre pensato tu. Dopo la prematura morte di tuo marito, saresti dovuta rimanere a casa a badare a tua madre Anna. Io ho fatto quello che ho potuto. Devi tornare immediatamente a casa e pensare a lei, se sopravvivrà, o, altrimenti, ai suoi funerali.

Io sto per risposarmi e non posso continuare a portare sulle spalle quest’onere.

Sinceramente tuo,

James Langton

Un dolore lancinante mozzò il respiro a Eliza, al senso di colpa per suo padre e per Oliver ora si aggiungeva anche quello nei confronti di sua madre. Era stata una figlia degenere, aveva abbandonato la madre nel momento peggiore, si sentiva meschina. La sua povera mamma doveva essere terribilmente spaventata, perciò ovviamente Eliza sarebbe tornata a badare a lei nei suoi ultimi giorni di vita. Non aveva scelta, eppure ricordava bene di aver tentato inutilmente di persuaderla a bere di meno. Le aveva nascosto le bottiglie, l’aveva controllata, era rimasta sveglia di notte ad ascoltare i rumori provocati dalla sua ricerca frenetica di un goccio d’alcol. Ma non era servito. Anna Fraser era smarrita nel suo inferno autodistruttivo, come avrebbe trovato il coraggio di abbandonare il gin senza avere nulla con cui riempire il suo vuoto? Eliza aveva capito che sua madre usava l’alcol per sentirsi meno sola e mettere a tacere i suoi demoni interiori che l’avevano perseguitata per tutta la vita. Nei momenti più oscuri, Eliza si diceva che il suo alcolismo era una malattia della mente, del corpo e dell’anima. Non c’era cura, non esisteva una soluzione che potesse aiutarla; sua madre era stata abbandonata, dimenticata ad annegare nella sua dipendenza, mentre il resto del mondo la guardava e la definiva una donna senza spina dorsale, una debole. Anche Eliza aveva sempre pensato che fosse una donna poco determinata – un’alcolista volubile, impossibile da gestire. Ma forse suo padre non era del tutto privo di colpe. E se Anna non avesse mentito sul suo conto? E se non fosse stata la morte del marito a causare la sua depressione, bensì la sua infedeltà? E c’era di più, molto di più. Qualunque cosa fosse.

Eliza si diresse al guardaroba e guardò dentro, immersa nell’odore di naftalina. Toccò l’abito di seta che Clifford le aveva regalato. Era così bello, così perfetto. Rilesse la lettera ancora una volta e pensò di aver vissuto in un effimero paradiso. Le tornò in mente Jay, perciò scosse la testa per allontanarne il pensiero.

Dilaniata tra il desiderio di aiutare l’uomo che amava e la sua povera mamma, che si stava spegnendo da sola, senza l’amore di nessuno, Eliza sapeva che cosa era suo dovere fare. Diede un’ultima occhiata al panorama che si apriva dalla sua finestra e iniziò a piangere.

27

Eliza dormì a malapena e, la mattina seguente, la sua decisione si profilò all’orizzonte, prepotente e inderogabile. C’era un’ultima cosa che poteva fare per Jay prima di partire per l’Inghilterra. Col cuore pesante, decise che avrebbe fatto ciò che Laxmi le aveva chiesto. Indossò un abito di foggia europea, con il colletto e il punto vita in evidenza, poi si legò i capelli. Dopo essersi messa il suo miglior paio di scarpe con il tacco, un filo di rossetto chiaro e le ultime gocce del suo Chanel No. 5 dietro le orecchie, raccolse tutto il suo coraggio e partì.

Aveva richiesto un’automobile e, mentre la aspettava presso i cancelli del palazzo, ripensò al tempo trascorso lì, dal momento in cui era arrivata, nervosa e incerta sul futuro, fino alla vista di Jay che veniva arrestato e portato via. I mesi lì erano stati pieni di alti e bassi, ma avrebbe ricordato per sempre i momenti di gioia pura che mai avrebbe immaginato possibile. Eppure era di nuovo punto e capo, e in fondo non era cambiato nulla.

L’auto arrivò, lasciandola davanti all’entrata della Residenza più in fretta di quanto avrebbe voluto. Prima di bussare alla porta, diede uno sguardo alla città. Si trovava in un quartiere elegante, con splendidi haveli dove vivevano ricchi mercanti, e con pochi edifici inglesi che si ergevano determinati, circondati da giardini rigogliosi, profumati di fiori. Eliza inspirò profondamente. Se avesse bussato molto piano, il maggiordomo non avrebbe sentito, e forse non sarebbe stata costretta a entrare e a fare quel che doveva fare. Avrebbe voluto mandare indietro le lancette dell’orologio: tornare ai giorni con Jay al suo palazzo, i più felici della sua vita, giorni che non sarebbero tornati mai più. Non c’era modo di cambiare il corso delle cose, non importava quanto combattesse o supplicasse per contrastare il fato inesorabile. Quello era il suo destino, e dopotutto, Eliza doveva andargli incontro. Non bussò piano, ma picchiò con le nocche sulla porta. Sarebbe stato utile procrastinare l’inevitabile?

Il maggiordomo la fece accomodare all’ombra, nella veranda sul retro della casa; Eliza si sistemò con attenzione e, con la schiena rigida, cercò di tenere a bada le emozioni. Osservò gli uccelli che beccavano la ghiaia del sentiero, le macchie blu tra i rami del frangipani. La veranda era un’esplosione di fiori. Eliza si chiese quanta acqua usasse Clifford per innaffiarli, dato che sembravano sempre freschi. Soffiava una brezza leggera, ma Eliza iniziava già a sentire caldo. Si guardò intorno, chiedendosi se entrare in casa, dove per lo meno ci sarebbe stato un ventaglio.

A quel punto, il maggiordomo tornò, con una brocca di soda ghiacciata e due calici di cristallo su un vassoio d’argento.

«Il signore sta arrivando», disse, facendo un piccolo inchino a Eliza.

Quando udì dei passi, si voltò e si trovò davanti Clifford, che aveva il volto tutto arrossato.

«Dannato caldo», commentò Clifford, sedendosi di fronte a lei. «Beviamo questo e poi entriamo, se non ti dispiace».

«Assolutamente no».

Per qualche minuto rimasero in silenzio ed Eliza si godette la sensazione del vetro freddo tra le mani. Avrebbe voluto posarsi il bicchiere sulla fronte, dove avvertiva già un incipiente mal di testa dovuto al caldo eccessivo, ma non lo fece. Non si trattava solamente dell’afa: il collo e le spalle di Eliza erano rigidi per la tensione. Sarebbe riuscita a sopravvivere a tutto questo? Ogni singola cellula del suo corpo le chiedeva di andarsene di lì, ma lei rimase tranquillamente seduta, sperando che tutti i suoi turbamenti interiori non fossero visibili.

«Allora, entriamo?», chiese Clifford e le porse una mano.

Eliza annuì e gli permise di accompagnarla all’interno, fino al piccolo salotto dove era già stata altre volte.

Clifford le fece cenno di sedersi, perciò lei si accomodò su una poltrona piena di cuscini che la inghiottirono. Un errore, pensò, e si tirò su fino al bordo della poltrona. Era essenziale che rimanesse vigile e controllata.

«L’estate è un inferno, non è vero?», disse.

«Be’, in effetti io ti avevo proposto Shimla», rispose Clifford impassibile.

«Lo so».

Il lungo silenzio imbarazzato che seguì, servì a Eliza per strutturare il suo discorso.

«Clifford». Deglutì rapidamente prima di continuare. Era il momento. Non poteva più tornare indietro. «Vorrei accettare l’altra tua offerta, se è ancora valida».

Lui si accigliò.

«Intendo dire…».

«Penso di sapere cosa intendi».

«E dunque?».

Clifford sembrava stupito e, per un attimo, Eliza temette che fosse troppo tardi. Lo guardò, aspettando una risposta, ma non fu in grado di interpretare la sua espressione.

«Clifford, voglio dire che accetto la tua proposta di matrimonio». Eliza fece una pausa. «Se ancora mi vuoi».

Lui la stava ancora fissando senza parlare, poi le sorrise. «Sapevo che saresti tornata da me, ragazza mia».

Dentro di sé Eliza ebbe un moto di disgusto, ma tentò di non darlo troppo a vedere.

Clifford si alzò in piedi e si avvicinò a Eliza, rigida, tesa e triste. Lui, tuttavia, non si avvide del suo stato d’animo.

Le porse la mano e lei gli concesse di aiutarla ad alzarsi. «Mi hai reso felice. Non ti deluderò».

Eliza chinò la testa per un attimo e poi lo guardò negli occhi. Le si serrò la gola. Sarebbe riuscita a parlare o la sua voce sarebbe uscita soffocata? Clifford chinò la testa, con un’espressione perplessa, come a intuire che c’era qualcos’altro e non fosse sicuro di cosa.

«Si tratta di tua madre? Possiamo farla venire qui, se vuoi. Oppure possiamo aspettare che mi diano il trasferimento a Londra. Non dovrebbe mancare molto ormai. Tutto ciò che vuoi. Ogni tuo desiderio è un ordine per me. Basta che tu chieda», disse raggiante, come se niente potesse rovinare quel momento perfetto per lui. «Mi hai reso l’uomo più felice della terra». Si chinò per baciarla, ma lei scosse la testa e si tirò indietro, sentendosi in colpa. Si schiarì la gola prima di parlare. «Mi spiace, ma c’è una condizione».

Nel silenzio che seguì, Eliza udì il suono di un qualche uccello nel giardino. Probabilmente un ooloo, pensò. Nome perfetto per il gufo. Che cose strane le passavano per la mente in un momento come quello. Cercò di ricomporsi e tirò fuori tutto il suo coraggio.

«Ti sposerò», disse, «ma voglio che tu liberi Jay senza intaccare la sua reputazione e senza alcuna ripercussione. Tutte le accuse contro di lui devono cadere e mi devi assicurare che non verrà arrestato mai più».

«Mi fa piacere che tu abbia deciso di non sprecare la tua vita dietro un indiano. Tuttavia, Eliza, mi rendi le cose davvero difficili».

Lei deglutì. «Mi dispiace».

Clifford scosse la testa. «Ho bisogno di tempo per pensare».

«Non c’è tempo. Deve essere rilasciato oggi, perché deve firmare i contratti con gli investitori a Delhi. Se fallisce, perde tutto. L’intero progetto idrico fallirà».

«Significa così tanto quell’uomo per te?»

«Sì, ma tengo molto anche al progetto di irrigazione. Jay vuole fare del bene, Clifford, devi rendertene conto. Suo fratello non ha mai fatto nulla per il popolo e la prima volta che ho incontrato Jay, mi era sembrato un uomo senza alcuno scopo nella vita. Adesso, invece, ha uno scopo, nobile peraltro. Sai che non avrebbe mai sabotato il suo stesso progetto. Non avrebbe senso».

«E i pamphlet?».

Eliza ci pensò per un momento e riuscì solo a pensare che dietro quell’inganno doveva esserci Chatur.

«Credo che qualcuno lo abbia incastrato», disse. «Se fossi in te, andrei a interrogare Chatur».

«Sacrificheresti la tua vita per questo?»

«Sì».

«E sei disposta a sposare me in cambio del rilascio di Jay». Tacque, poi la guardò dritto negli occhi. «Eliza, devo farti una domanda».

Lei annuì.

«Pensi che potrai mai amarmi?».

Eliza colse l’immensa tristezza nei suoi occhi e sostenne il suo sguardo, ma con il ricordo di Jay inciso nella mente non ebbe il coraggio di rispondere di sì. «Prometto che ci proverò».

«Be’, forse questo dovrà bastare. Dovrò parlare di nuovo con lui, ma considera il principe Jayant un uomo libero. Sai che non potrai mai parlare a nessuno di questo nostro piccolo accordo, vero? Rovineresti la mia reputazione. Lo capisci?»

«Certamente».

«Intendo dire, Eliza, che non potrai dirlo nemmeno a Jayant».

Lei annuì.

Clifford andò nel suo studio per fare alcune telefonate e, una volta date le disposizioni, tornò da lei.

«Allora», le disse. «Che ne pensi di un piccolo viaggio a Shimla, soltanto io e te? Potremmo partire dopodomani, così avrai modo di prepararti».

«Clifford, io devo tornare in Inghilterra. Devo solo finire di fare le valigie».

Lui si accigliò.

«Oh, cielo! Mi ero completamente dimenticata di dirtelo. Mia madre è terribilmente malata, è ricoverata in ospedale. Non ho altra scelta se non quella di andare da lei. Non ha nessuno al mondo».

Clifford sembrava deluso, ma annuì. «Certamente».

«Spero di riuscire a prendere alcune copie delle mie fotografie mentre sono a Delhi».

«Credo che alcune siano già partite, ma puoi sempre andare a controllare. Ho anche qualche stampa qui. Ti aiuterò con l’organizzazione del viaggio e permettimi di riservarti un posto in prima classe sul Viceré dell’India, che è la nave più veloce. Tu inizia ad arrivare a Delhi. Ti farò recapitare i biglietti all’hotel e da lì prenderai un treno». Tacque. «Conosci l’Imperial?»

«Sì, anche se non ci sono mai stata».

«Penserò io al conto. Tutto ciò che devi fare è aspettare che arrivino i biglietti. Ci vorranno solo un paio di giorni, pagherò io la compagnia di navigazione».

«Davvero, non posso accettare tutto questo».

«Insisto, e quando tornerai, sicuramente Julian Hopkins e Dottie ti inviteranno a stare da loro fino al matrimonio. Hai idea di quanto dovrai rimanere in Inghilterra?»

«Il tempo che occorre, immagino».

«Ho una cosa per te», le disse, e aprì un cassetto della scrivania di mogano di fronte alla porta. Prese una scatolina foderata di velluto e tornò da Eliza. «Spero che ti vada bene».

Eliza sollevò il coperchio e tirò fuori un anello d’oro, con rubini e diamanti incastonati.

«Era di mia madre. Ti piace?».

Annuì mentre lui glielo infilava al dito, senza badare alle lacrime che le facevano bruciare gli occhi.

«Preparerò un annuncio sul “Times”», disse Clifford. «Non c’è una macchina disponibile per qualche giorno. Andrà bene il treno?».

Eliza annuì nuovamente; Clifford non si rese nemmeno conto che lei avrebbe soltanto voluto chiudersi in se stessa e morire.

28

Maggio

Clifford era un uomo abbastanza rispettabile, anche se mancava di sensibilità – non aveva neppure notato la disperazione che aveva attraversato il volto di Eliza quando aveva accettato di sposarlo. O forse l’aveva notata, ma non aveva voluto riconoscerla.

Era un uomo che si accontentava della propria opinione sul mondo, definita in base a rigide convenzioni e preconcetti, almeno per quanto riguardava l’India. Eliza pensò che avrebbe trovato un modo per sopravvivere, ma cosa sarebbe accaduto se, ogni volta che l’avesse toccata, si fosse sentita morire un po’? Cercò di consolarsi, pensando che sarebbe riuscita a farsi forza, anche contro i suoi reali sentimenti. Avrebbero avuto dei bambini, sempre che non fosse troppo tardi: sarebbe diventata madre e avrebbe potuto offrire ai suoi figli una vita agiata. Quello doveva pur valere qualcosa. E avrebbe continuato a fare fotografie.

Ma la sua anima gridava per la passione e la gioia provate insieme a Jay, come se avesse dato una fugace occhiata al paradiso dalla porta socchiusa di una prigione, che poi era stata nuovamente chiusa di scatto. Forse l’euforia non sarebbe durata a lungo, in ogni caso non l’avrebbe mai saputo. Mentre preparava le sue cose, scegliendo quelle che le sarebbero tornate utili in Inghilterra, provò una stretta al cuore. Avrebbe voluto mettere in valigia anche il ricordo delle mani di Jay sulla sua carne, le sue labbra, la sua voce e il turbamento che le dava. Impossibile. Non sarebbe mai riuscita a mettere da parte i suoi sentimenti, né avrebbe mai dimenticato il profumo di sandalo e lime. Né i suoi occhi ambrati. Era stata un’ingenua a pensare che avrebbe avuto un futuro con Jay. Si consolò con la consapevolezza di non aver abbandonato Laxmi, e che almeno Jay sarebbe stato libero di portare a termine il suo progetto. Pensava a questo quando udì bussare lievemente alla porta: Laxmi entrò, con la lunga sciarpa fluente. Era la seconda volta che andava a trovare Eliza nelle sue stanze.

La donna le prese le mani. «Sarò sempre in debito con te per ciò che hai fatto oggi».

Eliza represse un gemito e le fece un piccolo cenno di assenso, temendo di lasciar trapelare anche solo un briciolo di quella sua terribile solitudine interiore, ma non le si avvicinò e guardò semplicemente a terra.

«So quanto deve essere stato difficile per te», aggiunse Laxmi.

Eliza alzò lo sguardo. «Non ne hai idea».

«Io credo di sì. Hai compiuto un gesto profondamente generoso e altruista. Hai liberato mio figlio quando nessun altro avrebbe potuto farlo».

«Non ho avuto scelta».

«Forse, ma non tutti sarebbero stati disposti a farlo. Hai mostrato il tuo autentico valore, come donna. Se la situazione fosse stata diversa, sarei stata orgogliosa di averti come nuora, figlia mia».

Eliza non riuscì a trattenere le lacrime e, quando cercò di replicare, la sua voce si spezzò.

«A volte la vita ci mette di fronte a decisioni impossibili da prendere. So quanto profondamente hai a cuore mio figlio e quanto lui tenga a te», continuò Laxmi, «ma spero che tu comprenda che, come madre, ho dei doveri».

«Grazie per tutto il supporto durante la mia permanenza qui», riuscì a dire Eliza con la gola serrata. Ammirava così tanto Laxmi, nonostante fosse stata l’unico vero ostacolo tra lei e Jay.

«Mi dispiace molto che non ci sia stato il lieto fine per te».

«Sto partendo per l’Inghilterra. Mia madre è molto malata».

«Allora i miei pensieri benaugurali andranno al tuo viaggio. Spero che un giorno comprenderai la mia posizione».

Eliza non riuscì a rispondere.

«Vieni, mia cara».

Le si avvicinò e Laxmi la strinse tra le braccia. Eliza pensava di aver smesso di piangere, invece le lacrime ripresero a sgorgare.

Il viaggio di una notte verso Delhi iniziò nel pomeriggio. Sul treno il caldo era insopportabile e la carrozza era piena di gente. Temeva il potere del raj inglese su quegli uomini e quelle donne, e non voleva far parte della loro cerchia, tuttavia, sposando Clifford, sarebbe diventata una di loro e avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. Era sempre più convinta che gli inglesi avrebbero dovuto lasciare l’India. La sua sola speranza era che il movimento nazionalista prendesse il controllo senza troppo spargimento di sangue. Come molti altri, era certa che sarebbe accaduto, dato il modo in cui stavano andando le cose. Il suo abito era già zuppo di sudore e lei era costretta ad asciugarsi costantemente la fronte. Si tolse l’anello di fidanzamento perché le si stavano gonfiando le dita delle mani, o almeno fu quello che si disse. Allora, per sopportare il tedio e il viaggio lungo, lento e scomodo, pensò a tutte le fotografie che aveva scattato. Nessuno gliele avrebbe mai portate via.

Le immagini sembravano emergere dal nulla, riempivano la sua mente, andavano e venivano. Prima pensò all’accampamento dove era stata con Jay: gli uomini avvolti nei mantelli, la mattina presto, accovacciati accanto al fuoco. I laghetti dove i ragazzini portavano i loro bufali. Il lago all’alba, e poi al crepuscolo. I volti degli uomini Rajput e i loro cammelli. I colori della reggia, come gioielli. Le luci notturne, come in una fiaba. I giochi di luce sull’acqua delle fontane dei giardini. I parrocchetti e le libellule. Le concubine che si spazzolavano i capelli. Le donne fiere, dignitose, i loro vestiti sgargianti. I bazar. I bambini. Il cielo blu, vasto e liquido. Le fotografie dei reali e di Indi, che guardava il mondo con quei suoi occhi che sembrava sapessero tutto.

Poi le vennero in mente le piogge che sapeva sarebbero arrivate, si sentì infelice perché non sarebbe mai andata a vedere i cieli color prugna e i monsoni torrenziali. Avrebbe desiderato essere a Udaipore, la città dei laghi circondata dai monti Aravalli, nella fortezza in cima alle colline da dove avrebbero ammirato tutto. Non aveva mai davvero pensato di dover lasciare l’India prima dell’arrivo delle piogge, e invece era così. Se ne stava andando. Le tempie le pulsavano e le facevano male per il dolore; non riusciva a non ascoltare il rumore delle ruote del treno sulle rotaie, così fastidioso che la monotonia di quel suono, clickety click, clickety click, clickety click, sembrava provenire da dentro la sua testa.

Si portò una mano alla bocca, come per sbarrare la strada al pianto che minacciava di trovare la sua via d’uscita. Il tempo, scuro e vuoto, la stava allontanando dall’uomo che amava per costringerla a sposare un uomo che non voleva. Ancora e ancora, i suoi sogni infranti sembravano derisi dal suono delle ruote del treno sulle rotaie. L’uomo che amava, clickety clack; sposava un uomo che non voleva, clickety clack.

Poi pensò a sua madre, sola in un letto d’ospedale, che affrontava la morte senza nessuno che le volesse bene accanto. Vivere un’intera vita e rimanere senza una sola persona vicina, era un ben misero destino. Per quanto fosse stata una pessima madre, Anna meritava di meglio. Anche se il cuore di Eliza era bloccato, come stretto in una morsa, avrebbe fatto tutto quel che poteva per lei. Alla fine sarebbe stata una figlia diligente, grata per aver avuto un’ultima possibilità di redimersi.

A Delhi c’era brutto tempo e una nebbia calda avvolgeva la città. All’Hotel Imperial la sua camera era piccola ma confortevole. Aprì la porta del bagno e vide la vasca sul pavimento di piastrelle bianche e nere, con il solito lavabo, il gabinetto e un grande specchio appeso al muro. Lasciò aperte le pesanti tende alle finestre in modo da riuscire a vedere il cielo mentre stava sdraiata sul letto, sperando di addormentarsi per prepararsi alla fase successiva del viaggio. Non sapeva se sarebbe partita entro qualche giorno o prima. Sperava di poter recuperare qualche stampa delle sue foto dalla tipografia per portarla in Inghilterra e mostrarla a sua madre Anna, e magari anche a qualche giornale locale. Cercava solo di far riposare un po’ la sua mente esausta e di dare sollievo al corpo dolorante, dilaniato dall’emicrania sin da quando aveva lasciato Juraipore.

Anche se il ventilatore nella stanza era acceso, sembrava che spostasse aria calda; quindi, dopo poco, decise di chiudere le tende per schermare la luce e, con i muscoli irrigiditi dal viaggio, si sdraiò sul copriletto di seta azzurra. Tuttavia, continuava a rigirarsi nel letto in cerca di una posizione comoda, senza riuscire a smettere di pensare. Soltanto in quel momento, proprio mentre stava per lasciare l’India, si rendeva conto di quanto la considerasse casa propria, come faceva da bambina. Per lo meno, quando sarebbe tornata per sposare Clifford, si sarebbe trovata di nuovo in India, perché l’Inghilterra non avrebbe mai potuto toccare il suo cuore quanto quel Paese tanto selvaggio e palpitante.

Infilò di nuovo al dito l’anello di fidanzamento e lo girò per farlo sembrare una fede nuziale, simbolo del suo impegno nei confronti del marito. Non poté fare a meno di sentirsi in trappola e se lo sfilò nuovamente. Ricordò di aver sollevato l’argomento del suffragio delle donne con Anna, che in proposito era stata perentoria; aveva alzato la voce con un’espressione disgustata. «Le donne non hanno bisogno di votare», aveva detto. «Quello lo fanno i mariti. Che ne sappiamo noi della politica?»

«Madre, perché non possiamo informarci e fare le nostre scelte?»

«Quello che ti serve, Eliza, è un marito, non un voto. E poi, come ti ho già detto tante volte, non puoi avere un lavoro, intraprendere una carriera ed essere una brava moglie. Le donne non possono avere tutto».

A quel punto, Eliza ci aveva rinunciato. Niente avrebbe potuto far cambiare idea a sua madre, e dopo qualche tempo aveva incontrato Oliver nella libreria. Il matrimonio era stato una via di fuga.

Dopo un’ora di riflessioni sui tempi andati, Eliza si alzò di nuovo, si lavò e si vestì con abiti puliti. Se non riusciva a riposare, tanto valeva che si muovesse. L’hotel le procurò una macchina e, quando uscì in strada, si accorse che la nebbia si era diradata, il che significava che avrebbe potuto vedere solamente la nuova parte della città prima che facesse buio. Per prima cosa si fece portare al nuovo palazzo del viceré, centro del governo britannico, e ne ammirò l’architettura splendente. Era stato portato a termine giusto nel mese di febbraio ed era quindi la prima volta che aveva l’opportunità di ammirarlo.

Non si era aspettata di arrivare fino a una grande strada coperta di ghiaia, dalla quale in lontananza si vedeva la straordinaria serie di cupole e torri rosse, rosa, crema e bianco smagliante. La macchina passò sotto una bassa arcata ed Eliza rimase impressionata dagli ampi prati punteggiati da alberi che costeggiavano su entrambi i lati la grande strada chiamata “Reale”, e dalla rete di canali scintillanti che sembravano seguirla. L’autista le disse che la strada doveva essere lunga quattro o cinque chilometri, ma non ne era sicuro; però sapeva che era illuminata da lampioni fino alla fine. Tutti gli edifici al termine della strada erano imponenti, ma fu la dimora del viceré che lasciò Eliza senza fiato, con il suo stile che ricordava quello rinascimentale italiano. Le pietre brillavano nella luce soffusa e, da tutto quello splendore, si poteva dedurre che gli inglesi fossero convinti di poter governare l’India per sempre. Era quello il risultato finale della parata trionfale che si era tenuta a Delhi, nel 1912; nel giorno infausto in cui la bomba era stata gettata contro il viceré, e in cui era morto anche David Fraser, si celebrava proprio il trasferimento della sede del governo britannico.

Eliza guardò le fontane scintillare al sole del tramonto, mentre il cielo sfumava dal blu al rosa intenso, e desiderò apprezzare meglio la città; ma per lei era troppo legata alla tragedia. Quando scese l’oscurità, chiese all’autista di mostrarle i viali che si irradiavano dal palazzo principale, fiancheggiati da edifici spaziosi e giardini pieni di fiori vivaci. Poi, sulla via del ritorno all’hotel, il cielo di velluto divenne sempre più scuro e la città sembrò esplodere in una miriade di luci sfavillanti, riflesso terrestre di un angolo di paradiso.

Il pomeriggio seguente, dopo aver trovato le tipografie chiuse, stava giusto per rientrare all’Imperial quando, guidata da un inspiegabile istinto, si voltò e tornò sui suoi passi. Una frazione di secondo più tardi, udì un rombo fragoroso, come se un tuono fosse stato sparato da un cannone. Restò a bocca aperta alla vista di un’enorme coltre di fumo salire dalla finestra più bassa dell’edificio dall’altra parte della strada. L’esplosione fu seguita dal frastuono dei vetri che si infrangevano e dal rumore dei mattoni e dell’intonaco che crollavano a terra. Terrorizzata, vide le fiamme lambire gli infissi delle finestre del primo piano. In pochi minuti i vetri erano andati in pezzi e le lingue di fuoco arancioni e gialle erano salite in aria. Non riuscì a capire bene cosa fosse stato danneggiato, a causa della polvere e del fumo, ma sembrava proprio che qualcosa fosse esploso all’interno dell’edificio, proprio quello in cui dovevano trovarsi le sue stampe. Le fiamme ormai divampavano dalle finestre di tutti i piani del palazzo; si infransero altri vetri, poi si udì un altro rumore fragoroso e i detriti volarono in aria, prima di andare a posarsi a terra. Il fumo nero si alzò nel cielo e le bancarelle attorno al fabbricato furono ricoperte di cenere, mentre sbuffi di polvere bianca si levavano dalla strada.

Eliza fece qualche passo verso il palazzo, sperando che nessuno fosse rimasto ferito, o peggio, poi si ricordò che lo stabile era chiuso e non vedeva morti o feriti a terra, almeno sul suo lato della strada. Sentiva tossire e l’unico altro suono era il crepitio del fuoco. Un attimo dopo, una folla di creature nere come demoni invase la via, sul lato dell’Imperial; alcune avevano tagli sulle braccia e sui volti, probabilmente dovuti ai vetri delle finestre, esplosi e frantumatisi in volo. Eliza cercò di capire se qualcuno potesse aver bisogno d’aiuto, poi il fumo pesante la fece fermare. Al centro della strada la nube di detriti e la polvere si stavano diradando, e fu soltanto allora che lo vide, solo e coperto di cenere grigioazzurra.

Eliza gli corse incontro, e anche lui la vide.

29

Jay le sorrise debolmente. Un istante dopo si accasciò su se stesso e cadde a terra. Col cuore in gola, Eliza corse da lui e gli si inginocchiò accanto sulla ghiaia nera del terreno, gli accarezzò il viso e lo supplicò di aprire gli occhi. Ma Jay non rispose. La paura le attanagliò il petto, mentre gli diceva ripetutamente che presto sarebbero arrivati i soccorsi e che doveva resistere, che lei gli era vicino e che non gli sarebbe accaduto niente di male.

Un dipendente dell’albergo corse fuori per convincerla a tornare dentro, perché c’era il rischio che cadessero dei detriti, o anche peggio, ma lei rifiutò.

«I soccorsi arriveranno presto», disse il portiere dell’hotel, ma poi scappò via anche lui. Sulla strada c’erano soltanto lei e Jay, ma Eliza riusciva a sentire che la folla dietro di loro, sulla scalinata dell’albergo, aveva ritrovato la voce: le persone piangevano per lo shock e il sollievo di essere sopravvissute, e raccontavano le loro storie con toni concitati. Cercò di non ascoltare il vocio e di concentrarsi su Jay.

Respirava ancora, cosa che la confortò, e non sembrava che avesse lesioni visibili.

Forse qualcosa l’aveva colpito alla testa? Non staccò gli occhi dal suo viso, cercando il minimo segno di movimento. Le campane presero a suonare e un uomo fece spostare la folla su un lato della strada, poi, appena il dottore con il camice bianco apparve, Jay aprì gli occhi e riprese conoscenza.

«Ho firmato i contratti», le disse, cercando di sollevare la testa. «Ce l’abbiamo fatta».

Eliza lo guardò e non poté fare a meno di sorridere. «Per poco non ti uccidevano e la prima cosa che mi dici è che hai firmato i contratti?».

Anche Jay sorrise, poi con un tremito si abbandonò sul terreno e perse di nuovo i sensi. Eliza, che fino a quel momento aveva cercato di trattenere le lacrime, scoppiò a piangere.

«Respira ancora?», chiese il dottore inginocchiandosi accanto a Eliza.

«Non ha mai smesso di respirare», rispose lei, aggrappandosi a qualsiasi speranza. «Cosa gli è successo? Si riprenderà, non è vero?»

«Non sono ancora in grado di dirlo». Auscultò il torace di Jay, poi si rivolse di nuovo a lei. «Conosce quest’uomo?»

«È Jayant Singh Rathore, un raja di Juraipore».

«E lei sarebbe?»

«Un’amica», rispose, anche se avrebbe voluto rispondere “Sono la donna che lo ama”.

«Bene, c’è un letto all’ospedale per lui».

«Posso venire?». Tacque per un attimo. «Per favore?»

«Non sarebbe consentito, visto che non è una parente, ma dato che sembra conoscerlo bene, potrà venire anche lei».

All’ospedale Eliza non si allontanò mai da Jay. Per il resto della giornata e durante tutta la notte, rimase seduta, da sola, su una sedia di legno, cercando soltanto di non piangere davanti a tutti. “Devi vivere”, gli sussurrava in quel tempo diluito e lento. “Devi vivere. Non puoi morire”. Che quell’uomo forte e meraviglioso potesse finire così era una cosa inaccettabile, ed Eliza si aggrappò al fatto che fosse giovane e in salute. Se c’era un uomo in grado di superare ogni difficoltà, quello era Jay. Ma ogni ora che passava non portava alcun segno di miglioramento. Osservava le sue guance grigie per vedere se cambiassero colore, o se il sangue riprendesse a scorrere sulle sue labbra livide; cercava il minimo, infinitesimo battito di ciglia. Ma niente. Jay era mortalmente pallido, non sembrava nemmeno vivo.

Eliza pensò a Clifford e a sua madre, anche lei allettata e sola in un ospedale; l’aveva completamente dimenticata. Qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe dovuta partire.

Il giorno seguente chiese a un’infermiera di preparare un telegramma da inviare a Laxmi e il dottore la rimandò all’hotel, dicendole che doveva mangiare e dormire. Eliza ci provò, ma il cibo le faceva rivoltare lo stomaco e, quando tentava di addormentarsi, la sua mente era preda di attacchi d’ansia. Fu soltanto allora che realizzò che le sue stampe e le sue lastre fotografiche forse erano andate distrutte nell’esplosione.

Dopo qualche ora insonne, si lavò, si cambiò e scese fino alla hall dell’albergo per chiedere se fossero arrivati i suoi biglietti, sperando che così non fosse. Nel momento in cui il portiere le porse una busta, lei la strappò e la aprì. Il treno sarebbe partito quella sera stessa, da lì a un paio d’ore. Salì le scale, corse alla sua camera, preparò le valigie e si fece portare all’ospedale da un autista. Doveva rivedere Jay prima di partire per sapere che stava bene. Quando arrivò sul posto, il medico la prese da parte. La accompagnò in uno studio e le fece cenno di sedersi. «Ha ripreso conoscenza». Eliza fece un bel respiro di sollievo, con gli occhi lucidi.

«Ha un’emorragia interna, ma ci sono buone speranze che si riprenda».

Eliza si portò una mano alle labbra per nasconderne il tremore.

«È molto debole, ma ha chiesto di lei. Per favore, cerchi di non farlo stancare. Anche se gli ho spiegato a grandi linee che cosa è accaduto, non ricorda nulla dell’incendio. Per piacere, non dica niente che possa turbarlo».

Eliza annuì, col cuore gonfio di speranza e, al contempo, di terrore.

«Le darò qualche minuto, poi verrò a chiamarla. È in condizioni gravi, deve capire».

Eliza annuì nuovamente e si asciugò quelle stupide lacrime che continuavano a scendere. Jay era vivo, era quello l’importante. Avrebbe voluto correre fino al suo letto, ma respirò a fondo, si alzò dalla sedia e si costrinse a camminare lentamente, a testa alta. Sentì un nodo in gola, ma si disse di restare calma, proprio come avrebbe fatto Laxmi.

Quando arrivò al suo letto, gli occhi di Jay erano chiusi e per un unico, terribile istante, Eliza temette che il dottore si fosse sbagliato e che Jay non si fosse affatto ripreso; tuttavia, probabilmente lui l’aveva sentita arrivare perché aprì gli occhi improvvisamente. Aveva un colorito migliore e anche le labbra erano visibilmente più vive. Notò tutti quei dettagli di sfuggita, perché riusciva realmente a guardarlo soltanto negli occhi, in attesa che lui la riconoscesse.

«Eliza».

Con la vista appannata dalle lacrime, Eliza avvertì un groppo in gola. La voce di Jay era calda e dolce, e le fece desiderare di poterlo abbracciare e tenerlo stretto per infondergli nuova forza.

«Non parlare, ti stancherai», gli disse.

«Non capisco come sia successo, ma Clifford Salter mi ha fatto rilasciare».

Eliza gli si avvicinò. Lui le prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò. Rimasero in silenzio, Jay richiuse gli occhi con la mano di Eliza nella sua.

«Adesso non ha importanza», suggerì lei.

Jay riaprì gli occhi e le sorrise. «Andremo lontano, solo io e te. Ci accamperemo e poi raggiungeremo Udaipore, prima delle piogge».

Eliza sbatté le palpebre rapidamente. «Mia madre è malata. Sto tornando in Inghilterra».

«Allora lo faremo quando tornerai».

Lei annuì, non poteva dirgli che avrebbe dovuto sposare Clifford al suo ritorno, non sarebbe neanche riuscita a spiegarglielo. Per fortuna non aveva indosso il suo anello di fidanzamento. Doveva cercare di non dire cose che avrebbero potuto farlo agitare troppo e compromettere il suo recupero.

«Ti amo, Eliza», disse piano. «Main tumhe pyar karta hu aur karta rahunga».

«Anch’io ti amo. Per sempre. Con tutta me stessa».

Rimasero così, mano nella mano; Jay era debolissimo mentre Eliza faceva ricorso a tutto il suo coraggio. Perlomeno è vivo, si disse. Vivo.

Poi udì un colpetto di tosse e si girò in tempo per vedere il dottore sulla porta. Indicò l’orologio. «Temo che il tempo sia finito. È molto debole».

Annuì e si alzò in piedi. Poi si chinò su Jay e lo baciò teneramente sulle labbra. «Arrivederci, Jay».

Lui non disse nulla, ma sollevò la mano e le passò le dita sull’attaccatura dei capelli.

Per strada, completamente devastata dall’accaduto, triste e sconfortata, Eliza imboccò un vicolo e si accucciò a terra. Si sentiva schiacciata e svuotata, come se il suo corpo fosse improvvisamente diventato liquido e scivolasse via, oltre i limiti del suo mondo. Tutto era andato distrutto: il sogno di organizzare una mostra a ottobre si era infranto e c’era persino il rischio che anche tutte le sue fotografie fossero bruciate nell’incendio; peggio, era andata in pezzi la sua storia d’amore con Jay, a cui si aggiungeva il timore che lui potesse non sopravvivere. Non avrebbe mai potuto dirgli la verità. Nascose il volto tra le braccia e pianse, convinta che non sarebbe mai più riuscita a uscire da quell’incubo.