Edward si accigliò. «Come ti ho appena detto, ho contatti di tutto rispetto».
Lei annuì. «Sai, sono andata a vedere la casa».
Parve sorpreso. «Da sola?».
Belle scosse la testa, ma, per motivi che non riusciva a spiegare, non le andava di confessargli di esserci andata con Oliver. Né di rivelargli che avevano in programma di rivedersi il suo prossimo giorno di riposo. «È in condizioni pietose», disse piuttosto.
«Sì, ci credo. Sai che adesso potrebbe tranquillamente essere tua, no?»
«Sul serio?»
«Te l’ho detto, non l’hanno venduta».
«Come fai a saperlo?».
Lui esitò per un secondo. «È abbastanza risaputo. Ovviamente dovrai seguire tutte le procedure legali all’ufficio del catasto, dimostrare che sei chi dici di essere e presentare il certificato di morte di tuo padre, cose di questo genere».
Belle faticò a metabolizzare la notizia. Solo un attimo prima era una forestiera, e adesso c’era la possibilità di diventare la proprietaria di quella villa enorme.
«Probabilmente vorrai venderla. Basta che mi avvisi se vorrai disfartene. Non mi dispiacerebbe comprarla. Certo è che saranno necessari dei lavori. Un sacco di lavori».
Lei annuì e, volendo cambiare discorso, gli chiese chi avrebbero potuto incontrare al club Pegu.
Giunti alla periferia della città, si avvicinarono al club. Belle vide un grande edificio vittoriano interamente circondato da alberi e abbracciato da una veranda ombreggiata; l’aria era carica del profumo dei fiori di gelsomino e frangipani. Edward le spiegò che era stato costruito prevalentemente in tek negli anni Ottanta del 1800 per gli ufficiali dell’esercito britannico e i civili che lavoravano nell’amministrazione. E aveva fama di essere uno dei circoli signorili più rinomati del sud-est asiatico, un po’ come il club Tanglin a Singapore.
«L’ingresso è consentito ai soli soci», aggiunse, «perlopiù membri del governo, ufficiali dell’esercito e imprenditori di spicco. Purtroppo ora come ora è più che altro una reliquia. I tempi cambiano, dico bene? E a volte in peggio».
«Ed entrano soltanto gli uomini?»
«Non più, o almeno, non nei fine settimana. Nell’immaginario collettivo, questo posto era la vera sede del potere della Birmania».
Entrarono nella sede principale del circolo, con i pavimenti di parquet lucido che brillavano e i grandi ventilatori a soffitto che spostavano l’aria calda.
Tenendole una mano poggiata poco sopra il fondoschiena, Edward la guidò oltre la sala da biliardo e un’ampia sala da pranzo, fino a un salottino buio ma accogliente sul retro dell’edificio. Belle passò in rassegna i volti annoiati di uomini di mezz’età intenti a fumare il sigaro o nascosti dietro i giornali, mentre le loro mogli dedicavano scialbi sorrisi al niente e sorseggiavano gin con ghiaccio.
Quando si furono accomodati entrambi su poltrone consunte di pelle marrone, Edward le suggerì di provare il Pegu Cocktail prima di pranzo.
«È il nostro cocktail distintivo. Gin e succo di lime. Succo Rose’s, ovviamente».
Belle annuì, avendo già capito che in quel Paese essere astemi era proprio impossibile, ma si ripromise di limitarsi a una sola bevuta. Non si era ubriacata quando lei e Rebecca erano andate a Chinatown, non aveva osato spingersi a tanto, ma si era scolata due bottiglie di birra e le erano bastate.
Arrivarono le bevande, servite in bicchieri ghiacciati con una fettina di lime, e quando Belle ne bevve un sorso, pensò che avesse lo stesso sapore dell’uva. «Davvero rinfrescante», commentò mentre il gin le spumeggiava nel sangue e le dava subito alla testa.
Rimasero seduti in silenzio per qualche minuto, e lei si guardò attorno, esaminando la clientela. I presenti erano proprio come li aveva descritti Edward e vestivano in modo formale persino di domenica. Le poche donne, che in prevalenza indossavano abiti a fiori accollati e tendenzialmente scialbi, parlavano a bassa voce, mentre il brusio più alto era composto da voci nettamente maschili.
«Il circolo prende il nome dal Pegu, un fiume birmano», disse Edward.
«È solo per i britannici?».
Lui si accigliò. «Ho paura che siamo piuttosto all’antica. Niente asiatici. So che le cose stanno cambiando e c’è chi pensa che dovremmo cambiare anche noi, ma…». Allargò le braccia, mani rivolte verso l’alto, minimizzando.
Belle si chiese cosa avrebbe detto Oliver. Doveva essere proprio ciò che detestava dei colonialisti britannici, e forse aveva ragione. Nemmeno lei giustificava il plateale atteggiamento anti-birmano e vedeva il modo in cui quegli uomini dalla mentalità ristretta si sentivano obbligati a difendere a ogni costo il potere e la supremazia britannici.
Edward si schiarì la voce e passò un dito all’interno del colletto della camicia. Se Belle non avesse saputo come stavano realmente le cose, avrebbe detto che sembrava un po’ nervoso.
«Senti un po’, Belle», disse, «in realtà speravo che mi permettessi di portarti a cena fuori una di queste sere. Una cosa tranquilla. Soltanto noi due».
Sorpresa, lo fissò a bocca aperta.
«Per conoscerci meglio», aggiunse, stampandosi un gran sorriso in faccia. «Sarebbe così sconveniente? La prossima sera che non lavori?»
«No… voglio dire, certo che non sarebbe sconveniente… è solo che…». Non finì la frase.
«O magari preferisci accompagnarmi alla prossima cena a casa del governatore?».
Lei fece per replicare, ma Edward le rivolse un cenno di scuse e si alzò in piedi. «Ah, ecco il vecchio Ronnie Outlaw. Potrebbe esserti d’aiuto».
Anche Belle si alzò.
L’uomo che si avvicinò al tavolo era chiaramente in pensione. Aveva un’andatura appena zoppicante e si sorreggeva a un bastone con il puntale d’argento. Gli enormi baffi bianchi compensavano l’assenza di capelli in testa, e quando Edward gli diede una pacca sulla schiena e gli spiegò che Belle sperava di incontrare chi all’epoca potesse aver conosciuto i suoi genitori, gli Hatton, l’anziano si mise sull’attenti.
Poi socchiuse gli occhi di un azzurro slavato e si accomodò su una poltrona. «Li conoscevo poco, e all’epoca ero assegnato a Mandalay, quindi le nostre strade non si sono incrociate più di tanto. Hanno fatto una brutta fine?». Inarcò le sopracciglia e scoccò un’occhiata a Edward, che annuì. «Le sue decisioni hanno dato fastidio a qualche personalità influente, quando presiedeva l’Alta Corte?».
Edward fece ancora cenno di sì.
«Allora, giovane fanciulla, da dove viene?», continuò Ronnie.
«Da Cheltenham», rispose lei con tutta la grazia che riuscì a chiamare a raccolta.
«College femminile?».
Belle annuì, ma continuava a domandarsi a chi avesse dato fastidio suo padre.
Ronnie rimase in silenzio per qualche secondo e Belle si chiese se le rivelazioni fossero finite lì, ma poi, all’improvviso, gli brillarono gli occhi. «Stia a sentire. Alla fine, quando ci trasferimmo a Rangoon, mia moglie, Florence, fece amicizia con una donna, Simone qualcosa… Simone… Oh, accidenti, come si chiamava? La moglie del dottore. Comunque, sono quasi sicuro che Simone fosse molto legata a sua madre».
«Sa mica dove abita?»
«Non ne ho la più pallida idea, ma penso che lei e Florence si scrivano ancora delle lettere. Sa che le dico? Perché non chiede alla sorella di Edward di portarla su a Gossip Point? Tutte le signore si incontrano lì. Può farsi una bella chiacchierata con Florence. Le dica che è andata a scuola a Cheltenham e se la farà amica a vita».
«Davvero?».
L’uomo fece una piccolissima pausa prima di rispondere. «Nostra figlia, Gracie, è stata là in convitto per quattro anni».
«E adesso vive a Cheltenham?».
Ronnie abbassò gli occhi, poi risollevò lo sguardo. «Purtroppo, no. Si è presa la malaria. Non è mai arrivata al suo sedicesimo compleanno».
«Mi dispiace tantissimo».
«La ringrazio».
Calò un attimo di silenzio durante il quale Belle non seppe cosa dire. Per fortuna, però, intervenne Edward, che ringraziò Ronnie per il suo aiuto e gli offrì uno stengah, un drink composto da whisky e soda in parti uguali, servito con ghiaccio.
«Gloria dice che hai dei contatti nel mondo dello spettacolo», disse Belle quando Ronnie, una volta finito il suo drink, li lasciò da soli.
«Sì, è vero. Potrei mettere una buona parola per te, se lo desideri».
Gli sorrise, felice. «Mi faresti una grande cortesia. Sai, per il futuro, dopo la Birmania».
«Forza, parlami dei tuoi sogni».
«Viaggiare e continuare a cantare per guadagnarmi da vivere, ovviamente».
«Mi piacciono le ragazze indipendenti», disse lui con una risata, e si sporse per stringerle la spalla.
Quando svoltò nel corridoio che portava alla sua stanza, Belle si fermò. Aveva chiesto a Edward di lasciarla poco lontana dall’albergo per potersi ritagliare un po’ di tempo per riflettere. Troppo caldo, era stato un errore. Per il momento, a parte Rebecca, nessuno sapeva del biglietto anonimo, ma per lei era un chiodo fisso. Quando aveva chiesto all’indovino di chi si sarebbe dovuta fidare, l’uomo le aveva detto che era la domanda sbagliata e che presto avrebbe affrontato un viaggio. Di quello, per ora, neanche l’ombra. Tanto erano solo un mucchio di sciocchezze, probabilmente.
Aveva sperato di prendere una boccata d’aria fresca, ma con quel caldo tropicale finì col barcollare in camera con il vestito madido di sudore. I pomeriggi erano davvero inaffrontabili. Non c’era da stupirsi se la maggior parte dei britannici scappava a casa per fare un riposino, malgrado il caldo riuscisse comunque a penetrare anche le pareti più spesse. Prima di andarsene, Edward le aveva ricordato l’invito ad accompagnarlo a cena a casa del governatore. Quando l’aveva ringraziato e aveva accettato, le era parso sinceramente felice e le aveva detto che a tempo debito le avrebbe comunicato la data precisa. Belle decise che avrebbe potuto parlargli del biglietto in quell’occasione.
La successiva sera di riposo, Belle aspettò Gloria nell’atrio dell’albergo. Sarebbero andate insieme a Gossip Point, anche se Belle nutriva sentimenti contrastanti in merito. Seppure interessata a scoprire se Florence Outlaw fosse rimasta in contatto con l’amica di sua madre, Simone, trovava al contempo che l’intera vicenda fosse stancante. In giornata aveva chiamato gli uffici della «Rangoon Gazette», dove aveva accettato di incontrarsi con Oliver, ed era rimasta delusa nell’apprendere che era fuori città per lavoro e non sapevano quando sarebbe tornato.
Credi di sapere di chi ti puoi fidare? Pensaci meglio…
Si era fidata di Oliver, non era forse così? Le piaceva molto. E di Gloria?
Scosse la testa, poi si accomodò su un divanetto a righe a sorseggiare l’acqua con ghiaccio che aveva ordinato e, poco tempo dopo, l’amica la stava salutando allegramente dalla porta in un turbinio di guanti, cappello, tacchi alti e profumo. L’abito di quella sera era scarlatto e stretto in vita, con un ampio colletto bianco.
«Cara. Sbrigati. Ci perderemo il meglio», disse a Belle. Poi aggiunse in un sussurro volutamente udibile: «Anche se, in tutta onestà, vengo solo perché altrimenti quelle vecchie pettegole sparlerebbero di me».
Belle sorrise e ironizzò: «Non è possibile! Cosa mai potrebbero avere da ridire su di te?».
Gloria rise. «Resta al mio fianco, ragazzina, e lo scoprirai».
Il portiere tenne loro aperta la porta e, non appena si furono sistemate sul sedile posteriore dell’auto, le due donne ripresero la conversazione.
«In effetti», disse Belle, «avevi promesso che mi avresti raccontato la tua storia se fossi venuta alla festa in piscina. Io ho fatto la mia parte».
Gloria alzò gli occhi al cielo. «Anch’io. E l’unica cosa che ci abbiamo guadagnato è che hai conosciuto quel Donohue».
«Oliver».
«Proprio lui. È incredibilmente attraente, te lo concedo… con quegli occhi azzurri così seducenti! E ammetto di aver nutrito un interessamento superficiale per lui, ma non è…». Si interruppe.
«Non è cosa?»
«Uno di noi».
«Non pensavo che a te importasse».
Gloria assunse un’aria sprezzante. «Be’, infatti, non più di tanto. Ma io non passerei troppo tempo con lui. L’hai rivisto, vero?».
Belle la osservò con attenzione. «E tu come fai a saperlo?»
«L’ironia di Rangoon è che in una città piena di segreti come questa è impossibile fare qualcosa senza che gli altri lo scoprano».
Belle si accigliò. «E perché dovrebbe interessare a qualcuno?»
«Oliver Donohue ha una pessima reputazione».
«Con le donne, lo so».
Gloria rise. «Buon Dio. Questa è ordinaria amministrazione. Qui tutti hanno le loro storielle. È praticamente obbligatorio. No, non vorrei mai stroncare un’amicizia sul nascere, ma è coinvolto in giri abbastanza loschi».
«Loschi? Di che tipo?».
Gloria fece spallucce. «Sono soltanto voci, ma diciamo che potrebbe metterti in pericolo».
«Non puoi dire così e poi tacere».
«Io non so altro, davvero, ma mio fratello potrebbe dirti di più».
«Sai che Edward mi ha chiesto di andare a cena con lui?»
«Gli piaci».
«Ma è sposato».
Gloria scoppiò in una fragorosa risata. «E allora?».
Belle sentì che stava arrossendo.
«Suvvia, mia cara. Il suo è un matrimonio solo di nome. Ed è un uomo importante. Potresti fare molto di peggio».
«Tipo diventare l’amante di qualcuno?»
«Non essere così rigida. È soltanto una cena».
«Ti ha chiesto di convincermi?»
«Quanto sei malfidata!».
«Comunque, alla fine ho accettato di andare a cena a casa del governatore».
Gloria sgranò gli occhi. «Be’, è un grande onore».
Tacquero, poi l’auto si fermò nei pressi dei laghi e l’autista andò ad aprire le portiere. Mentre scendeva, Belle si guardò attorno. Aveva già scoperto che Rangoon prendeva vita subito dopo l’ora del tè, con o senza latte in polvere, e quel giorno non fece eccezione. Il sole aveva esaurito il suo furore, ma il cielo era ancora di un magnifico azzurro e da un padiglione in lontananza il suono di una fanfara militare accoglieva le donne in arrivo. A mano a mano che scendevano dalle macchine guidate dagli autisti, diveniva sempre più chiaro che facevano parte della classe più abbiente e privilegiata. Gossip Point era davvero un punto panoramico mozzafiato sul lago Reale, e Belle che stimò a occhio e croce ci si fossero già radunate almeno una ventina di donne, mentre decine di giardinieri indiani erano ancora al lavoro.
«Non riesco a credere a quanto è verde», commentò Belle, osservando la vasta distesa di prati color smeraldo sui quali saltellavano uccelli simili a storni. «Ogni volta che penso di essermi ambientata almeno un po’, c’è qualcosa di nuovo che mi sorprende».
«Sfruttano l’acqua del lago per mantenerlo così verde».
Alberi in vari stadi di fioritura circondavano l’enorme lago e la profusione di fiori e piante rampicanti intorno agli argini rifulgeva di riflessi vibranti, in contrasto con lo straordinario bacino d’acqua azzurra.
«Di cosa parlano le donne?», sussurrò Belle mentre s’incamminavano.
«Più che altro delle ultime notizie di attualità. Le solite cose, sai. Di cosa sta succedendo in giro per il mondo. Ci aiuta a restare in pari. E anche delle notizie locali, ovviamente».
«Niente di più personale?»
«Perché non andiamo a salutare e lo scopri da sola?». Gloria le strinse delicatamente la spalla, come per incoraggiarla a farsi avanti. «Non mordono».
La maggior parte delle signore sfoggiava bei cappelli e vestiva alla moda, con abiti dai motivi poco appariscenti che slanciavano la figura, con l’orlo a metà polpaccio e le maniche a tre quarti. Purtroppo, era uno stile che poco si addiceva ad alcune delle donne più mature e in carne, che erano molto più anziane di Gloria e che, a giudizio di Belle, sarebbero state molto meglio se non avessero seguito pedissequamente le ultimissime tendenze. Nel gruppo c’erano anche alcune ragazze più giovani, le quali, come farfalle colorate, indugiavano un attimo prima di passare oltre.
«Mia cara, lei è Annabelle Hatton», ripeté Gloria, ancora e ancora, nel presentare Belle a una donna dopo l’altra.
Alla fine, quando sembrò essersi formato un gruppetto di cinque, la conversazione si spostò sulla storia di una barista.
«Deplorevole», dichiarò una delle più anziane mentre si sventolava sempre più rapidamente, incapace di nascondere una punta di esultanza perversa nel tono di voce.
«Pensateci. Un’inglese che si mette a fare la meretrice per strada», aggiunse un’altra.
«Roba da matti. E avete saputo…? Quasi mi vergogno a parlarne».
Quando la donna si interruppe, Belle capì che era impaziente di rubare la scena alle amiche.
«Oh, diccelo, Wendy».
«Non puoi tenerci sulle spine».
Wendy guardò ciascuna di loro. «Be’, ho appreso da fonti sicure che sta adescando servitori indiani».
Mentre le altre restavano a bocca aperta, Gloria fece l’occhiolino a Belle, che non riuscì a trattenere un sorriso.
Dopodiché la condusse altrove, verso una piccola donna rotondetta che era arrivata solo un minuto prima e si stava facendo strada verso la sponda del lago.
«Florence», la chiamò Gloria, sbracciandosi come una forsennata e poi sussurrando a Belle: «Era con Florence Outlaw che volevi parlare, giusto? Me ne ha accennato Edward».
Belle annuì.
Florence Outlaw aveva i capelli bianchi acconciati in un elegante chignon e una pelle morbida e rosea. Rivolse un gran sorriso a Gloria e andò loro incontro con un’andatura lenta e ondeggiante, accompagnata da un cagnolino bianco tenuto al guinzaglio.
«Florence, ti presento la mia nuova amica, l’incantevole Belle».
«Mio marito mi ha parlato di te. A proposito di Simone. Una donna talmente bella. Occhi ambrati, sai. Così insoliti».
«Suo marito mi ha detto che avete mantenuto i contatti», disse Belle. «Mi piacerebbe tanto conoscerla».
«Oh, mia cara, non è più qui con noi».
Belle aggrottò la fronte. «Ma è ancora viva?».
Florence sembrava tranquilla. «Grazie al cielo, sì... Ronnie non ti ha detto che è tornata a casa già da un po’ di tempo ormai?»
«A casa?»
«In Inghilterra. Nelle Cotswolds. Ti ho già segnato il suo indirizzo». Rovistò in una grossa borsa di tela e frugò nel suo contenuto. «Oh, e adesso dove diavolo è?»
«Conosceva bene mia madre?». Belle non ricordava che sua madre avesse mai avuto delle amiche.
Florence alzò gli occhi e annuì. «Migliori amiche, anche se dobbiamo tornare un po’ indietro nel tempo. Cielo, ti spiacerebbe tenermi aperta la borsa mentre lo cerco?».
Belle sorresse la borsa e, dopo pochi istanti, Florence localizzò un foglietto piegato a metà. «Evviva! Finalmente. Ecco a te, cara. Sono sicura che non le dispiacerà se le scrivi. Falle il mio nome».
«Grazie. Non vedo l’ora di chiederle se ricorda come sono andate le cose quando è scomparsa mia sorella».
Poco dopo, Belle si ritrovò da sola in mezzo a un gruppetto di donne che stava parlando dei pochi buoni partiti che ancora vivevano a Rangoon. Una di loro si voltò verso di lei e, dopo una rapida occhiata al suo anulare, la fulminò con uno sguardo carico di disprezzo.
«Povera me. Non sei ancora fidanzata?»
«No», replicò Belle con orgoglio. «Faccio la cantante allo Strand».
La donna impallidì visibilmente. «Oh, no. No, no. Non ci siamo proprio. Trovati un marito in men che non si dica. Non vorrai dover lavorare per sostentarti, e anche se proprio dovessi, sono sicura che potremmo trovarti una famiglia».
Belle si accigliò. «Scusi tanto, io…».
«Una famiglia che abbia bisogno di una governante, cara, una sistemazione rispettabile».
Una delle altre donne annuì, e Belle, ridendo di quella mentalità abominevole e antiquata, si affrettò ad accomiatarsi e si incamminò verso la sponda del lago. La sera stessa avrebbe scritto a Simone, sperando fosse più assennata di quelle donne.
Notò le sfumature rosa del cielo e, quando uno stormo di uccelli neri sorvolò il lago, spostò lo sguardo verso il sole, che stava tramontando dietro la pagoda Shwedagon. La pagoda dorata, che in quel momento era di un profondo color rame brunito, la affascinava e sembrava una creatura vivente che cambiava colore a seconda dell’ora del giorno. Completamente assorta nello spettacolo, Belle continuò a guardare l’orizzonte e si rese conto solo un poco alla volta che le altre donne si stavano scambiando i saluti – il tramonto era il segnale che dovevano tornare alle loro auto. Contemplò il cielo, lilla in alto, poi giallo, arancione e rosa, e infine di una cupissima tonalità bordeaux. “Questo è il colore della Birmania”, pensò. Poi localizzò Gloria, circondata da lucciole che brillavano come minuscoli diamanti nell’oscurità crescente, e osservò il suo passo languido e ancheggiante mentre le andava incontro. Sopra le loro teste, le stelle nascenti sembravano due volte più grandi che in Inghilterra.
Credi di sapere di chi puoi fidarti? Pensaci meglio…
La sera in cui Belle si incontrò con Edward per andare a cena a casa del governatore, sperò che il vestito che si era fatta confezionare nel quartiere cinese fosse abbastanza elegante. Il completo da sera indossato da Edward valorizzava la sua corporatura atletica e slanciata, e per certi versi metteva anche in risalto i fili d’argento tra i capelli sulle tempie. Belle non era poi così smaniosa di andare, poiché temeva che sarebbe stata una serata noiosa, ma, quando arrivarono a destinazione, l’opulenza dell’edificio la lasciò disorientata – sebbene non in modo particolarmente positivo.
«È stato completato nel 1895», disse Edward, notando il suo sbigottimento quando scesero dalla macchina. «L’architetto, Henry Hoyne-Fox, lo descrisse come “stile rinascimentale regina Anna”».
Belle annuì e continuò a osservare le imponenti torri a cupola e la stravagante architettura dell’edificio. «Ti piace?», domandò mentre procedevano insieme.
Lui scoppiò in una risata fragorosa. «Piacermi? No! Trovo che sia il peggior esempio di eccesso di ricercatezza che io abbia mai visto».
A dispetto delle riserve iniziali, e apprezzando la sua onestà, anche Belle rise.
«Vogliamo entrare? Credo che ci serviranno dei drink in terrazza, e poi ho alcune notizie da darti».
«Perché non me le dai adesso?».
Edward esitò, poi inclinò la testa. «È una storia abbastanza lunga».
«Non importa».
«Be’, il fatto è che un tizio che conosco ha trovato un verbale schedato al posto sbagliato negli archivi della polizia».
Le raccontò tutto strada facendo e le disse che a un certo punto un birmano era stato accusato di aver rapito la bambina, ma poi era stato rilasciato. Comunque, a quanto pareva, la polizia doveva aver trovato nuove prove, e alla fine aveva deciso di incriminarlo di nuovo, ma l’uomo era rimasto ucciso in un incidente stradale con la sua moto prima che lo arrestassero.
«Pare che la notizia non sia mai stata fatta trapelare sui giornali, ma, da quanto ho avuto modo di capire, c’è una forte probabilità che la polizia sia rimasta convinta di un suo coinvolgimento nella scomparsa della bambina, almeno in una certa misura».
«Che prove avevano? Posso vedere quel verbale?»
«Purtroppo, non possiamo consentirlo. Per la segretezza dei rapporti ufficiali e via dicendo. Ma ti ho detto tutto quello che ti serve sapere. E subito dopo i tuoi genitori sono tornati a casa, in Inghilterra».
«Tutto qua?».
Osservandola da distanza ravvicinata, confermò con un cenno del capo. «Sì. Tutto qua».
Belle avrebbe voluto assentire, ma qualcosa glielo impedì. «Peccato che non sia così, dico bene? Perché ancora non so cos’è realmente accaduto».
Lui annuì. «Ma non ti rassicura sapere almeno che tua madre è stata prosciolta da ogni accusa?»
«Sì, certo», rispose lei, anche se non riusciva a fare a meno di pensare a Elvira.
Edward si avvicinò e la prese per mano. «Senti, non so come tu possa sperare di scoprire cos’è successo a tua sorella dopo tutti questi anni, quando all’epoca la polizia fece un buco nell’acqua. È così importante per te?»
«Be’, no, all’inizio no, ma adesso…». Le si incrinò la voce.
Lo vide reprimere un sorriso. «Su, signorina, niente ma».
L’aveva detto con tono spensierato, e ci fu un breve attimo di silenzio prima che lei rispondesse.
«Grazie», disse lei alla fine.
Edward le fece un gran sorriso, e Belle si rese conto che stava cominciando a sciogliersi un po’ nei suoi confronti. «Forza, penso proprio che sia giunto il momento di goderci la serata, non credi?».
Non si era aspettata di divertirsi a una cena tanto formale, e invece, con sua grande sorpresa, scoprì che le piaceva stare insieme a Edward. Oltre a conoscere tutti, era un uomo vivace, intelligente, estremamente premuroso e di ottima compagnia. Tuttavia, Belle sapeva che a festa finita avrebbe di nuovo dovuto affrontare l’impresa di scrivere a Simone. Era complicato scrivere a una persona che non conosceva e, fino a quel momento, aveva già fatto tre inutili tentativi. E tutti e tre erano finiti appallottolati nel cestino. Quella sera sarebbe andata dritta al sodo e le avrebbe semplicemente chiesto cosa ricordava di sua madre e degli eventi del 1911.
Diana, Cheltenham, 1922
Quando Simone varca la porta, sento che mi si stanno riempiendo gli occhi di lacrime. Anche se ho giurato che non avrei pianto, è un tale sollievo vederla che non riesco a trattenermi. Lascia cadere la borsa a terra e in un attimo mi ritrovo tra le sue braccia. Non so descrivere quanto sono riconoscente del fatto che tenga ancora a me.
«Diana», dice e, staccandosi delicatamente, mi osserva con attenzione. «Come stai?»
«Vieni alla finestra», rispondo, e vorrei farle capire che questa preziosa finestra sul mondo è la mia ancora di salvezza e non voglio che me la portino via. «Tutto il mio mondo è là fuori».
Ci affacciamo a guardare il parco. È uscita fuori una bellissima giornata primaverile, con uno sconfinato cielo azzurro e candide nuvole vaporose. Così calmo. Così riposante. Come il mare in una bella giornata d’estate, quando il moto delle onde è talmente pigro che il mondo intero sembra in pace. Ricordo che ogni estate la nostra cuoca riempiva il cestino da picnic con pasticcini alla crema, panini con i cetrioli, pasticcio di pollo e crostate di marmellata. Tutte le mie leccornie preferite da portare in spiaggia a Bantham, nel Devon.
Lancio un’occhiata al profilo di Simone, con il suo naso perfettamente dritto, mentre aspetta che dica qualcosa.
«Hai parlato con Douglas?», chiedo, sperando che la risposta sia un no.
«Sì».
«Quindi ti ha detto del temuto Grange?».
Annuisce e mi cinge le spalle con un braccio. «Cara, non pensi che cambiare un po’ aria potrebbe esserti d’aiuto? Non credo che stare rintanata quassù da sola per ore e ore ti stia facendo bene».
La guardo torva, più aggressiva di quanto vorrei. «Non ci vado».
«Potrebbe giovarti. Saresti assistita da infermiere di grande esperienza. Avresti delle cose da fare».
«Intrecciare cestini di vimini». Sbuffo e scuoto la testa. Non le dico che ho sentito parlare di questi posti orribili dove i mariti mandano le mogli un tempo tanto amate. «Verrei lasciata a morire».
«Questo non è vero. Douglas non lo permetterebbe mai».
Provo a impedirlo, ma il dolore mi squarcia il petto. «Douglas si vuole sbarazzare di me, e tu lo sai com’è fatto. Una volta che si è messo in testa qualcosa, non cambia più idea».
«Cara, non vuole sbarazzarsi di te. Ti ama».
Cerco conferme nel suo tono e scuoto di nuovo la testa. Per la prima volta noto alcuni fili grigi fra i suoi capelli biondi. «Mi dispiace così tanto per Roger», riesco a dire. «Era un bravo marito».
Lei annuisce. «Mi manca da morire».
Ci scambiamo uno sguardo e mi consola scoprire che ci capiamo ancora.
«Ti amava», dico.
«Sì».
«Anche Douglas un tempo mi amava. Ora vuole farmi rinchiudere. Sono una scocciatura. Vogliono dare un nome alla mia malattia, perciò dicono che soffro di depressione psicotica, sai, per via…». Mi si ingarbugliano le parole.
«Per via di cosa?», domanda dolcemente.
«Delle voci che sento».
La osservo con attenzione. È sempre stata una buona amica per me, così le tendo una mano. «Parla con Douglas per me. Digli che sto prendendo il Veronal».
Si acciglia. «È così? Lo stai prendendo davvero?».
A lei non posso mentire e inspiro a fondo prima di confessare. «Mi fa stare malissimo. Ma lo prenderò, te lo prometto».
«Teme che tu possa allontanarti da sola o che di notte girovaghi per la casa mentre gli altri stanno dormendo».
Sento una vampata di rabbia e il mio cuore inizia a battere più forte. «Non sono una bambina».
«Ha paura che tu possa cadere. Almeno al Grange ci sarebbe sempre qualcuno in servizio».
Cala un attimo di silenzio e io mi domando a cos’altro stia pensando. Alla fine mi chiede se mi sento sempre male e io le dico che va e viene. Sorride e sembra speranzosa.
C’è un’altra breve pausa mentre valuto se parlare o meno.
«Ha avuto un’altra donna», dico infine, e la guardo in quegli splendidi occhi ambrati, così gentili, così leali, chiedendomi se già sapesse, ma porta di scatto una mano alla bocca e pare sinceramente sconvolta.
«Quando ero incinta di Elvira».
«Non me ne avevi mai parlato».
Ripenso al giorno del nostro faccia a faccia, quando era tornato a casa con addosso l’odore di un’altra donna e uno sguardo tremendo, pieno di vergogna. Fino a quel momento avevo pensato che non avrebbe mai potuto farmi alcun torto. Almeno ha avuto la decenza di mostrarsi imbarazzato per essere stato colto sul fatto, ma, da un certo punto di vista, vorrei non averlo mai scoperto, perché da quando è calato tanto ai miei occhi non sono più riuscita a sentirmi come prima. Da allora ho sempre la sensazione che si sia rotto qualcosa. Non so se valga anche per Douglas. Sospetto che sia così. E poi, anche quando gli ho inveito contro, non mi ha voluto confessare chi fosse l’altra.
«È stato per vergogna», dico.
«La sua vergogna?»
«Di entrambi. Ero una moglie che non era riuscita a tenersi stretto suo marito».
«Quindi ha confessato? Come l’hai scoperto?».
Faccio spallucce. Ho sospettato di tutte le donne di Rangoon, tutte tranne Simone, persino di quella donna orribile, la moglie del governatore. Una maledetta ipocrita, un’inglese della peggior risma.
«Ormai ne è passata di acqua sotto i ponti», dico. «Molti uomini hanno delle tresche, no?».
Simone sospira.
«Sai, aveva l’abitudine di scrivermi un biglietto ogni mattina, e io trovavo la busta sul vassoio quando il nostro silenzioso maggiordomo mi portava il tè e il pane tostato».
E, al principio, la vita era stata veramente dolce. Niente poteva toccarci, protetti com’eravamo nel nostro bozzolo. Douglas, la mia roccia, il mio amore, il mio tutto. Con il tempo, però, mi ero sentita orribilmente soffocata, come se avesse cominciato a mancarmi il respiro.
«Oh, quei primi tempi», sussurro.
«Ti mancano e non ti mancano al tempo stesso».
«È così. È proprio così».
Restiamo in silenzio per un po’.
«Cara, non ti sei nemmeno vestita», osserva Simone alla fine, interrompendo le mie riflessioni. «Vuoi che ti lavi e ti sistemi i capelli, così poi posso trovarti qualcosa di carino da mettere? Magari dopo potremmo andare al café nel parco per il tè delle cinque».
Le sorrido e, anche se sono terrorizzata, le dico che non potrei chiedere di meglio. Ma uscire? Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro. E poi, in quel momento, e in modo del tutto inaspettato, penso che potrei esserne in grado.
«Quanto tempo è passato dall’ultima volta che sei uscita?»
«Settimane. Mesi, forse».
«Troppo. Cara, potrebbe davvero farti comodo avere qualcuno che badi a te».
«Magari potresti farlo tu?». Rido, come se non dicessi sul serio.
Mi osserva attentamente, scegliendo con cura le parole. «Diana, credo davvero che tu possa stare meglio. Sottovalutiamo ciò che può fare la mente».
«Tu dici?»
«Altroché. Vedrai».
Le sorrido e sento accendersi un barlume di speranza.
«Ecco. Ti senti già meglio. Ti prometto che troveremo un modo. L’unica cosa di cui hai bisogno è un posto più sicuro».
La presenza confortante di Simone mi ha tolto un peso dal cuore e, pervasa dall’inatteso e sorprendente desiderio di qualcosa di nuovo, osservo le ombre oblique degli alberi. Un posto sicuro. Esisterà realmente?
Dopo aver imbucato la lettera per Simone e affrontato il solito formicaio di risciò, auto, carretti trainati da buoi e biciclette, evitando per un soffio la collisione con la carrozza di un tram elettrico, Belle arrivò agli spettacolari uffici del segretariato, che ricordavano una cittadella. Quella era la sede amministrativa di tutto il governo coloniale. Il vasto complesso di edifici di mattoni rossi, in stile vittoriano sorgeva nei grandi giardini di Judah Ezekiel Street. Una volta dentro, Belle si trovò al cospetto di un disorientante labirinto di sale e corridoi. Ciascun ufficio era indicato da un cartello, dall’erario al dipartimento giudiziario, a quello sanitario, e molti, molti altri.
Un esercito di impiegati, segretarie, archivisti e via dicendo correva da un ufficio all’altro, e le rapide indicazioni che Belle riceveva erano confuse e sbrigative, perciò ci mise una vita a trovare l’ufficio del catasto. Temeva di arrivare in ritardo all’appuntamento con Oliver. La sera prima si era presentato inaspettatamente in albergo per sentirla cantare e, malgrado le fossero tornate in mente le parole del biglietto – Credi di sapere di chi ti puoi fidare? Pensaci meglio… – perché potevano anche riferirsi a lui, avevano deciso di incontrarsi in giornata per andare di nuovo alla Valle Dorata, stavolta con le chiavi.
Quando riuscì finalmente a localizzare il catasto, un uomo malvestito e dall’aria scocciata alzò gli occhi dalla scrivania e le fece cenno di sedersi. Strano quel completo sgualcito, pensò lei, perché le unghie erano ben curate, quindi era chiaro che teneva ad alcuni dettagli del suo aspetto esteriore. Mentre gli spiegava la situazione, lui non cercò mai il contatto visivo, ma tenne lo sguardo fisso su un punto qualche centimetro sopra il suo orecchio destro.
«Le serviranno il certificato di morte e il testamento di suo padre». Si era espresso a voce bassa, come quelle persone che costringono chi le ascolta a protendersi in avanti e a doversi sforzare per capire.
Belle tirò fuori i documenti dalla borsa e glieli allungò sopra la scrivania. Lui li esaminò e annuì.
«Vedo che è l’unica beneficiaria dell’intero lascito patrimoniale», disse con voce sottile e annoiata.
Lei confermò con un cenno del capo, e l’emozione causata dal dover accettare la morte del padre le strinse ancora una volta la gola.
«Ho bisogno del certificato di nascita e del passaporto per confermare la sua identità».
Si ricompose. «Li ho».
«E di qualcosa che dimostri che suo padre è lo stesso Douglas Hatton che compare su questi atti di proprietà».
«Come faccio a dimostrarlo?».
La guardò con un’espressione straziata, come se il semplice lavorare al catasto fosse un’esperienza insopportabile. «Be’, innanzitutto dobbiamo effettuare una visura ufficiale dei documenti di registrazione catastale dei terreni e degli atti di proprietà. Potrebbe esserci un atto di compravendita che dovrebbe includere il suo precedente domicilio in Inghilterra».
«Possiamo cercarlo adesso?»
«C’è un bollo da pagare. Dopodiché, se è tutto in ordine, dovrà anche fornirmi una prova di residenza qui in Birmania».
«Ho un contratto di lavoro».
L’uomo annuì e, quando chinò la testa per ricontrollare il testamento, Belle notò una chierica inefficacemente nascosta da un riporto di capelli sottili.
«Il contratto di lavoro dovrebbe essere sufficiente», disse lui, rialzando gli occhi.
«E le chiavi della casa?»
«Dal rappresentante legale, direi. Dovremo conservare una copia autenticata del testamento. Non appena avremo trovato gli atti, il nome del rappresentante legale dovrebbe comparire su quello di vendita. Se è anche un notaio, sarà autorizzato a firmarle il passaggio di proprietà».
«E come faccio a ottenere una copia autenticata?»
«Può fargliela un assistente del rappresentante legale».
«Perbacco, ci sono un sacco di formalità da sbrigare. Speravo di ricevere le chiavi già oggi».
Le rivolse un sorriso condiscendente. «Torni tra qualche giorno e controlleremo i dettagli catastali».
Di ritorno in hotel, non sapendo se Oliver fosse già arrivato e ripartito, Belle aspettò sotto il portico. Aveva fatto tardi, molto tardi, ma sperava comunque che si facesse vivo. Il portiere indiano la vide fare avanti e indietro e andò a offrirle il suo aiuto. Quando lei gli chiese se avesse visto un uomo alto, con penetranti occhi azzurri e capelli castani, l’uomo si illuminò.
«Il signor Donohue?».
Belle sorrise. «Lo conosci?»
«Altroché. Un brav’uomo. È andato fino in fondo quando c’è stata una rapina nel negozio di mia moglie e la polizia non ha fatto nulla. Ha aiutato un sacco di gente del posto a ottenere giustizia. Ribadisco, un brav’uomo».
Poi andò avanti dicendole di non averlo visto fuori dall’albergo nelle ultime ore.
Quando tra schiamazzi e risate uscirono tre ballerine, salutarono Belle con cenni della mano e sorrisi. Rebecca aveva mantenuto la parola data e il rapporto tra Belle e le ballerine aveva perso la vecchia acredine. Fece ruotare le spalle e aspettò ancora un po’, ma alla fine, delusa, si voltò per tornare nella sua stanza, e fu allora che si sentì chiamare per nome da Oliver. Girò su se stessa e sentì una vampata di piacere vedendo che le si stava facendo incontro a grandi passi, più abbronzato che mai.
«Ciao», disse lui, con gli occhi azzurri che brillavano, sperava Belle, per la stessa contentezza che provava lei nel rivederlo. «Il mio redattore ha insistito per delle modifiche dell’ultimo minuto. Non pensavo di trovarti ancora qui».
Ancor più sollevata nel vederlo di quanto si fosse aspettata, gli sorrise ancora di più.
«Vogliamo andare a prendere il tram?», chiese.
«Certo, leviamo le tende».
Mentre sedevano vicini sul tram, Belle percepiva intensamente la sua presenza e aveva difficoltà a formulare dei pensieri. Provava anche lui la stessa cosa? O era soltanto lei? In ogni caso, si sentiva rinvigorita dalla sua vicinanza, e anche un po’ intimidita. Si spostò un pochino per attenuare la sensazione che le stava facendo formicolare tutta la pelle e, dopo qualche istante, riuscì a spiegargli che non aveva le chiavi. Potevano entrare come la volta precedente e, già che erano in zona, avrebbero anche potuto trovare qualche vicino a cui fare delle domande. Per quanto Edward le avesse dato a intendere che era una perdita di tempo, Belle era sempre più intenzionata a scoprire cos’era successo alla bambina. E poi chissà, magari qualcuno ricordava qualcosa.
Anche se era emozionata all’idea di rivedere la casa una seconda volta, Belle non poteva evitare di pensare a sua madre. Ma non a quella che aveva vissuto nella stanza al piano di sopra e che una volta l’aveva svegliata a mezzanotte insistendo affinché si mettessero gli stivali e uscissero di soppiatto in giardino per andare a cogliere dei fiori. Piuttosto, era una versione magica e diversa di sua madre a occupare le sue fantasie. Il pensiero la fece sorridere e Oliver le lanciò un’occhiata.
«Che c’è?»
«Oh, frivoli ricordi. Tutto qua».
«Sono sicuro che i tuoi ricordi non sono frivoli».
“Se solo tu sapessi, forse non diresti così”, pensò lei: la madre di sua invenzione l’aiutava negli esercizi di aritmetica mentre sedevano insieme al tavolo in cucina, prendendosi in giro a vicenda e ridendo per gli sciocchi errori che commettevano entrambe. Quella mamma preparava dei picnic deliziosi che condividevano, sedute su una coperta di lana scozzese accanto al lago, prima di lanciare le molliche alle anatre e alle oche.
«Vivevi in campagna?», le domandò Oliver, strappandola dai suoi pensieri.
Scosse la testa. «In città. Una cittadina in pieno stile Regency nel Gloucestershire».
«Anch’io sono cresciuto in città».
Lei rise. «Non penso che Cheltenham sia paragonabile a New York. Ma andavamo in campagna, e a volte anche al mare».
L’unica volta che era veramente andata al mare in estate era stato per incontrare suo nonno nel Devon. Sua madre trovava che la spiaggia fosse troppo caotica, la sabbia troppo fastidiosa e inclemente, il mare troppo agitato. E le aveva fatto venire mal di testa, quindi erano tornate a casa presto. “Casa” per quella settimana era stata il piccolo cottage accogliente del nonno, a Bantham, anche se lui era uno spirito silenzioso e solitario a cui non andava di giocare e che passava gran parte della giornata rintanato nel suo studio. Erano tornate a trovarlo soltanto una volta, ed era stato per Natale.
La voce di Oliver irruppe di nuovo nei suoi pensieri.
«Ci siamo», disse. «Continui ad avere la testa tra le nuvole».
Una volta entrati in casa, Belle si sentì improvvisamente in soggezione. Era tutto esattamente identico all’ultima volta che si erano introdotti lì dentro, eppure era anche diverso.
«Sicura di stare bene?», domandò lui, notando il cambiamento d’umore.
«Sì, certo. Sono emozionata».
Ma non era soltanto emozionata. Era anche piena di interrogativi. Come avevano fatto a tenerle nascosti così tanti segreti? Com’era possibile che non avesse mai saputo di aver avuto una sorella? E adesso, visto quanto accaduto in quella casa, la malattia di sua madre cominciava ad avere un senso. Aveva passato tutta la vita a giudicare ingiustamente Diana Hatton?
«Non mi hai mai detto cosa ne è stato di tua madre», affermò Oliver con un baluginio perspicace negli occhi. Aveva capito a cosa stava pensando? Di certo era abbastanza sagace.
«Ovviamente, so che tuo padre è morto», aggiunse.
Belle esitò. Non era un argomento di cui in genere amava parlare.
Lui le mise una mano sul braccio. «Scusami. Non sei tenuta a dirmelo».
«Non c’è problema», rispose lei, ma aspettò comunque che le emozioni si smorzassero. Non accadde, e mentre si guardava attorno continuò a provare lo stesso nervosismo. Nella stanza c’era odore di chiuso ed era come se i suoi polmoni le stessero impedendo di respirare a dovere. Per un attimo, provò le stesse sensazioni che aveva vissuto da bambina quando le cose diventavano troppo difficili da sopportare.
«Se ne andò», disse in modo piuttosto brusco.
«Dove?», chiese lui, imperturbabile.
«Non lo sa nessuno».
«Dev’essere stata dura per te».
Lo guardò dritto negli occhi. «No. È stato un sollievo. Be’, nel complesso. È così terribile?».
Lui sostenne il suo sguardo e scrollò il capo.
«E poi è morta. Alla fine. È stato mio padre a dirmelo».
Tacque, desiderando di potersi disfare dello sciagurato ricordo del giorno di pioggia in cui suo padre le aveva dato la notizia. Vero, in un certo senso era stato un sollievo, e non aveva mai accennato alla frequenza con la quale continuava ancora a sognare sua madre, ai piedi del letto, con uno struggimento stranamente eloquente negli occhi. Né aveva rivelato di essersi svegliata giorno dopo giorno con le guance bagnate. Conoscere la verità avrebbe turbato suo padre, così aveva mentito.
Si conficcò le unghie nel palmo della mano. «Senti, ti spiace se cambiamo discorso?»
«Certo che no. Vogliamo uscire?».
Aveva la sensazione che volesse confortarla, abbracciarla forse, ma non voleva la sua compassione. Non era mai veramente riuscita ad accettare quei sentimenti contrastanti per sua madre e dubitava che si sarebbe mai messa il cuore in pace.
La sera prima, quando aveva scritto a Simone, si era lasciata prendere dalla nostalgia e continuava ancora ad avvertirne gli strascichi. Tuttavia, non c’era più una casa a cui fare ritorno, né una famiglia della quale sentirsi parte. Era rimasta da sola.
Mentre si facevano strada attraverso i grovigli di piante tropicali che circondavano la casa, Oliver le domandò cosa intendeva farne di quel posto non appena fosse diventato suo. La verità era che non ne aveva idea. Vendere a Edward a un prezzo stracciato, magari? Aveva già espresso un interesse e la responsabilità della ristrutturazione certo non era una prospettiva entusiasmante. E, a parte tutto, quanto pensava, verosimilmente, di trattenersi in Birmania? Aveva in progetto di viaggiare e continuare a cantare. Eppure, la casa era così bella… o almeno, aveva del potenziale.
Ripensò alla lettera che aveva spedito a Simone. Quando aveva chiesto all’impiegato dell’ufficio postale quanto ci avrebbe messo ad arrivare a destinazione, lui le aveva detto che aveva fatto bene a scegliere la spedizione aerea, perché per quella ci volevano circa nove giorni. Via mare o via treno, invece, ce ne sarebbero voluti almeno quindici, se non addirittura un mese. Di conseguenza, difficilmente avrebbe ricevuto notizie prima di una ventina di giorni almeno, sempre ammesso che Simone rispondesse in fretta.
Dopo essersi allontanata dalla casa, diede un’occhiata agli uccellini verdi appollaiati sui fili del telegrafo tesi lungo la strada: erano così carini con le teste gialle e le code allungate. Malgrado il turbamento di poco prima, ora si sentiva briosa e rilassata. Merito di quel posto… quel posto con le sue belle case antiche e gli splendidi giardini. Poi le tornò in mente qualcosa e il suo umore cambiò in un battibaleno.
«Mio padre ha dato fastidio a qualche personalità influente», disse all’improvviso quando riaffiorò il ricordo. «Me ne ha accennato un anziano signore che ho incontrato al club Pegu».
«Ci sei andata?».
Lei annuì. «Con Edward de Clemente».
La pelle attorno agli occhi di Oliver si tese, ma l’uomo si limitò a chiederle se sapeva cosa avesse fatto suo padre e a chi avesse dato fastidio.
Quando Belle ammise di non saperlo, lui tentennò, come se stesse valutando cosa dire, dandole la sensazione che le stesse nascondendo qualcosa.
Belle si voltò e rivolse un ultimo sguardo alla casa. «Tornerò, vecchio splendore», sussurrò, «e poi decideremo cosa fare di te».
«Credo che tu ti sia innamorata», disse Oliver.
Lei si accorse di essere arrossita violentemente.
Superarono un indiano di mezz’età fermo davanti al cancello della casa più vicina. Un giardiniere, pensò Belle, a giudicare da com’era vestito.
Lei e Oliver si scambiarono uno sguardo, poi si incamminarono verso di lui.
«Buongiorno», disse Belle, e l’uomo chinò la testa. «Mi capisce?», chiese a Oliver, il quale sembrava sinceramente divertito.
«Sì, signora, ormai sono tanti anni che parlo inglese», rispose l’uomo.
Si sentì arrossire di nuovo. «È naturale. Mi scusi. Posso chiederle da quanto tempo lavora qui?».
Il suo era un sorriso fiero. «Da tutta la vita, signora».
«Quindi… ha iniziato quando?»
«Da ragazzo. Avevo quindici anni, perciò doveva essere il 1895».
«Da parecchio, allora».
«Altroché».
«Immagino non ricordi l’epoca in cui scomparve una bambina dal giardino della casa qua accanto?».
L’uomo aggrottò la fronte, poi le rispose con tono solenne: «Fu un momento terribile. C’erano poliziotti da tutte le parti».
«E cosa si pensava fosse accaduto?»
«Molti britannici ritenevano che fosse stata la signora».
«E lei? Lei che idea si era fatto?».
L’indiano scosse la testa. «Conoscevo la povera signora. Era sempre stata cortese con me, mi chiedeva come stava la mia famiglia e via dicendo. No, non sarei mai riuscito a crederla capace di una cosa simile».
«E allora cosa pensa che sia successo alla bambina?»
«Non lo so, ma i birmani della zona dicevano che era stata presa da forze sovrannaturali evocate dalla famiglia furibonda di un uomo che era stato fatto arrestare dal marito della signora».
Oliver lanciò un’occhiata a Belle e annuì. «I birmani sono molto superstiziosi».
«In che senso?»
«Be’, credono nei nats. O spiriti, se preferisci. Erigono feticci magici fuori dalle loro case per impedire agli spiriti malvagi di entrare».
«Ma cosa sono i nats di preciso?»
«Un po’ di tutto, da uno spirito che vive in un albero a una divinità induista. Se vuoi possiamo scoprire se tuo padre è mai stato minacciato con un nat».
«Oh, Oliver, suvvia. Che senso avrebbe?». Si rivolse al giardiniere. «La ringrazio per avermi dedicato il suo tempo».
L’uomo le fece un inchino, poi aprì il cancello e lo varcò.
«Allora?», chiese lei. «Adesso cosa facciamo?».
Oliver esitò per un solo istante. «Caffè a casa mia? Devo farti vedere una cosa».
“E io a te”, pensò lei. Incuriosita, disse che ne sarebbe stata molto lieta.
Il suo appartamento si trovava in un caseggiato residenziale in stile vittoriano. Il salotto – con le pareti di un bianco tenue, arredato con mobili di rattan, comodi cuscini di seta color smeraldo e bellissimi tappeti persiani azzurri e verdi – era inaspettatamente accogliente, come se avesse beneficiato di un tocco femminile. Le quattro lampade a stelo in stile orientale collocate negli angoli della stanza disegnavano un delicato gioco di luce sul pavimento di parquet. Le tende bianche gonfiate dal vento facevano da cornice a una bella vista sugli alberi ad alto fusto della strada sottostante, davanti al divano c’era un tavolino da caffè di legno lucido e una piccola scrivania era stata accostata al muro. Un’altra parete vantava mensole di tek che andavano dal pavimento al soffitto, sulle quali era stipata una gran quantità di libri, tanto che quasi strabordavano. Felice di essere nel suo appartamento, e sorridendo tra sé, Belle non provava alcun imbarazzo. Passeggiò davanti alle mensole, sbirciando i titoli dei libri e passando un dito sulle costole dei volumi.
«Hai gusti eclettici».
«Devo, se voglio restare in partita».
«In partita? È questo per te il giornalismo? Uno sport?».
Le sorrise. «Sei molto dura con me».
Belle rise. «Trovi?».
Oliver andò in un’altra stanza, e lei sentì tintinnare la porcellana e le posate mentre preparava il caffè. Dopo qualche minuto, lui tornò con un vassoio e il caffè già versato in raffinate tazzine bianche, accompagnato da un assortimento di biscotti dall’aspetto insolito, o forse erano pezzetti di torte.
La sorprese a fissarli. «Sono indiani. Provane uno».
Belle ne scelse uno e ne addentò l’inebriante dolcezza.
«Allora, cos’è che volevi farmi vedere?».
Diana, Cheltenham, 1922
Douglas entra raramente nella mia stanza, ma oggi è qui e non riesco a immaginare cosa voglia. No, non è del tutto vero. Dev’essere venuto a parlare del Grange. Di nuovo. Decido di mantenere quanto più possibile la calma, di non fornirgli un pretesto per mandarmi via, ma, nello stato d’agitazione in cui mi trovo, non riesco a smettere di camminare avanti e indietro.
«Ho parlato con Simone», dice, e mi accorgo di quanto si è incurvato. Ha sempre avuto un accenno di gobba perché è davvero alto, ma adesso è più pronunciato.
«E?»
«Sembra pensare che restare in questa casa non ti stia facendo bene».
Mi fermo di colpo, il petto mi si comprime. «Non andrò al Grange».
Si acciglia. «Non guardarmi così, Diana. Capisco che non vuoi andare, mia cara, ma temo che Simone abbia ragione. Restare qui non ti aiuta».
Mentre gli passo accanto, sento un vago odore di cumino e arancia sulla sua pelle e osservo quel bellissimo sguardo profondo dietro gli occhiali e il viso che un tempo mi era tanto caro, ma non apro bocca. Perché dovrei semplificargli le cose?
«E non giova nemmeno ad Annabelle». Fa una pausa. «So che stai soffrendo, ma sta male anche lei. Non vorrei essere crudele, ma non so se ti rendi conto che ha paura di te. La sera insiste per tenere la porta della sua stanza chiusa a chiave e a volte non riesce a riposare finché non viene a dormire con me».
«Perché?», domando, scioccata dalla rivelazione.
«Oh, mia cara, ormai dovresti averlo capito che si spaventa quando la svegli nel cuore della notte con una delle tue idee balzane».
«Pensavo semplicemente che fosse carino andare a raccogliere un po’ di fiori».
«Questo è soltanto l’episodio più recente. Ce ne sono stati altri, tesoro, e adesso è una ragazzina che non riesce a dormire perché è troppo ansiosa. La nostra dolcissima bambina è diventata una ragazzina tremendamente apprensiva, e non è giusto. Te ne sarai accorta».
Mi infiammo perché so che è la verità. Ho visto i suoi occhi sbarrati e il suo sguardo inerme, e questo mi ha spaventata.
«Non possiamo andare avanti così. Se nostra figlia ti sente girovagare per casa durante il giorno, va a nascondersi e si tiene alla larga».
Mi copro il viso con le mani, non voglio guardarlo mentre mi dice certe cose.
«Solo la settimana scorsa la signora Wilkes l’ha trovata nel ripostiglio delle scope. Si è inceppata la serratura ed è rimasta intrappolata là dentro a piangere fino all’esaurimento. Io ho il mio lavoro e non posso stare qui a controllare Annabelle. La signora Wilkes non ha la possibilità di trattenersi più di una notte a settimana, quindi, in conclusione, Simone ha suggerito un’altra possibilità».
Trattengo il fiato. Ti prego. Ti prego. Simone non può avermi tradita, giusto? Non gli permetterà di mandarmi al Grange.
Socchiude gli occhi e non prova neanche a celare la disperazione che ci leggo dentro. «Per favore, Diana, vuoi sederti? È difficile concentrarsi se continui a girare per la stanza».
Decisa a fargli una buona impressione, ubbidisco e mi accomodo di fronte a lui.
Emette un sospiro profondo. «Simone si è gentilmente offerta di prendersi cura di te».
«Qui?».
Scuote la testa. «Da lei».
Mi si gonfia il cuore di gioia e gli sorrido. «Andare a vivere con lei, intendi? Ma è meraviglioso».
«No».
«E allora?»
«Lasciami spiegare. Sai che Simone faceva l’infermiera prima di sposarsi e che suo marito era un dottore?».
Annuisco, incitandolo mentalmente ad arrivare al dunque. Certo che lo so.
«La sua idea è che ti compri un piccolo cottage vicino a casa sua…».
«No!», lo interrompo. «Non posso».
«Simone è convinta che con il suo aiuto sarà possibile. Resterà al tuo fianco ogni giorno finché non sentirai di potercela fare».
«E se non riuscissi a… lo sai… a uscire?».
Mi guarda intensamente. «Penserà a tutto lei. In questo modo, ti libererai della tensione che provi stando qui».
Mi sfugge un verso strozzato e non riesco a incrociare il suo sguardo. «Cioè tu ti libererai di me, vorrai dire?»
«No. Voglio dire che non dovrai più portare il fardello della preoccupazione per Annabelle. Avrai tutto il tempo e l’aiuto di cui hai bisogno per stare meglio. E sarà un bene anche per Annabelle. Non capisci che devo metterla al primo posto?».
Annuisco, fisso il pavimento per un minuto, poi alzo gli occhi. «Posso pensarci su?»
«Certo, ma se accetti di andare dovrai farlo a certe condizioni».
«E quali sarebbero?»
«Tu intanto pensaci, che poi ne riparliamo. Ma non metterci troppo. Hanno appena messo sul mercato un piccolo cottage e dobbiamo muoverci in fretta se vogliamo comprarlo prima che lo faccia qualcun altro. Simone è già andata a vederlo ed è sicura che ti piacerà da impazzire».
Esamino i suoi occhi cercando tracce di menzogna. Questo è l’uomo a cui un tempo avrei affidato la mia vita. Adesso avverto qualcosa di indescrivibile. Cosa sta omettendo?
«E tu verrai a trovarmi?».
Scuote la testa. «No. Questa sarà una delle condizioni».
«E quante condizioni ci sono, allora?»
«Come ti ho già detto, tu intanto pensaci e basta».
Quando Oliver si alzò e andò verso la lucida scrivania di tek disseminata di fogli e di tutto il necessario per scrivere, Belle continuò a sorridere.
«Mi piace molto questo posto», disse. «Ci vivi da tanto tempo?»
«Un paio d’anni».
«L’hai reso davvero confortevole».
Lui sorrise compiaciuto. «Lieto che sia di suo gradimento, madame».
Alla scrivania, aprì un cassetto e tirò fuori una cartelletta di cartoncino marrone.
«Allora», fece Belle, «cos’è?».
Oliver fece un respiro profondo, poi espirò lentamente. «Da quello che mi hai detto, qualcuno ti ha accennato che i tuoi genitori dovevano aver pestato i piedi a una persona importante, e che forse era successo qualcosa».
«Sì».
«Be’, ho passato un’ora negli archivi del mio giornale e ho trovato qualcosa che potrebbe confermarlo».
«L’hai fatto per me?».
Prima di proseguire, la guardò negli occhi. Belle non poté fare a meno di pensare a quanto le piacessero quel suo sorrisetto sbilenco e i suoi modi pacati. E a come la sua presenza sembrasse sempre infonderle un senso di… di… cos’era? Forse era la sensazione di trovarsi al posto giusto?
«Di norma, qualunque trasgressione da parte di un colonialista britannico viene messa a tacere, persino adesso, ma allora era ancora più vero, quindi per arrivare ad accusare pubblicamente tua madre doveva esserci un buon motivo».
«Per qualcosa che aveva fatto mia mamma?»
«In parte, ma tutto è cominciato con una sentenza impopolare di tuo padre».
«Cielo! Quale?»
«Fu una decisione fuori dall’ordinario».
Lei sospirò. «Per l’amor di Dio, sputa il rospo».
«Tuo padre condannò un ufficiale britannico al carcere per lo stupro di una donna indiana. L’intera comunità britannica era talmente scandalizzata che la sentenza venne ribaltata, ma la reputazione di tuo padre ne uscì profondamente intaccata».
Belle rievocò l’espressione solenne e gli occhi gentili di suo padre, e pensare che era stato trattato tanto ingiustamente la fece stare davvero male.
«E credi che sia il motivo per cui accusarono mia madre?»
«Forse. Ma c’è dell’altro. Durante un ricevimento ufficiale a casa del governatore, tua madre tirò un bicchiere di champagne addosso alla moglie del padrone di casa. Dritto in faccia. Non so perché, ma venne visitata da un medico e sedata. Guarda, qui ci sono gli articoli che ne parlano».
Belle sfogliò i vari ritagli ma, malgrado quelle notizie le stesse facendo girare la testa, era qualcos’altro a turbarla. Non riusciva a capire esattamente cosa, ma le stava dando un senso di inquietudine. Si alzò e andò ad appoggiarsi con la schiena a una parete fresca per riflettere.
«Che c’è?», le chiese Oliver.
Si rese conto che dubitava della storia di Edward. Le aveva parlato di un uomo che stava per essere incriminato e che era rimasto ucciso in un incidente in moto, ma adesso non ne era più tanto sicura. Sembrava un po’ troppo comodo, un modo per insabbiare rapidamente l’accaduto, nasconderlo sotto il tappeto e dimenticarsene.
E non condivideva neanche la stessa interpretazione di Oliver. Oliver aveva suggerito che sua madre fosse stata accusata a causa della sentenza di suo padre. Ma se le reazioni di sua madre erano talmente spropositate da arrivare a tirare un bicchiere di champagne in faccia a una persona così importante, persino prima che nascesse la bambina, forse questo dimostrava che era abbastanza pazza da aver fatto del male alla neonata. Un gesto che equivaleva a gettare dello champagne in faccia al re… be’, nessuna persona sana di mente avrebbe mai osato farlo.
Belle si avvicinò alla finestra per contemplare la deliziosa vista sugli alberi e ripensare a Edward. Il suo era stato un atto di gentilezza? Aveva cercato di proteggerla dalla verità perché sua madre era davvero colpevole? Aveva trovato una scusa talmente vaga per spiegarle perché non poteva leggere il verbale con i suoi occhi. O forse in fin dei conti la sua storia era vera, perché se sua madre fosse stata realmente colpevole, di sicuro non l’avrebbero mai lasciata andare. Era tutto così complicato, e le varie possibilità continuarono a vorticarle in testa fino a fargliela girare. Poi, rammentando il messaggio anonimo, prese la borsa, ci frugò dentro e si voltò verso Oliver.
«Anch’io devo farti vedere una cosa. È solo uno stupido biglietto», disse con noncuranza, per nascondere il fatto che in realtà l’aveva davvero turbata.
Oliver glielo sfilò dalle mani e lo lesse ad alta voce: «“Credi di sapere di chi ti puoi fidare? Pensaci meglio…”». Poi alzò gli occhi e la guardò con aria preoccupata. «Quando l’hai ricevuto?»
«Un po’ di tempo fa. Era in una busta fatta scivolare sotto la porta della mia stanza».
«Hai idea di chi possa avertelo mandato?».
Lei scrollò il capo.
«Ma da allora hai cominciato a chiederti di chi ti puoi fidare?»
«Be’, sì. Un pochino».
«Incluso me?».
Fece spallucce, ma quando rispose non riuscì a guardarlo negli occhi. «No, tu no».
Le si avvicinò e le posò una mano calda su ogni spalla. «Chiunque sia il responsabile ha fatto una cosa davvero crudele».
In imbarazzo, Belle si scostò leggermente, ma poi lo guardò dritto negli occhi e si sentì subito meglio. Ci vide talmente tanta correttezza e trasparenza che le venne voglia di abbracciarlo e poi di tenerlo stretto per un lungo istante. C’erano così tante cose lì a Rangoon che le apparivano infide e ignote. Ma ciò che era nato tra loro, qualunque cosa potesse diventare, era diverso e gradito.
«Non sei sola, Belle. Io sono dalla tua parte. Te lo assicuro».
E l’intensità del suo sguardo la convinse. Ma allora, se lui era dalla sua parte, da chi doveva guardarsi le spalle?
Diana, Cheltenham, 1922
Proprio quando mi sto abbandonando a un ricordo di Rangoon, Douglas entra di nuovo in camera mia. Sbatto rapidamente le palpebre e mi sforzo di tornare al presente.
«Come stai oggi?», mi domanda.
Scruto il suo viso impenetrabile. È talmente calmo e padrone di sé che prendo spunto da lui. «Sto bene, grazie».
«Vogliamo metterci comodi?», chiede, indicando una sedia. Poi va dritto al sodo. «Hai pensato all’offerta di Simone?».
Annuisco, ma non gli confesso quanto è stato impegnativo prendere questa decisione, né che non ne sono ancora del tutto convinta. Fatico a prendere fiato.
«Allora?», incalza.
«Be’… tutto sommato, penso che potrebbe essere la soluzione migliore».
«Ne sono felice».
“Ci scommetto”, penso, ma non lo dico. Provo a parlare, a spiegarmi, ma perdo il filo, mi interrompo a metà frase.
«Non ti ci avrei mai mandata se non avessi accettato, ma adorerai quel cottage», continua, come se non avesse sentito le parole che ho farfugliato.
«Quindi l’hai visto?»
«Proprio così. È in pietra delle Cotswolds, a pochi passi da casa di Simone, e ha un bellissimo giardino che lo circonda su tre lati».
Sorrido, rasserenata dal pensiero. Amo davvero i miei fiori.
«Anche il paesino è perfetto. Minster Lovell. Tranquillo. Con un fiumiciattolo che ci scorre accanto. Simone conosce un bravo medico che verrà a visitarti a casa. Ci sono un pub, un mulino, un piccolo negozio di alimentari e una meravigliosa panetteria che fa consegne a domicilio».
Annuisco.
China il capo per un momento e, prima che risollevi lo sguardo, noto quanto gli si sono diradati i capelli. Il mio amore in cima alla testa è completamente calvo.
«Ma adesso dobbiamo parlare delle condizioni», aggiunge.
Ha un’aria solenne, e nei suoi occhi scorgo un velo d’agitazione. Queste condizioni devono preoccuparlo sul serio.
Fuori ci sono più rumori rispetto a prima. Mi alzo dalla sedia e mi avvicino alla finestra aperta. Il vento ha cominciato a sferzare gli alberi, come se stesse per arrivare un temporale. Intravedo le luci che stanno già diffondendo i loro bagliori dorati nei salotti delle case dall’altro lato del parco, anche se è solo metà pomeriggio.
«Diana?».
Mi volto verso di lui. «Sì?»
«Puoi tornare a sederti, per cortesia?».
Faccio come mi ha chiesto e lo guardo in faccia. Perché sembra tanto ansioso?
«Allora, il punto è questo. Sento che stiamo prendendo la decisione migliore nell’interesse di Annabelle. Spero che tu lo capisca».
«Certamente». Mi sforzo di adottare un tono ragionevole.
«Potrà sembrare un po’ estremo».
Sbatto rapidamente le palpebre, ora sono preoccupata.
«Ma non credo che avere contatti con te possa giovare a nostra figlia».
«Elvira», mi sento mormorare.
«Diana, sto parlando di Annabelle, lo sai».
Stupido, stupido errore. Provo un attimo di confusione e vorrei coprirmi la faccia con le mani. Ma tutti noi commettiamo degli errori, no? Mi rendo conto che sta aspettando una mia risposta.
«Certo. Certo. È di lei che…». La mia voce si affievolisce, incapace di concludere la frase.
Il suo sguardo si addolcisce solo per un istante. «È meglio se la cresco da solo. L’instabilità, lo sai, scombussola i bambini. Non capisce perché non tieni a lei».
Sento un bruciore che mi fa pizzicare le palpebre. «Io tengo a lei».
«Ne sono certo, ma non è sufficiente, e abbiamo già stabilito che non si può andare avanti così. Propongo di istituire un fondo fiduciario che verrà amministrato da Simone. Credo davvero che sia la soluzione migliore, non solo per Annabelle, ma anche per te».
Mi mordo il labbro, fisso il pavimento; so che mi vuole lontana da qui.
«Andartene via da qui ti aiuterà», dice, facendo eco alle parole che ho in testa. «Dirò ad Annabelle che te ne sei andata, ma che non so dove. Che hai lasciato un biglietto dicendo che sarebbe stato meglio per tutti noi. Poi, a tempo debito, quando ti avrà quasi dimenticata, le dirò che sua madre è morta».
Rimango a bocca aperta. «È questa la condizione?».
Lui annuisce. «Dobbiamo dare un taglio netto e deciso. Voglio che cresca libera, be’, libera da…».
Lo interrompo. «Da me».
La sua voce assume una nota di dolente rassegnazione. «Non volevo dirlo in modo tanto esplicito, ma sì, il succo è questo, credo. Non dovrai fare ogni giorno i conti con il tuo fallimento come madre, e nemmeno lei. Davvero, è meglio che ti dimentichi. E naturalmente tornerai a usare il tuo cognome da nubile».
È un’affermazione, non una richiesta.
Penso al fatto di dover lasciare la casa in cui sono cresciuta. Casa mia. Solo che adesso è sua. Nei pochi mesi in cui abbiamo vissuto qui prima di andare in Birmania, avevamo ancora tutto il futuro davanti ed eravamo così felici. Vorrei dirgli come mi sento. Come mi sono sentita per anni. Vorrei dare voce alla sofferenza che mi ha causato e al male che mi sono fatta da sola, invece resto in silenzio. Ma poi, all’improvviso, come se non avessi scelta, la domanda che voglio fargli mi sfugge dalle labbra.
«Quando hai smesso di amarmi?».
Ha uno sguardo talmente triste che quasi non riesco a sopportarne la vista.
«Non si tratta di questo», risponde, e poi mi osserva per un istante lunghissimo. «Non ho mai smesso di amarti».
«Ma?»
«No, mia cara. Sei tu che hai smesso di amarti».
«È questo che pensi?».
Mi fissa come se sapesse che mi sto riferendo al suo tradimento, perché in fin dei conti, se mi ama ancora, come ha potuto? Dopo un secondo o due, apre la bocca e io aspetto. Non dice niente, ma gli occhi lo tradiscono e ciò che vedo è vergogna. Vergogna che compete con l’orgoglio.
Quando se ne va, passeggio per la stanza e ascolto il ritmo della pioggia che comincia a tamburellare sul tetto, risuonando come il battito del mio cuore. Quella di Douglas sembra una decisione spietata, ma non posso negare la realtà dei fatti. Non sono stata una madre per nostra figlia, ma voglio davvero fare in modo che abbia una vita migliore. Accadrà se me ne andrò?
Un’ora dopo, la signora Wilkes mi porta un vassoio con uova sode e striscioline di pane tostato, e mi tratta come se fossi una bambina. Mi guarda con aria compassionevole, e mi chiedo se non sia già stata messa al corrente del fatto che verrò cacciata via da questa casa. Almeno non dovrò andare al Grange, penso, almeno questo. Ma non poter più vedere mia figlia? Non mangio né le uova né il pane. Piuttosto, mi raggomitolo sul letto, mi tiro la coperta fin sopra la testa e, racchiusa in un bozzolo d’oscurità, piango fino ad addormentarmi.
D’umore volubile, Belle se ne stava sul portico davanti all’albergo a guardare gli ospiti che andavano e venivano. Prima due uomini d’affari con completi di lino chiaro che le rivolsero un cenno del capo mentre uscivano dall’hotel. Poi una matriarca di mezz’età vestita in modo fin troppo elegante, che entrò nell’atrio a passo di marcia trascinandosi dietro un bambino recalcitrante. Il caldo era già impietoso, e Belle sapeva che si sarebbe dovuta andare a sedere sotto un ventilatore, ma era confusa a causa delle recenti rivelazioni di Oliver su suo padre e sua madre, e non riusciva a stare ferma. Oliver si stava dimostrando un vero amico, ma non si era ancora minimamente avvicinata a scoprire cos’era successo alla bambina, e non sapeva quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Dopo qualche minuto, notò che il portiere indiano la stava osservando con un’aria incuriosita, quindi gli andò incontro.
«Posso aiutarla in qualche modo, signorina Hatton?», domandò in un momento di tregua dagli ospiti che avevano bisogno di assistenza.
Belle prese in considerazione l’idea. Poteva aiutarla? A volte gli ospiti si dimenticavano della presenza del personale e un uomo nella sua posizione poteva aver sentito dei pettegolezzi.
«Forse».
«Se mi è consentito, la vedo parecchio turbata».
«Non ho dormito bene».
«È un peccato. Ha qualche pensiero in particolare per la testa?».
Lo studiò con attenzione, annusando l’aria impregnata di salmastro e dell’olio dei moli. «Be’, in effetti sì». Poi, dopo un momento di esitazione, gli parlò dei suoi genitori e della bambina che era scomparsa nel 1911.
Durante un breve attimo di silenzio, l’uomo aggrottò al fronte.
«Sarebbe stata mia sorella, capisci», aggiunse Belle a mo’ di spiegazione. «Mi piacerebbe capire cos’è successo realmente».
L’indiano annuì, e lei credette che fosse finita lì, ma poi parlò. «Mio padre lavorava qui prima di me come sorvegliante notturno. Aveva l’abitudine di raccontare la storia di una bambina di cui una notte aveva sentito le urla. Urla atroci. Si era appisolato, immagino, e le grida della bimba l’avevano svegliato. Per qualche minuto si sentì disorientato e pensò che fosse stato un incubo. Ma le urla continuarono. Lì per lì non riuscì a capire da dove venissero, ma andarono avanti e si rese conto che provenivano da un punto vicino all’entrata secondaria dell’albergo. Quando fece il giro, non riuscì a vedere niente, eccetto un’auto nera che sfrecciava via a rotta di collo. Parlava spesso di quella notte. Diceva che lo tormentava. Quella bambina che urlava».
Belle lo fissò a bocca aperta. Possibile che si fosse trattato di Elvira? O era un’assurdità? Chissà quanti bambini avevano alloggiato in quell’albergo.
«Non c’erano bambini in hotel», disse lui, rispondendo alla domanda ancora prima che gliela ponesse.
«Sicuro che fosse proprio il 1911?».
Lui annuì. «Oh, sì, me lo ricordo con grande precisione».
«Ne parlò con la polizia o con gli altri membri dello staff, la mattina dopo?»
«Fece domande, è naturale, ma nessuno sapeva nulla, o, se sapevano, non dissero niente. Certo, aveva letto la notizia della bambina scomparsa, era su tutti i giornali, ma mia madre lo persuase a non chiamare in causa la polizia. Era preoccupata per il suo lavoro, capisce».
«Tuo padre è ancora vivo?»
«Sì, ma non sta bene. E non penso sia in grado di dirle più di quanto le ho appena riferito io. È una storia che mi ha raccontato così tante volte. Non aveva prove, ma l’istinto gli diceva che c’era qualcosa che non andava. L’auto lussuosa che sfrecciava via. Le grida angosciate. L’ora tarda, di notte. C’era qualcosa di clandestino nell’accaduto».
Belle annuì e lo ringraziò, i pensieri in subbuglio. E se Elvira fosse stata davvero rapita, e da persone agiate per di più? Questo perlomeno avrebbe potuto significare che era ancora viva, anche se non aveva proprio idea di come avrebbe fatto a ritrovarla.
Stava per tornare dentro quando Fowler, l’assistente del direttore, uscì con aria tronfia e sussiegosa.
«Signorina Hatton. Avrai anche amici altolocati, ma noi non incoraggiamo il personale a spettegolare sulla soglia davanti agli occhi degli ospiti».
«Non c’era nessuno».
Chinò il capo. «Be’, ora levati dai piedi. Attendiamo ospiti importanti che stanno per arrivare da un momento all’altro».
Belle lanciò un rapido sguardo al portiere e gli fece l’occhiolino, poi si rivolse di nuovo a Fowler. «Non dare la colpa a lui», disse. «La responsabilità è soltanto mia».
«Non ne dubito», replicò Fowler, scoccandole un’occhiataccia infastidita. Dopodiché le diede le spalle per accogliere con il suo classico atteggiamento servile un ospite appena arrivato.
Più tardi, Belle andò al bancone della reception per vedere se fosse arrivata posta per lei. Il capo receptionist, uno scattante uomo di mezz’età che veniva da Glasgow, le porse una busta che recava il timbro postale di Oxford. Finalmente era arrivata: una risposta dalla vecchia amica di sua madre, Simone. Belle la portò subito in camera sua, sentendo crescere le speranze. Per quanto adesso le piacesse Rebecca, voleva leggerla in privato, e per fortuna la ragazza non c’era. Aprì la lettera e, esaminando la minuscola calligrafia, ne divorò ogni parola. Poi la rilesse più lentamente.
Cara Annabelle,
ricevere tue notizie è stata una grande sorpresa, ma anche un enorme piacere. È davvero straordinario che tu ti trovi a Rangoon. La vita sa essere così strana con tutti i suoi colpi di scena, non sei d’accordo? Ma cosa sto dicendo? Sei una ragazza e, anche se so che alcuni momenti della tua infanzia non devono essere stati facili, non puoi ancora aver vissuto chissà quanti capovolgimenti inattesi. Ti ringrazio per avermi informata della morte del caro Douglas. Anche lui, come il mio caro marito, Roger, era un brav’uomo.
Ma passiamo all’argomento principale della tua lettera. Sì, certo che mi ricordo della scomparsa della piccola Elvira. Come potrei mai dimenticarla? Sono stati giorni angoscianti per tutti noi, ma soprattutto per tua madre, che ha sofferto pene atroci a causa della polizia. Io e mio marito restammo sconvolti dal fatto che una donna come tua madre potesse essere accusata in quel modo. Naturalmente, facemmo tutto il possibile. Roger passò da tutti i canali ufficiali, mentre io feci del mio meglio per consolare Diana.
Non era stata bene durante la gravidanza a causa di un malessere che in pratica si portò dietro fino alla fine, ma fu dopo la nascita della bambina che le cose andarono di male in peggio. Come se il parto l’avesse prosciugata. Mi preoccupava. Quasi non mangiava, non riusciva a dormire e piangeva di continuo. Anche la bambina piangeva, incessantemente a detta di Diana. Roger le diede qualcosa per aiutarla a dormire, ma continuava ad avere l’umore a terra. Niente sembrava funzionare, e io ero in pensiero per la sua salute mentale. È vero che alcune donne attraversano un periodo difficile dopo il parto, ma, e me lo garantì Roger, nel suo caso era molto peggio. Era come se Diana avesse completamente rinunciato alla vita. Non aveva più alcuna luce negli occhi e vedeva tutto nero. Douglas poteva essere un uomo impegnativo, testardo, e credo che invecchiando lo sia diventato ancora di più. Come tanti altri uomini, non riusciva a gestire le sue emozioni e pensava di avere sempre ragione, sempre e comunque, quindi non c’era modo di ragionare con lui. Mi dispiace dover dire certe cose di tuo padre. In fondo era una persona buona e faceva del suo meglio, solo che non riusciva a capire come la nascita della figlia che avevano tanto voluto potesse aver causato un cambiamento così drastico in sua moglie, né quale ruolo avesse avuto lui in tutta quella situazione.
Per quanto ne so, quel giorno Diana era da sola in giardino ed Elvira dormiva nella sua carrozzina. Uno dei domestici vide tua madre inginocchiata nell’erba in camicia da notte, accanto a un’aiuola appena piantata, e dichiarò che stava scavando nella terra a mani nude. Fu quella la ragione per cui poi venne accusata, insieme alla sua incapacità di occuparsi della bambina. La polizia concluse che Diana voleva vederla morta e, quando cominciarono a scavare in giardino, trovarono una scarpina nel punto esatto in cui stava scavando tua madre. Non riuscì mai a dare una giustificazione per le azioni di quel giorno, dettaglio che la polizia trovò altamente sospetto, mentre secondo me furono una semplice conseguenza dello stato confusionale in cui si trovava.
Gli interrogatori andarono avanti per giorni, fino a quando, all’improvviso, tua madre venne lasciata libera di andare e i tuoi genitori partirono per l’Inghilterra nel cuore della notte, senza neanche impacchettare le loro cose. Ho sempre avuto la sensazione che avessero ricevuto l’ordine di andarsene da qualche pezzo grosso ai vertici. Oh, quasi dimenticavo, c’era stato un incidente con la moglie del governatore. Quando Diana era incinta e non si sentiva bene, Douglas l’aveva trascinata a una cena a casa loro. La moglie del governatore, che a mio avviso era una donna stupida e frivola, aveva fatto un commento mentre Diana era vicina dicendo che le donne in gravidanza avrebbero dovuto darsi una mossa e tacere. Nessuno credeva nelle storie dei loro malesseri prolungati. Diana le piombò addosso e le tirò un bicchiere di champagne in faccia. Oh, che scandalo! Anche se io, in cuor mio, pensai che quella donna se lo fosse meritato, l’episodio non giovò affatto alla reputazione di tua madre. Cominciarono a ritenerla instabile ancor prima della nascita della bambina.
Quando i tuoi genitori partirono, mi resi conto che tua madre non era stata prosciolta dalle accuse. Il caso rimase aperto per un po’, ma, alla fine, non fu mai risolto. Il mio sospetto è che qualcuno sapesse com’era andata ma si fosse assicurato di mettere a tacere l’intera vicenda. A mio parere, tua madre fu semplicemente un capro espiatorio.
Comunque, cara Annabelle, per adesso è tutto. Spero tu riesca a leggere la mia calligrafia.
Con i migliori auguri per la tua salute,
Simone Burton
Diana, Cheltenham, 1922
Mi sveglio con la peggiore emicrania della mia vita. È come se mi avessero presa a randellate in testa. La stanza è piena di luce, troppa luce, e quando mi guardo attorno mi accorgo che tutte le pareti sono di piastrelle bianche e nell’aria c’è un odore nauseante di acido fenico. Non sono a casa.
Sono accecata dalla luce e, in preda al panico, vorrei soltanto scappare nelle tenebre. Poi mi balena un pensiero. Un pensiero terrificante. Questo dev’essere il Grange. Provo a muovermi e scopro di essere legata al letto, non troppo stretta ma abbastanza da non potermi alzare. Perché mi ha portata qui? Mi aveva promesso che non mi ci avrebbe mai mandata senza il mio consenso. Mi metto a chiamare forte il nome di Douglas fino a urlare, ma non arriva. Entra invece una giovane donna vestita di azzurro, che penso debba essere una sorvegliante, e mi dice che se non faccio silenzio disturberò gli altri pazienti.
Esce, e io inizio a tremare dalla paura. Perché mi hanno portata al Grange? La testa mi fa ancora male e i pensieri vorticano talmente in fretta che non riesco a concentrarmi su nulla. Mi sforzo di ricordare, ma non riesco a fare chiarezza. Ho la mente annebbiata. Dov’ero ieri? Cosa stavo facendo? Strizzo gli occhi nel tentativo di ricordare e provo a rievocare le immagini. Poi sento una voce, una voce reale, che mi sta facendo una domanda. Apro gli occhi e vedo che la donna è tornata, e quando torreggia sopra di me faccio una smorfia perché avverto un cattivo odore.
«Le ho chiesto se riesce a sentirmi», ripete, compassata, piena di presunzione, guardandomi con evidente disprezzo.
Quando mi dice che sono al Cheltenham General Hospital, non al Grange, c’è qualcosa che non riesco a identificare e non le credo.
«Perché sono legata al letto se non sono al Grange?». La mia voce ha un suono aspro e roco, e sento di avere la gola irritata.
«È per la sua incolumità», dice e, chinandosi di nuovo sopra di me, sussurra: «Le abbiamo dovuto fare una lavanda gastrica».
«Non capisco. Voglio andare a casa. Perché non posso andare a casa?». Mi si riempiono gli occhi di lacrime e non riesco a impedire che cadano e bagnino il lenzuolo.
Increspa le labbra. «Ha dato parecchie preoccupazioni a tutti noi, ma credo che tornerà a casa».
«Ho…?»
«Cosa?»
«Compromesso la mia salute?».
Scuote la testa. «Ora il medico sta parlando con suo marito e prenderanno una decisione».
«Una decisione?»
«Decideranno se è sicuro dimetterla oppure no».
«Perché non dovrebbe?»
«Signora Hatton, non spetta a me dirlo. Ora deve riposare. Ha bisogno della padella?».
Scrollo il capo anche se mi servirebbe.
Non appena se n’è andata, cerco di ricordare e avverto un enorme senso di oppressione sul petto. Boccheggio, chiudo gli occhi e mi copro il viso con le mani. Le pillole di Veronal. Io che me le infilo in bocca come se fossero caramelle. Così tante pillole. Così tante.
Spalanco gli occhi sentendo bussare alla porta, poi entra un dottore seguito da Douglas. Vengo sopraffatta dal sollievo e tendo le braccia verso mio marito, ma lui rimane a qualche metro di distanza e ciò mi confonde. Lo guardo e noto le borse scure che ha sotto gli occhi, dovute alla stanchezza.
Sposto lo sguardo sul medico. «Posso parlare da sola con mio marito?».
Annuisce. «Per qualche istante».
Mentre resto distesa immobile e in silenzio, Douglas mi sorprende prendendomi per mano e iniziando a parlare in fretta, con poco più che un filo di voce. «Non abbiamo molto tempo», dice. «Devi dire che è stato un incidente. Che hai dimenticato quante ne hai prese. Diana, suicidarsi è un reato e chiunque tenti di farlo può essere portato in tribunale e incarcerato. Per fortuna il medico mi ha prestato ascolto e ha capito che ieri non eri veramente in te, che avevi un mal di testa tremendo e non avevi dormito molto. Gli ho detto che eri confusa. Hai capito? Devi dichiarare che si è trattato di un incidente».
Non appena torniamo a casa, Douglas mi accompagna in camera mia, dove qualcuno ha messo dei narcisi freschi in un vaso accanto alla finestra. Mi rilasso immediatamente, anche se mi accorgo che hanno portato via lo specchio. Pensano che finirò con il rimirarmi a morte?
«Grazie per aver pensato ai fiori», commento, ancora scossa, concentrandomi su respiri lenti e regolari. Lenti e regolari. Lenti e regolari.
Lui annuisce, e la sua espressione è dolce. «Tra poco la signora Wilkes ti porterà su un vassoio».
«Non riesco a ricordare», dico. «Cos’è successo?».
Fa un sospiro profondo e china il capo per un istante.
«So che hai detto allo psichiatra di essere andata al parco, ma sappiamo entrambi che non è vero. Prima passavi del tempo in giardino, ma adesso rimani sempre più rintanata qua dentro».
Mi mordo le labbra.
«Pensavo che per rimetterti in forze prima di trasferirti a Minster Lovell avremmo dovuto farti abituare un pochino di più al mondo esterno».
«Oddio», dico quando riaffiora il ricordo, poi strizzo forte gli occhi. Il sudore mi imperla la fronte e la base del collo. La sensazione di restare schiacciata sotto questo peso implacabile mi priva di ogni pensiero razionale. Ho caldo e ho un terribile capogiro. Mi si comprime il petto e fa così male che sento di non riuscire a respirare, che sto soffocando, che sto per morire. Mi allungo verso Douglas, in preda al panico, e comincio a tremare in modo incontrollabile. Il panico aumenta e aumenta. Mi travolge. Anche se so che Douglas sta parlando, non riesco più a sentirlo. La sua bocca si muove mentre lo fisso con gli occhi sgranati. Si muove e si muove, tanto che vorrei mettermi a piangere. Poi si appanna tutto.
Douglas mi sorregge, mi sussurra all’orecchio con voce rassicurante, e adesso lo sento. «Va tutto bene, Diana, sei a casa. Va tutto bene».
Apro gli occhi. Sono davvero nella mia stanza.
«Stai solo ricordando ciò che hai provato ieri. Sei al sicuro. Mi dispiace così tanto per quanto accaduto».
«Non è colpa tua».
«Oh, invece sì, e me lo rimprovero. Avrei dovuto capire quanto ti avrebbe fatta stare male. Ma, vedi, all’inizio stavi bene, quando eravamo in giardino. Poi siamo andati al parco, quasi fino allo stagno, ed è stato proprio allora che è andato tutto storto. Troppo lontano, troppo presto. Ti ho incoraggiata a spingerti oltre i tuoi limiti».
«E quando siamo tornati a casa?»
«Sei andata subito a letto, anche se era ancora pomeriggio. Mi rimprovero anche questo. Avrei dovuto chiedere a qualcuno di restare con te».
Il ricordo riemerge. Douglas se n’era andato. Ero felice di essere rimasta da sola e, mentre ero sdraiata sul letto a fissare le quattro mura di camera mia, pensavo di essere diventata la guardiana del passato e che era giunto il momento di lasciarlo andare. Con tutte le emozioni, il rammarico, le speranze e i sogni perduti. Tutto. Quando ho chiuso gli occhi, ho visto i volti delle persone che se ne sono andate prima di me e poi, quando il passato si è dissolto, su di me è calata una pace straordinaria. Mi era stato detto cosa fare. Era tempo di concedersi di cadere nel vuoto per tornare alla vita e lasciarsi il dolore alle spalle. Così ho deciso di prendere le pillole. Stavo sorridendo, felice. Avevo finalmente fatto una scelta.
«La signora Wilkes era preoccupata», sta dicendo Douglas. «Non riusciva a svegliarti quando è venuta su a portarti la cena».
«Pensavo che sarebbe stato meglio per tutti. Mi spiace così tanto per il disagio, Douglas».
Mi accarezza la mano. «Ho mandato un telegramma a Simone chiedendole di venire a stare con te finché non ti sarai rimessa e potrai trasferirti. Ho già fatto il rogito per il cottage, così sarà pronto, completamente arredato e in tua attesa».
Mi concentro sui suoi occhi. «Ci devo ancora andare?»
«Penso sia la soluzione migliore, tu no?»
«Non lo so», rispondo, e la mia mente vaga.
«Non ti costringerò, ma l’alternativa è prendere un’infermiera che si occupi di te in questa casa, giorno e notte, e hai già detto che non vuoi. Sono immensamente preoccupato per le ripercussioni che potrà avere su Annabelle».
Riporto l’attenzione su di lui. «Sai quando arriverà Simone?»
«No, ma ho sottolineato che era urgente».
Spero mi faccia restare finché non mi sentirò più forte. Non lo dico, ma quando va avanti so che mi ha letto nel pensiero.
«Non ti preoccupare. Non c’è fretta».
Lo osservo con occhi velati. «È stato come se una voce mi dicesse che dovevo farlo».
Aggrotta la fronte, anche se non capisco se è preoccupato o arrabbiato.
«Che è esattamente il motivo per cui non puoi restare da sola e io non posso essere sicuro che una “voce” non ti dica di fare del male ad Annabelle. Se non vai, cosa ci riserverà il domani?».
Distolgo lo sguardo. È una domanda seria e la verità che contiene mi ferisce, ma vorrei non aver menzionato la voce. Mi sono davvero sentita così persa da non riuscire a immaginare un’altra via d’uscita? Sono così priva di speranza, così distrutta dal passato? O è stata la voce a prendere il sopravvento? Devo ancora accettare il fatto che la voce potrei essere io.
Alla fine della sua esibizione, Belle lasciò il palco, intenzionata a rileggere la lettera di Simone e andare a letto presto, ma, quando uscì a prendere una boccata d’aria fresca, trovò Edward che la stava aspettando.
«Facciamo una passeggiata?», domandò, e le rivolse uno dei suoi sorrisi seducenti. «È una serata meravigliosa. E ho buone notizie».
Lei alzò gli occhi al cielo, blu notte e disseminato di stelle; tirava un’arietta sorprendentemente fresca dopo una giornata così afosa, e Belle sentì gli uccelli notturni svolazzare di albero in albero.
«Volentieri», rispose.
«Sei molto bella, stasera. Vestito delizioso».
«Ti ringrazio. È il secondo che mi sono fatta confezionare nel quartiere cinese».
Edward si fermò e le mise una mano sul braccio per bloccare anche lei. «Davvero? Può essere pericoloso da quelle parti. Le loro società segrete ci causano un’infinità di problemi. Quel posto pullula di usurai e persino i cinesi stessi non osano denunciare le atrocità che commettono».
«Gloria mi ha detto che potrebbe essere rischioso, ma ci sono andata con una delle ragazze».
«Io lo evito come la peste. È un tantino troppo amorale per i miei gusti».
«Quindi non ci vai mai?», chiese lei, ricordando di avercelo visto in compagnia della donna con i capelli rossi dall’aspetto insolitamente familiare.
«No, se posso evitarlo. Cambiando argomento, mi stavo chiedendo se fossi giunta a qualche conclusione».
«In merito a cosa?»
«Tua madre. La bambina. Ciò che è accaduto. L’intera vicenda, ecco».
“Be’, non penso che mia madre sia colpevole”, rifletté, ma non lo disse. «Non esattamente», rispose. «Credo che mi limiterò ad andare avanti con la mia vita».
Lui sorrise, ma Belle colse anche qualcos’altro nella sua espressione. E si domandò perché gli avesse mentito. «Tuttavia», aggiunse, «ho saputo di una neonata che venne sentita piangere nell’albergo o nelle sue vicinanze proprio in quel periodo».
«Da chi?»
«Me ne ha accennato il portiere».
«Quella è una vecchia storia».
«Quindi la conosci anche tu?»
«Ne ho già sentito parlare».
Belle lo trovò un po’ strano. Il portiere le aveva detto che il padre non aveva denunciato l’episodio alle autorità, ma, d’altro canto, era possibile che si fosse sparsa la voce. Forse la notizia era arrivata anche all’orecchio di Edward?
«Ah, be’, è successo talmente tanto tempo fa», concluse. «La gente tende a confondersi, no?».
Continuarono a camminare fianco a fianco lungo Phayre Street, dove nell’aria si respirava il profumo delle violacciocche notturne e le chiazze di luce del giorno erano state rimpiazzate dagli alberi che svettavano rigidi e scuri contro il cielo trapunto di stelle.
«Avrei una cosa per te, ma se non hai intenzione di proseguire, forse… be’…». Fece una pausa. «Non ha importanza».
«Ora mi hai incuriosita».
Lui rise. «La curiosità uccise il gatto».
Belle levò gli occhi al cielo. «Sarei io il gatto?»
«Gli occhi verdi li hai».
«Allora?»
«Ho trovato un verbale della polizia su una bambina bianca avvistata insieme a una coppia birmana».
«Dove?»
«Su un vaporetto che stava risalendo il fiume Irrawaddy verso Mandalay. Ma probabilmente sarà l’ennesima storia infondata».
«Interessante. E la polizia portò avanti l’indagine?».
Lui scosse la testa. «Archiviarono il caso. Avevano seguito troppe false piste, penso, e dovevano esserci altre questioni più pressanti all’epoca. Un po’ come adesso».
«Cosa intendi? Che sta succedendo?»
«Gli animi sono in fermento. C’è stata una sparatoria nel quartiere indiano, ieri sera. Due uomini e una donna rimasti uccisi. È solo una questione di tempo».
«Prima di cosa?»
«Prima che diventi pericoloso per tutti noi».
«Pensavo avessi detto che avevi buone notizie».
«Questo è un altro discorso, ma chissà, magari risalire il fiume Irrawaddy potrebbe davvero essere una buona idea. Rangoon rischia di non essere troppo sicura per una donna da sola e, non si sa mai, magari potresti scoprire qualche indizio sulla bambina bianca vista sul vaporetto».
«Ma è successo talmente tanto tempo fa. Non se ne ricorderà nessuno».
«Forse no, o magari vale la pena tentare».
«Ti stai offrendo di accompagnarmi?».
Rise. «Purtroppo, no, anche se, be’… ormai avrai capito che mi sono affezionato a te».
Belle non sapeva cosa dire e si guardò attorno, cercando appigli per cambiare argomento. Dopo una breve pausa, fu lui a parlare.
«Scusami. Ti ho messa in imbarazzo».
«No. Non ci sono problemi». Si interruppe e gli mise una mano sul braccio mentre ripensava al discorso che avevano affrontato in precedenza. «Volevo chiederti una cosa».
«Spara».
«La storia di quel motociclista di cui mi hai parlato, quello che è rimasto ucciso in un incidente stradale. L’uomo che non è mai stato arrestato».
«Sì?»
«Era vera?».
Non riuscì a vederlo in faccia perché stavano passando sotto un albero, ma si accorse del suo attimo di esitazione. «D’accordo, non riesco a mentirti. La verità è che volevo farti sentire meglio».
«Quindi non era vera?»
«Non del tutto. Eri turbata dal gesto che potrebbe aver compiuto tua madre».
«Mi hai mentito?»
«Temevo potesse diventare un’ossessione e non volevo vederti sprecare le migliori opportunità per avere una grande carriera. E, come ti ho appena detto, mi sono molto affezionato a te e pensavo potessi restarci male».
«E la storia della bambina bianca?»
«Questa è vera, sul serio. Posso mostrarti il verbale. Ma, aspetta, non ti ho ancora parlato della buona notizia».
«Che sarebbe?», domandò lei, rendendosi conto che aveva abilmente portato la discussione in una direzione del tutto diversa.
«C’è un uomo che vorrei farti conoscere. Un agente teatrale che potrebbe avere una proposta da farti. Si fermerà a Rangoon di ritorno dall’Australia. Non so ancora la data precisa, ma non manca molto. Forse un paio di settimane».
Il successivo giorno di riposo, Belle si unì a Gloria e ad alcune sue amiche per una regata notturna sul lago Reale. L’intero ambiente era splendidamente rischiarato da migliaia di lanterne cinesi dai colori accesi e Belle osservò la processione di barche illuminate che passò davanti ai loro occhi, per poi entrare e uscire da una delle tante piccole baie. I britannici si erano radunati a Gossip Point, da dove avrebbero goduto della vista migliore, e Belle stava raccontando a Gloria che Edward le aveva suggerito di prendere un vaporetto con cui risalire il fiume Irrawaddy.
Gli occhi scuri e infossati di Gloria si illuminarono e la donna applaudì. «Che splendida idea! Ma io non ci andrei da sola».
«Stavo pensando di chiedere a Oliver Donohue di accompagnarmi».
Quando Gloria agitò la mano in un gesto sprezzante, Belle si concentrò sugli zigomi finemente cesellati e sull’espressione altezzosa dell’amica. Ma c’era anche qualcos’altro. Un briciolo di diffidenza, forse?
«Cara, non te l’ho già detto? È perennemente a caccia di una nuova storia. È veramente ostinato, e non puoi certo fidarti di lui».
Belle si accigliò. «Io l’ho trovato piuttosto piacevole».
«Piacevole! Che parolone! Ma ti assicuro che è un uomo pericoloso e che non c’è niente di meno piacevole».
L’improvviso e potente scoppio di alcuni fuochi d’artificio spaventò Belle, che si voltò a guardare Gloria a bocca aperta, gli occhi spalancati. I fuochi crepitarono ed esplosero; poi, in modo altrettanto repentino, lo spettacolo pirotecnico si concluse.
«Be’, non me l’aspettavo. Cosa si festeggia?»
«Non lo sai?».
Lei fece cenno di no con la testa.
«È il compleanno del governatore. E adesso, parliamo di quel giro in barca. Conosco la persona giusta per accompagnarti. Harry Osborne. È l’ispettore del governatore, e quello che non sa lui non merita di essere preso in considerazione». Guardò a destra e a sinistra. «Dovrebbe essere qui da qualche parte. Non ti muovere. Vado a dare un’occhiata».
Belle si guardò attorno in cerca di Edward, chiedendosi se avesse ricevuto notizie dall’agente che aveva menzionato. Se mancavano ancora alcune settimane al suo arrivo, avrebbe avuto modo di prendere il vaporetto, risalire il fiume Irrawaddy fino a Mandalay e tornare in tempo, sempre ammesso che partisse.
Rimase da sola e scrutò i vari volti lucenti. Lì per lì li trovò affascinanti, ma poi si rese conto che la patina lucida era dovuta perlopiù al sudore. Sentendosi un tantino in imbarazzo, si allontanò dalle lanterne, spostandosi dove la luce era più tenue. Sebbene conoscesse di vista alcuni degli uomini e delle donne radunati attorno a lei, si sentiva esclusa e le mancava il coraggio necessario per intrufolarsi in uno dei gruppetti. Ma era ridicolo, giacché molte di quelle persone dovevano averla sentita cantare – o forse era proprio quello il problema.
«A cosa stai pensando?».
Riconobbe immediatamente l’accento americano di Oliver e sentì di arrossire per il piacere. Che stupida. Grazie al cielo, però, lui non poteva vederla in viso in quella penombra.
«Tutta sola?»
«Sto aspettando Gloria».
«Dio ce ne scampi! Questo mi offre una valida scusa per portarti via da questo postaccio».
Belle rise. «Per andare dove?».
Lui si avvicinò di un passo. «Un posto vale l’altro, basta che non pulluli di britannici».
«Io sono britannica», replicò lei, ma con il cuore che le batteva a ritmo sfrenato nella cassa toracica non lo disse con grande trasporto. Era diventata qualcosa di diverso, di nuovo e ribelle. Indisciplinata, senza restrizioni, fuori controllo. “È tempo, ragazza mia, di folleggiare e disobbedire”. Esitò ricordando sua madre. Forse folleggiare no, ma disobbedire sì. Sarebbe stato sufficiente. “Che importa cosa pensano gli altri di Oliver? A me piace ed è questo che conta”, si disse.
«Sì, eccome, ma ho il sospetto che tu non sia una di loro. Tu, mia cara, sei furba come una faina».
Lei rise. «Questo per te sarebbe un complimento?».
Oliver si ritrasse e socchiuse gli occhi per guardarla bene in faccia. «Andiamo? Lo so che vuoi andare».
Quel momento fu di un’intimità disarmante. Belle lanciò un’occhiata nella direzione in cui era svanita Gloria e, malgrado le riserve espresse dalla donna su Oliver, prese subito una decisione. Gli permise di afferrarla per una mano e lasciarono di corsa il lago, ridendo come bambini e zigzagando tra le sbalordite matrone britanniche e i loro mariti pieni di sé.
Una volta lontani dalla folla, euforica e senza fiato, Belle si fermò, piegandosi in due e stringendosi il fianco. «Aspetta», esclamò. «Mi è venuta una fitta».
«Lumacona!», replicò lui con una risata.
«Non è giusto. Io porto i tacchi».
«Toglili, allora. Togliti tutto!».
Belle rise. «Così mi farò arrestare».
«In una notte come questa, ti seguirei a ruota».
«In prigione o alludi al togliersi tutto?»
«Tu che dici?».
Belle si tirò su. Oliver aveva ragione. Era una notte inebriante, mite e profumata, con un venticello leggero che le accarezzava le braccia nude, le faceva socchiudere le labbra e la invitava a toccare la pelle calda di lui. “Le notti birmane sono irresistibili”, pensò. “È come se ogni pensiero razionale fosse defluito altrove: le stelle brillano a migliaia, la luna sembra d’oro piuttosto che d’argento, e la notte è piena di suoni misteriosi. Ma la cosa migliore è l’aria fresca”. Quella frescura meravigliosa, magnifica. Si chiese come sarebbe stato come amante. Il suo amante. Immaginò le loro gambe intrecciate tra un groviglio di lenzuola bianche, il calore e il sudore e la pelle accaldata che li tenevano incollati insieme. Poi si impose di non fare la sciocca. Non era lì per innamorarsi. Sarebbe stato meglio se fossero rimasti soltanto amici. Compagni di cospirazione. No, non quello. Compagni d’indagine.
Quando ripresero a camminare, stavolta più lentamente, Oliver si portò la mano di Belle alle labbra e ne baciò ogni dito, uno dopo l’altro. Lei non disse una parola ma si protese verso lui e, con la bocca sulla sua, si strinse a lui. La sua pelle aveva un odore virile, di sapone al limone e di sandalo, ma soprattutto un profumo tutto suo. Mentre si baciavano, diede la colpa all’atmosfera straordinariamente dolce di quella notte. E quando il sudore iniziò a colarle tra i seni, non poté farci niente, se non arrendersi a quel meraviglioso formicolio dato dal sentirsi completamente viva… Con buona pace dell’idea di restare soltanto amici.
Si separarono dopo qualche minuto.
«Hai fame?», domandò lui, scrutandola in viso alla luce di un lampione.
Lei lo guardò raggiante, felice di prolungare il momento. «Ho una fame da lupi».
«Siamo in due allora. Ti andrebbe qualche specialità birmana? C’è un posticino formidabile proprio dietro l’angolo».
«Non le ho mai provate».
«Buon Dio, devi farti una cultura. Andiamo». E le tese una mano.
Nel giro di pochi minuti arrivarono a un ristorante illuminato da lanterne e vennero accompagnati a un tavolo appartato in fondo alla sala, dove aleggiava uno strano odore di pesce.
«Dovrai ordinare al posto mio. Non ho la più pallida idea di cosa sia questa roba».
«Cominciamo dall’insalata allo zenzero. La chiamano gin thoke. Che ne dici?».
Belle si concentrò sui suoi occhi e si rese conto che avrebbe accettato qualunque cosa le avesse suggerito.
«Si prepara con lo zenzero in salamoia, oltre alle lenticchie e ai fagioli di Lima tenuti a bagno per tutta la notte e poi fritti e uniti a cavolo tagliato a strisce, arachidi, semi di sesamo, succo di limone e una salsa di pesce». Agitò una mano. «Questa che senti è la salsa di pesce, e il sapore è molto più buono rispetto all’odore».
Lei gli rivolse un gran sorriso.
Mentre Oliver ordinava, lo vide tamburellare le mani a tempo sul tavolo.
«Cos’è?», gli chiese.
«Un semplice motivetto. Sai com’è quando ti restano in testa, no?». Fece una pausa. «Allora, dopo aver imparato a conoscere la cucina, e la prossima volta prenderemo l’insalata alle foglie di tè, ti introdurrò alla cultura birmana, musica e tutto il resto, a cominciare dalla pagoda più importante».
“La prossima volta”, pensò lei. “Ci sarà una prossima volta”. E si sentì elettrizzata al solo pensiero.
Due giorni dopo, poco prima di sera, Belle e Oliver si incamminarono verso la collina di Sanguttara e la pagoda Shwedagon. La frenesia dei banchi del mercato, che vendevano tessuti, dolciumi appiccicosi, prodotti artigianali in legno e fiori, inondava la strada, mentre gli ombrelloni dai colori sgargianti proteggevano i commercianti dal calore. Quel posto brulicava di gente che si accalcava per fare acquisti e, qua e là, Belle individuò delle giovani donne che spazzavano a terra.
«Si offrono volontarie», spiegò Oliver. «Acquisire del merito attraverso le opere di bene e le buone azioni è fondamentale per la loro fede, perché così facendo aumentano le possibilità di avere una reincarnazione propizia».
«E le pagode? Perché in Birmania ce ne sono così tante?»
«Be’, i ricchi finanziano la costruzione delle pagode per accumulare il merito. Ciascuna di esse è una Odeiktha zedi, ma ci sono anche altri tipi di pagode che custodiscono sacre reliquie».
Belle annuì. Proseguirono e poco dopo raggiunsero un banchetto pieno zeppo di gabbie di bambù, ciascuna con un minuscolo uccello verde simile a un pappagallo confinato al suo interno. «Guarda!», esclamò lei sbalordita.
«Ne vorresti uno?», le domandò Oliver.
Belle arretrò. «Un uccello in gabbia? No, grazie».
«Non è come pensi. Andiamo».
Riluttante, lo seguì e si avvicinò al banco del mercato.
«Allora, quanti?», chiese, voltandosi a guardarla.
«Sei impazzito?».
Oliver le sorrise. «Fidati di me».
Mentre tirava sul prezzo con il commerciante, Belle rimase a guardarlo, in ansia. Dopo qualche momento, parvero aver raggiunto un accordo e l’uomo mise tre gabbie su un tavolino improvvisato.
«Sono tutti tuoi», annunciò Oliver.
Belle inarcò le sopracciglia, ma non si mosse.
«Forza».
«Ma non li voglio».
«Apri le gabbie. Ora puoi farli volare via. Sono qui per questo. Ti darà merito».
Lei scosse la testa e rise. «Ma insomma, Oliver, mi hai fatto pensare…». Le si affievolì la voce.
«Non ho saputo resistere».
Belle aprì le gabbie una dopo l’altra e, estasiata, osservò ogni uccello spiegare le ali e volare via, librandosi sempre più in alto.
Poi salirono alcuni gradini verso il colorato complesso centrale che Oliver chiamò aran. Prima di trovarselo davanti e di osservare i tanti edifici di fronte a lei, Belle non si era resa conto che l’enorme pagoda centrale sorgeva in mezzo a un’infinità di pagode più piccole disseminate tra gli alberi. E non aveva neanche immaginato quanto fosse affollata la zona o che visitare la pagoda fosse un simile evento mondano. Tutta Rangoon sembrava essersi riversata lì. Innanzitutto, Belle si concentrò sulle famiglie che passeggiavano con addosso i loro vestiti migliori mentre i bambini più piccoli dormivano insieme in gruppetti sorvegliati dalle nonne più anziane. Poi osservò le giovani coppie che pregavano in ginocchio e alcune comitive di persone sedute a spartirsi il cibo. Ma a intrigarla più di ogni altra cosa erano i monaci con le tonache color zafferano che vedeva inerpicarsi sulle terrazze più basse della pagoda Shwedagon.
«Ma cosa stanno facendo?», domandò a Oliver.
«Controllano la superficie per vedere se ci sono dei problemi».
«Sembrano in equilibrio precario. Non si arrampicheranno mica fino in cima?»
«Credo di sì, per tutti e novantotto i metri».
«Buon Dio!».
«Andiamo», disse lui. «Dobbiamo darle un’occhiata come si deve prima che cali il sole».
La prese a braccetto e proseguirono insieme, superando enormi campane appese all’interno di strutture di pietra, padiglioni ornamentali che proteggevano dei reliquiari, e statue sontuose a forma di leone. Belle si innamorò dell’andirivieni che animava il cuore del luogo e sembrava in netto contrasto con i silenziosi angoli in ombra, sotto gli alberi, dove i monaci andavano a pregare.
«È ricoperta di pietre preziose», disse, spalancando gli occhi davanti alla mole imponente della pagoda Shwedagon.
«Sì, anche se alcune sono di vetro».
Mentre il cielo si tingeva d’oro e fitte ombre scure cominciavano a dissolvere la luce all’interno dei padiglioni, Belle restò senza fiato di fronte all’abbacinante splendore della pagoda Shwedagon illuminata dal sole morente. Con la luce che si rifrangeva sui vetri colorati, l’intera struttura riluceva e scintillava: una meraviglia tempestata di gioielli come Belle non aveva mai visto prima. L’arena sottostante, dove ardevano le lampade a olio, le candele e qualche lampadina elettrica, brillava nel venticello serale. Anche l’atmosfera era cambiata, diventando più ipnotica e meno travolgente, come se un mantello magico fosse calato insieme alla notte, smorzando il chiacchiericcio e intensificando il significato religioso di quel momento. Belle rabbrividì leggermente, e Oliver le cinse le spalle con un braccio.
«Allora», le sussurrò accostando la testa alla sua, «ti piace?».
Lei annuì. «Mi piace moltissimo», rispose, anche se non avrebbe saputo dire se si stava riferendo all’emozione che le suscitava Oliver o alla vista della pagoda. Rimase appoggiata a lui per qualche minuto, assorbendo quella pace. Poi, quando cominciarono ad allontanarsi, Oliver la prese per mano.
La sua energia la percorreva da capo e piedi e Belle desiderava con tutta se stessa che lui la baciasse di nuovo. La prima volta era stata lei a prendere l’iniziativa, ma adesso voleva che fosse Oliver a fare il primo passo. Così si fermò, e sollevò una mano per toccargli la guancia. Quando lui la strinse tra le braccia e le sfiorò delicatamente le labbra con un bacio, Belle ne fu elettrizzata. La stuzzicava, e lei stuzzicò lui, con le labbra che si toccavano a malapena, aspettando il momento in cui avrebbero avuto qualcosa di più. Belle avvertiva la violenza del proprio appetito febbrile, finché non fu pronta a dissolversi. Fluida come acqua, o fusa come mercurio liquido. Era una meraviglia. Era gioia. Poi – e non sapeva come fossero passati da una cosa all’altra –, quando gli appoggiò per un istante la testa sulla spalla, proruppe in una risata inaspettata. Era felicità allo stato puro, e forse anche l’unico modo per fare i conti con l’intensità dei suoi sensi acuiti fintantoché era circondata da così tanta gente. Oliver rise insieme a lei.
«Vieni», le disse quando si calmarono, e si scostò un poco, stringendole entrambe le mani. «Meglio andare. Qua le dimostrazioni d’affetto in pubblico sono ritenute offensive».
«Affetto?». Rise ancora. «Si chiama così, adesso?». Ma si guardò attorno e vide che alcune donne li stavano fissando.
Stare in compagnia di Oliver in una serata così piena di romanticismo alterava il suo stato emotivo, ma era anche incuriosita dalla scena a cui aveva assistito. Non appena le emozioni si placarono e si fu calmata, gli chiese di parlarle della loro religione.
«Buddismo», disse lui, «mescolato alla venerazione dei nats».
«La venerazione dei nats?»
«Ricordi che te ne ho già parlato?»
«Oh, sì. Gli spiriti».
Belle si mise in ascolto dei suoni della sera, il rumore adesso si era affievolito.
«E i monaci? Li vedo spesso per strada».
«Sì, in genere escono di mattina presto con le loro ciotole e vanno a chiedere la carità. Cibo per la giornata».
«E non hanno nient’altro?».
Lui annuì. «Il ruolo del buddismo è cambiato molto da quando i britannici hanno preso il controllo. Le leggi erano costruite attorno agli insegnamenti buddisti e i monaci venivano protetti. Oggi, ovviamente, quel legame tra il governo e il buddismo è andato perduto».
«In cosa credono?».
Oliver aggrottò la fronte e ci pensò su. «È molto semplice. Credono che ai genitori e agli anziani vada portato rispetto. E sottolineano la necessità di perdonare e prendersi cura della famiglia e della comunità».
Belle alzò gli occhi verso di lui. «A me sembra piuttosto bello».
«Ma c’è una strana contraddizione, perché questo tipo di buddismo è fortemente individualistico. Ogni persona è responsabile della propria salvezza, malgrado l’enfasi posta sulla comunità».
«Dettame che deve condurre a una vita pacifica».
Lui rise. «Forse. Comunque, dopo tutti questi discorsi, penso sia giunto il momento di tornare con i piedi per terra. Pronta per andare a bere qualcosa?».
Rangoon, 1937
Nel corso dei mesi successivi, Belle passò la maggior parte del suo tempo a lavorare o, quando non lavorava, in compagnia di Oliver. Se non era con lui, in genere si ritrovava a pensarlo. In una delle tante serate trascorse insieme, erano andati a bere champagne sulle sponde del lago Reale, a guardare le lucciole e a ridere per nulla, e a poco a poco si erano ritrovati un po’ alticci. Da quando aveva abbandonato le resistenze verso l’alcol, c’erano state diverse nottate come quella.
«Allora», aveva detto lei, «ti tratterrai in Birmania?»
«Be’, dipende. Prima o poi otterranno l’indipendenza dai britannici, e dopo chissà come andranno le cose».
«Ma ti piace vivere qui?»
«Per il momento».
«E perché sei venuto?»
«Penso di avertelo detto la prima volta che ci siamo incontrati. C’è un cambiamento in corso e questo fa notizia».
«E non pensi al dopo?»
«Non lo so, Belle. Stanno circolando voci preoccupanti in Germania, sulla sospensione delle libertà civili e la soppressione dell’opposizione politica, cose di questo genere, e prevedo che ci saranno dei disordini».
«Ma mica riguarderanno anche noi che siamo qua?»
«Forse sì, forse no. Difficile a dirsi in questa fase».
L’affermazione era stata seguita da un lungo attimo di silenzio, al termine del quale le aveva delicatamente fatto girare la testa verso di sé. «Ma non parliamo di argomenti deprimenti», aveva detto, poi le aveva tracciato il profilo delle labbra con la punta delle dita.
Felici di poter rubare ogni momento possibile per stare insieme, andarono anche alle corse dei cavalli, dove persero soldi e osservarono attentamente una Gloria che se la cavò abbastanza bene, mentre suo fratello scosse la testa sconsolato quando il cavallo di cui era comproprietario arrivò ultimo. Andarono al Silver Grill a gustare cene deliziose, e a passeggiare al parco di sera, quando il caldo del giorno si era dissipato. E finirono nell’appartamento di Oliver per il caffè quando erano stanchi e avevano voglia di rilassarsi un po’. Era come se entrambi stessero attendendo il momento opportuno, per un tacito accordo secondo il quale ciò che stavano vivendo, qualunque cosa fosse, non doveva essere affrettato. Lei era felice di avere tutto il tempo per conoscerlo meglio. Per capire il suo buffo modo di esprimersi, e per poi prenderlo in giro dicendogli che l’americano stava scempiando la lingua inglese. Lui incassava con grande calma e lei non si sentiva mai messa sotto pressione.
Era così diversa dalla sua prima e unica relazione vera e propria, quella che aveva avuto con Nicholas Thornbury. Essendo un produttore, le aveva promesso il mondo e aveva voluto bruciare le tappe. Belle aveva provato a diventare ciò che le chiedeva di essere, una compagna che facesse sul serio, ma non le era sembrato reale. Non avrebbe mai funzionato, anche se forse avrebbe dovuto dirglielo in faccia invece che lasciargli solamente un biglietto. Per quello era dispiaciuta. Lui era un uomo brillante, e lei l’aveva trovato stimolante. Le piaceva il fatto che sapesse come muoversi in città e anche che frequentasse ogni sorta di personalità insolita e accattivante. Ma la verità era che si era fatta influenzare dal fascino di quell’ambiente e, eccessivamente colpita dal fatto che fosse interessato a lei, si era lasciata trasportare. Soltanto dopo si era resa conto di stare con lui per i motivi sbagliati e aveva provato un po’ di vergogna.
Da allora, certi uomini erano stati del parere che fosse una donna di facili costumi, che fosse disposta a tutto, solo perché faceva la cantante. Ma Belle non era affatto così, e il suo riserbo era una cosa che la maggior parte di loro non riusciva ad accettare. Oliver era diverso – era sensibile – e Belle sentiva di potersi fidare sempre di più. Amava il fatto che con lui fosse un po’ come tornare a casa.
Aveva risposto a Simone, profondendosi in ringraziamenti per la sua lettera tanto dettagliata. L’aveva finalmente aiutata a mettersi il cuore in pace. Era evidente che gli eventi del 1911 avevano compromesso le condizioni mentali di sua mamma e, per la prima volta, Belle desiderava che ci fosse un modo per rimediare. “Dicono che non si può morire di tristezza”, pensò. “Ma non è così. Può succedere”. Era convinta che la tristezza avesse ucciso sua madre. Eppure, c’era una cosa che non riusciva ancora a comprendere. Cosa intendeva Simone quando le aveva detto che suo padre non aveva capito il ruolo che aveva nella malattia di sua madre? Cosa aveva fatto?
Né riusciva a capire perché non fosse bastata la sua nascita a ristabilire un equilibrio, o se non altro ad attenuare almeno in parte il dolore causato dalla perdita di Elvira. “Fa ancora male”. Malgrado non ne avesse mai parlato con Oliver, aveva la sensazione che se ne fosse in qualche modo accorto, e che fosse riuscito a percepire la sua sofferenza.
Il giorno in cui finalmente entrò in possesso delle chiavi della casa nella Valle Dorata, pensò di chiedere di nuovo a Oliver di accompagnarla, ma alla fine decise che quella volta avrebbe preferito andare da sola. Adesso che era sua, nutriva un desiderio che non riusciva a spiegare fino in fondo. Aveva bisogno dei suoi spazi per toccare le superfici, per tastare la consistenza delle pareti, e magari per percepire gli eventuali echi del passato. E voleva farlo da sola. Doveva prendere delle decisioni sul futuro della casa e, anche se Edward le stava abbastanza simpatico, non era sicura di volerla vendere a lui.
Riprese il tram e percorse l’ultimo tratto a piedi, superando le lussuose case coloniali che avevano sempre lo stesso identico aspetto. Casa sua – e al solo pensiero si sentì percorrere da un piccolo brivido – sembrava diversa, invece. Venendo a sapere che presto avrebbe ricevuto le chiavi, aveva assunto un giardiniere che estirpasse la vegetazione in eccesso. Ora, aprendo il cancello, già si riusciva a vedere il cambiamento. Era come se il giardino sul davanti si fosse aperto, facendo apparire più grande e più leggera anche la casa. Alzò gli occhi al cielo incandescente e provò uno slancio di felicità.
Anche se la serratura della porta principale era inceppata e inizialmente fece resistenza, Belle era determinata a entrare in casa come avrebbero fatto i suoi genitori, e non introducendosi illegalmente dal retro. Appoggiò con decisione la spalla alla porta che si stava scrostando, quindi spinse e spinse ancora, finché prima un cigolio e un lamento non annunciarono la resa imminente. Quando cedette senza preavviso, Belle piombò nell’atrio e barcollò prima di allungare una mano per ritrovare l’equilibrio. «Scusami, vecchia mia», sussurrò. L’ingresso nella sua nuova casa non era stato dei più eleganti. Tentennò, presa alla sprovvista da quel filo di pensieri. Sarebbe davvero diventata casa sua?
Lasciò la porta spalancata. Era necessario cambiare l’aria. Ora che riusciva a vedere l’atrio come si doveva, ispezionò il pavimento di marmo a scacchi bianchi e neri, illuminato da raggi di luce e, per fortuna, in gran parte intatto. Dopodiché, man mano che perlustrava di nuovo le stanze, cominciò a guardare la casa con occhi diversi, e con uno spirito che desiderava vederla tornare in vita, sebbene fosse evidente che il resto del piano inferiore avrebbe avuto bisogno di una grande quantità di lavori, se voleva davvero cancellare i fantasmi del passato. Aprì tutte le finestre che non erano state sbarrate e poi salì le scale, andando direttamente nella stanza che riteneva fosse stata dei suoi genitori. Contemplò il giardino dalla veranda. Il giardiniere si era messo all’opera anche lì e, ora che buona parte della giungla era stata eliminata, riusciva a intuire quanto sua madre dovesse averlo amato.
I pochi bei ricordi che aveva di lei erano legati ai momenti trascorsi insieme nel giardino della loro casa a Cheltenham, ma erano immagini confuse e Belle non poteva affermare con certezza che non fossero solo le pie illusioni di una bambina. Sapeva però che sua madre aveva amato i fiori. Almeno quello era reale.
Dopo aver aperto le finestre al piano di sopra, tornò da basso e uscì su quello che doveva essere stato il patio attraverso le portefinestre. Era pericolante e malridotto, con gran parte del mattonato rotto e in alcuni punti completamente mancante. Mentre avanzava stando attenta a dove metteva i piedi, un esercito di formiche si tolse rapidamente dalla sua strada e una famiglia di minuscole lucertole scappò via in cerca di riparo. Attraversò il prato tagliato, ancora terribilmente incolto ma con l’erba che almeno non le arrivava più al ginocchio, e si incamminò verso il varco oltre il quale c’era la sezione nascosta del giardino. Prima di proseguire, però, si voltò a guardare la casa. Alla luce del sole sembrava quasi dorata, e contemplare la sua bellezza sfiorita le fece salire un groppo in gola. Non era difficile immaginare la vita dei suoi genitori in quel luogo prima che tutto andasse così storto. Provò un momento di profonda tristezza, ma passò, e Belle superò il varco e si incamminò verso il tamarindo. Si sdraiò sull’erba sotto l’albero per guardare il cielo attraverso le sue fronde ombrose e, anche se non aveva mai vissuto in Birmania, avvertì una connessione, come se avesse finalmente trovato il suo posto nel mondo.
Avrebbe potuto vivere lì? Ristrutturare la casa? Riportarla nuovamente in vita? Era possibile?
La sera successiva, due minuti prima di salire sul palco, Belle ricevette un biglietto da Edward, il quale le chiedeva di incontrare lui e un altro uomo subito dopo lo spettacolo. Aveva passato talmente tanto tempo con Oliver che aveva quasi dimenticato il fatto che Edward le avesse menzionato un agente – o, se non proprio dimenticato, aveva comunque appreso la notizia con beneficio di inventario e l’aveva accantonata. In ogni caso, adesso era lì. Un certo signor Clayton Rivers, un australiano, un agente teatrale di fama internazionale. Era un peccato dover dare buca a Oliver, ma non poteva farci niente. Aveva provato a chiamarlo, ma non le aveva risposto. Avevano concordato di vedersi al Silver Grill per bere qualcosa insieme, e gli avrebbe voluto parlare della recente visita alla casa. Sapeva che avrebbe capito perché non sarebbe potuta andare al loro appuntamento, ma, a quel punto, non c’era più modo di avvisarlo.
Nonostante un mix di eccitazione e nervosismo, lo spettacolo andò bene, e alle ventitré e trenta Belle si aggiustò capelli e trucco, mise i tacchi più alti che aveva e oltrepassò i pochi avventori rimasti per raggiungere il bancone del bar, dove aveva visto Edward, a suo agio e rilassato con una camicia dal colletto slacciato, intento a sorseggiare un whisky in compagnia di un altro uomo. Entrambi si alzarono non appena la videro e, con un sorriso raggiante, Edward la presentò all’agente teatrale, un uomo alto e dalle spalle larghe, con un’abbronzatura marcata e i corti capelli biondi quasi tendenti al bianco.
«Piacere di conoscerla, signor Rivers», disse Belle, tendendogli la mano.
«Clayton, ti prego», rispose l’uomo, sfoderando un sorriso abbagliante. «Che ne dici di andare a quel tavolo appartato laggiù?».
Lasciarono Edward al bar e si accomodarono al tavolo all’angolo. Clayton Rivers le disse che veniva da Sydney e che al momento stava visitando tutti i migliori alberghi e teatri d’Oriente a caccia di nuovi numeri da portare in scena. Dato che Edward, un vecchio amico dai tempi di Londra, si era profuso in così tanti elogi, si era sentito in dovere di fare una piccola deviazione. Le sue aspettative non erano state disattese e, se fosse stata interessata, era disposto a scritturarla con un regolare contratto.
Euforica per la notizia, Belle, continuando ad ascoltarlo attentamente, annuì quando le spiegò che il contratto le avrebbe chiarito tutti i dettagli, anche se ci avrebbe messo un paio di settimane o giù di lì ad arrivare. L’unica condizione era che si facesse trovare a Sydney alla fine della settimana successiva, e sostenesse un’audizione per sostituire un’artista in un musical di successo in cartellone per il sesto mese consecutivo.
«Non ti prometto niente», disse. «Sai che all’audizione si presenteranno in tanti, ma… sei brava. Molto brava. È costoso, ma l’Imperial Airways ti porterà a destinazione in tre giorni, con uno scalo a Singapore e uno a Perth».
A quanto pareva, la stella dello spettacolo era alle prese con dei problemi personali e di salute e, anche se non aveva ancora abbandonato il ruolo, era molto probabile che la cacciassero per inadempienza contrattuale. L’attuale sostituta si era fatta “cogliere in fallo”, cioè, Belle capì, era incinta e, visto che gli spettacoli erano già in programmazione, sbrigarsi era fondamentale, spiegò Clayton.
Belle annuì con entusiasmo, ma al contempo sentì anche un briciolo di esitazione. Avere un agente dalla sua parte significava essere presa in considerazione per lavori di cui altrimenti non avrebbe neanche mai sentito parlare, quindi perché titubare?
«Potrei avere un paio di giorni per pensarci?», fu la domanda con cui se ne uscì alla fine.
Lui si accigliò, sorpreso. «Sul serio? Ci devi pensare?»
«Ho alcune questioni da sistemare, tutto qua».
Non era esattamente la verità. Non era certa di voler lasciare Oliver proprio quando stavano cominciando a conoscersi davvero, e anche la casa nella Valle Dorata, in tutto il suo sbiadito splendore, era un chiodo fisso. La villa creava un potente collegamento con il passato, con il passato dei suoi genitori, e anche se non aveva senso, Belle si era sentita a suo agio lì è aveva avuto la sensazione che la villa facesse parte di lei. E cosa dire di Elvira? C’era ancora da indagare sulla storia della bambina bianca avvistata mentre risaliva il fiume insieme a una coppia birmana. Vero, negli ultimi tempi la sorella scomparsa non era stata al centro dei suoi pensieri, ma Belle sarebbe mai tornata in Birmania se adesso se ne fosse andata? Avrebbe mai scoperto la verità su quanto accaduto? Fece un lungo e profondo respiro. Era un’opportunità favolosa. Come poteva anche solo pensare di rifiutarla?
Lanciò un’occhiata a Edward, che era stato raggiunto da Gloria, ed esitò ulteriormente quando vide chi si era unito a loro. Era la donna dai capelli rossi, quella che aveva visto con Edward, e le stava sorridendo. Belle la fissò con la mente affollata da una serie di interrogativi. Chi era? Perché aveva la sensazione di conoscerla? Che ci fosse qualcos’altro al di là della sua somiglianza con Diana?
«Vogliamo tornare dagli altri?», domandò Clayton.
Mentre si avvicinavano al bar, Gloria fece cenno a Belle di raggiungerla. «Vieni a conoscere Susannah».
L’altra donna sorrideva e, colta da un’illuminazione, Belle capì che le era parsa familiare proprio per la ragione a cui aveva pensato prima: assomigliava davvero a sua madre, che ovviamente non era più viva. Poi, quando le rivolse la parola, rimase sorpresa dal forte accento scozzese. E malgrado avesse un aspetto molto curato, con un solo reticolo di sottilissime rughe di espressione, era più grande di quanto avesse creduto a un primo impatto. Da lontano, la postura perfetta e l’abito moderno le avevano dato l’impressione che fosse più giovane, ma, faccia a faccia, era evidente che doveva avere più di cinquantacinque anni. Se aveva nutrito il benché minimo sospetto che potesse essere Elvira, e ovviamente non era lei, no davvero, ora ogni dubbio era stato rapidamente dissipato. L’età della donna lo rendeva impossibile. Belle le strinse la mano.
«Ho rintracciato Harry la sera della regata», stava dicendo Gloria. «Dio, sembrano passati secoli, ma quando sono tornata a cercarti tu eri svanita nel nulla. Non mi hai ancora detto che fine avevi fatto e ci siamo viste poco o nulla dalle corse dei cavalli».
«Oh», fece Belle, scervellandosi in fretta e ricordando la fuga insieme a Oliver. «Mi era venuto un gran mal di testa, così sono tornata a casa. E da allora… be’, sono stata piuttosto occupata».
Socchiudendo gli occhi, Gloria la osservò con diffidenza.
Belle sentì che stava arrossendo. «Mi dispiace. Ti ho cercata alla regata per avvisarti».
«Ma davvero, cara?». La donna tacque. Era chiaro che non si era lasciata abbindolare dalla menzogna. «Be’, non pensiamoci più ora. Harry è partito per le regioni selvagge subito dopo la regata, quindi era inutile sollevare di nuovo l’argomento, ma adesso è tornato e domani alle undici ci vedremo al Golden Eagle per un pranzo anticipato. È il locale dove ti ho portata quando eri appena arrivata. Te lo ricordi?».
Belle annuì, anche se non poteva fare a meno di pensare di essersi fatta cogliere di sorpresa. Poi, dato che voleva darsela a gambe, mormorò parole di scusa dicendo che aveva avuto una lunga giornata, ma che si sarebbero viste l’indomani mattina, quindi augurò a tutti la buonanotte.
Harry Osborne si rivelò essere un uomo scrupoloso e con un’ottima padronanza della lingua birmana. Il suo lavoro consisteva nell’ispezionare l’andamento del Paese e nel redigere un resoconto per il governo, descrivendo nel dettaglio l’utilizzo dei terreni e le attività delle aree più remote della Birmania. Uomo oltremodo preciso, con i capelli color sabbia e gli occhiali dalla montatura di metallo che continuavano a scivolargli sul naso, sembrava stranamente fuori posto in quel locale, dove sorseggiò in silenzio la sua limonata e declinò le offerte di alcolici da parte di Gloria.
Il forte odore di incenso che proveniva dall’angolo della sala faceva bruciare gli occhi a Belle, che cominciò a tossire. Quando si riprese e spiegò che stava cercando di scoprire la verità su sua sorella, Harry annuì lentamente e si guardò attorno, come per assicurarsi che nessuno potesse sentirli.
Poi fu Gloria a intervenire. «Harry conosce tutti gli abitanti dei villaggi lungo quella tratta. I birmani, intendo. Se qualcuno ha notato qualcosa, lui è l’unico a poter cavare le parole di bocca a quella gente. Non lo batte nessuno, ed è una grandissima fortuna che stia per mettersi in viaggio. Ma lascerò che sia Harry a spiegarti tutto», disse, indirizzandogli uno dei suoi abbacinanti sorrisi.