«Se desidera accompagnarmi a Mandalay…», esordì lui, parlando a voce così bassa che Belle dovette sporgersi tanto da ritrovarsi praticamente a un palmo dal suo naso, e riuscì addirittura a percepire nell’alito dell’uomo un vago sentore di pesce.

«Parto tra tre giorni», continuò Harry, «e non tornerò prima di dieci mesi. Vede, dopo Mandalay andrò a nord-ovest, fino all’aspro confine tra le montagne e il fiume Chindwin. Sono certo di poterle organizzare alcuni incontri fruttuosi a Mandalay. Magari persino con il commissario distrettuale. Mi dia un giorno o due ed escogiterò un piano».

Belle deglutì. Tre giorni. Avrebbe dovuto decidere in fretta. Ora che aveva finalmente conosciuto Harry e l’escursione sul fiume era diventata più reale, la storia della bambina bianca avvistata sul battello con una coppia birmana la stava tentando. Se Harry fosse davvero riuscito a persuadere un alto ufficiale a riceverla, ci sarebbe stata la possibilità di avvicinarsi alla verità, o almeno di portare alla luce una qualche pista. Era una scommessa azzardata, naturalmente, ma se la fortuna fosse stata dalla sua parte, magari avrebbe potuto incontrare qualcuno che li aveva visti.

«Quanto tempo ci vuole per risalire il fiume?»

«Due settimane».

«Due settimane?». Aveva ingenuamente sperato in un paio di giorni, che le avrebbero comunque consentito di andare a Sydney.

Harry le rivolse uno sguardo annoiato. «Inoltre, il treno per tornare a Rangoon non sempre è così veloce. Possono volerci più di dodici ore, a meno che non ci siano inondazioni, perché in quel caso chi può dirlo. Anzi, se ha intenzione di tornare in treno, dovrà farsi trovare pronta molto prima che arrivi il periodo dei monsoni».

«E quando sarebbe?»

«All’inizio di giugno, in genere».

Perlomeno c’era abbastanza tempo prima delle piogge, eppure era innegabile che l’intero viaggio si sarebbe potuto rivelare una totale perdita di tempo: una falsa pista che le sarebbe costata l’opportunità di procurarsi un agente.

Gloria, che ovviamente si era accorta della sua titubanza, intervenne: «Cara, dovresti proprio andare. Il viaggio è assolutamente sicuro, quantunque Harry, poverino, potrebbe giocarcisi la testa».

Non capendo, Belle aggrottò la fronte.

«Spera di raggiungere il Nagaland. I Naga sono famigerati cacciatori di teste». E scoppiò a ridere, anche se Harry, notò Belle, non condivideva la sua ilarità.

«A dire il vero, Gloria, sono un po’ più preoccupato per le tigri», disse, «e per quanto riguarda i Naga, mi limiterò soltanto a ispezionare il territorio, benché sia senz’altro necessario scoprire se esista la possibilità di persuadere alcuni di loro a unirsi alle nostre forze militari».

Durante quello scambio di battute, Belle si era soffermata a pensare, e non ai cacciatori di teste o alle tigri. «E Clayton Rivers?», chiese, rivolgendo uno sguardo ansioso a Gloria. «Non aspetterà».

«Da quanto ho capito, è un semplice ruolo da sostituta. Ci saranno occasioni migliori. Magari in futuro ti rappresenterà comunque, no?»

«Ha precisato che dovrò farmi trovare a Sydney alla fine della prossima settimana».

Gloria sbuffò. «Non credere a tutto quello che ti viene detto, soprattutto quando ha a che vedere con mio fratello. Dammi retta, non ti porterà a nulla. Comunque, sono abbastanza sicura che Edward possa convincere Clayton a prenderti a prescindere. Quell’uomo è in debito con lui».

«Perché?»

«Tempo fa Edward gli ha prestato del denaro, quando Clayton stava prendendo piede nel mondo dello spettacolo».

Belle gonfiò le guance e lanciò un’occhiata a Harry Osborne, il quale stava fissando con aria imbronciata il fondo del suo bicchiere vuoto. Era avvolto da un’aura di indefinibile tristezza. Cosa avrebbe dovuto fare? Accettare la sua offerta o quella di Clayton Rivers?

Un’ora dopo, quella mattina, Belle bussò all’appartamento di Oliver. Passarono alcuni minuti prima che lui venisse ad aprire, così, quando lo fece, lei stava per andarsene. Era malconcio, con i capelli scompigliati e ombre scure sotto i begli occhi dalle lunghe ciglia nere. Doveva essersi appena alzato dal letto e, con addosso soltanto un asciugamano avvolto attorno alla vita, si stirò e sbadigliò.

«Che ti è successo ieri sera?», le chiese con voce roca, e la sua freddezza la fece trasalire.

«Ti ho svegliato?», domandò lei, cercando di non fissargli troppo apertamente il petto nudo, con l’ombelico scoperto e un accenno di peluria arricciata poco più in basso. Provò un maremoto di emozioni e una stretta al cuore dinanzi alla sua pelle dorata, e allungò una mano per toccarlo. Poi, però, gli scorse sul collo una sbavatura simile a rossetto e rimase di sasso.

Lui si accigliò. «Come puoi ben vedere, non sono esattamente in condizioni di ricevere ospiti».

«D’accordo», disse, confusa, chiedendosi se stesse nascondendo un’altra donna nel suo appartamento. «Ci vediamo un’altra volta allora».

Quando fece per andarsene, lui le mise una mano sul braccio. «Scusami. Entra. Mi butto sotto la doccia e poi preparo il caffè, se non ti spiace aspettare».

Belle lo seguì in casa e, fermandosi a osservarlo dalla soglia della cucina mentre preparava il caffè, rimase per un momento in silenzio.

«Pensavo che prima avresti fatto una doccia», disse alla fine.

Girò la testa per guardarla. «Hai ragione, è vero». Le porse una tazzina di quello che doveva essere caffè ristretto e svuotò la sua in un unico sorso. «Non ci metterò molto».

«Fai con comodo. Non vado di fretta. Volevo spiegarti cos’è successo ieri sera».

Lui annuì, quindi attraversò il salotto per andare in bagno. Belle sentì i gemiti e i cigolii delle tubature e il rumore dell’acqua corrente. Avrebbe potuto telefonare, ma moriva dalla voglia di vederlo di persona, e adesso quel segno di rossetto la turbava. Si sforzò di trovare ragioni innocenti per quell’allarmante presenza rosa acceso sul suo collo, ma fallì miseramente. Cosa stava a indicare? O meglio, chi stava a indicare? Provò a concentrarsi sul salotto dalle tinte chiare, osservando i mobili di rattan, i cuscini di seta color smeraldo e i magnifici tappeti persiani verdi e azzurri, tutti al solito posto. Dopo aver appoggiato la tazzina vuota sul tavolino da caffè, rovistò in una pila di riviste, poi andò alla finestra per godersi la vista sugli alberi ad alto fusto.

«Bel panorama, eh?», fece Oliver, e Belle si voltò di scatto perché non l’aveva sentito entrare. Pallido malgrado l’abbronzatura, non si era rasato e sul mento si intravedeva ancora un velo di barbetta.

«Volevo darti una spiegazione».

Lui si strinse nelle spalle. «Davvero, non importa».

«Invece sì. Mi dispiace. È successa una cosa dell’ultimo minuto».

«Qualcosa di importante, immagino», osservò lui con un tono insolitamente distaccato.

«Be’, sì».

Oliver allungò una mano. «Andiamo. Sediamoci. Sono davvero stanco morto».

«Nottata pesante?», chiese Belle, gettando via la rivista.

«Già. Ho incontrato per caso una vecchia conoscenza».

Mentre si sedevano sul divano, gli si rivolse con più spavalderia del previsto. «Una donna?».

I suoi occhi azzurri si spalancarono. «Come fai a saperlo?».

Lei sollevò il mento e gli rivolse un’occhiataccia stizzita. «Il segno di rossetto che hai sul collo. Indizio abbastanza lampante, non credi?».

Invece di risentirsi, Oliver si mise semplicemente a ridere. «Gelosa?»

«Non dire assurdità».

Conscia che la sua diffidenza stava straripando e infastidita con se stessa per la propria petulanza, si affrettò a rialzarsi. «Meglio che vada».

«Non mi hai spiegato perché mi hai dato buca».

«Oh, niente di che, solo per un agente teatrale di fama internazionale che Edward ha portato a conoscermi! Sai, cose che capitano tutti i giorni… Comunque, me ne…».

«Se desideri andare, fai pure». Oliver alzò le mani e fece spallucce.

«Infatti vado». Ma non si mosse. Invece, con suo grande orrore, cominciarono a bruciarle gli occhi e, quando sgorgarono le lacrime, le asciugò stizzita con il dorso della mano. Lui fu istantaneamente al suo fianco, la prese tra le braccia e la strinse forte a sé. Belle sentì il battito del suo cuore contro il petto e le parole che le stava sussurrando all’orecchio.

«Dai, tesoro, non litighiamo. Mi sono ubriacato con una vecchia amica, tutto qua. Non c’è stato niente, te lo giuro».

Lei si ritrasse e tirò su con il naso. «E il rossetto?»

«Un bacetto destinato alla guancia ma che dev’essere finito sul collo quando ci siamo salutati. Niente di più. Ero arrabbiato perché mi avevi dato buca e ho bevuto più del previsto».

«Vecchia amica o vecchia fidanzata?».

Oliver si grattò la nuca. «La seconda. Più di un anno fa. Adesso è felicemente sposata».

Il suo sguardo sincero, completamente privo di malizia, la rassicurò. Belle comprese di aver reagito in modo spropositato e annuì. Dopotutto, non si erano fatti alcuna promessa e non avevano neanche pubblicamente annunciato di essere una coppia. Non aveva alcun diritto di essere turbata. Oliver era una persona indipendente, e anche lei. Avevano iniziato la giornata con il piede sbagliato, ma potevano passarci sopra.

Belle si passò il pollice sul mento e se lo sfregò, ancora titubante riguardo al viaggio sul fiume. «Devo prendere una decisione», disse. «Volevo discuterne con te…».

«Be’, sono qui per questo».

Si riaccomodarono e, mentre lui le teneva la mano, Belle gli spiegò la situazione.

«Ti fidi di Edward?», le domandò poi, poco convinto. «Questo agente è una persona perbene?».

«Perché non dovrebbe esserlo?»

«Guarda, non vorrei fare il guastafeste, ma, da quanto ne so io, Edward è un uomo infido».

«In che senso?».

Un’ombra passò sul volto di Oliver. «Non ne ho le prove, ma gira voce che abbia ostacolato il corso della giustizia in più di un’occasione».

Belle si irrigidì leggermente, i pensieri in tumulto. «Ma ciò non significa che quello non sia un vero agente. E comunque, come fai a sapere di Edward?».

Oliver le rivolse un sorrisetto sbilenco. «Un buon giornalista non rivela mai le sue fonti», rispose con ironia.

«Cosa fa di preciso? Come lavoro, intendo».

«Be’, la storia vuole che sia un influente consigliere del commissario di polizia».

«E tu non ci credi?».

La sua alzata di spalle fu evasiva.

«Cosa stai cercando di dirmi?»

«Che è la mente dietro una serie di operazioni equivoche. Quando conveniva, lui e altri individui hanno messo a tacere più di una mia inchiesta, e le persone che lo hanno sfidato sono scomparse. Edward, come tanti altri, non si fa scrupoli quando si tratta di salvaguardare il potere e la dignità dei britannici».

Belle aggrottò la fronte. Quella non era la persona che aveva imparato a conoscere. Edward era sempre stato disponibile e gentile con lei. Anzi, gli si era persino affezionata parecchio.

«In ogni caso, la cosa più importante è scoprire cos’è successo a tua sorella, giusto?»

«Be’, sì. Forse. Ma…».

Oliver la interruppe. «E cosa te ne è parso di Harry Osborne?»

«Lo conosci?»

«Di nome. Ho sentito dire che è un tipo in gamba, molto stimato nel suo campo».

«L’ho trovato abbastanza simpatico, anche se un po’ taciturno».

Lui sorrise e i suoi occhi si illuminarono. «Sono le acque chete quelle da cui ti devi guardare».

«Oh, tu non puoi certo essere accusato di essere silenzioso». Quando le fece una boccaccia, lei gli diede un colpetto sul petto. «Esiste un solo americano davvero taciturno?».

Rise, ma poi tornò subito serio. «Quella bambina bianca sulla barca è il primo indizio decente che hai trovato. E se tu riuscissi ad arrivare a Mandalay, là potresti scoprire qualcosa di più, soprattutto se avessi la possibilità di parlare con un funzionario ai vertici, il comandante della polizia o qualcuno di quel livello».

Oliver stava dando voce ai suoi stessi pensieri, ma era comunque una decisione difficile da prendere. Se avesse intrapreso il viaggio sul fiume, non sarebbe riuscita a rispettare i termini del signor Rivers. Le cose stavano così, e anche se Gloria le aveva fatto notare che potevano esserci altre occasioni, avrebbe avuto ragione?

Con un’espressione elettrizzata, e alzandosi in piedi, Oliver cominciò a fare avanti e indietro per la stanza. «Pensaci! Se seguissimo questa pista e venisse fuori qualcosa… se scoprissi cos’è accaduto, o magari trovassi persino Elvira viva, pensa che storia meravigliosa sarebbe. Immagina i titoli: “Affascinante donna inglese risolve il caso della bambina scomparsa”. “Cantante fa luce sul mistero”. Sarebbe la notizia dell’anno. Potrebbe persino fare il giro del mondo o, senti questa, magari potrebbero farci un film. Faremmo fortuna!».

Calò un lungo attimo di silenzio.

«Belle?».

Lei prese una boccata d’ossigeno. Come aveva fatto a essere così ingenua? Come aveva fatto a riporre la sua fiducia in una persona che riteneva ammissibile vendere le vicende private della sua famiglia, la loro tragedia addirittura, metterle in piazza e farle diventare materia di pettegolezzo? Un film… per l’amor del cielo! Le vennero i brividi e si alzò di scatto.

«Storia?», balbettò, troppo sconvolta per aggiungere altro.

«Belle, io…».

Lei scosse la testa. «Non posso farlo».

Mentre dolorose ondate di delusione la travolgevano e la verità veniva a galla, il caldo all’interno della stanza si faceva via via più intenso. «Sono questo per te? Uno scoop?»

«No. Non intendevo…».

«Fermati subito». Indietreggiò. «Mi avevano messa in guardia da te».

Oliver contrasse la mandibola e rimase completamente immobile a fissarla. «Avevano?»

«Ho scelto di non credere alle loro parole».

Avvertì una stretta al petto. Era stata così stupida. Ora voleva soltanto andarsene alla svelta, e non dover più ripensare alla sua slealtà.

«Non è di Edward che non mi dovrei fidare, vero? Ma di te».

«Belle, questa è una reazione spropositata…».

Alzò una mano per metterlo a tacere. «Stai passando del tempo con me perché stai dando la caccia a una grande notizia. Hai bisogno del mio aiuto per scoprire la verità. Il grande scoop di Oliver Donohue!».

Lui le rivolse uno sguardo talmente singolare da farle temere che le si potesse spezzare il cuore. Poi scrollò il capo. «Hai frainteso tutto», disse con una risata vuota, «ma credo che tu sia più simile a loro di quanto pensassi. Se riponi la tua fiducia in Edward e nei suoi compari, sarà peggio per te».

Belle si sentiva triste, sola e incredibilmente delusa, ma, facendosi coraggio e decisa a conservare la dignità, ricacciò indietro il groppo che le era salito in gola. «Mi spiace che la mia amicizia con Edward non incontri la tua approvazione. Non voglio disturbarti ulteriormente. Tu non sei interessato a me. Sono stata una sciocca a pensare il contrario…».

Lui la osservò incredulo per un istante, poi fece spallucce.

Nel momento esatto in cui lasciò l’edificio, Belle prese una decisione. Al diavolo la sua storia! Al diavolo il viaggio sul fiume. Non ci sarebbe andata. Né ora né mai. Accecata dalle lacrime di rabbia che presero a rigarle le guance non appena scese in strada, e fomentata dal dolore per essere stata ingannata, rimase scioccata dalla ferocia della propria reazione di fronte a quanto era successo. La noncuranza con cui aveva scrollato le spalle alla fine aveva suggellato il tutto. E adesso il dolore la flagellava. Come? Come poteva essere stato tanto menefreghista? Tanto insensibile di fronte alle pene della sua famiglia? Era difficile dover accettare il fatto che la persona in cui aveva riposto la sua fiducia non era chi aveva pensato che fosse. Poi si ricordò del biglietto anonimo. “Credi di sapere di chi ti puoi fidare?”.

31

Diana, Cheltenham, 1922

Simone sta con me da tre settimane e devo ammettere che non mi sono mai sentita meglio. Dopo essermi ripresa dal gesto sconsiderato che mi ha fatto finire in ospedale, abbiamo iniziato con delle piccole uscite, nel giardino davanti casa, dove ci fermiamo a guardare il parco per un paio di minuti. Mi tiene per mano e, pochi istanti prima di arrivare al punto in cui ho la sensazione che il mondo stia per richiudermisi addosso, lei sembra intuirlo e torniamo subito dentro. Ogni giorno ci spingiamo un po’ più avanti e ogni giorno resisto un po’ più a lungo.

Simone è la persona più tollerante che io abbia mai conosciuto, non giudica mai né allude a cose che mi facciano sentire indegna. Ha cieca fiducia nel fatto che un giorno o l’altro mi riprenderò del tutto, e la sua presenza calma e rassicurante è proprio ciò di cui ho bisogno. Provo a credere che andrà tutto bene, ma ieri la voce mi ha fatta precipitare di nuovo nel baratro e, solo dopo pochi minuti all’aperto, il cuore sembrava volermi saltare fuori dal petto. Simone mi ha detto di respirare lentamente e mi ha incoraggiata a non correre subito dentro, ma concentrarmi sui fiori allineati nelle aiuole davanti casa. E l’ho fatto. L’ho fatto davvero.

Mi sta aiutando a impacchettare tutte le mie cose in vista del trasloco. Nutriamo la speranza che da qui a breve sarò in grado di sostenere il viaggio in auto. Se mi accompagna qualcuno, l’idea di andare in macchina non mi preoccupa più di tanto. È stare all’aperto che mi fa sentire risucchiata.

Ora Simone è seduta sul pavimento e guarda alcune fotografie della nostra vita in Birmania. Non crede che dovrei evitare la cosa che mi terrorizza. Dice che evitarla non fa che peggiorare la situazione e crede sia il motivo per cui sento la voce. Pensa che l’oscurità che mi rifiuto di affrontare, se non addirittura di accettare, debba trovare una valvola di sfogo. Di conseguenza, per provare a sconfiggere la voce, ogni giorno passiamo al contrattacco trascorrendo un quarto d’ora a ripensare al passato. Non c’è una mappa che mi mostri la strada. Non mi resta altro da fare che prendere le cose come vengono. Con i vicoli ciechi e tutto il resto. Così, tentiamo di destreggiarci tra i ricordi, anche se a me sembra una follia e la assecondo soltanto per farle piacere.

Quando mi siedo sul tappeto con lei, Simone tira fuori una delle uniche due fotografie che ho di Elvira e, ancora prima che me la porga, sento crescere il panico e distolgo lo sguardo.

«Forza, Diana. Dai un’occhiata. Non ti succederà niente».

La sua espressione è difficile da decifrare, ma alla fine acconsento e abbasso gli occhi su una versione più giovane e sbiadita di me stessa che sta cullando la sua primogenita. Mentre sfioro delicatamente l’immagine con l’indice, un verso strozzato mi sfugge dalla gola.

«Diana?».

Sollevo lo sguardo, angosciata. «Ma non so cosa ho fatto».

«Pensi di aver fatto del male alla tua bambina?».

Scuoto la testa. «L’amavo», dico, ma la mia voce è poco più che un sussurro.

«Hai paura che la voce ti abbia detto di farle qualcosa? È così? Avevi già iniziato a sentire le voci?».

Sospiro. «Non riesco a ricordare. Se non già all’epoca, ho iniziato poco dopo».

Cala un lungo attimo di silenzio mentre i fotogrammi del passato mi sfrecciano davanti agli occhi. La carrozzina, sempre quella carrozzina sotto il tamarindo e io che osservo i rami e ascolto gli uccellini. A pranzo avevo bevuto due grossi bicchieri di Pink Gin e mi girava un poco la testa. Non l’ho detto al poliziotto, anche se potrebbe averlo saputo da uno dei domestici. Ricordo il sollievo che avevo provato quando Elvira si era finalmente addormentata. Non negherò che i suoi vagiti mi risultavano quasi insopportabili. Non per il pianto in sé e per sé, anche se è in grado di far impazzire qualsiasi madre, quanto per il fatto che non riuscivo mai a calmarla, a prescindere da quanto ci provassi. Il dottore diceva che molto probabilmente erano le coliche e sarebbero passate, ma io mi sentivo impotente ogni volta che ascoltavo i suoi penosi lamenti.

«Sei stata brava», dice Simone, prendendomi a braccetto. «Ti senti bene?».

Non la sto ascoltando con attenzione, ma torno al presente, faccio cenno di sì con la testa e poi le restituisco la fotografia.

«Domani», dice con un sorriso fiducioso mentre mi aiuta a rimettermi in piedi, «potremmo chiedere alla signora Wilkes di regalarci un po’ di pane raffermo, così andiamo a dare da mangiare alle anatre dello stagno. Che ne dici?»

«Magnifico», rispondo. Quando in realtà intendo: “Scherzi?”. Riuscirò davvero a spingermi fino allo stagno?

32

Con un’indignazione più che giustificata ad alimentare il suo passo marziale, Belle si allontanò dalla palazzina di Oliver. Fremendo in silenzio, notò a malapena il solito viavai di persone, veicoli e animali per le strade della città, né prestò attenzione al sole che splendeva alto nel cielo o al sudore che le colava lungo la schiena. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che alla fine sarebbe sicuramente andata a Sydney, lasciandosi tutto il resto alle spalle – lasciandosi lui alle spalle – ormai certa che fosse l’unica soluzione possibile.

Quando ritrovò la calma, si guardò attorno e scoprì di essere finita in una zona che non conosceva, piena di vicoletti angusti. E si dovette fermare perché un gruppetto di birmani, che indossavano soltanto delle gonne, le ostruiva il passaggio. Un uomo stava disegnando dei simboli neri sul petto nudo di un compagno e altri attendevano in fila il loro turno, ansiosi di farsi adornare. Presi com’erano da quella strana attività, non prestarono alcuna attenzione a Belle. Quando anche altri uomini si unirono al gruppo, Belle li aggirò con cautela e imboccò quella che sperava fosse la strada giusta per arrivare al segretariato. Voleva trovare Edward per dirgli che era lieta di accettare Clayton Rivers come suo agente.

Quando fece una brusca svolta per girare un angolo e si incamminò verso un incrocio, udì un suono cadenzato e vibrante. Cos’era quello strano rumore? Rimase ferma immobile ad ascoltare i tonfi sordi, poi tutto le apparve chiaro. Passi di marcia. Stava ascoltando delle persone che marciavano. E qualche istante dopo apparvero decine di birmani armati di spade, spranghe di ferro e asce. «Gesù», sussurrò. Cosa diamine stava succedendo? Girò su se stessa, cercando di capire quale fosse la via di fuga migliore, ma gli uomini sembravano ormai riversarsi in strada da ogni direzione. In un lampo, capì di essere in trappola. Con il cuore che batteva all’impazzata e la paura che le toglieva il respiro, si appiattì contro un androne. Mentre osservava la scena, le dimensioni della calca triplicarono e un’enorme quantità di uomini avanzava rumorosamente verso di lei.

Inchiodata sul posto, provò a urlare. Non uscì alcun suono. Voleva muoversi a tutti i costi, ma, quando si guardò attorno, non riuscì a trovare alcuna scappatoia. Chiuse con forza gli occhi nel vano tentativo di cancellare quella visione pietrificante. Decine di uomini intenzionati ad aggredirla stavano brandendo le loro armi mentre gesticolavano e urlavano. Marciavano. Battevano i piedi. Incredula e sotto shock, Belle era rimasta paralizzata. La sua vita sarebbe davvero finita così? L’avrebbero picchiata a morte all’angolo di una strada? Avrebbe disperatamente voluto vedere sua madre, suo padre, chiunque giungere in soccorso, ma non poté far altro che un respiro tremante e terrorizzato in attesa che si compisse il suo destino.

Visto che dopo alcuni istanti nessuno l’aveva ancora toccata, aprì gli occhi e si rese conto che gli uomini in testa al drappello avevano cominciato a tempestare di pugni il portone e le finestre di una casa più avanti, a due porte di distanza dall’androne in cui si era rannicchiata lei. Ricordava vagamente che le avevano detto che quello era il quartiere in cui vivevano gli indiani e, quando alzò gli occhi, ne vide alcuni che lanciavano mattoni dalle finestre delle abitazioni dall’altro lato della strada. Impaurita da ciò che stava avendo luogo, scrutò l’ambiente nella speranza di intravedere un poliziotto che potesse aiutarla e portarla via da lì, ma non c’era nessuno.

Vide che un gruppo di birmani aveva cominciato ad arrampicarsi sulla scala esterna di una delle case degli indiani. Conscia dell’estremo pericolo che stavano correndo gli abitanti della zona, Belle si rimise a cercare tracce della presenza delle forze dell’ordine. In cima alle scale, gli uomini menarono fendenti d’ascia contro la porta finché non la buttarono giù, e a quel punto, malgrado il clamore della folla, riuscì a sentire le grida terrorizzate delle persone al suo interno. Era sicura che le avrebbero massacrate. Non sapendo se sarebbe arrivato anche il suo turno, Belle avrebbe tanto voluto mettersi a piangere, ma, dato che la calca si era riversata dall’altro lato della strada, doveva cogliere la palla al balzo. Per cominciare, con il fiato corto, scivolò alle spalle degli uomini ancora radunati in strada, poi, con un unico pensiero in testa, si mise a correre senza scegliere una direzione ben precisa.

Scappando via, superò tanti altri birmani armati e con i petti coperti di simboli, che brandivano piedi di porco e randelli e avanzavano verso il quartiere indiano. In una delle strette viuzze parallele, aggirò alcuni poliziotti disarmati alle prese con una folla di indiani inferociti e intenzionati a passare al contrattacco. Era chiaro che quella sommossa era una questione tra birmani e indiani, ma non riusciva a comprenderne le ragioni. E non riuscendo neanche a capire perché le autorità non stessero intervenendo, Belle intuì che era ancora più importante raggiungere Edward e avvertirlo della scena alla quale aveva assistito.

Quando raggiunse un caseggiato in una stradina che conduceva ai moli, capì di aver preso la direzione sbagliata. L’intera zona puzzava di pesce e di fogna, ma c’era anche qualcosa di peggio. Di molto peggio. Assalita dall’odore dolciastro e nauseante del sangue, si sentì serrare la gola. La viuzza stessa, avvolta da un silenzio innaturale, era priva di segni di vita, e Belle indietreggiò sgomenta quando scoprì i corpi contorti di una mezza dozzina di indiani – uomini, donne e bambini – riversi sul selciato. Si guardò attorno, orripilata, ma vide che non stava venendo nessuno a spostarli. Fissò l’atroce livido viola che si era allargato sul volto di un uomo e il sangue scuro e rappreso laddove la testa era stata fracassata. Poi si accorse delle orbite nere e vuote e provò ribrezzo. Gli avevano cavato gli occhi. Chiuse i suoi e, stringendosi lo stomaco, vomitò a più riprese. Quando ebbe finito, udì il ronzio di mosche gigantesche e strizzò gli occhi finché non vide che stavano già banchettando. Distolse lo sguardo e osservò una donna che giaceva in una pozza di sangue scintillante, gli abiti strappati e gli squarci delle pugnalate sul petto. Un bambino piccolo era accasciato in modo innaturale accanto ai suoi piedi nudi. Belle li avrebbe voluti aiutare, ma non c’era niente, assolutamente niente, che lei potesse fare. Nessuno era stato lasciato in vita. Lanciò un’occhiata a un altro uomo che era stato chiaramente pestato a morte. Atterrita da tanta brutalità, il suo unico pensiero era che doveva andarsene da lì. Lo Strand Hotel non poteva essere lontano, perciò si voltò per cercare di capire quale fosse la direzione giusta. Ma poi, udendo piangere un bambino, esitò.

Aveva dato per scontato che avessero trucidato tutti e desiderava scappare da quell’atroce carneficina, ma come poteva lasciare un bambino a morire da solo? Tentò di capire dove potesse essere e avanzò lungo la strada, sforzandosi di non guardare gli occhi vitrei di altri tre uomini che trovò distesi a terra, pestati a morte. Si fermò davanti a una casa, laddove il pianto era diventato più insistente, ma tentennò per timore dello spargimento di sangue che avrebbe potuto trovare al suo interno.

La porta d’ingresso era spalancata, così provò a farsi sentire dalla soglia nella vana speranza che qualcuno fosse ancora vivo. La paura le si annidò nello stomaco e nelle ossa. «Controllati», sussurrò, «controllati». Poi, evitando i gradini di legno più scivolosi e imbevuti di sangue, iniziò a salire con cautela, e a ogni passo si sentiva sempre più nauseata, incapace di tenere a freno i conati.

Le tre stanze in cima al pianerottolo erano deserte, tranne per un anziano accasciato contro una parete, con una grave ferita alla testa e gli occhi vitrei e privi di vita. Le sfuggì un singhiozzo, ma proseguì fino al piano superiore, il pianto del bambino ormai già più flebile. Poco prima di arrivare in cima, si sentì mancare il terreno sotto i piedi e scivolò giù dalle scale, fino al pianerottolo del piano di sotto. Rimase sdraiata dov’era per un momento, ma, quando provò a muoversi, un dolore lancinante le bloccò la gamba sinistra. Ci riprovò comunque, e alla fine riuscì a trascinarsi su, un gradino dopo l’altro. Solo che il pianto ormai era cessato.

Nella prima stanza c’erano due donne morte sul pavimento, e Belle si stava giustappunto chiedendo se sarebbe riuscita a raggiungere il terzo piano quando intravide un movimento. Zoppicò verso una delle due donne e, chinandosi, sollevò pian piano l’angolo di un sottile lenzuolo intriso di sangue, scoprendo che c’era una bambina rannicchiata sotto. Provando un tuffo al cuore, Belle controllò per assicurarsi che la donna fosse morta, poi, con delicatezza, prese in braccio la bimba che sbatté le palpebre, lasciandola a bocca aperta. La bambina era viva. Fissò i suoi enormi occhi marroni, poi la esaminò in cerca di ferite, accarezzandole la pelle morbida e i capelli prima di riavvolgerla nel lenzuolo sporco e cullarla al seno. Qual era la cosa giusta da fare? Avrebbe dovuto lasciare lì la piccola nella speranza che le autorità trovassero i suoi parenti o avrebbe dovuto portarla in salvo? Se l’avesse lasciata lì, la piccola avrebbe rischiato di morire, e c’era persino il rischio che tornasse la folla omicida. Prese una decisione istintiva. Dopo essersi avvicinata con passo malfermo alle scale, strinse a sé la bambina e iniziò a scendere lentamente.

Una volta fuori, si guardò attorno per riuscire a identificare il punto esatto in cui aveva trovato la bambina, quindi cominciò a imboccare un vicolo dopo l’altro finché non sbucò in una strada deserta, con la fitta alla gamba ormai talmente straziante che le fece lanciare un grido. Si fermò a riprendere fiato, terrorizzata e con i sensi allertati per paura del ritorno degli uomini armati. Oltre alle vertigini e alla nausea, la gamba bruciava e pulsava in modo spaventoso. Rischiava di perdere i sensi, e il dolore divenne talmente insopportabile che Belle capì di essere sul punto di stramazzare a terra, così si appoggiò a un muro prima di cadere. La bambina si lamentò e si agitò nel tentativo di divincolarsi. Belle prese in considerazione l’idea di metterla giù solo per un momento, all’ombra di un albero, ma sentì un’auto avvicinarsi a gran velocità. Quando si fermò, vide che era una volante della polizia, dalla quale scesero tre uomini in divisa seguiti da… Non era possibile. Il quarto uomo, l’unico che non indossava un’uniforme, corse verso di lei. Si passò una mano insanguinata sugli occhi, il mondo si capovolse e Belle crollò al suolo.

Si svegliò nell’oscurità. Per Belle, incapace di distinguere un’ora dall’altra, il tempo si era dilatato. Una cosa, la più nera immaginabile, incombeva nelle ombre notturne della stanza. Una luce dalla postazione delle infermiere filtrava sotto la porta. La paura l’aveva cambiata. La portava a rannicchiarsi a ogni rumore improvviso, l’allarmava quando si muoveva un’ombra. Faceva sì che il corpo le andasse stretto. Piccolo. Perché tutto il suo essere era fatto di paura. Non chiamò in cerca di aiuto.

Quando si svegliò di nuovo e aprì gli occhi gonfi, sentì la bocca secchissima. Mentre giaceva immobile, vide una stanza bianca e pulita, con le tende di mussolina delicatamente gonfiate dal venticello che entrava dalla finestra aperta. Stranamente intontita e rigida, annusò l’aria. Disinfettante e un odore floreale. L’infermiera che stava sistemando delle peonie rosa in un vaso sul suo comodino notò che si era svegliata.

Con i polmoni contratti, doloranti, e il respiro rauco e strozzato, Belle si sforzò di tirare fuori la voce. «Da quant’è che sono qui?».

Strizzò un attimo gli occhi a causa della luce prima che i ricordi del massacro le tornassero di colpo alla mente e un’ondata di nausea le facesse rivoltare lo stomaco. Si coprì gli occhi e gemette. Nella testa intorpidita le vorticavano scene di sangue e morte. La donna che giaceva riversa in casa, la gente per strada, le uccisioni, tutte quelle uccisioni. E la bambina… Quella povera bambina. Oddio! Ricordava il calore della sua pelle morbida e calda e dei suoi capelli setosi. E i suoi occhi, quegli occhi enormi. Cosa ne era stato di lei?

L’infermiera le porse una scodella e Belle si sedette e ci vomitò dentro, ma c’era ben poco da rigettare visto che non aveva mangiato, giusto? Non riusciva a ricordare con chiarezza l’ordine degli eventi. C’era stata la discussione con Oliver. Sì, quella se la ricordava, ma cos’era successo subito dopo? Troppo debole per restare a lungo seduta, si lasciò ricadere sul cuscino e l’infermiera le pulì il viso con un panno umido e fresco.

«Grazie», mormorò Belle, poi cercò di rimettersi a sedere. «Da quant’è che sono qui?».

L’infermiera le diede un bicchiere d’acqua.

Belle lo bevve, poi l’infermiera l’aiutò a sdraiarsi con delicatezza. «Ha bisogno di riposare».

«Devo sapere cosa ne è stato della bambina».

«Ci sarà tempo per questo».

«Allora, da quant’è che mi trovo qui?»

«Quasi quarantott’ore».

«Penso di essermi svegliata stanotte».

«È possibile, anche se il medico le ha dato un sedativo. Potrebbe averlo sognato».

«Posso andarmene adesso?», chiese, perché voleva alzarsi dal letto, sgranchirsi le gambe e capire cos’era successo. E voleva anche trovare un modo per sottrarsi a tutto ciò che aveva visto e alla paura che le aveva annodato lo stomaco e le aveva quasi fatto fermare il cuore. Il gin avrebbe fatto al caso suo. Un paio di bicchieri di gin belli colmi fino all’orlo.

«Il dottore la visiterà tra poco, ma per il momento ha visite. Il signore stava aspettando notizie con immensa preoccupazione».

Oliver, pensò Belle dimenticando il loro litigio, ma, quando l’infermiera aprì la porta, vide che l’uomo in questione era Edward e provò una serie di emozioni contrastanti. Ciononostante, era felice che fosse andato a trovarla e abbozzò un sorriso.

«Spero che i fiori ti piacciano», disse lui con un gran sorriso.

Lei annuì distrattamente e cercò di sbirciare oltre la porta aperta per vedere cosa stesse succedendo nei corridoi fuori dalla sua stanza. «Ti ringrazio, ma la bambina? È qui?»

«È sana e salva».

«Hai trovato i suoi genitori?», domandò lei, resa frenetica dal bisogno di sapere.

Edward accostò pian piano la porta, quindi le spiegò che si stavano prendendo cura della bambina e che non si doveva preoccupare di niente.

«Se può essere d’aiuto, posso dirti esattamente dove l’ho trovata. Se mi ci portassi, sono sicura che te lo potrei indicare. Ti prego, dammi una mano ad alzarmi». Fece per scivolare giù dal letto. «Posso camminare, ne sono convinta».

«Belle, non ce n’è bisogno. Stiamo già facendo delle indagini. Se tutto va bene, presto troveremo qualche parente».

«Ne sei sicuro? Non riesco a sopportare il pensiero che una bambina così piccola potrebbe finire in un orfanotrofio». Ricacciò indietro un singhiozzo. «Edward, riesci a immaginare quanto debba essere stato terribile essere lì presente mentre sua madre veniva pugnalata a morte?».

Lui avvicinò una sedia e, dopo essersi accomodato, le strinse la mano sinistra e l’accarezzò dolcemente. «Su, su, non c’è niente di cui preoccuparsi. Ti ho appena detto che la bambina sta bene. Tu come ti senti? È questa la domanda più importante».

Lei aggrottò la fronte. «Grata di essere viva, ma estremamente intontita. Non riesco a ricordare proprio tutto».

«Magari è un bene».

«Ma come ho fatto a finire qui? Cosa mi è successo?».

«Sai che ti abbiamo trovata nei pressi del quartiere indiano?»

«Sì. Non avevo intenzione di andarci».

«Vorrei ben sperare. Sei caduta e ti sei fatta male a una gamba con un vetro rotto, o almeno credo».

Abbassò lo sguardo. «Non riesco a sentirmela».

«Ti hanno dato degli antidolorifici».

I suoi occhi iniziarono a riempirsi di lacrime, che poi le colarono sulle guance. Edward le porse un fazzoletto pulito e lei si asciugò il viso.

«Adesso va meglio?», chiese lui.

«È stato terribile, Edward. Terribile. Le cose che ho visto. Perché stavano uccidendo quegli indiani?»

«Ti spiegherò tutto non appena starai meglio».

Belle ritrasse la mano. Aveva bisogno di riordinare le idee. Perché era accaduto? Perché avevano permesso che accadesse? Ma era evidente che per il momento non le avrebbe detto niente. Premette entrambe le mani sul materasso per fare leva e tirarsi su. «Mi devo alzare. Non voglio restare qua dentro. Ti prego, aiutami. Ti prego. Devo vedere Clayton e andare a Sydney».

Lui scrollò il capo e la sua espressione si incupì. «È fuori discussione, temo. Hai vissuto un’esperienza traumatica. Il dottore vuole tenerti sotto osservazione per almeno una settimana, se non di più».

«E Clayton?».

Edward fece una faccia dispiaciuta e storse la bocca. «Mi dispiace, mia cara, ma è scappato non appena sono cominciati i disordini».

Lei scosse la testa, sentendosi pervadere dall’incredulità. «No! Non ci credo. Vuoi dire che non mi scritturerà più?»

«Per ora no. Ho sentito dire che hanno già preso una nuova sostituta per quel ruolo. Ma sono sicuro che tornerà».

«Non mi potevano aspettare?». La voce era uscita sottile e acuta e, malgrado si sentisse molto debole, fece uno sforzo per evitare che il suo disappunto si notasse. Dopo tutto quello che aveva passato, era dell’idea che sentirsi delusa da un agente fosse una cosa tremendamente insignificante. Era davvero così importante?

«Pare che non potessero attendere». Edward cercò di nuovo la sua mano. «So che devi sentirti frustrata, ma pare proprio che il mondo dello spettacolo sia un ambiente abbastanza spietato».

Belle gli lanciò un’occhiata. «Sei stato tu a, be’…?»

«Sì. Per fortuna che ti ho trovata per caso, soprattutto perché stavi perdendo sangue. Ma cosa diamine ci facevi da quelle parti?».

Lei scosse la testa. «Sto cercando di ricordare, ma è tutto così confuso. Mi sono ritrovata in mezzo ai disordini e poi, in preda al panico, ho perso l’orientamento».

Edward annuì. «Povera cara».

«Ma cos’è successo? Ti prego, dimmelo».

«Te l’ho già detto. Te lo spiegherò quando starai meglio. Per il momento stiamo ancora cercando di rimettere insieme i pezzi, e tu hai bisogno di riposare».

Nei due giorni successivi, Belle non fece altro che mangiare e dormire, anche se quando si svegliava si sentiva soffocare dall’odore stucchevole dei fiori nella sua stanza. Aveva raccolto qualche informazione su quanto accaduto dall’infermiera, mentre Edward non era ancora tornato. L’aveva ringraziato per averla tratta in salvo?

Poi, però, le tornò in mente l’immagine dell’uomo con le orbite vuote… Oddio! Si coprì gli occhi con il palmo delle mani.

Com’era potuto accadere? E perché? Quale poteva essere la causa di un simile massacro? Edward sarebbe tornato e gliel’avrebbe spiegato – doveva per forza – perché niente le era mai sembrato tanto importante quanto il bisogno di comprendere. Se non avesse compreso, la violenza e la brutalità a cui aveva assistito per strada non le avrebbero mai dato tregua. Le pillole per dormire che grazie al cielo le venivano date ogni sera la lasciavano intontita e rintronata la mattina dopo, ma senza non avrebbe dormito affatto. Durante il giorno, con la terribile puzza del sangue ancora nelle narici, continuava a piangere, risentendo all’infinito il ronzio delle mosche e il silenzio agghiacciante dei morti. L’angoscia per la bambina dagli enormi occhi scuri non diminuiva, e Belle pregava che le autorità facessero del loro meglio per lei. Giurò che non appena si fosse rimessa si sarebbe assicurata che la piccola stesse bene e ricevesse le attenzioni necessarie.

Una mattina, quando avrebbe soltanto voluto nascondersi da tutto e da tutti e seppellire la testa sotto il cuscino, si presentò Gloria.

«Mia cara, sembra davvero che tu sia stata in guerra. Sciocchina, ma cosa ti è saltato in mente?».

Sentendo il tono di voce dell’amica, Belle si irrigidì. Si sforzò di rivolgerle un debole sorriso e vide che Gloria aveva un aspetto particolarmente incantevole con il suo completo bianco e nero e un cappello coordinato, e che era armata di cioccolatini e vino. Ma, in realtà, era l’ultima persona che le andava di vedere in quel momento.

«Non ti siedi?», riuscì a domandarle.

«A dire il vero, devo proprio scappare, ma volevo portarti questi». Appoggiò i regali sul comodino già pieno zeppo di roba. «Ma, cara, non sembri tanto felice di vedermi. E sì che sono anche venuta a portarti una splendida notizia».

«Scusami, è che non mi sento tanto bene. È stato terribile, Gloria».

«Ne sono certa, ed è naturale che tu non ti senta bene. C’era da aspettarselo».

Belle cercò di tirarsi un po’ più su e si passò una mano tra i capelli. «Ho visto tali atrocità…».

«Ma certo, ma certo». Gloria agitò una mano per accantonare il discorso, poi piegò la testa e parve esaminare l’aspetto di Belle. «Mmm. Dovresti fare un salto dal parrucchiere. Ti fisso un appuntamento. Ma adesso passiamo alla buona notizia».

«Be’, ci vorrebbe proprio», rispose Belle, scoraggiata, chiedendosi cosa avrebbe mai potuto farla stare meglio.

«Ta-da! Senti cosa ho da dirti. Harry ha rimandato il suo viaggio. Aspetterà che tu sia in grado di affrontarlo». Le fece l’occhiolino. «Dopo che gli ho sussurrato un paio di paroline mirate all’orecchio, cioè».

«Oddio, cosa gli hai detto?», domandò Belle, non sapendo come prendere la notizia.

«Diciamo che gli ho ricordato un suo piccolo peccatuccio del quale sono stata testimone».

«L’hai ricattato?». Belle era scandalizzata.

Gloria sorrise compiaciuta. «Solo un tantino».

«Ma così mi odierà a morte».

«Certo che no. Odierà me. E il punto è che a me non potrebbe importarmene di meno».

Belle distolse lo sguardo, nient’affatto convinta, e sicura che quell’uomo ce l’avrebbe avuta con lei.

«È anche riuscito a fissarti un incontro con il commissario distrettuale di Mandalay, proprio come aveva promesso. A quanto pare, l’uomo è lì da una vita, e se c’è qualcuno in grado di dirti qualcosa, quello è lui. E ora da brava, ringrazia».

Belle riuscì ad abbozzare un altro debole sorriso. Era un classico. Ovviamente, Gloria non voleva sapere un bel niente di quanto era accaduto, mentre lei non poteva fare a meno di pensare a Oliver e sperare che potessero parlare.

«Comunque, come ti ho anticipato, ora devo levare le tende». Si chinò per darle un bacio sulla guancia. «Ciao, cara. Rimettiti presto».

Ciò detto, si precipitò fuori dalla stanza in una nube di profumo a base di gelsomino, rosa e sandalo. “Chanel N° 5”, pensò Belle mentre prendeva il romanzo che qualcuno le aveva gentilmente lasciato sul comodino. La morte nel villaggio di Agatha Christie. Lesse per qualche minuto, ma era comunque difficile sfuggire alle immagini spaventose che le tornavano in mente. Quando rimise giù il libro, dalle pagine cadde un foglietto e atterrò sulla coperta. Lo raccolse e lo lesse, poi, deglutendo, lo fece a brandelli. Non poteva lasciarsi toccare da certe cose. Anche se voleva vederlo, non avrebbe più commesso lo stesso errore, neanche per sogno. Oliver le aveva mandato i suoi saluti e sperava che si fosse ripresa dal suo orribile calvario. Aveva espresso il desiderio di ritrovarla presto in forma e aveva proposto che si vedessero per bere qualcosa insieme. Dopo il massacro, Belle si sentiva vulnerabile, come se il trauma avesse sbloccato qualcosa dentro di lei e tutte le insicurezze che si era sempre sforzata di nascondere stessero ormai trapelando. Sentiva l’estremo bisogno di un amico, ma non poteva essere Oliver. Non poteva e basta.

Stava cominciando a ricordare sempre di più, rivivendo il terrore che aveva provato quando credeva che quegli uomini l’avrebbero aggredita. Le era rimasta piantata nello stomaco, quella paura, e la teneva saldamente avvinghiata: era diventata parte di lei, inscindibile da ciò che era. Si premette con forza una mano sulla pancia, come se volesse spremerla fuori, ma il gesto la portò soltanto a strozzarsi e tossire. Alla fine, riuscì ad addormentarsi solo perché era davvero stremata, finché non sentì dei cani abbaiare giù in strada e poi il rumore della porta che si riapriva. Chiuse gli occhi, ma percepì la sua presenza ancora prima che venisse fatto entrare nella stanza.

«Ciao, Edward», disse aprendo gli occhi. «Potresti tirare per bene le tende? Mi arriva un fascio di luce. È troppo forte».

«Rebecca stava aspettando di poter entrare, ma temo di aver fatto valere la mia autorità. Ha detto che tornerà domani». Chiuse le tende e si sedette su una sedia che aveva avvicinato al letto, poi le prese una mano e gliel’accarezzò.

Lei lo fissò. «Ti prego, dimmi cosa ne è stato della bambina. Lo devo sapere».

«Forse abbiamo rintracciato la nonna. Ti prometto che ti farò sapere non appena saremo sicuri di aver trovato la persona giusta».

Belle annuì. «Cos’è stato, Edward? Perché è successo?».

Lui le rivolse un sorriso comprensivo. «È abbastanza complicato, ma proverò a fartela semplice, anche se non avresti mai dovuto restare coinvolta negli scontri».

Sperava che non le desse nuovamente della sciocca e, visto che non lo fece, cercò di concentrarsi sulle sue parole. A quanto pareva, tutto aveva avuto inizio ai moli. Centinaia di braccianti indiani assunti per stivare e scaricare i mercantili avevano indetto uno sciopero per chiedere salari più alti, e i birmani erano stati incaricati di far sospendere lo sciopero. Dopo che ebbero risolto la faccenda dello sciopero, i birmani erano stati lasciati liberi di andare. Quegli uomini erano stati accompagnati al lavoro dalle loro mogli, che avevano portato i cestini con il pranzo dopo aver percorso lunghe distanze per arrivare sino a lì. Quando i birmani erano stati congedati, gli indiani avevano commesso l’errore di ridere di loro davanti alle loro mogli, umiliandoli. Tale disguido era sfociato in uno scontro armato, con gli indiani assassinati e poi gettati nel fiume. Si era sparsa la voce che alcuni di loro avessero amputato il seno a una donna del posto, cosa che aveva spinto migliaia di birmani a dare la caccia ai rivali. Purtroppo, stavano già covando del risentimento, perché la città era affollata da fin troppi indiani scappati dalla povertà dei loro villaggi, e gli abitanti locali li consideravano poco meno che parassiti.

«Abbiamo avuto un’infinità di problemi», stava dicendo Edward. «Ci sono stati centinaia di feriti, e adesso la comunità indiana si è barricata e non vuole uscire. La maggior parte dei banchi alimentari è gestita da indiani, quindi la città sta esaurendo le scorte di cibo. E non è finita qui, perché sono i braccianti indiani a svuotare il contenuto dei pozzi neri e la puzza in città sta cominciando a diventare asfissiante».

«Cosa farete?».

Fece un sospiro profondo. «Almeno settemila indiani hanno cercato rifugio nel vecchio manicomio. La maggior parte delle loro case è andata distrutta durante la sommossa».

«Sommossa? A me è sembrato più che altro un massacro. Devono essere terrorizzati».

Lui abbozzò un sorriso dolente. «Infatti. E non ci sono state soltanto le uccisioni, ma anche i saccheggi. Così, per evitare che si diffondano epidemie, li rimanderemo al lavoro».

«Spero che ricevano un risarcimento per ciò che hanno perduto».

«È improbabile».

Improvvisamente contrariata, Belle si accigliò. «Ma non è giusto, no?».

Edward si strinse nelle spalle. «Non abbiamo i mezzi per aiutarli più di tanto».

«Né la volontà», aggiunse lei, e lui rimase sorpreso dalla durezza del suo tono di voce.

«Senti, Belle, al momento la situazione è delicata, e ci sono tante cose che non capisci».

«Be’, illuminami allora».

«Ci sono sempre stati dei dissensi tra le due razze».

«E di chi sarebbe la colpa? Abbiamo portato qui gli indiani e adesso non ci interessa proteggerli».

«Sono stati loro a scegliere di venire».

«Attirati da promesse di lavoro e denaro, senza dubbio».

Lui scosse la testa, ma Belle era sicura di avere ragione. Lo studiò con attenzione e, sapendo che non avrebbe aggiunto altro, cambiò argomento.

«Perché i birmani si erano disegnati quegli strani simboli sul petto?», domandò.

«Perché li rendono invincibili. Credono che quei simboli magici li proteggano. Avrai già avuto modo di scoprire quanto sono superstiziosi».

Belle annuì. «Sì, ma pensavo fossero buddisti. Sai… pacifisti».

«Buddismo unito ad animismo e a Dio solo sa cos’altro. Ma da queste parti ci sono sempre stati episodi di violenza». Sospirò. «Comunque, a proposito di quel viaggio sul fiume, ti suggerisco caldamente di andare con Harry non appena ti sentirai meglio. Pensi di potercela fare? È molto probabile che le agitazioni civili vadano avanti per un bel po’ di tempo qui a Rangoon e tu, mia cara, hai già sofferto abbastanza».

Aveva ragione. Aveva sofferto abbastanza. E, dato che aveva perso la sua occasione con Clayton, l’idea del viaggio sul fiume era diventata di nuovo allettante. Dopo tutto ciò che aveva passato, andarsene sarebbe stato un sollievo. Niente l’avrebbe mai liberata dalla paura persistente e dalle immagini che continuavano a tormentarla, ma più si allontanava da Rangoon, meglio si sarebbe sentita. Ricordò il suo arrivo in Birmania, e come si era sentita attratta dalla patina dorata delle loro vite a Rangoon, ma adesso non riusciva a pensare ad altro che alle parole di Oliver. Aveva ragione su così tanti aspetti. Sotto la superficie scintillante di quel mondo coloniale c’erano tensioni che sarebbero soltanto diventate più marcate e, quando si trattava di fare giustizia, c’era ben poco da aspettarsi se non si aveva la nazionalità britannica. Non aveva mai avuto il coraggio di riflettere a fondo sull’abuso di potere, la bramosia dilagante e il terribile pregiudizio razziale, e la compassione che provava per gli indiani privati di tutto la spinse a chiedersi se non fosse più simile a Oliver di quanto avesse immaginato.

33

Diana, Cheltenham, 1922

Mi sono svegliata presto sapendo che sarebbe stata una giornata speciale, ma senza ricordare di preciso il perché. Poi, sudata e accaldata, sì, mi è tornato in mente. Ora mi guardo attorno e controllo che sia tutto pronto mentre ripasso le parole di commiato. Un ringraziamento solenne e un addio per sempre senza versare lacrime oppure uno sguardo pieno di angoscia e rammarico? Anche se sono ansiosa, opto per un’uscita di scena solenne e dignitosa. Perché so che le apparenze contano ancora. Il mio baule è già stato spedito, quindi mi restano soltanto alcuni effetti personali, quelle quattro cianfrusaglie che mi accompagneranno in auto con Simone: alcuni cosmetici, lo specchietto d’argento di mia madre, le mie pillole, la mia Parker e il diario. Non c’è molto su quelle pagine, ma vorrei ricominciare a scrivere, se possibile. A quanto pare, anche il dottore pensa che potrebbe giovarmi.

Ora dovrò tornare a usare il mio nome da nubile. Riley. La signorina Diana Augusta Riley. Mi piace. Un addio alla solitudine. Anche se non ho ancora visto di persona il nuovo cottage, Simone e Douglas lo hanno già arredato e io, ovviamente, sono curiosa. Questo non è un cambiamento che attendo senza trepidazione, perciò mi avvicino pian piano alla finestra e mi aggrappo al davanzale nella speranza di intravedere Annabelle per l’ultima volta. Non vogliono che assista alla mia partenza e abbiamo tacitamente concordato che la signora Wilkes la porterà a fare un giro. Ieri sera mi sono seduta sul letto di mia figlia e le ho cantato una sciocca canzoncina che so che le piace tanto. Dopo un momento si è unita al coro, e alla fine abbiamo riso a crepapelle – non so bene perché, ma è stata una risata felice. Ha permesso che le spazzolassi i capelli fino a farli splendere, quindi le ho dato la buonanotte e un bacio su entrambe le guance vellutate. Mi ha guardata in modo strano e ha aggrottato la fronte, come se avesse intuito che me ne sarei andata. Ma il momento è svanito in un attimo.

«Notte, notte, mammina», ha detto, e io ho dovuto tenere a freno le lacrime.

«Buonanotte, cara», ho replicato mentre mi incamminavo verso la porta. «Dormi bene».

E poi sono corsa via dalla sua stanza per evitare che mi sentisse piangere.

Come farò a rassegnarmi alla perdita di mia figlia?

Non sono in grado di rispondere. Non ancora. E la verità è che non lo so. Non so neanche se sto facendo la cosa giusta. La mia mente vortica in una spirale inclemente, e io mi impongo di pensare a qualcos’altro. Come dice Simone, sto chiudendo la porta sulla vecchia me e aprendone un’altra su una persona nuova. Devo restare concentrata. È una cosa che devo fare per forza, a prescindere da ciò che sto per sacrificare o da quello che provo. E devo anche ricordare che lo sto facendo per Annabelle.

Simone dice che non dovrò più fingere con lei. Che la lontananza mi toglierà un peso dal cuore.

Appoggio la guancia contro il vetro della finestra e ne avverto la piacevole frescura sulla pelle. È giugno, ormai. È una bella giornata di sole, e mi chiedo se sono troppo vestita con i due golfini e la gonna di lino. Sfioro il filo di perle attorno al collo e resto senza fiato perché, di punto in bianco, le vedo. Due figure. Annabelle e la signora Wilkes che escono dal cancello principale. Annabelle saltella accanto alla governante, all’apparenza ignara di ciò che sta per succedere, e la signora Wilkes cammina a passo svelto, come se avesse fretta di andarsene. Alzo una mano per salutarle e provo un profondo senso di angoscia. È davvero la cosa giusta da fare? Ricordo le argomentazioni di Douglas. E se la voce mi spingesse a fare del male alla mia bambina? Crede che in Birmania sia andata così? È per questo che è così irremovibile nel sostenere che me ne dovrei andare? Non l’ha mai detto apertamente, ma spiegherebbe un sacco di cose. Osservo Annabelle finché non scompare alla vista, ma non piango. È meglio così. Non sono di alcuna utilità né per lei né per me stessa, e se rimango non mi libererò mai dal senso di colpa che provo costantemente. Starà meglio da sola con Douglas.

Sento bussare alla porta e Simone entra in camera con un abito estivo a fiori sotto un leggero impermeabile color crema.

«Pensi che pioverà?», chiedo.

Fa spallucce. «Potrebbe. Sei pronta?».

Annuisco e do un’ultima occhiata alla mia stanza. Arrivederci, cameretta, penso. Arrivederci, parco. E in questo momento mi sento completamente sperduta.

«Puoi darmi qualche istante?»

«D’accordo. Ho parcheggiato proprio davanti al cancello, così ci vorrà solo un attimo per salire in macchina. Hai preso le tue medicine?».

Le rivolgo quello che spero essere qualcosina di meglio di un sorriso scialbo e mi faccio coraggio.

34

Il battello fluviale, di proprietà della Irrawaddy Flotilla Company e capitanato da uno scozzese, era più piccolo di quanto Belle si fosse aspettata, ma la cabina in prima classe era accogliente e confortevole. Dopo il sollievo provato apprendendo, grazie a Edward, che la bambina tratta in salvo si era finalmente ricongiunta con una nonna, la sera prima aveva impacchettato poche cose e si era imbarcata. Edward le aveva detto che la bambina si chiamava Madhu, e che il nome significava “miele”. La nonna viveva in un villaggio non lontano da Rangoon, quindi la piccola sarebbe cresciuta al sicuro e con un po’ di fortuna non si sarebbe ricordata niente. Ma cosa aveva visto realmente la piccina? Conscia del fatto che niente poteva averle impedito di sentire le urla mentre venivano commessi gli omicidi, Belle si impose di non immaginarlo. Quantomeno qualcuno si sarebbe preso cura di lei, quindi almeno un aspetto positivo c’era, anche se lei per prima non aveva idea di come avrebbe fatto a riprendersi completamente.

Il battello aveva atteso ormeggiato sotto un cielo senza stelle, quindi c’era stato ben poco da vedere al momento dell’imbarco, e non che le fosse importato più di tanto. Per quanto la luce delle lanterne che danzava sull’acqua avesse dato vita a un bello spettacolo, Belle era troppo stanca e sconfortata. Rifiutato il cocktail che le era stato offerto, era andata subito a letto e aveva rammentato ciò che le aveva detto l’indovino. Be’, sul viaggio aveva avuto ragione.

Dopo un sonno inaspettatamente ristoratore, venne svegliata dal rumore dei motori e, dato che voleva vedere il fiume alla luce del giorno, si vestì in tutta fretta. Poi, una volta salita la scaletta metallica e scivolosa fino al ponte panoramico, prestando grande attenzione alla gamba ancora dolorante, vide il fiume avvolto da una fitta nebbiolina dorata. Grata per il vecchio scialle di cachemire di sua madre, se lo avvolse attorno alle spalle.

Quando aveva chiesto un periodo di permesso dal lavoro, l’incarnato solitamente rubizzo di Fowler era diventato viola, il fisico squadrato era sembrato ancora più impettito del consueto e le sopracciglia sul punto di sgattaiolargli via dalla faccia. Belle era riuscita a nascondere il divertimento mentre le sottolineava quanto sarebbe stato problematico. Già sapeva che Gloria aveva voluto intercedere per lei e che Fowler non si sarebbe mai azzardato a respingere la sua richiesta, ma aveva dovuto fingere di implorarlo e poi profondersi in ringraziamenti quando alla fine aveva ceduto. Le aveva concesso meno di tre settimane e sperava che fossero sufficienti.

Mentre faceva colazione – uno strano miscuglio di spaghetti collosi con pezzetti di pollo e una salsa troppo dolciastra – studiò i pochi altri passeggeri che erano già seduti ai tavoli. Una coppia di uomini d’affari vestiti in modo elegante che si stavano avventando su una colazione all’inglese, tre birmani solitari con i loro abiti tradizionali e una donna con il pancione, che portava un longyi rosa e verde e dei fiori tra i capelli. Le sorrise con dolcezza, e Belle riuscì a ricambiare con un debole sorriso. Le comode sedie di rattan e i tavolini erano stati sistemati sul ponte, tra magnifiche palme in vaso e, a prua, c’era una fila di sdraio di tessuto a disposizione di chiunque volesse andarsi a sedere al sole.

In effetti, la nebbia si diradò in fretta e, quando si concentrò sul presente, Belle capì che mettere un po’ di distanza tra sé e quanto accaduto a Rangoon era stata la cosa giusta da fare. Vagamente rincuorata dalla splendida mattinata con il suo cielo color zaffiro e i raggi del sole che disegnavano diamanti lucenti sulla superficie dell’acqua, ebbe la netta sensazione che risalire il fiume in barca le sarebbe stato d’aiuto. Quando uno stormo di aironi spiccò il volo, lo prese come un buon auspicio.

La barca solcava lentamente le acque, diretta verso nord. Trascorsa un’ora o giù di lì, trovò che quella quiete fosse rilassante e si mise a osservare il modo in cui la luce del sole metteva in risalto il fitto ombroso sotto gli immensi alberi della pioggia oltre gli argini del fiume. Persino l’erba e i cespugli vicini alla riva erano immobili e Belle, colpita da quel panorama fuori dal tempo, sentiva allentarsi la tensione nervosa. Superarono alcuni abitanti della zona impegnati nelle loro attività quotidiane, come preparare le reti, lavare i vestiti al fiume e poi sbatterli contro le rocce. Altri stavano cucinando sui fuochi all’aperto mentre i bambini seminudi giocavano nel fango, e Belle si sorprese a sorridere. La vita andava avanti come sempre.

Un’ora dopo, Harry riapparve con gli occhi velati e un aspetto trasandato.

«Va tutto bene?», gli chiese.

«Sono andato a letto tardi».

«Caffè?».

Lui annuì e spinse gli occhiali sul naso.

Osservò il passaggio di altre imbarcazioni silenziose. Prima un’enorme petroliera che, a detta di Harry, trasportava petrolio greggio per la Burmah Oil Company, poi un’altra chiatta stracarica di legname per la Burmah Bombay Corporation. I pescherecci più piccoli procedevano a velocità da crociera e Belle intravide un vaporetto con una chiatta galleggiante al seguito, sopra la quale erano legate due autovetture. Incrociarono navi da trasporto cariche di merci che andavano nella direzione opposta: giada, vitelli, elefanti grigi, rotoli di cotone e sacchi di riso pieni fino all’orlo. Harry le indicava tutto, crogiolandosi nel suo ruolo di guida e dimenticando la sbronza.

«Niente entra o esce dalla Birmania senza passare dal fiume Irrawaddy», le disse.

Si chiese se ciò valesse anche per sua sorella.

Come se avesse intuito ciò a cui stava pensando, Harry alzò un dito. «Ho scambiato due parole con il commissario di bordo a proposito della sua situazione, ieri sera. Un bravo ragazzo. Ama farsi qualche goccetto di whisky. Se le andasse di fare una chiacchierata, è libero per un aperitivo prima di cena».

«Cosa gli ha detto?»

«Che spera di rintracciare un membro della sua famiglia».

Uno stormo di grossi uccelli neri spiccò il volo da un albero vicino all’argine del fiume, e Belle vide una nativa del posto, con un velo rosso avvolto attorno alla testa e il longyi usato come fascia per trasportare il suo bambino, alzare gli occhi al cielo e seguire i loro movimenti.

Pensò a Oliver e si sentì trafiggere da una fitta di dispiacere, ma accantonò ogni proposito di ricercarlo. Le aveva mostrato la sua vera natura e tanto le era bastato; eppure, visto che sentiva ancora il bisogno di confidarsi, le sarebbe davvero piaciuto avere la possibilità di parlare con lui. Di dirgli tutto. Era l’unica persona che l’avrebbe capita. Non era mai stato così con Nicholas. Scosse la testa. Pensare a loro non aveva alcun senso. Tra lei e Oliver era finita. Ma il modo in cui si erano lasciati la faceva ancora soffrire e non riusciva a fare a meno di rimuginarci.

A eccezione delle ore più roventi intorno a mezzogiorno, passò la giornata sul ponte a leggere o a fantasticare mentre osservava la vita fluviale, lanciando fischi d’ammirazione ogni volta che vedeva delle pagode lungo gli argini del fiume. A volte scorgeva i peli rossi di un licaone, ma, fino a quel momento, non aveva visto né leopardi nebulosi, né orsi malesi o babbuini. Aveva sentito dire che gli orsi malesi riuscivano addirittura ad arrampicarsi sugli alberi e a costruirsi un nido in cui dormire. Il pranzo, al quale andò con Harry, era tipicamente birmano, un’insalata di foglie di tè seguita da un piatto di pesce chiamato pampo, accompagnato da un riso fortemente aromatizzato. Si accorse che a Harry piaceva bere parecchio e questo la fece riflettere. Non le era sembrato un bevitore quando l’aveva incontrato per la prima volta a Rangoon, quando aveva accettato soltanto una limonata e storto il naso di fronte al gin. Ma, a dire il vero, ora sembrava abbastanza nervoso, e Belle si chiese cosa ci fosse che non andava.

Quando la giornata iniziò a volgere al termine, l’azzurro iridescente dell’acqua diventò più scuro, con gli argini rischiarati dal sole basso che rilucevano di sfumature dorate, mentre il cielo, ormai color lilla, trasformava le colline in lontananza in una macchia imbrattata di grigio-bluastro. Sul ponte vennero accese le lanterne e, insieme all’odore di salmastro e di pesce, c’era anche quello dell’olio bruciato ad aleggiare nell’aria. Il fiume era abbastanza spettrale, come se delle voci stessero cantando a pelo dell’acqua, ma era assai più probabile che i suoni fossero condotti dal vento dai villaggi vicini. La sua mente continuava a rievocare il sangue della donna riversa a terra e il momento in cui si era chinata su di lei e aveva trovato la bambina nascosta sotto il lenzuolo. Era stata coraggiosa, la madre, a proteggere sua figlia in quel modo. Belle si fermava ogni volta che iniziava a ipotizzare cosa sarebbe accaduto se non avesse trovato la piccola.

Con il pensiero della bambina ancora in testa, osservò i passeggeri che formavano dei gruppetti, parlavano e ridevano mentre accettavano da bere dai camerieri vestiti in modo elegante, ma non vide da nessuna parte la donna incinta.

Un omino, con una casacca verde e un longyi scuro dai disegni poco appariscenti, le stava andando incontro e le sorrideva. Belle si alzò dalla sedia e lui le rivolse un inchino e le indicò di riaccomodarsi. Quando prese posto di fronte a lei, si presentò come il commissario di bordo e cominciò a parlare. Purtroppo, però, il suo inglese era terribile, e ci vollero diversi tentativi prima che Belle riuscisse a capire che le stava chiedendo come poteva esserle d’aiuto. Sentendosi in imbarazzo, si guardò attorno nella speranza di localizzare Harry, che sarebbe stato in grado di farle da interprete, ma, quando lo scorse, era tutto preso a conversare con un altro uomo e sul tavolo tra loro c’era una bottiglia di whisky mezza vuota.

Non appena gli ebbe spiegato di aver sentito parlare di una bambina bianca avvistata tanti anni prima insieme a una coppia birmana, il commissario di bordo scosse la testa, facendole capire che all’epoca lui non c’era. Riuscì anche a comunicarle che c’era un archeologo a Bagan che avrebbe potuto sapere qualcosa. Viveva in una casa di riposo gestita dal governo e aveva lavorato a Bagan per moltissimi anni. La casa di riposo era un posto speciale, perché era stata costruita nel 1922 per ospitare il principe del Galles in visita in Birmania, anche se purtroppo non ci aveva mai alloggiato.

Quando Harry arrivò caracollando al loro tavolo, Belle gli chiese se c’era la possibilità di andare alla casa di riposo, e lui annuì.

«Abbiamo una notte e due giorni da passare a Bagan», disse, strascicando un po’ le parole. «È un sito meraviglioso con una grande quantità di templi parzialmente in rovina, quindi ci sono un sacco di cose da vedere. E in ogni caso, è lì che dovranno fare rifornimento e provviste».

Quando arrivarono a Bagan, più di una settimana dopo, Belle si era talmente abituata ai ritmi e alla lenta routine della vita di bordo da non sapere più che giorno fosse. Tutto ciò aveva contribuito a cambiare le cose. I ricordi stavano sbiadendo un po’ e, per quanto sapesse che non avrebbe mai dimenticato, che non avrebbe mai dovuto dimenticare, aveva smesso di tormentarsi con la stessa frequenza. Ci sarebbe voluto del tempo. E la cosa migliore da fare era visitare Bagan, incontrare l’archeologo e scoprire quanto più possibile.

Avevano già fatto una sosta notturna, durante la quale l’equipaggio era sceso per i rifornimenti, ma molti passeggeri, inclusa Belle e la donna incinta che le aveva sorriso di nuovo e le aveva detto “buonasera” in un inglese praticamente perfetto, erano rimasti a bordo. Belle si era poi goduta l’arietta serale e aveva ascoltato il suono tintinnante della musica birmana che arrivava da un villaggio vicino.

Bagan era la sosta dove sarebbero dovuti scendere tutti.

Sorpresa dalle procedure di sbarco abbastanza improvvisate, osservò il commissario di bordo aiutare la donna incinta. Poi accettò di buongrado la sua offerta di portarle la piccola valigetta, in modo che potesse attraversare l’instabile e stretto tavolaccio di legno gettato sopra la fanghiglia più putrida. Il battello, ormeggiato a un palo conficcato in profondità nel terreno, dondolava dolcemente sull’acqua.

Harry l’accompagnò sul calesse trainato da un cavallo, e percorsero una stradina sterrata fino alla casa di riposo. Belle vide apparire l’ampia struttura in legno, costruita come se fosse destinata alle loro contee natie in Inghilterra, ma con qualche tocco orientale qua e là. Furono ricevuti da un maggiordomo birmano che li condusse in un’ariosa sala di rappresentanza, dove a entrambi furono offerti deliziosi succhi di mango e guaiava, e dove spiegò che negli ultimi tempi sempre più visitatori erano venuti a vedere le rovine. Dopo la registrazione, mostrò loro le stanze buie al primo piano.

Non appena il maggiordomo la lasciò da sola, Belle si avvicinò alle finestre chiuse, le spalancò e osservò con attenzione il giardino sottostante. Circondato da mura su tre lati, tutte ricoperte da un tripudio di buganvillea di un bel viola acceso, il giardino era piccolo ma idilliaco. Al centro, un rivolo d’acqua suggeriva la presenza di una fontana, anche se sembrava trascurata e abbandonata. Gli uccellini si lanciavano in picchiata da un albero all’altro, ma il vento che ne smuoveva le foglie non era in grado di raggiungere la sua stanza torrida e soffocante. Per quanto il viaggio sul fiume le fosse piaciuto, si rese conto che l’aveva cullata in un falso senso di sicurezza. Aveva quasi dimenticato il motivo per cui si trovava lì e adesso era tempo di incontrare l’archeologo, un certo dottor Walter Guttridge.

35

Diana, Cotswolds, 1922

Douglas è davanti al cancello e vedo che se ne sta a capo chino, intento a fissare il terreno ai suoi piedi come se fosse in raccoglimento. Lo raggiungo e lui raddrizza la schiena, ma continua a evitare il mio sguardo.

«Be’», dico. «Ci siamo».

«Già», replica, e adesso mi guarda.

Do uno sguardo ai suoi bellissimi occhi. Sono due pozze piene di confusione, scure e profonde. Non duri o severi, solo piuttosto smarriti. Vedo che si sta tenendo dentro le emozioni, e non ci sarà alcun romantico addio. Vorrei tanto abbracciarlo, vorrei che mi stringesse tra le braccia e ritrovassimo ciò che eravamo una volta. Ma non può essere. Quei tempi sono passati. È diventato bravo a nascondersi, e adesso mio marito si è talmente chiuso in se stesso che non osa concedersi di provare alcunché.

Mi afferra una mano e la stringe, poi la lascia andare e indietreggia. Faccio quello che si aspetta da me ed esco dal cancello senza dire una parola, senza guardarmi indietro, senza fare scenate.

È una splendida giornata di giugno, con un cielo straordinariamente azzurro, e il sole tinge d’oro e d’argento la sommità delle nuvole. Quando cominciamo a muoverci, dapprima resto in silenzio, incapace di parlare con Simone, poi pian piano mi rilasso. Superiamo un tripudio di verdi diversi ancora orlati di nuova vita, muretti a secco che fiancheggiano la strada e vasti scorci delle Cotswolds, dove i campi punteggiati di pecore confinano con i prati dove i cavalli strofinano il muso contro le staccionate. Facciamo due soste a bordo strada per far raffreddare la macchina e rifornirla d’acqua e benzina. Durante una delle soste, Simone mi incoraggia a scendere dall’auto e prendere una boccata d’aria, ma rimango dove sono, così mi porta una limonata ghiacciata e un panino con cui pranzare.

Alla fine, quando svoltiamo a sinistra, superiamo un bosco fittissimo che ci circonda su entrambi i lati e cominciamo a discendere la collina verso la vallata in cui sorge il paesino di Minster Lovell, sento che mi si stringe lo stomaco. Ma poi, quando attraversiamo il ponte medievale sul fiume, resto sorpresa: non mi ero aspettata che fosse tanto incantevole. Per quanto sia stretto, e costeggiato da enormi salici piangenti, il fiume scorre senza impedimenti e, dopo una svolta a destra e sorpassato il mulino, incrociamo il pub sulla sinistra. Simone mi indica il suo cottage. Come tanti altri, anche il suo ha il tetto di paglia, ed è una casa lunga e stretta con i muri color burro di pietra delle Cotswolds che brillano alla luce del sole, coperti di glicine e con un fosso sul davanti. Noto che il fosso corre parallelo alla strada e serve a far defluire l’acqua piovana, e che alcune case sono molto vicine le une alle altre, anzi, praticamente addossate. Simone si accorge dell’espressione del mio viso.

«Non ti preoccupare. Il tuo è un cottage indipendente e si trova proprio al limitare del centro abitato, in cima alla collina».

Non avevo notato la lieve pendenza, ma adesso capisco che stiamo salendo e mi rincuora sapere che non mi troverò al centro della vita locale.

«Ci sono solo altre due case dopo la tua, entrambe dietro la curva della strada, e c’è un sacco di terra in mezzo».

Sono impaziente di vedere la mia nuova casa. Quando ci fermiamo, Simone mi indica un bellissimo cottage dietro a un muretto a secco e, da quel che riesco a vedere, è circondato da deliziosi giardini.

Scende dall’auto e fa il giro per venire a darmi una mano. Sento il cuore battere più forte, ma l’ansia di vedere l’interno della casa prevale sul nervosismo iniziale e, nel giro di pochi minuti, Simone sta aprendo la porta d’ingresso e mi spinge a varcarla.

«Ho scelto una disposizione dei mobili che pensavo potesse piacerti e ho messo le tende, ma ovviamente devi cambiare qualsiasi cosa non sia di tuo gusto. Non mi sentirò offesa».

Le sorrido, riconoscente per tutto quello che ha fatto.

Mi conduce a fare un giro della casa e devo sforzarmi di ricordare che è mia, non sua. In cima a una scaletta, su un minuscolo ballatoio, ci sono tre camere da letto e un bagno. Due stanze affacciano sulla strada, ma con un giardino tanto ampio ha davvero poca importanza. La mia camera, dice, è sul retro, e quando entro mi dirigo subito verso una delle due finestre. Dall’alto riesco a vedere un giardino allestito e ben curato che si perde nel fitto del bosco limitrofo.

Faccio una giravolta, traboccando di gratitudine. «Grazie».

«Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Quando sono tornata dalla Birmania, dopo la morte di Roger, avevo bisogno di trovare un po’ di pace e ho cercato ovunque».

«L’hai trovata».

«Solo quando sono arrivata a Minster Lovell».

«Mi piace tantissimo. Davvero».

«È un posto speciale. Come dico sempre, la tranquillità del luogo ha ricucito le ferite del mio cuore spezzato».

Allungo una mano verso di lei e Simone me la stringe.

«Ho fatto portare quassù il tuo baule. E poi, quando mi fermerò qui da te, dormirò in una delle due stanze sul davanti».

Torniamo da basso ed esploriamo un grazioso salotto con un grande camino, uno studiolo accogliente con un caminetto più piccolo, una sala da pranzo e una piccola cucina con la dispensa annessa.

«Quando sarai pronta», dice Simone, «ti porterò a casa del dottore. Da qui basta andare a destra e poi scendere verso la chiesa. Devi superare un’unica casa che sorge abbastanza lontana dalla strada, e la sua è quella proprio in fondo».

«Pensavo che sarebbe stato lui a venire da me».

«Se preferisci, lo farà senz’altro».

Annuisco, mi sento sollevata.

«La signora Jones, che abita in paese, verrà a cucinare e a fare le pulizie ogni mattina. Le ho spiegato che sei stata male e che hai bisogno di pace e tranquillità, e dato che è una donna assennata, non penso che sarà invadente. Andrà anche a fare la spesa, mentre i ragazzi di Norridge&Son si occupano delle consegne a domicilio con il loro furgoncino, un macinino della Ford appositamente riallestito. È davvero comico, a dire il vero. Sembra una scatoletta su ruote».

Rabbrividisco, sentendo improvvisamente freddo. Anche se siamo a giugno, nel tardo pomeriggio e di sera l’aria è ancora abbastanza pungente.

«L’unica cosa che dobbiamo fare è accendere il fuoco», dice Simone per rassicurarmi. «La signora Jones l’ha già preparato qui nello studio, ma i camini sono anche in salotto e in camera tua. E ci ha preparato una zuppa di piselli e prosciutto per cena. Per il momento, perché non vai a prendere quel tuo scialle di cachemire per stare un po’ più calda? Non l’hai portato?»

«L’ho lasciato a casa. Un domani ad Annabelle potrebbe piacere, e vorrei che avesse qualcosa di mio».

È dura non piangere al pensiero di Annabelle.

«Devo fare un salto a casa mia a prendere il cambio per la notte», dice Simone mentre mi sfiora la mano. «Pensi di potercela fare? Posso andarci dopo, se preferisci».

Le dico che può andare tranquillamente e, mentre è via, ripenso a casa. Ieri sera, dopo aver dato la buonanotte ad Annabelle, ho visto Douglas. È stato più tenero rispetto a stamattina, quando me ne sono andata. È venuto in camera mia e ci siamo abbracciati per quello che mi è sembrato essere un lunghissimo istante. Non volevo che mi vedesse in lacrime, così mi sono ritratta e mi sono asciugata gli occhi mentre gli davo le spalle. Non si è lasciato ingannare dalla mia piccola farsa, ovviamente, e ha capito che stavo piangendo. Quando l’ho guardato, ho notato che anche i suoi occhi erano velati di tristezza e gli tremavano le mani.

Inspiro lentamente. Dentro e fuori.

Ora sono qui e sono sicura che arriverò a conoscere ogni singolo anfratto della mia nuova casa, come ogni singolo filo d’erba in giardino. Il pensiero è stranamente confortante. Forse un giorno imparerò a conoscere anche il paesino. All’improvviso, il mondo fuori dalla mia finestra sembra meno inconsistente, e la mia connessione con la realtà meno fragile. Simone aveva ragione: c’è qualcosa di speciale in questo posto, ma il prezzo da pagare è stato così alto e, soprattutto, avrei tanto voluto che anche Annabelle fosse potuta venire.

36

Il primo incontro di Belle con Walter Guttridge, l’archeologo, fu memorabile. Non si era aspettata che fosse così, be’, così imponente – era alto più di due metri – né che avesse abbondantemente superato i settanta, con lunghi capelli scompigliati e una marcata abbronzatura che accentuava le profonde rughe attorno agli occhi. A giudicare dall’aspetto, era ancora molto arzillo, ma aveva la strana abitudine di tirarsi l’orecchio sinistro mentre parlava.

«Sono stato mandato qui dal British Museum nel 1905», disse con una voce alta e stridula, dopo le presentazioni di Harry e dopo aver accettato di portare Belle con sé a fare una passeggiata.

«Il divario culturale dev’essere stato un bel trauma, immagino».

Le fece un cenno d’assenso. «Il governo aveva appena deciso che si sarebbe fatto carico della conservazione e della tutela di Bagan. Ho tenuto d’occhio questa zona per più di trent’anni, dando raccomandazioni, supervisionando i lavori di manutenzione e via dicendo».

Parlavano passeggiando lungo i sentieri sabbiosi che portavano al villaggio, e superarono gli alti canneti di bambù, i banani selvatici e i segreti celati nel fitto della foresta. Harry si era tirato indietro all’ultimo, accampando come scusa un lavoro urgente di cui si doveva occupare, così Belle era da sola con quell’orso d’uomo che appariva tanto fuori luogo tra i minuti birmani, che tuttavia sembravano rispettarlo. Si rivolgeva a loro parlando la loro lingua, e annuiva e rideva ogni volta che gli rispondevano.

Belle gli lanciò uno sguardo. «Conosce tutti?»

«Come le ho detto, vivo qui da parecchio tempo».

«Non tornerà mai a casa?»

«Casa mia è questa».

«Nemmeno quando andrà in pensione?»

«Non intendo andare in pensione. Continuerò a vivere e a lavorare finché non stramazzerò al suolo. Qui».

«Il commissario di bordo della barca mi ha detto che potrebbe ricordare la storia di una bambina bianca accompagnata da una coppia birmana diretta a Mandalay».

«La ricordo benissimo. Era il 1912, giusto?»

«1911, in realtà».

«Fatto molto curioso… per l’epoca».

«E ha visto la bambina con i suoi occhi?»

«Ah, no. Forse il mio assistente».

«Si trova qui?»

«Arriverà. Sta tornando da Mandalay. Là ha famiglia».

«Spero che torni prima che io debba ripartire».

Quando arrivarono al villaggio, Belle si guardò attorno. A prima vista, sembrava interamente formato da capanne di legno, con le pareti fatte di bambù intrecciato.

«Sono di bambù? Le pareti?»

«Palma di Palmira, per la precisione. Ma coprono le finestre con stuoie di bambù».

La prima casa con il tetto di paglia, nascosta tra gli alberi e costruita sopra una palafitta, sembrava accogliente. In un’area recintata davanti e accanto alla capanna, una donna spazzava a terra, un bambino giocava con una palla e diverse galline rachitiche razzolavano in mezzo alla polvere. Sul retro c’erano due capre pezzate legate a un paletto e un cane che dormiva all’ombra.

«Cosa fa la gente del posto?», domandò Belle.

«Coltivano, pescano. Costruiscono strumenti per l’agricoltura e anche reti, cordame e vele. E alcuni producono oggetti di legno laccati da vendere ai pellegrini di passaggio».

Aveva capito che Guttridge era sordo dall’orecchio sinistro, quello che continuava a tirare come se volesse incoraggiarlo a rimettersi in funzione, quindi si ripropose di camminare tenendosi sempre alla sua destra. Superarono tre monaci scalzi con le loro tonache color zafferano e due ragazzi molto giovani che li seguivano con delle ciotole in mano. Lei chiese chi fossero.

«Tra i sette e i tredici anni, i ragazzi vivono tutti insieme nei monasteri per lassi di tempo diversi. Quelli che restano stringono legami molto forti, diventano una specie di famiglia».

«E tutti i ragazzi sono obbligati a farlo?»

«Tutti i birmani buddisti diventano novizi per almeno qualche settimana, altri per parecchi mesi, alcuni persino per anni, soprattutto se non hanno famiglia».

«Sono liberi di andarsene?»

«Ma certo. Possono tornare alla vita normale in qualunque momento, oppure possono restare e diventare monaci».

«E le ciotole servono per il cibo da chiedere in elemosina?»

«Sì. Possono mangiare solo ciò che ricevono in dono. A volte è soltanto riso. Credono che la sofferenza sia una componente della vita e che la causa della sofferenza sia il desiderio. Per porre fine alla sofferenza, occorre rinunciare al desiderio e all’attaccamento affettivo. Ecco il perché del loro stile di vita così spartano».

Belle rifletté. Certo, il suo desiderio per Oliver era sfociato nella sofferenza, ma, nonostante quello, la vita stessa non era forse fatta di luci e ombre? E non poteva fare a meno di pensare che avrebbe preferito affrontare tutte le sfide poste da una vita simile, con tutti i suoi alti e bassi, che vivere un’esistenza scialba e piatta. D’altro canto, era giovane e sapeva di avere ancora molto da imparare.

Si fermò a osservare una donna vestita in modo straordinario, con un longyi e uno scialle tradizionale, il collo e i polsi avvolti da catene d’oro. Accovacciata sulla terra battuta, stava sgretolando il legno che avrebbe poi mescolato con l’acqua per ricavare la pasta thanaka. Ne offrì un po’ a Belle e la incoraggiò a prenderla con un paio di timidi cenni del capo. Belle se la spalmò sulla mano, ma con quel caldo opprimente asciugò in fretta e cominciò a darle prurito.

A un piccolo incrocio, un indiano sostava insieme a un cavallo agganciato a un calesse, o meglio, a un trabiccolo che somigliava più a un carretto con le fiancate aperte e un tettuccio di paglia, chiaramente adibito al trasporto delle persone.

«Saliremo su quello?».

Guttridge annuì. «È il modo migliore. È libera di andare a piedi, ma inizierà a fare un caldo infernale».

Quando raggiunsero la vettura dall’aria vetusta, l’archeologo l’aiutò a salire dal retro e si accomodò a sua volta sul calesse.

«Allora, cosa deve fare quest’oggi?»

«Controllare una stupa sull’altro argine del fiume».

«Una stupa?»

«La stupa, che a volte viene chiamata pagoda, è la parte superiore di una struttura molto più grande, spesso con una reliquia custodita al suo interno. Quando il regno di Pagan era al suo apice, tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo, in queste pianure furono eretti più di diecimila templi, pagode e monasteri buddisti. All’epoca si chiamava Pagan, non Bagan».

«Quanti ne sono rimasti?»

«Meno di tremila. Riuscirà a vedere quelli che abbiamo restaurato negli ultimi anni, usando soprattutto manodopera indiana che non sempre è stata particolarmente apprezzata». Scosse la testa. «Alcuni purtroppo sono troppo compromessi. Li vedrà diroccati e in rovina, sepolti sotto la vegetazione che li sta soffocando. E badi bene, i terremoti non sono stati d’aiuto. È già un miracolo che ne siano sopravvissuti così tanti».

«E la gente ci vive in mezzo?»

«Come è sempre stato, anche se corre voce che vogliano trasferirli altrove».

«Che peccato. Mi piace l’idea che la vita quotidiana continui ad andare avanti attorno a questi monumenti».

Il calesse si mise in marcia su un sentiero accidentato, superando una mucca o una pecora di tanto in tanto. Senza ammortizzatori che attutissero i colpi, Belle si ritrovò sballottata, sbalzata avanti e indietro e fatta sobbalzare, mentre la voce tonante di Guttridge gareggiava con l’acuto stridio delle ruote di metallo. Scorse una stupa dopo l’altra, in genere del colore rossastro della terra sulla quale sorgevano, come se fossero prodotti della natura e non edifici costruiti dall’uomo.

«E tutti questi alberi cosa sono?»

«Perlopiù tamarindi, prugni e neem», rispose lui. «Ma per comprendere davvero la conformazione di questo territorio, la mongolfiera è l’unico modo per vederlo nella sua interezza. Ci starebbe? Io vado domani. Lei ha tempo. Il mio assistente non tornerà tanto presto».

Belle alzò gli occhi al cielo. Ci stava?

«Costruita in Inghilterra secondo gli standard più elevati e portata qui qualche anno fa. Ha cambiato radicalmente il nostro modo di lavorare. Ho addestrato alcuni ragazzi del posto come aiutanti, quindi è sicurissimo».

Dopo un istante, Belle annuì e iniziò a sentirsi eccitata. Cos’aveva da perdere?

«Dovrà farsi trovare sul campo alle cinque del mattino. Ci alziamo sempre prima dell’alba. E mi dia retta, vedere il sole che sorge sopra la pianura è un’esperienza che non dimenticherà mai».

Sentendo bussare insistentemente, Belle si svegliò nell’oscurità più totale, con la testa che ancora le pulsava dopo le ore passate sul calesse nel caldo inflessibile del giorno prima. Cercò a tentoni un interruttore, lanciò un’occhiata all’orologio e vide che aveva soltanto cinque minuti prima di dover scendere nell’atrio al piano di sotto per incontrare Walter Guttridge. Si mise un paio di pantaloni morbidi, infilò una camicia bianca a maniche lunghe e poi, avendo un ripensamento, aggiunse anche un cardigan di lana. Avrebbe potuto fare fresco così in alto, a quell’ora del mattino.

Quando arrivò in fondo alle scale, Guttridge la stava già aspettando.

«Pronta?», le chiese con un tono squillante che non ammetteva repliche.

Lei annuì, rimpiangendo di non avere tempo per una tazza di tè e pentendosi giusto un pochino di aver accettato di andare.

Il conducente del carro trainato da un vitello usò una torcia che faceva solo un filo di luce per rischiarare debolmente il sentiero, anche se cosa riuscisse a vedere restava un mistero. Ciononostante, riuscì a condurli in un campo, dove l’attenzione di Belle venne subito catturata da un braciere acceso. Nel silenzio spettrale del luogo, fatta eccezione per il crepitio del fuoco, i suoi occhi ci misero un po’ ad abituarsi alla penombra. A poco a poco, però, riuscì a distinguere la sagoma di un enorme pallone sgonfio disteso sul terreno e vide alcune ombre scure che si muovevano senza far rumore e preparavano la mongolfiera per il volo. Rabbrividì, e una volta che il gas venne acceso e cominciò a ruggire – e il pallone fu sollevato da terra – sentì un ronzio e un martellio nelle orecchie. Il cesto sembrava così piccolo e insignificante. Non poteva essere sicuro.

«Andiamo, allora», disse Guttridge. «È tempo di salire a bordo. Dovrò prestare attenzione a tutti i cambiamenti che vedo rispetto all’ultima volta che sono andato su, quindi temo che non mi troverà molto loquace».

Andò per primo insieme a un altro uomo. Mentre aspettava il suo turno, Belle si esortò in silenzio. «Goditi questa esperienza», sussurrò. «Potrebbe non ricapitarti mai più». Approfittò di quel momento per ritrovare la calma prima che un aiutante si facesse avanti con uno sgabello, che Belle usò per arrampicarsi nel cesto con ben poca eleganza, lieta di essersi messa i pantaloni. Da lì riuscì a vedere gli altri cinque uomini che tenevano fermo il pallone tramite lunghe funi tese.

Guttridge le spiegò le regole. Poi il cesto sobbalzò e cominciò a sollevarsi da terra, e Belle provò un brivido d’eccitazione.

Di lì a poco si ritrovarono in alto, sopra Bagan, trasportati da una corrente fresca e silenziosa. All’inizio, quando vide che la pianura era avvolta dalla nebbia, restò delusa. Ma la foschia si disperse e il sole, quando cominciò a sorgere un poco alla volta, tinse le cupole delle pagode e delle stupa di lucenti sfumature d’oro e rosa. E mentre ammirava l’antica pianura in tutta la sua estensione, le si riempì il cuore di gioia. Più la mongolfiera procedeva, più riusciva a notare i dettagli: il fumo che saliva al cielo da una fattoria isolata, il mosaico ordinato e regolare dei campi, i vitelli già attaccati agli aratri, gli uccelli in picchiata e il silenzio infranto solamente dalle campane dei templi e dal latrato di un cane. Non aveva previsto quale serenità senza tempo le sarebbe stata offerta dal fluttuare nell’aria sopra una così straordinaria distesa di monumenti antichi. In lontananza, il sole brillava sulle acque dell’Irrawaddy, colorandole d’oro e d’argento. Non era credente, ma in quel panorama c’era qualcosa che poteva soltanto definire mistico. Pervasa dalla consapevolezza che nella vita ci fosse molto di più di quanto aveva sempre creduto, le si inumidirono gli occhi. Si sentiva leggera, trasformata, come se anche a lei spettasse stare sospesa lassù in alto, condividendo l’aria con gli uccelli e un venticello gentile. Che il mondo potesse racchiudere una tale straordinaria bellezza, e al contempo così tanta violenza, le risultava incomprensibile, ma sapeva che avrebbe dovuto trovare un modo per capire e accettare quei due estremi.

Sentiva che sarebbe potuta restare lassù per giorni e giorni, ma, quando Guttridge finì di annotare le sue conclusioni su un taccuino, il giro era quasi finito.

La discesa fu lenta e l’atterraggio pieno di sobbalzi perché, quando toccarono di nuovo il suolo, il cesto sbatté e rimbalzò più e più volte sul terreno. Al di là di quel piccolo disagio, Belle non aveva fatto altro che sorridere soddisfatta. D’ora in avanti avrebbe condotto una vita diversa. Avrebbe smesso di rimuginare su quanto accaduto a Rangoon. Avrebbe visto il mondo con occhi diversi, smettendola di preoccuparsi per ciò che non poteva cambiare. Mai si sarebbe aspettata di fare un giro in mongolfiera in uno dei posti più belli e straordinari del mondo. E invece l’aveva fatto.

37

Diana, Minster Lovell, 1922

Oggi vedrò il dottor Gilbert Stokes per la prima volta. So ben poco di lui, se non che ha lavorato per qualche anno al Radcliffe Infirmary di Oxford e poi al manicomio Radcliffe. Quando Simone me l’ha detto devo essere impallidita, perché la notizia mi ha turbata tantissimo, ma mi ha assicurato che adesso è quasi andato in pensione e continua a occuparsi solamente dei pazienti con problemi particolari. A quanto pare, ha idee molto progressiste, ha studiato le teorie di Sigmund Freud e, a quanto ho capito, crede di poter curare certi problemi attraverso la parola. Non so cosa pensare e, a essere sincera, non sono ancora del tutto convinta, perché, suvvia, com’è possibile che parlare possa essere di qualche aiuto?

Una cosa positiva. Mi sono innamorata del mio cottage, con i suoi muretti a secco che delimitano i confini, le alte querce su ogni lato e il tetto con le tegole di pietra calcarea. Sono anche felice che siano arrivati alcuni piccoli mobili, e anche i più belli, devo dire, dalla nostra casa di Cheltenham: la toeletta color crema di mia madre, una minuscola cassettiera che era nella cameretta della bambina, la mia lampada Tiffany preferita, un tavolinetto semicircolare e la vecchia scrivania di mia madre, con il suo piccolo cassetto segreto.

Al momento ho assunto un giardiniere per tagliare l’erba e occuparsi della sarchiatura, ma attendo con ansia il giorno in cui mi sentirò meglio e potrò uscire e occuparmi personalmente della semina e della potatura. Non sono ancora stata in paese, ma Simone dice che superando il camposanto e salendo fino alle rovine di Minster Hall si arriva alle magnifiche rive del fiume.

All’improvviso, da fuori mi arriva un mormorio di voci, anche se non riesco a scorgere né Simone né il dottore. Devono essersi fermati sul portico, dove non li posso vedere, così aspetto che entrino in casa. Quando arrivano nel mio salotto, resto sorpresa da ciò che vedo. Gilbert Stokes non è come me lo aspettavo. Penso agli psichiatri come a individui sparuti e viscidi, sempre pronti a coglierti in fallo con le loro trovate ingegnose, mentre questo è un uomo rotondetto e dall’aria benevola con dolci occhi azzurri e una folta zazzera di capelli incredibilmente bianchi.

Mi tende una mano. Gliela stringo e non posso fare a meno di sorridere. Appoggia l’altra mano sopra la mia e preme delicatamente.

«Signora Hatton, è un vero piacere».

«Salve», dico. «In realtà, sono la signorina Riley adesso, ma la prego, mi chiami Diana».

«Mi perdoni. Errore mio».

Simone fa per uscire dalla stanza. «Vado a preparare il tè», dice con un sorriso.

Annuisco. L’avevamo stabilito in anticipo. È un piccolo espediente per permettermi di giudicare il dottore restando da sola con lui e, penso con un sorriso ironico, per permettere a lui di valutare me.

«Vogliamo accomodarci?», domando, indicando una sedia accanto alla finestra.

Io prendo posto dall’altro lato, così posso vedere il giardino. Lui sposta la sedia per mettersi di fronte a me.

«Voglio essere sicuro che sappia che questo metodo può sembrare relativamente monotono, ma che è libera di cambiare idea e abbandonarlo in qualunque momento».

Faccio cenno di sì con la testa. «Parleremo e basta, dico bene?».

Gli brillano gli occhi e mi rivolge un sorriso sincero e cordiale. «Proprio così».

Come ho detto prima, non riesco a capire come parlare possa essermi davvero d’aiuto, ma annuisco e poi, sentendo fischiare il bollitore, mi volto verso la porta, chiedendomi se sia scortese andare a dare una mano a Simone.

Come se mi avesse letto nel pensiero, il dottore dice: «Vada pure ad aiutare la sua amica, se lo desidera», e io ne sono colpita.

Forse dietro quell’aspetto gioviale c’è una mente acuta e penetrante, ma, se è gentile, posso accettarlo. E ora che mi ha dato il permesso di lasciare la stanza, penso di non sentire più la necessità di andare, quindi, invece di scappare in cucina, resto dove sono. Mentre parliamo un po’ del paesino e mi dice che casa sua è in fondo alla strada, vicino alla chiesa, sento che mi sto rilassando. C’è qualcosa di rassicurante nella sua presenza e resto un po’ delusa quando Simone torna con un vassoio e non posso più averlo tutto per me.

Una volta versato il tè, dopo averlo bevuto e aver mangiato dei biscotti, si pulisce la bocca con il tovagliolo e si alza dalla sua sedia. «Dunque, Diana, se le va di essere una mia paziente, possiamo iniziare la settimana prossima e provare a fissare due sedute, una di lunedì e una di venerdì. Entrambe alle dieci. Cosa gliene pare?».

Mi alzo anch’io. «La ringrazio, dottor Stokes. Volentieri». E, quando lo accompagno alla porta e mi fermo sul portico, per nulla preoccupata all’idea di essere quasi uscita fuori in giardino, mi rendo sorprendentemente conto che lo penso sul serio.

38

Poco prima delle cinque, quando cominciò a rinfrescare e con un’ora da ingannare prima dell’incontro con l’assistente di Guttridge, Belle, sentendo la necessità di distrarsi, decise di lasciare la casa di riposo e di andare a fare un giretto da sola. Visto che la partenza della barca era prevista per le otto, aveva un sacco di tempo, quindi tracannò un bicchiere d’acqua e fece scivolare in tasca alcune mentine.

Un venticello leggero aiutava ad attenuare il caldo e, finché si teneva all’ombra degli alberi più alti e frondosi, riusciva a restare relativamente al fresco. Seguì il sentiero giallognolo e polveroso, prestando ascolto allo scricchiolio dei suoi passi e scegliendo di svoltare a destra a ogni incrocio, così al ritorno le sarebbe bastato girare sempre a sinistra. Per poco non schiacciò un coleottero lungicorno con delle specie di pompon sulle antenne e si fermò un attimo a osservare i suoi movimenti. Superò le stesse case che aveva visto in precedenza, solo che adesso i recinti erano più affollati, con intere famiglie sedute fuori all’ombra e l’odore della salsa di pesce e delle cipolle fritte sui bracieri pieni di carbone. I raggi del sole che filtravano tra le foglie degli alberi proiettavano mutevoli giochi di luce sul terreno riarso e tutti sembravano talmente affascinanti e cordiali che Belle li salutò con la mano prima di continuare a camminare, allontanandosi sempre di più dal centro del villaggio.

Quando un cane socievole iniziò a tallonarla, ascoltò il cinguettio degli uccelli e pensò a Elvira. Come sarebbe stata la sua infanzia se fosse cresciuta insieme a una sorella? Avrebbero condiviso dei segreti e si sarebbero difese a vicenda come facevano tante sorelle? O sarebbero diventate due rivali impegnate in bisticci infiniti, in cerca di attenzioni e incapaci di andare d’accordo? Immaginò che Elvira stesse camminando al suo fianco, strette l’una all’altra e intente a indicare questa e quella pianta, e a ridere in modo troppo sguaiato per qualche sciocchezza o di qualcuno che entrambe trovavano buffo. E che dire dei pettegolezzi sui ragazzi tra i risolini soffocati dopo che i loro genitori fossero andati a dormire? I loro genitori. Si chiese, e non senza che le salisse un groppo in gola, come avrebbe potuto essere sua madre…

Continuò a camminare assorta nei suoi pensieri, senza sapere realmente dove stesse andando, finché non si guardò attorno e vide di essersi lasciata alle spalle anche l’ultima casa e di essere arrivata in una specie di sterpaia. Volendo evitare quel sole ancora cocente, si diresse verso un boschetto accanto a una stupa e, mentre era sdraiata sull’erba e succhiava una mentina, osservò pigramente la luce bassa del tardo pomeriggio, con un solo accenno di rosa lungo la linea dell’orizzonte.

Controllò che ore fossero. Mancava ancora un pochino. Il suono delicato delle campane del tempio veniva condotto dal vento e gli odori silvestri delle foglie degli alberi si mescolavano al profumo dolciastro dei fiori bianchi che crescevano in grande abbondanza. Chiuse gli occhi e si rilassò contro il tronco di un albero riscaldato dal sole. Si stava crogiolando così già da un po’, in ascolto del tap-tap-tap di un uccello tra i rami, forse un picchio, quando trasalì, strappata alle sue fantasie da un lamento cupo. Spalancò gli occhi e si rialzò in tutta fretta. Si diede una ripulita, pronta a rimettersi in marcia, non sapendo se sarebbe riuscita a tornare in tempo e rimproverandosi per la propria stupidità. Ma il lamento tornò a farsi sentire, solo che stavolta sembrava ancora più straziante. Qualcuno stava soffrendo in modo insopportabile e così, a dispetto della forte apprensione, e sperando di non lasciarsi attirare in una trappola, Belle decise di indagare. Più che consapevole di essere una donna e una straniera in un Paese che capiva a stento, non aveva la più pallida idea di quali strane pratiche potessero aver luogo da quelle parti. Per non parlare dei serpenti e degli insetti velenosi che si nascondevano nel sottobosco. Con cautela, girò attorno alla circonferenza della stupa, tenendo gli occhi ben aperti per evitare problemi, e per poco non inciampò sulla donna incinta della barca, che ora giaceva su un fianco con le gambe spalancate.

Belle crollò in ginocchio e si accucciò accanto a lei. «Va tutto bene?», le chiese. «Posso andare a cercare aiuto».

La donna allungò una mano tremante. «No, ti prego. Non andare. Ho paura».

«Ma perché sei qui da sola?».

La donna gemette per il dolore prima di poterle rispondere. «Volevo portare avanti la gravidanza. Il tempo è finito, ma devo partorire sulla nave, altrimenti mio marito si arrabbierà».

Belle aggrottò la fronte. Era un’altra di quelle bizzarre superstizioni di cui aveva già sentito parlare? «Che importanza ha?», domandò.

«Nascere su una nave sul fiume Irrawaddy è una grandissima fortuna. L’ho già risalito una volta».

«Dov’è tuo marito?»

«Lavora al segretariato di Rangoon, ma non ha potuto prendere altri giorni di permesso per un secondo viaggio».

«Quindi sei venuta da sola?».

La donna gemette in modo angoscioso.

Belle si rimise in piedi. «Devo davvero andare a cercare aiuto. Non ho mai assistito a un parto». E non accennò al fatto che la sola idea le stava facendo torcere le budella.

La donna indicò una borsa di tela. «Ho portato la curcuma con cui cospargere il corpo del bambino. Serve a scacciare gli spiriti maligni, e poi dobbiamo anche trovare l’astrologo. Ce n’è uno sulla nostra barca. Me ne sono accertata prima che partissimo».

«Pensi di poter arrivare fino alla barca?».

Allungò di nuovo la mano e Belle l’aiutò a rialzarsi, ma la poveretta si piegò subito in due, stringendosi il pancione e piagnucolando. Belle riuscì a farla sedere all’ombra di un albero, ma era chiaro che non sarebbe mai riuscita a tornare alla barca in tempi brevi.

«Come ti chiami?», le chiese, accovacciandosi al suo fianco e continuando a tenerle la mano.

«Hayma. Significa foresta. Sono nata in una foresta».

«Non sei di Rangoon?»

«No, ma sono nata in un piccolo villaggio non lontano dalla città». Si piegò di nuovo su se stessa, il viso distorto dal dolore, e Belle capì che stava cercando di reprimere un grido.

La morsa della paura le strinse il cuore. «Devo andare a cercare aiuto», ripeté, lanciando un’occhiata all’orologio. Sapeva che ormai avrebbe mancato l’appuntamento, ma era anche terribilmente in ansia per Hayma.

«Ti prego, ti scongiuro, non lasciarmi qua da sola».

Belle acconsentì, e nei venti minuti successivi la donna mantenne relativamente la calma. Sembrava più tranquilla ora che c’era lei a tenerle compagnia. Ma ben presto ricominciarono le contrazioni. Belle si guardò attorno, sperando di individuare qualcuno che potesse darle il cambio. All’inizio il posto rimase deserto, ma dopo una mezz’ora scorse una donna con un bambino sulla schiena che stava solennemente percorrendo il sentiero di ritorno al villaggio. Le fece cenno di avvicinarsi e, tra una contrazione e l’altra, Hayma riuscì a parlare con lei. Dopo un momento, la donna fece dietrofront e si allontanò a passo svelto.

«È andata a cercare aiuto», spiegò Hayma.

Ma la donna non tornò immediatamente e, mentre cercava di tranquillizzare Hayma, Belle capì che non poteva mancare ancora molto. Si spremette le meningi. Cosa si doveva fare con un neonato? Si grattò la testa, desiderando di potersi consultare con qualcuno, e poi, alla fine, la donna con il bimbo sulla schiena tornò con quello che sembrava essere un grosso fagotto di stracci e una brocca d’acqua. Tirando un enorme sospiro di sollievo, Belle si alzò in piedi.

Prima che il bambino nascesse, il sole aveva cominciato a tramontare a est, il cielo era diventato vermiglio e poi, in un lampo, si era trasformato in una cappa vellutata color indaco, con una spolverata delle minuscole lucine di milioni di stelle. Belle sentiva la magia che si stava ridestando nei boschi e, sotto la superficie della realtà quotidiana, la vita le appariva profonda e viscerale. Animata dalla trepidazione, trattenne il fiato. E poi accadde. Quando la piccola venne finalmente al mondo, gli intensi profumi notturni e il canto furioso delle cicale si portarono appresso un’ondata di gioia. Vide una stella cadente e sentì i pipistrelli rossetta stridere tra gli alberi, come a dare il benvenuto alla neonata, e Belle capì che non avrebbe mai dimenticato quel momento. Restò con Hayma, le tenne la mano, e levò una piccola preghiera finché la bimba non lanciò il suo primo vagito indignato. “Brava piccolina”, pensò. “Fai sentire la tua voce”.

Dopodiché, seppur con riluttanza, si rimise in cammino, ma se ne andò sapendo che la vita le aveva offerto quell’opportunità straordinaria per ristabilire l’equilibrio. Sì, aveva visto la morte in faccia, morti terribili e violente, morti che l’avrebbero accompagnata per il resto della vita, ma aveva anche assistito alla nascita di una nuova vita e, più di ogni altra cosa, si sarebbe aggrappata a quello.

Dopo aver sbagliato strada più di una volta, con le mani sopra la testa per proteggersi dai pipistrelli che volavano a bassa quota, e sperando di evitare eventuali serpenti usciti dalle loro tane in cerca di cibo, si concentrò sull’unico sentiero che riusciva a ricordare e, alla fine, ripercorse a ritroso la strada per la casa di riposo. Erano le otto e trenta, e non era neanche così sicura che la barca l’avesse aspettata.

Lo scoprì subito, perché la prima persona che incrociò fu Harry Osborne. L’espressione furente che aveva sul volto mentre faceva avanti e indietro per l’atrio, borbottando tra sé e sé con aria belligerante, le disse tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Non appena la vide, rimase di sasso e la fulminò con lo sguardo.

«Per la miseria, le pare questa l’ora di arrivare?»

«Mi dispiace così tanto», disse, cercando di mantenere la calma, quando in realtà era ancora sbalordita per aver assistito alla sua prima nascita. «Davvero, non è stata colpa mia».

«Voi donne siete tutte uguali. Rimpiango di aver accettato questo incarico». Si morse un labbro e fece una faccia strana, come se avesse detto la cosa sbagliata, poi spinse gli occhiali sul naso con un gesto stizzito.

Belle sentì che puzzava di whisky e si accigliò. «Incarico?».

Non riusciva a incrociare il suo sguardo. «Voglio dire… ehm… Concederle di accompagnarmi, intendo. In ogni caso, abbiamo perso quella stramaledetta barca».

«Sono davvero mortificata. Ho dovuto aiutare una donna incinta. Era…». Ma non riusciva a trovare neanche una sola parola in grado di esprimere quanto fosse stato meraviglioso presenziare all’arrivo di una nuova vita. E come, per un paio di minuti almeno, avesse avuto l’impressione che al mondo non potessero esserci altro che cose buone e giuste.

Harry inarcò le sopracciglia, come se non le credesse affatto, ma non fece commenti.

«Allora, che facciamo adesso?», domandò lei.

Lui sospirò. «Sono riuscito a trovare due cabine per domani mattina».

«Oh, splendido».

La guardò con un sorriso sardonico. «Non ha ancora visto la barca. Dubito che la troverà splendida. Grazie al cielo, arriveremo a Mandalay in tempo per il nostro incontro con Alistair Ogilvy, il commissario distrettuale. Se avesse mancato quell’appuntamento, il mio nome ne sarebbe uscito infangato. Se c’è qualcuno in grado di sapere qualcosa, quello è lui. Ad ogni modo, l’assistente di Guttridge la sta aspettando al bar».

«Grazie».

Malgrado avesse sete e non vedesse l’ora di togliersi quei vestiti impolverati e di immergersi in una vasca da bagno, si incamminò in direzione del bar. Dalla porta aperta, riuscì a intravedere l’uomo che, seduto con la schiena ben dritta su uno dei due divanetti, si alzò a riceverla non appena entrò, e si accorse che era minuscolo, con grandi orecchie a sventola e ispidi capelli bianchi.

Le fece un piccolo inchino e lei sorrise.

«Io sono Nyan», disse. «Si accomodi, la prego. Aveva delle domande da pormi?»

«Sì. Mi spiace così tanto di averla trattenuta».

«Trattenuta?»

«Di averla fatta aspettare».

Le rivolse il più dolce dei sorrisi. «Nessun problema».

«Stiamo parlando di tantissimo tempo fa. Del 1911, per la precisione, ma il signor Guttridge mi ha detto che lei ne avrebbe saputo qualcosa».

«Me ne ha accennato e, sì, mi ricordo bene. Ero commissario di bordo sulla stessa barca diretta a Mandalay e fui io a sollevare la questione con il capitano».

«E quindi, cos’è successo di preciso?»

«Non molto. Posso dirle che la bambina era piccola e sembrava europea, mentre la coppia che l’accompagnava veniva dalla Thailandia e non era giovane. Anche se espressi la mia preoccupazione, il capitano non voleva scenate e rifiutò di immischiarsi. Era uno scozzese indolente prossimo al pensionamento, se ben ricordo». Fece una pausa, all’apparenza imbarazzato. «Mi scusi. Porto grandissimo rispetto nei confronti di tanti altri capitani scozzesi dediti al loro lavoro che il nostro fiume ha visto all’opera nel corso degli anni. Lui non era uno di loro, purtroppo».

«E allora?»

«Interrogai la coppia, e sostenevano che la piccola fosse la loro nipotina. Io avevo i miei dubbi, ma divenni ancora più sospettoso quando un po’ di tempo dopo, quello stesso giorno, chiesi loro di ripetermi la storia. Stavolta dissero che stavano risalendo il fiume per portare la bambina dai suoi nonni, che erano britannici. Dissero che la prima volta non avevano capito bene la mia domanda, ma io avevo il timore che ci fosse qualcosa che non andava e decisi di informare le autorità non appena avessimo gettato l’àncora, con o senza l’approvazione del capitano».

«E lo fece?».

Annuì. «Li vidi sbarcare, ma, quando raggiunsi la polizia locale, ormai era troppo tardi. Non disponevo dell’autorità necessaria per trattenerli e il capitano si lavò le mani dell’intera questione».

«E la polizia si mise a indagare?».

Sospirò. «Sì. All’inizio fecero ricerche a tappeto nell’area circostante, ma la coppia era svanita nel nulla. Nessuno voleva ammettere di averli visti. Tuttavia, io sapevo della piccola scomparsa da un giardino a Rangoon e temevo che la bambina fosse stata rapita. Vede, era su tutti i giornali, quindi speravo ancora di poter persuadere la polizia a estendere il raggio delle ricerche».

«E non lo fecero?», domandò Belle, avvertendo una punta di delusione.

«No. Temo di no».

«È sicuro che fosse una bambina?»

«Sì».

39

Diana, Minster Lovell, 1922

Non siamo mai stati gente di campagna. Lo dico perché mi sto adattando talmente bene alla vita agreste e questo mi stupisce. I genitori di mia madre un tempo erano contadini, quindi magari ce l’ho nel sangue.

Non è passato molto tempo, ma Minster Lovell è il posto perfetto per me. Annabelle mi manca tantissimo; e, a essere sincera, avrei anche il desiderio di rivedere Douglas, ma non così tanto da sentirmi profondamente infelice. La nostalgia è compensata dal fatto che sono libera di fare ciò che mi pare e piace, senza avere il timore di turbare qualcuno. Ho Simone e la signora Jones, che è una brava donna, e ovviamente ho anche il dottor Gilbert Stokes, che arriverà per la nostra seduta da un momento all’altro.

Anche se non sono ancora andata a sedermi su una panchina in giardino, mi piace lasciare la porta d’ingresso aperta e starmene sul portico. Se passa qualcuno mi lascio prendere un po’ dal panico, ma ho imparato a salutare con la mano e a stamparmi un sorriso in faccia. Oggi, sebbene splenda il sole, nell’aria c’è odore di pioggia… è così carezzevole quest’arietta fresca, è una delle cose per cui vale la pena vivere. La pioggia farà bene al prato, visto che abbiamo avuto un lungo periodo di siccità. Mentre il profumo dell’erba appena tagliata e dei magnifici fiori di inizio estate si diffonde nell’aria, aspetto il dottore.

Quando intravedo la folta capigliatura bianca, sta risalendo la collina tenendo il corpo in avanti e il capo chino. Arrivato in cima, alza la testa, mi vede e mi saluta. Ricambio il gesto. Non posso dire di non essere nervosa, ma è un uomo gentile e io sono speranzosa.

Dopo esserci dati una stretta di mano, ci accomodiamo nel piccolo salotto di casa mia, dove la signora Jones ci ha lasciato un vassoio con il tè e i biscotti. Ora è andata al mercato, in modo da non disturbarci.

Non riesco a esprimere quanto mi rassicuri quando mi comunica che dovrò farglielo notare se una delle sue domande dovesse mettermi in imbarazzo. Era una cosa che mi preoccupava.

Così, per un po’, parliamo della mia infanzia. Non so di preciso cosa voglia sentirsi dire, ma mi assicura che non ci sono risposte giuste o sbagliate e che è una semplice questione di iniziare da qualche parte. Quando mi suggerisce di descrivergli com’era mio padre, inspiro a fondo ed espiro lentamente per prendermi qualche secondo per riflettere. Ripenso a quando mio padre mi incoraggiava a «essere me stessa».

Il problema è sempre stato lo stesso, ovvero che non ho mai capito come fare. Do voce ai miei pensieri e, quando il dottore mi rivolge un sorriso gentile e incoraggiante, noto una luce nei suoi occhi azzurri. «La preoccupa non sapere come fare?», mi domanda.

Mi mordo l’interno della guancia, non sapendo quanto sia saggio esporsi, ma poi mi ricordo che quest’uomo non ha alcun interesse a mandarmi al Grange o in qualche altro istituto simile. È da questo che traggo coraggio e gli dico che mi fa sentire triste.

«E anche un po’ sola, magari?», aggiunge lui.

Mi sento a disagio, mi sta salendo un groppo in gola, così mi fisso i piedi e non riesco a fornirgli una risposta. Mi spiega che molte persone cominciano a capire chi sono avvicinandosi alla fine delle loro esistenze, o meglio, più realisticamente, chi sono state o avrebbero potuto essere.

Ricaccio indietro il nodo che ho in gola. Per troppo tempo mi hanno portata a credere di essere irrecuperabile, che qualunque cosa non vada in me non potrà mai essere curata. Questo medico mi offre una piccola speranza e io lo ripago con un sorriso generoso.

Gli dico che penso che parleremo di quanto accaduto in Birmania, ma, quando mi chiede se mi va di raccontarglielo, io scuoto la testa.

40

Harry aveva ragione a proposito della barca, pensò Belle con l’approssimarsi dell’alba. Esaminò la scena in silenzio e, ancor prima di riuscire a mettere piede sulla passerella fangosa, già aveva capito quanto era affollata. C’erano famiglie accoccolate insieme, avvolte negli scialli e nei longyi, e ancora addormentate sul ponte, anche se la maggior parte delle donne si stava già intrecciando i capelli e spalmando la thanaka sulle guance. Mentre le madri iniziavano a preparare le colazioni, si svegliarono alcuni bambini, sbattendo rapidamente le palpebre e stropicciandosi via la sonnolenza dagli occhi, con i capelli folti, lisci e color cioccolato tutti dritti e scompigliati sulle loro testoline.

Alcuni monaci si erano radunati in gruppo, e Belle si chiese se stessero pregando. Rimase a osservare l’alba, il cielo in alto di un azzurro intenso, striato da nuvole bianche e filacciose, e il sole incredibilmente giallo. Anche un uccello blu reale appollaiato sul parapetto parve osservare il panorama prima di spiccare il volo. Alcuni uomini si sgranchivano le gambe e fumavano. Altri invece osservavano in silenzio l’argine grigio del fiume in quei preziosi istanti prima che ci si debba ricomporre per affrontare la giornata, quando si è ancora in parte assonnati, nel mondo dei sogni e dell’oblio.

Altri ancora sedevano sul ponte con le facce intontite, appoggiati ai sacchi di materie prime che facevano parte del carico. Sul ponte si era formato un sottile strato di polvere. Non c’erano palme in miniatura in vaso, e di conseguenza non c’era neanche un po’ d’ombra, e c’erano poche sedie di rattan dalle quali osservare il mondo che scorreva oltre le fiancate della barca. “Almeno ho una cabina”, pensò Belle, anche se sarebbe stato divertente, seppure un po’ scomodo, dormire sotto le stelle.

Lei e Harry vennero accompagnati nelle loro cabine e Belle si addormentò non appena toccò il letto. Era ancora presto ma, messa in agitazione dall’emozione del parto, la notte prima aveva dormito male.

La traversata fino a Mandalay passò in fretta e, anche se meno tranquilla rispetto al primo tratto di risalita del fiume, fu più divertente. Mentre il sole picchiava sul ponte, Belle si ritrovava costantemente assorbita dalle attività quotidiane che gli altri passeggeri portavano avanti sotto gli occhi di tutti. Formavano un gruppo perlopiù felice e ciarliero e sembravano prendere la vita come veniva, senza lamentarsi, benché, naturalmente, Belle non fosse in grado di capire un bel niente se Harry non glielo traduceva.

Mentre se ne stavano appoggiati al parapetto a osservare il fiume, Harry le descrisse anche un po’ della storia di Mandalay. Le disse che ogni volta che un nuovo re saliva al trono, i potenziali rivali dovevano essere uccisi per evitare che diventassero una minaccia e tentassero di usurpare il potere. Quando era stato incoronato Thibaw, l’ultimo re, almeno otto membri della sua famiglia, inclusi i bambini piccoli, erano stati trucidati in modo veramente atroce.

«Si dice», continuò Harry lanciandole un’occhiata, «che siano stati legati, infilati dentro dei sacchi e picchiati a morte mentre un’orchestra suonava per mascherare il fragore delle loro urla. Dopodiché, i loro corpi erano stati calpestati dagli elefanti».

«Buon Dio», fece lei, atterrita dal pensiero. «Una vera barbarie!».

«Infatti».

«Eppure, i birmani sembrano gente così mite».

Harry sollevò le sopracciglia. «E non è finita qui, perché in passato, quando vennero costruiti il palazzo reale e la cinta muraria, molti vennero rapiti e poi sepolti vivi sotto le sue mura per proteggere la città dagli spiriti maligni».

Sconvolta dalla rivelazione, non riuscì a sottrarsi a uno strano presentimento. Cosa le sarebbe potuto capitare a Mandalay?

L’alba del loro ultimo giorno di viaggio vide sorgere un sole fiammeggiante e, mentre i suoi raggi accecanti si riversavano sul fiume, Belle chiuse gli occhi. Quando li riaprì, fu per vedere che le acque increspate erano punteggiate di gemme d’argento luccicante. Poco dopo, mentre si avvicinavano alla città, decine di pagode dorate brillarono dalla sommità delle colline su cui svettavano con fierezza. Com’era possibile che tanta magia e tanto splendore potessero convivere con la brutalità di cui aveva sentito parlare, e alla quale aveva anche assistito?

Quando sbarcarono, le capanne di bambù allineate lungo la banchina pullulavano di gente che sperava di vendere piccole carabattole. Belle diede un’occhiata alle montagne in lontananza, dall’altro lato del fiume, e si chiese se la bambina della barca fosse stata portata lassù.

Malgrado l’assalto, riuscirono a farsi largo tra i pescatori e i venditori ambulanti, poi presero una macchina per destreggiarsi più rapidamente tra quelle strade affollate. Di lì a poco, Belle si era sistemata nel suo hotel: uno degli unici tre frequentati da ospiti britannici, le avevano detto. Era fatto di tek e la sua camera, che profumava di cera al limone, era piccola ma accogliente, con una finestra che affacciava sul fiume Rosso. Dato che aveva mal di testa, decise di restare in albergo per il resto della giornata.

Harry le aveva detto di aver fissato un appuntamento con il commissario distrettuale alle dieci della mattina successiva, così dopo pranzo, senza avere niente di meglio da fare, si sdraiò sul letto tenendo indosso solo la biancheria intima e provò a dormire. Ma i ricordi del massacro si insinuarono tra i suoi sogni a occhi aperti, perciò alla fine si arrese. Sarebbe mai riuscita a dimenticare l’accaduto? Osservò una lucertola arrampicarsi sulla parete accanto alla porta, di fronte al letto. Piccola – forse era una neonata – e di un colore marrone-verdognolo, si muoveva a scatti, come se non sapesse dove stava andando. Un po’ come Belle. Con il caldo torrido del pomeriggio, i rumori della città si erano attenuati, ed era pronta a giurare di aver sentito dei passi percorrere il corridoio e poi fermarsi di fronte alla sua stanza. Indolente e sudata, ma anche infastidita al pensiero che avessero interrotto il suo riposo, nemmeno si mosse per andare a mettersi dei vestiti. In ogni caso, era sicura di aver chiuso la porta a chiave, quindi, chiunque fosse, se ne sarebbe semplicemente dovuto andare. Fissò la porta e attese, aspettandosi di sentir parlare un membro del personale dell’hotel. Ma invece di udire una voce, rimase sorpresa dal vedere la maniglia girare lentamente, in modo impercettibile. Ipnotizzata, la guardò mentre girava ancora una volta.

«Chi è?», domandò alla fine, aspettandosi la timida replica di una donna delle pulizie.

Non sentendo niente e cominciando a irritarsi, afferrò la vestaglia e si precipitò a spalancare la porta. Fuori non c’era nessuno, ma si affacciò in corridoio e in fondo vide Harry, che stava giustappunto per girare l’angolo.

«Oh, è lei», disse. «Mi stava cercando?»

«Mi perdoni, io…».

«Harry, le serviva qualcosa?»

«No. Io… mi sono confuso. Scusi. Errore mio». Ciò detto, girò l’angolo e svanì.

Belle scosse la testa e tornò in camera sua. Il caldo giocava davvero brutti scherzi.

Non appena le fu passata l’emicrania, decise di prendere un risciò per esplorare la città, in cui le strade fiancheggiate dagli alberi brulicavano di vita. Malgrado si sentisse sola e anche un pochino triste, soprattutto per Oliver, era una splendida giornata e voleva godersela quanto più possibile.

Oltrepassò un tempio dove alcune monache con le teste rasate e le tonache rosa si erano inginocchiate a pregare. Le pagode e le statue dorate dei Buddha presenti praticamente in ogni strada si contendevano il predominio tra le eleganti dimore britanniche costruite in pietra. Le verande ai piani superiori di quelle ville erano sostenute da enormi colonne e facevano ombra ai passaggi pedonali che si erano formati al di sotto. Poi vennero gli argentieri, acquattati nei piccoli cortili di fronte alle loro casette di legno, un fuoco in un angolo e le borse di tela con i ferri del mestiere in bella vista su alcune piccole panche. Belle osservò le complesse lavorazioni di squisita fattura realizzate su un vasto assortimento di oggetti, dalle enormi ciotole destinate ai templi a minuscoli elefanti e dragoni d’argento. Quando raggiunse le imponenti mura del palazzo reale e i suoi padiglioni – ora utilizzati dai britannici come uffici dell’amministrazione, mentre la sala del trono era diventata un circolo privato – rimase a bocca aperta di fronte alla loro estensione. Sbirciò attraverso un cancello aperto e vide che i colori portafortuna, il rosso e l’oro, erano ovunque, insieme agli intagli decorativi sugli edifici e ai graticci ornamentali sopra le porte.

Quando girò un angolo nei pressi di un tempio cinese, localizzò il bazar della seta ed entrò a dare un’occhiata ai tessuti. Si fermò un istante, poi si addentrò nelle profondità del mercato, dove i banchi stipati di mercanzie pullulavano di gente. All’inizio si sentiva tranquilla, felice di essere lì e di godersi l’atmosfera, ma dopo qualche istante cominciò a venirle la pelle d’oca. C’era qualcosa che non andava. Possibile che la stessero seguendo? Era così? Di tanto in tanto si voltava a guardarsi indietro. Aveva davvero visto la sagoma di un giovane birmano che si ritraeva tra le ombre ogni volta che si voltava? Lì per lì pensò di esserselo immaginato, ma a poco a poco iniziò a capire. Perché ogni volta che si girava intravedeva di sfuggita il rosso del suo longyi e una casacca verde chiaro. Più infastidita che realmente spaventata da quel seccante gioco del gatto con il topo, continuò a sfiorare le sete delicate sotto gli occhi dei graziosi bancarellisti. In fin dei conti, cosa avrebbe potuto fare in un posto così affollato? Ciononostante, si ostinava comunque a seguirla, e ogni volta che Belle si fermava, si fermava anche lui. Come ne ebbe abbastanza, girò sui tacchi ed eccolo lì, con una bella faccia tosta, intento a fissarla apertamente. Che fosse in cerca di denaro? Aveva forse intenzione di derubarla in qualche angolo appartato? Strinse forte la borsa al petto e riprese a camminare, chiedendosi dove fosse l’uscita più vicina.

Poi rimase paralizzata dalla paura.

Due uomini – uomini dalla pelle scura, pieni di tatuaggi neri – stavano avanzando verso di lei con un ghigno malevolo stampato in faccia. Era una trappola? Sapeva che i birmani credevano che i tatuaggi li rendessero immuni ai proiettili e ai coltelli. Stavano cercando proprio lei? Quando lanciò uno sguardo ai loro occhi socchiusi, si sentì accerchiata e studiò l’ambiente. Riuscivano a percepire la sua paura? Il ragazzo era ancora alle sue spalle, mentre loro erano davanti a lei. Mentre si domandava cosa fare, pensò di offrire loro del denaro, ma, quando si avvicinarono e la superarono, si limitarono a rivolgerle un cenno del capo e continuarono a sorriderle. Si portò una mano al petto nel tentativo di ritrovare la calma, e si vergognò di averli automaticamente considerati pericolosi solo perché avevano la pelle scura. Anche il ragazzetto era scomparso. Inorridendo al pensiero di essersi tramutata tanto rapidamente in un’inglese della peggior risma, si rimproverò per l’eccessiva diffidenza. Fece un respiro profondo e si incamminò in quella che sperava essere la direzione dell’uscita, chiedendosi se non avesse davvero immaginato tutto.

Per un attimo, i rumori di sottofondo del bazar parvero svanire, riducendosi in modo graduale come se fossero sempre più distanti. Ritrovata in parte la calma, Belle provò uno strano senso di distacco. Non durò a lungo, però. All’improvviso, i rumori tornarono a intensificarsi, come se qualcuno, nel riuscito tentativo di orchestrare l’intero bazar, avesse rialzato il volume. I suoni striduli e graffianti di quell’ambiente enorme aumentarono e aumentarono. Si lasciò prendere dal panico. Stava rischiando di trasformarsi in sua madre, troppo terrorizzata per uscire negli spazi aperti? Quando il volume del rumore schizzò alle stelle, Belle capì che si sarebbe sentita male. Le voci delle donne divennero strilli orribili e incomprensibili, le risate degli uomini perfide e allarmanti. L’intero bazar tremava a causa del tintinnio e del clangore delle monete passate di mano e di una sovrabbondanza di voci. Cominciava a girarle la testa. I bancarellisti prima tanto garbati iniziarono a tormentarla, e la folla brulicante la spintonava, urtandola e facendole male ogni volta che la mandava a sbattere contro qualcuno. Quando tentò di togliersi di mezzo, si mosse con una lentezza spaventosa. Le stava tornando in mente ogni singolo ricordo del massacro. Tutte le immagini che aveva cercato di accantonare, e credeva avessero iniziato a sbiadire, le sembravano reali come se stessero accadendo in quel momento. Era come se i suoi occhi si fossero riempiti di sangue. I suoni innaturali e assordanti le martellavano nelle orecchie e le schiacciavano il petto. Non riusciva a prendere aria, e tutti la fissavano.

E poi, malgrado si sentisse mancare, si mise a correre, una corsa folle e ansante, incurante di chi urtava o spintonava. Doveva tornare in albergo.

Quando Belle raggiunse l’hotel, l’attacco di panico era passato. Che fosse stato il caldo intenso a farle tornare in mente il massacro? Non ne era convinta. Ormai più tranquilla, si avvicinò al bancone della reception, dove il giovane addetto le porse una busta.

«Signorina Hatton?», disse con un sorriso educato. «Questa è per lei».

Sorpresa, la accettò aggrottando la fronte. Forse era stata lasciata da Harry. Con delle disposizioni, magari?

L’addetto alla reception le rivolse un cenno garbato prima di augurarle una buona giornata, dopodiché chinò il capo e si mise a consultare il registro delle prenotazioni.

Al piano di sopra, Belle aprì la busta e il contenuto del biglietto le strappò un gridolino.

Pensi di essere al sicuro a Mandalay?

Ebbe un tuffo al cuore. Era quasi identico al biglietto anonimo che aveva ricevuto a Rangoon. Ripensò all’uomo eurasiatico che aveva visto lasciare il corridoio delle ragazze pochi istanti prima che entrasse in camera sua e Rebecca le consegnasse il primo biglietto. Possibile che l’avesse consegnato lo stesso uomo? Perché stavano provando a metterle paura?

Si precipitò di nuovo da basso per chiedere chi avesse lasciato la busta e scoprì che era stato un uomo eurasiatico, molto alto, anche se il ragazzo alla reception non gli aveva domandato come si chiamasse. Ma sì, poteva tranquillamente essere lo stesso uomo. Quando risalì le scale, il nervosismo le fece venire la nausea.

In agitazione e a disagio, iniziò a fare avanti e indietro per la stanza. Lì non aveva nessuno a parte Harry, e non poteva considerarlo propriamente un amico. Mandalay non le piaceva neanche un po’. Era diventato chiaro che la cosa migliore da fare era tornare a Rangoon nel minor tempo umanamente possibile. Avrebbe incontrato Ogilvy, il commissario distrettuale, come disposto da Harry, e poi se ne sarebbe andata. Finora, la storia della bambina bianca vista sulla barca non l’aveva portata a niente. Perché perdere altro tempo, restando lì? In ogni caso, i giorni di permesso che le erano stati accordati sarebbero presto finiti e, se voleva tenersi stretto il lavoro, doveva tornare indietro. Aveva sperato che il ritrovamento di Elvira potesse colmare le lacune che sentiva di avere nella sua vita, ma nessuno aveva visto cosa fosse successo. Le uniche cose che aveva scoperto non erano altro che congetture azzardate. Sospirò, sconfitta, e scese di nuovo le scale per raggiungere l’atrio dell’albergo.

Quando si appoggiò al bancone della reception e suonò il campanello, sperando che l’addetto fosse in grado di aiutarla a prenotare un biglietto ferroviario per Rangoon, Harry si materializzò al suo fianco. Gli disse che sarebbe partita l’indomani pomeriggio, subito dopo l’incontro con il commissario. Non accennò al biglietto anonimo.

Lui cambiò espressione, e Belle rimase stupita da quanto sembrasse deluso. «Oh, ma mi ero appositamente organizzato per andare a un pwe insieme domani sera».

«Un pwe

«È uno zat pwe, uno spettacolo di varietà potremmo dire, con danze all’aperto accompagnate da strumenti a percussione. Si divertirà, gliel’assicuro».

«Non credo che…».

La interruppe. «Dovrebbe venire. Davvero. C’è una persona che vorrei farle conoscere. È un commerciante di giada angloindiano che ha saputo di una bambina bianca che si pensa sia stata rapita e introdotta negli Stati degli Shan, e da lì in Cina».

«E ha detto quando?»

«No, ma penso davvero che dovrebbe parlare con lui di persona. Conosce perfettamente l’inglese. Venga con me domani sera e il giorno dopo l’accompagnerò al treno. Cosa ne dice?».

Belle esitò. «Mi ci faccia pensare un attimo, Harry».

Di ritorno in camera sua, notò che una delle due persiane era leggermente socchiusa e un raggio di sole disegnava una linea retta sul pavimento di legno lucido. Andò alla finestra e spalancò le persiane, e la luce inondò la stanza. In bagno, vide che un rubinetto del lavandino perdeva. Qualcuno era entrato nella sua camera? La donna delle pulizie, magari? Persa nelle sue riflessioni, osservò il rubinetto e, con il palmo rivolto verso l’alto, ci mise una mano sotto e permise alle gocce di cadere e raccogliersi in una piccola pozza. Dopodiché, girò al massimo il rubinetto e riempì il lavandino, per poi chinarsi e lasciare che i capelli cadessero nell’acqua.

Dopo essersi lavata e asciugata i capelli con un asciugamano, si infilò un abito appena stirato. Doveva cambiarsi due volte al giorno da quando era lì, ma almeno l’albergo aveva buone riserve di acqua calda. Pettinò i capelli, mise un po’ di rossetto e iniziò a fare su e giù per la stanza, ripensando a ciò che le aveva detto Harry.

Da principio si era lasciata trascinare dall’idea di ritrovare Elvira, ma adesso l’entusiasmo l’aveva improvvisamente abbandonata. Era diventato troppo complicato. Eppure… E se quell’ultimo tentativo disperato fosse destinato a portare alla luce qualche informazione di vitale importanza e lei non si fosse presa il disturbo di andare? Si passò le dita tra i capelli, sollevandoli dallo scalpo affinché asciugassero più in fretta. Non riusciva a decidersi: tornare a Rangoon o andare a quel pwe insieme a Harry? Ragionò e sospirò, frustrata, mentre valutava i pro e i contro. Ma poi giunse a una conclusione: per quanto potesse sostenere il contrario, la verità era che non poteva proprio smettere di cercare. Probabilmente non avrebbe mai potuto. Perché se invece avesse rinunciato, il rimpianto l’avrebbe perseguitata per il resto della vita. Qualunque cosa fosse successa a sua sorella, doveva sapere.

Alle dieci della mattina seguente, bussò all’imponente porta intagliata dell’ufficio del commissario. Un giovane birmano benvestito aprì la porta, le fece un inchino e la invitò a entrare, chiedendole se desiderasse un tè. La stanza, dipinta di bianco, era luminosissima. Ogilvy le dava le spalle e sembrava intento a guardare fuori da una grande finestra, assorto nei suoi pensieri. Quando si voltò e le andò incontro, vide che era un ometto basso e dalle spalle squadrate, con un naso pronunciato e occhi grigi e ridenti in un volto rotondo e particolarmente rubizzo. Le strinse la mano e le indicò di accomodarsi su una sedia dallo schienale alto di fronte alla sua scrivania di tek lucido, dietro la quale andò a prendere posto. Dopo essersi messo comodo, si accese un sigaro e si schiarì la voce.

«Dunque, signorina Hatton, il mio assistente ha spulciato il nostro archivio dei certificati di nascita e di morte».

«Ebbene?»

«Be’, non ho buone notizie, temo. O forse sì, dipende dai punti di vista».

«Non capisco».

Tossì prima di spiegarle che non c’erano documenti che attestassero che una bambina bianca fosse morta a Mandalay nei mesi di gennaio, febbraio o marzo del 1911. «Quindi, vede, se sua sorella è arrivata fino a Mandalay, è altamente probabile che alla fine di marzo fosse ancora viva».

«Aveva tre settimane quando è stata rapita. Non potrebbero averla fatta passare per la figlia di qualcun altro?»

«Se una coppia britannica, o forse sarebbe il caso di dire europea, avesse cercato di spacciarla come figlia sua, ne avrebbe dovuto registrare la nascita. Siamo molto severi sotto questo aspetto, anche se, per quanto sia triste ammetterlo, non è così impossibile inserire una registrazione falsa conoscendo il medico giusto».

«E nessuno ha registrato una nascita in quel periodo?».

Sospirò. «Oh, eccome. Tre nascite registrate a gennaio. Tutti maschietti, purtroppo».

«E al di fuori di questa regione? A Maymyo, ad esempio?».

Lui annuì. «Qui a Mandalay siamo una piccola comunità, e quello è un centro ancora più piccolo, ma il mio assistente ha controllato anche gli archivi di Maymyo. Non ha trovato niente di utile, temo».

«Mi è stato detto che è qua da moltissimo tempo e che se fossero girate delle voci lei l’avrebbe senz’altro saputo».

«Esatto. E di tanto in tanto capita eccome di sentire tristi storie di bambini smarriti e mai più ritrovati. Negli avamposti più estremi della Birmania, succede spesso che un bambino si metta a girovagare da solo e si perda. E, naturalmente, ci sono un sacco di animali selvatici».

«Oddio, intende…».

Annuì di nuovo e si alzò in piedi. «Mi spiace di non poterle essere di maggiore aiuto».

«Ricorda il periodo in cui mia sorella è stata rapita?». Quando si alzò a sua volta, Belle trattenne il fiato in attesa di una sua risposta.

Gonfiò le guance. «Oh, sì. A prescindere da tutto il resto, era su tutti i giornali. Qua eravamo in stato di massima allerta, tutti con gli occhi ben aperti, capisce».

«E nessuno vide niente?».

Le rivolse un sorriso dolente. «Gli avvistamenti non mancarono di certo. Non ci portarono da nessuna parte. All’epoca, certe donne non avevano niente di meglio da fare. Un po’ di melodramma per ravvivare le loro esistenze, e non c’è niente di meglio di un bambino smarrito per stimolare la fantasia di una signora».

Belle gli tese la mano e lo ringraziò, ma se ne andò con la sensazione di essere arrivata al capolinea.

Quella sera, mentre si dirigevano al pwe, Harry e Belle superarono tanti piccoli fuocherelli accesi lungo il ciglio della strada, con capannelli di persone radunate attorno e ambulanti che vendevano frittelle al cocco e torte di riso fritto. Più avanti, in uno spiazzo aperto dove era stato eretto un padiglione temporaneo fatto di bambù, Harry condusse Belle in fondo alla sala, in un angolo tranquillo. Il padiglione coperto era lungo una decina di metri e largo sei, con un’orchestra sul davanti, un grande spazio libero al centro e dei bracieri accesi disposti attorno al palco. Un pubblico chiassoso – famiglie sedute in gruppo sulle coperte che avevano disteso a terra – accolse l’arrivo dei musicisti con un entusiasmo straripante.

Al segnale di un percussionista, alcuni danzatori intonarono una preghiera a Buddha.

«È uno degli spettacoli più popolari, qui in Birmania», le sussurrò Harry all’orecchio in un momento di pausa prima che i ballerini cominciassero a esibirsi, e quando le si avvicinò, Belle si accorse che puzzava di whisky.

Lo valutò attentamente. C’era qualcosa che non andava, ma non riusciva a capire cosa. Harry sembrava nervoso, se non addirittura irrequieto.

«Va tutto bene?», gli domandò alla fine.

«Perché non dovrebbe?»

«Mi sembra turbato».

Si passò un dito dentro il colletto. «È soltanto il caldo».

«Pensavo che ormai ci avesse fatto l’abitudine».

Lui non replicò.

«Allora, da quant’è che fa l’ispettore? Ha intrapreso questo viaggio per motivi di lavoro?»

«Sì. Come le ho già detto, spero di riuscire a raggiungere il Nagaland». Le rispose in modo piuttosto stizzito, come se fosse infastidito dal fatto che l’avesse dimenticato.

«Me ne parli di nuovo», disse lei.

«Be’, i Naga sono feroci cacciatori di teste. È quello che mi chiedono sempre tutti».

«E non è preoccupato?».

Scrollò il capo. «Non saranno interessati al sottoscritto. E, per rispondere alla sua domanda, faccio questo lavoro da vent’anni. Andrò solamente a ispezionare il territorio».

«E vive qui per tutto l’anno?»

«No. A Rangoon, con Angela».

«Angela?»

«Mia moglie, ovviamente».

Belle aveva dato per scontato che fosse scapolo e si meravigliò. «Non mi aveva mai detto di essere sposato».

Lui si accigliò. «Non credevo di essere tenuto a farlo».

«Voglio dire, pensavo che me ne avrebbe accennato prima. Avete dei figli?».

Fece cenno di no con la testa. «Non abbiamo avuto questa fortuna».

«Sua moglie non è infastidita dalle sue lunghe assenze?».

Le rivolse un’occhiata interrogativa. «Quante domande».

«Mi scusi».

«Be’, se proprio lo vuole sapere, la verità è che ad Angela piacerebbe tornare in Inghilterra».

«E a lei?».

Si strinse nelle spalle. «Più che altro è questione di racimolare abbastanza soldi».

A quel punto, dopo un forte rullo di tamburi, la stella dello spettacolo saltò sul palco con uno scintillante costume colorato, simile a quello di un principe di altri tempi. Danzò a lungo come un ginnasta indiavolato, eseguendo passi di una complessità straordinaria, accompagnato dai tamburi, dai gong e dagli oboi.

«Andranno avanti all’infinito», disse Harry quando l’uomo lasciò il palco sotto uno scroscio di applausi entusiastici. «Non si fermeranno fino all’alba».

«Possiamo provare a cercare il commerciante di cui mi ha parlato?», domandò Belle, ansiosa di togliersi il pensiero.

«Non vuole vedere altre esibizioni?»

«Mi scoppia la testa. È il gran chiasso».

«Nessun problema. Abita in zona».

«Non è qui?».

Harry aggrottò la fronte. «Le ho dato modo di pensare che sarebbe venuto?»

«Senta, non ha importanza. Andiamo e basta, d’accordo?»

«Ma certo».

Si trascinarono via dalla folla di persone rimaste in piedi in fondo al padiglione, poi tornarono sui loro passi, fermandosi nei pressi di un labirinto di vicoletti dove Harry si guardò attorno, storcendo la bocca da un lato e dall’altro.

«Ci siamo persi?», chiese Belle, intuendo che c’era qualcosa che non andava. Temendo un riproporsi dell’attacco di panico avuto in precedenza, esitò.

Lui scosse la testa. «È tutto così diverso al buio. Avrei giurato che fosse la strada giusta».

Mentre lui imboccava il vicolo più stretto e tetro, Belle rammentò che Harry aveva bevuto. Aveva almeno una vaga idea di dove stesse andando?

Lo seguì oltre una svolta a gomito e in un vicolo più ampio, più simile a una strada vera e propria, dove si fermò di fronte a una casa fatiscente identica a tutte le altre. «Penso sia questa».

Si annunciò in inglese e gli rispose un uomo, che disse a entrambi di entrare. La sensazione che ci fosse qualcosa che non andava si intensificò, e Belle tentennò.

Attraverso la porta aperta, riuscì a vedere un ambiente arredato in modo spartano, con delle stuoie sul pavimento e un tavolo basso, dal quale una lampada a olio lasciava nell’oscurità gli angoli della stanza. Un singolo scampolo di tessuto colorato, appeso a due ganci attaccati al muro e teso in mezzo alla stanza, divideva chiaramente gli ambienti. Non appena i suoi occhi si abituarono alla penombra, Belle riuscì a distinguere l’armamentario per la preparazione di alimenti impilati su un altro tavolino. Non sembrava la casa di un ricco commerciante di giada.

Poi vide l’uomo in questione.

L’individuo, con gli occhi scuri e due grossi baffi, indossava una semplice camicia nera e dei pantaloni dal taglio occidentale dello stesso colore, e sedeva a gambe incrociate sul pavimento.

«No», disse, improvvisamente sicura. «Io non entro. Voglio tornare in albergo, Harry. Subito».

41

Diana, Minster Lovell, 1923

Oggi è un giorno speciale perché io e Simone ci stiamo preparando per andare a fare una passeggiata sulla strada, non verso il villaggio, verso la campagna, dove staremo più tranquille. Non so cosa mi aspetterà un domani, ma sono felice dei miei progressi. Già è tanto se sono qui e mi fido del dottor Gilbert. Chiunque si fiderebbe di un uomo come lui, dico bene? E dopo tante sedute, durante le quali siamo tornati indietro negli anni, ho cominciato a ricucire insieme i pezzi della mia vita. Ora faccio qualche lavoretto in giardino. Giusto togliere un po’ di erbacce e potare qualche ramo, ma mi rende così felice che potrei mettermi a piangere dalla gioia.

Non riesco a evitare di chiudere le porte a chiave, non ancora, perché ho il timore che ciò che è fuori potrebbe strisciare dentro e io perderei la mia oasi di pace. Il dottor Gilbert preferirebbe che lavorassi in giardino lasciando aperta la porta sul retro, così mi potrei assicurare che non succeda niente, ma ho paura che qualcosa si introduca all’interno e poi riempia ogni minimo angolo della mia casa, e io non avrei la forza necessaria per evitarlo. Gli dico che ritrovarmi da sola e indifesa di fronte a tutto ciò che c’è là fuori, senza un rifugio sicuro, è il mio peggior incubo.

Ciononostante, sto migliorando. Oltre a incoraggiarmi a fare qualche piccolo passo fuori di casa, sta anche riducendo la quantità di farmaci che assumo, e credo davvero che un giorno ci sarà la reale possibilità di stare meglio. Parliamo di tutto, io e il dottore, persino della vergogna per il tradimento di Douglas in Birmania. Finora avevo trovato il coraggio di confidarmi soltanto con Simone, mi ero sempre ripetuta che non ci dovevo pensare. Ma come faccio a non pensare a una cosa che mi torna sempre in mente? Durante tanti dei nostri incontri, il dottor Gilbert mi ha spronata a parlare di come mi ero sentita. Lo sapevo, ovviamente: c’erano stati il dolore, la rabbia, l’impotenza. All’inizio ero restia all’idea di dirglielo, avevo l’impressione di confessargli una debolezza, ma alla fine, quando l’ho fatto, ho pianto tanto. E quando ho finito e mi sono asciugata gli occhi, la vergogna è sparita come per magia e mi sono resa conto di quale fosse il vero peso del fardello che stavo portando.

Come se mi si fosse accesa una lampadina, ero anche riuscita a comprendere che la vergogna avrebbe dovuto pesare sulle spalle di Douglas e non sulle mie. Quando vivevamo in Birmania, però, il fatto che un marito cercasse distrazioni era visto come una colpa della moglie che non era riuscita a renderlo felice, e se si distraeva mentre lei era incinta, be’… gli uomini erano fatti così. Nessuna donna ammetteva mai di sentirsi ferita o tradita.

Ciò che più mi interessa di questo metodo è il fatto che il dottore mi chiede sempre come mi sento. Nessuno prima d’ora mi aveva mai chiesto come mi sentissi, nemmeno quando ero bambina o dopo, quando mia madre morì a causa di una terribile influenza. In quanto figlia unica, e sebbene sia convinta che a modo loro i miei genitori mi abbiano amata, ho passato la maggior parte del tempo con la mia tata. Non è mai stata mia madre a consolarmi quando cadevo e mi sbucciavo un ginocchio, o quando stavo male ed ero confinata a letto. La vedevo soltanto in occasione delle uscite speciali, o quando mi era appena stato fatto il bagno a fine giornata e la tata mi portava giù in salotto a dare la buonanotte con la mia camicia da notte bianca e immacolata.

Il dottor Gilbert mi ha persino chiesto cos’avrei voluto dire ai miei genitori se ne avessi avuta la possibilità. Sono rimasta in silenzio, ma lo sapevo. Amatemi, avrei detto. Amatemi. Ma non gliel’ho voluto dire, non volevo mettermi in ridicolo scoppiando di nuovo a piangere. Mi ha domandato cosa mi ha fatto provare quella mancanza d’affetto, e scoprire quanto poco riesca realmente a ricordare mi ha sconvolta. Gli ho detto che mi volevano bene. La tata mi voleva bene. Il dottore mi ha suggerito di andare a trovare mio padre non appena mi sentirò in grado di farlo. Forse c’è ancora un modo per rimediare alla tristezza del passato. Dovrei fare uno sforzo. È passato troppo tempo, anche se mi scrive un paio di volte l’anno e l’ho invitato a trasferirsi nel mio cottage.

Da allora, ho cominciato a ricordare sempre più dettagli. E adesso, naturalmente, sento un senso di colpa devastante alla bocca dello stomaco al pensiero che mia figlia, Annabelle, stia sperimentando la stessa mancanza d’affetto per colpa mia. Ripenso ai suoi occhi verde giada e ai suoi capelli color rame, e mi rendo conto che mi manca davvero tantissimo. Dice che presto parleremo di Annabelle e, per quanto sia arrivata a capire che è meglio esternare tutte queste cose tristi e vergognose, sono anche spaventata. Il dottore mi ha detto che quando la affrontiamo sul serio, l’oscurità che abbiamo dentro ha il potere di farci stare davvero molto male.

Quindi, per tutti questi motivi, e anche se a volte sciogliere i nodi è stato difficile, la vita ha ricominciato a sembrarmi reale. Io stessa sto ricominciando a diventare reale e il mio cuore trabocca di coraggio.

Adesso devo andare a prepararmi per la nostra passeggiata. Simone mi ha descritto tutto il tragitto. Per prima cosa risaliremo un pochino la collina, poi gireremo a destra e scenderemo oltre la chiesa e il camposanto, superando le rovine di Minster Hall, e da lì arriveremo al fiume. Dice che la distanza da percorrere è poca e che saremo da sole, circondate dalla pace della natura, bellissima e rilassante. Il dottore dice che la natura ci guarisce, e io gli credo.

42

Belle e Harry si rividero di fronte a una tipica colazione all’inglese a base di tè, pane tostato, pancetta e uova. Le parve piuttosto mogio quando le chiese se poteva tenerle compagnia e, quando lei glielo permise, scostò una sedia e ci scivolò sopra con movimenti impacciati.

«Le chiedo scusa per ieri sera», mormorò. «Devo aver sbagliato posto».

«Cosa le è saltato in mente, Harry?», volle sapere, ma l’ispettore aveva un’aria talmente sconsolata che Belle, malgrado si fosse spaventata di fronte al cosiddetto commerciante di giada, decise di lasciar correre.

Harry si concentrò sulle proprie mani e, quando rialzò gli occhi, la guardò con un’espressione turbata. Quell’uomo era un fascio di nervi e stava peggiorando man mano che il viaggio proseguiva.

«Ho una brutta notizia».

«Oh? Niente di troppo preoccupante, spero».

«Per lei, intendo».

Inarcò le sopracciglia.

«Sono andato alla stazione per prenderle un biglietto del treno».

«È stato gentile da parte sua».

«Eravamo d’accordo così».

«Già».Trattenne il fiato per qualche secondo prima di continuare. «Non ci sono treni».

«Cosa?»

«Sono saltati dei binari lungo la linea, più a sud».

«E quando li sistemeranno?»

«Non sanno dirlo. Potrebbe volerci del tempo, credo».

«E adesso cosa faccio? Torno indietro sull’Irrawaddy?»

«Le ci vorranno due settimane».

«E a quel punto avrò perso il lavoro».

«Un mio conoscente farà tutto il possibile per scoprire quali sono le condizioni dei binari. Le consiglio di avere pazienza. Se tutto va bene, magari domani avremo maggiori notizie, anche se probabilmente dovrà attendere un pochino di più».

Belle sospirò. Non voleva avere pazienza. A Mandalay c’era un caldo spropositato e presto sarebbe cominciata la stagione dei monsoni. La prospettiva di ritrovarsi bloccata lì per chissà quanti giorni di fila non la entusiasmava per niente.

Si incamminò in direzione del bar, dove aveva intenzione di trascorrere il resto della mattinata, rilassandosi alla relativa frescura di un ventilatore e al sicuro da qualunque minaccia potesse attenderla fuori dall’albergo. Prese una rivista e osservò gli ospiti che andavano e venivano, ma era una mattina monotona e di una noia mortale, così trovò un libro nel salottino dell’hotel e andò fuori, nel piccolo giardino. Con un grazioso ventaglio di avorio alla mano, scacciò via gli insetti che volavano e ronzavano nella giornata torpida e, quando raggiunse un piccolo stagno, contemplò le ninfee bianche che galleggiavano sulla superficie e i pesci rossi che ci nuotavano sotto. Per quanto riguardava la ricerca di sua sorella, si sentiva frustrata e abbattuta. Si chiedeva spesso come sarebbe stato incontrarla adesso, sempre ammesso che fosse ancora viva. Si domandava cosa le avrebbe detto, che aspetto avrebbe avuto, come si sarebbero sentite. I capelli di Elvira sarebbero stati uguali ai suoi o più simili a quelli della madre? Sarebbe stata più alta o più bassa di lei? Anche lei avrebbe avuto gli occhi verdi? “In definitiva”, pensò con rassegnazione, “forse non lo saprò mai e, in ogni caso, Elvira potrebbe anche essere morta”.

Alla fin fine, se avesse abbandonato le ricerche, sarebbe stata libera di tornare a concentrarsi sulla sua carriera. Stava pensando al lavoro e alla possibilità di preparare un nuovo repertorio quando si sentì chiamare per nome. Si voltò di scatto e non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa.

«Oliver!».

Lui annuì e rimase dov’era, insolitamente rigido ed esitante.

«Non capisco. Che ci fai qui?»

«Sono venuto perché non mi hai richiamato. Ho lasciato due messaggi della massima urgenza a Harry Osborne».

Si sentiva confusa, travolta da una valanga di emozioni contrastanti. Sentendo la sua voce aveva provato un’esplosione di felicità, eppure non riusciva a dimenticare il modo in cui si erano lasciati. «Come facevi a sapere che ero qui?»

«Ho provato a cercarti in tutti gli alberghi finché non ho trovato quello giusto».

Socchiuse gli occhi per studiare meglio la sua espressione, sperando che le sue emozioni non fossero troppo evidenti. Oliver ricambiava l’attenzione con quei suoi occhi azzurri e sinceri, e Belle non poteva negare di sentirsi attratta da lui, persino dopo tutto quello che era successo. Forte e abbronzato, era rimasto fermo immobile. Per quanto si opponesse, sapeva che si stava lasciando intenerire. Moriva dalla voglia di passargli le dita tra i capelli ribelli e poi di attirarlo a sé per potergli accarezzare il collo… Allungò una mano, ma poi la ritrasse.

«Nessuno mi ha detto che mi avevi cercata», disse con una vocina strozzata.

«Ho lasciato un messaggio a Harry la mattina del tuo arrivo, e poi un altro. Ho telefonato alla reception e il caso ha voluto che in entrambe le occasioni fosse lì nei paraggi. Dato che sanno che siete insieme, me l’hanno passato. Gli ho sottolineato la gravità della situazione e gli ho lasciato il mio numero affinché mi richiamassi immediatamente. Mi ha assicurato che te l’avrebbe comunicato subito, così ho aspettato».

«Come hai fatto ad arrivare fin qui?»

«Sono stato fortunato a trovare un treno espresso che partiva in nottata».

«Non sapevo che ci fossero degli espressi».

Sorrise. «Bestie rare, ma esistono».

Belle si accigliò. «Ma come hai fatto? Sono saltati i binari».

«Non sulla linea diretta a nord».

«Hai visto qualcosa? Danni, intendo?».

Sorrise di nuovo. «No. Ma potrei essermi appisolato».

«Perché sei venuto qui, Oliver?».

Furono interrotti da Harry, che arrivò in giardino.

«Te lo spiego dopo», sussurrò Oliver prima di andare incontro all’ispettore. «Senta un po’, Osborne», disse, «Belle mi ha detto che non le ha riferito il messaggio che le avevo lasciato».

Harry sembrava in difficoltà. «No? Pensavo di averglielo detto».

«Sa benissimo di non averlo fatto».

Harry si rigirò il cappello tra le mani e lanciò un’occhiata a Belle. «Sono davvero desolato. Mi è proprio sfuggito di mente. Ho avuto talmente tante cose di cui occuparmi, capisce».

Oliver sembrava infastidito, ma non aprì bocca.

«Senta, perché non mi concede di rimediare?», proseguì Harry. «Conosco un eccellente ristorante cinese. Speravo di portarci Belle una volta o l’altra, ma perché non ci andiamo tutti assieme? Diciamo a mezzogiorno? Offro io».

Oliver sollevò le sopracciglia all’indirizzo di Belle, che annuì.

«Molto bene», concesse. «Ma è una dimenticanza clamorosa».

«Sì, me ne rendo conto. Scusatemi». Harry si mise il cappello in testa e abbozzò un sorrisetto nervoso. «Be’, ora devo proprio andare a fare una telefonata. Vogliate perdonarmi».

Belle non sapeva se si stesse scusando ancora una volta per non averle riferito il messaggio o perché si doveva congedare per andare a fare una telefonata.

Non appena se ne fu andato, Oliver la raggiunse. «Anch’io volevo chiederti scusa».

«Be’, sembra la mattinata adatta», replicò Belle con un sorriso, incapace di nascondere quanto le facesse piacere che fosse lì con lei.

«Sono stato un imbranato… quella volta. Davvero, non volevo che andasse così. Volevo dirti che per me sei molto più di una storia».

«E ti aspetti che io ci creda?», domandò lei, anche se in tono più garbato rispetto a prima. A dispetto di una vocina insistente nella sua testa, avrebbe tanto voluto fidarsi di lui ed era sicura che le si dovesse leggere chiaramente in faccia.

«Sono disposto ad aiutarti e a non mandare in stampa neanche una singola parola, se servirà a convincerti».

Belle fissò il terreno ai suoi piedi e ci fu un breve attimo di silenzio mentre rifletteva. Poi alzò gli occhi e, quando i loro sguardi si incrociarono, accadde qualcosa di meraviglioso, e si sentì talmente desiderata da non poterlo respingere.

«Ora come ora ho un estremo bisogno di un amico, Oliver, ma devo essere assolutamente sicura di potermi fidare di te».

Annuì con aria solenne.

«In tal caso…», continuò, quindi tirò fuori dalla borsa il secondo biglietto anonimo e glielo porse.

Lui lo lesse e la guardò negli occhi. «Stanno cercando di spaventarti. Ti fidi di Harry?»

«Certo. È stato molto disponibile. Anche se ieri sera mi ha portata in un posto stranissimo. Ha detto che è stato un errore».

Oliver gonfiò le guance, poi espirò un poco alla volta. «Chissà cosa c’è dietro».

«Parli di Harry?»

«No, mi riferisco al biglietto».

Lei scosse la testa. «Be’, sono riusciti a spaventarmi. Ho paura persino della mia ombra da quando l’ho ricevuto, se non addirittura da prima, a dire il vero. Ho avuto un attacco di panico al mercato».

«Sono stato in pensiero per te. Ci sono stati dei disordini a Rangoon, e gira voce che il fenomeno si stia diffondendo. Forse raggiungerà persino Mandalay».

«Raccontami».

«Gli studenti universitari sono in rivolta. È la seconda rivolta studentesca, e stavolta è stata scatenata dall’espulsione di Aung San e Ko Nu».

«E chi sarebbero?»

«I capi dell’Unione studentesca dell’università di Rangoon. Hanno rifiutato di rivelare il nome dell’autore di un articolo apparso sul giornale universitario. Conteneva un attacco feroce nei confronti di un alto funzionario dell’università».

«E sono stati espulsi per questo?»

«Gli atti di ritorsione dei britannici per sedare la sommossa sono stati orribili. La paura, come ti ho detto, è che possano estendersi fino a Mandalay, e presto. Ho telefonato per avvertirti, ma, visto che non richiamavi, ho preso un treno per raggiungerti. Dovevo accertarmi che tu fossi al sicuro».

«Non dovresti tornare indietro per documentare ciò che accade?».

La prese per mano e il calore della sua pelle le fece formicolare le dita.

«Già fatto, e non c’è molto da dire in questo momento. Comunque sia, volevo vederti, e adesso che sono qui non ci penso neanche a lasciarti da sola. Chiunque stia cercando di turbarti dovrà vedersela con me».

All’ora di pranzo, Belle e Oliver si incontrarono con un Harry particolarmente loquace. Strada facendo, raccontò loro del suo lavoro e degli oscuri recessi della Birmania che non aveva ancora esplorato e ispezionato. Poi si mise a parlare di Angela, di quanto fosse una persona gentile, bionda e minuta, ma comunque graziosa. Si erano conosciuti a Londra, si erano sposati e si erano trasferiti in Birmania, anche se lei non ci sarebbe mai voluta andare. Mentre continuava a recitare il suo monologo, li condusse tra le affollate viuzze secondarie di Mandalay, dando l’impressione di essere un tantino inquieto. Per quanto Belle si stesse abituando alle sue eccentricità, il nervosismo di Harry la stupì ancora una volta. La gente era uscita a occuparsi delle proprie attività o a fumare nei pressi dei chioschetti del tè o dei banchi alimentari. Belle sentì l’odore del banco del pesce essiccato ancor prima di averlo raggiunto e dovette mettercela tutta per evitare di tapparsi il naso. Poi si fermò accanto a una donna che vendeva ciotole piene di stranezze gialle, arancioni e rosse, che somigliavano in tutto e per tutto a vermi dai colori sgargianti.

«Dolciumi», spiegò Harry, notando la sua espressione confusa.

Alle sue spalle c’erano ceste di verdura e fagioli impilate l’una sull’altra. Poi un banco stracolmo di noci e radici. L’ambiente era chiassoso e la metteva un po’ a disagio, visto che loro tre erano gli unici non birmani in circolazione, ma Oliver la teneva a braccetto e di tanto in tanto le dava una piccola stretta, ricordandole che le aveva promesso che non l’avrebbe lasciata da sola.

Alla fine, raggiunsero una zona più fatiscente, ma più tranquilla.

«È sicuro che sia da queste parti?», domandò Oliver.

Harry annuì con veemenza. «Sì, sì. Certo. È un po’ fuori mano, ma mi è stato assicurato che è davvero il migliore».

«Non c’è mai stato prima d’ora?»

«No, ma sono fiducioso».

Oliver fece spallucce. «Se lo dice lei».

Proseguirono, infilandosi in un terribile dedalo di viuzze sempre più squallide che si addentravano nel quartiere cinese.

«Pensi che sia una buona idea?», sussurrò Belle a Oliver quando Harry attraversò la strada e si fermò davanti a quello che doveva essere il ristorante.

«Immagino che lo scopriremo presto». Le mise un braccio attorno alle spalle e seguirono Harry all’interno del locale.

A parte loro e un barista solitario, il ristorante era deserto.

«Perché è così vuoto se dicono che si mangia tanto bene?», chiese Belle. «Non capisco».

«Siamo arrivati presto», rispose Harry. «Penso che abbiano appena aperto».

«Ma io non riesco a sentire l’odore di alcuna pietanza, e voi?»

«Forse non hanno ancora cominciato a cucinare».

«A me andrebbe proprio una birra», disse Oliver. «Anche se non mi pare che ci siano delle bottiglie dietro al bancone del bar».

«Probabilmente le tengono al fresco sul retro, nei frigoriferi», spiegò Harry.

Oliver schioccò le dita all’indirizzo del barista, che annuì e sparì oltre una porta basculante.

«Ecco», disse Harry. «Proprio come dicevo io. Le tengono sul retro. Ora, se volete scusarmi, devo andare a cercare la toilette».

Mentre Harry era in bagno, Belle e Oliver parlarono per qualche minuto. Lui le disse che aveva sentito la sua mancanza, e lei gli raccontò dell’emozionante giro in mongolfiera sopra Bagan. Tuttavia, malgrado incrociasse spesso il suo sguardo, Belle si accorse che di tanto in tanto scrutava l’ambiente, come se stesse cercando qualcosa. Qualche altro minuto dopo, visto che Harry non era ancora tornato, Oliver si alzò di scatto, afferrò la mano di Belle e la fece alzare.

«Non mi piace», disse con voce tesa.

Lei rabbrividì e si aggrappò alla sua mano.

«Andiamo. Usciamo da qui. C’è qualcosa che non va».

La spinse davanti a sé e fecero uno scatto in direzione della porta. Una volta fuori, continuò a tenerla per mano e si misero a correre.

Con un lampo accecante di luce bianca, l’esplosione fece tremare la strada, e il calore fu talmente intenso che a Belle parve che le si fossero sciolte le ossa. Sbalzata contro il muro di una casa, non era in grado di trarsi in salvo e il cuore prese a martellarle all’impazzata all’udire altre urla terrorizzate. I frammenti e i vetri infranti scagliati in aria la costrinsero ad accucciarsi e a proteggersi la testa con le braccia. Incredula e sotto shock, provò a deglutire, ma con la bocca piena di sabbia, la gola le faceva davvero male, e il sapore acre del fumo che sentiva sulla lingua le fece venire un conato di vomito. Dapprima le ricordò il sapore del carbone, ma, quando si mescolò al sangue che aveva in bocca, diventò rancido e amaro. Cercò di chiamare Oliver, solo vagamente conscia del fatto che poteva averlo perso. Non riusciva a sentirlo in mezzo a quel frastuono assordante, né a vederlo oltre la fitta nube di cenere nera che si stava gonfiando sopra la strada. Chiuse gli occhi secchi e infiammati e si rese conto di quanto le facesse male la testa, come se l’avessero presa a pugni. Quando riaprì gli occhi, la vista le si era annebbiata. Faceva caldo. Davvero troppo, troppo caldo. Provò a urlare, ma la gola, ancora irritata dalla polvere e dal calore, emise soltanto un verso rauco. Per un istante, ebbe la sensazione di aver preso a fluttuare. Poi diventò tutto nero.

Quando riprese i sensi, Oliver era accovacciato al suo fianco, con i luminosi occhi azzurri che spiccavano sul viso sporco e coperto di polvere. “È vivo”, pensò. “È vivo”. Lui le accarezzò i capelli e le si sedette accanto. Intontiti e sconvolti per quanto appena accaduto, non aprirono bocca. Dopo qualche minuto, Oliver sembrò riaversi, si alzò e l’aiutò a rimettersi in piedi. Poi si aggrapparono l’uno all’altra, abbandonandosi alla travolgente sensazione di sollievo scatenata dall’essersi ritrovati vivi e vegeti.

«Credi di riuscire a camminare?», le domandò Oliver quando si staccarono.

Lei annuì.

«Pensavo…». Inebetita dall’esperienza traumatica, le si spezzò la voce e non riuscì a pronunciare quelle terribili parole.

«Anch’io». E Belle vide che lui aveva gli occhi inumiditi dalle lacrime.

Oliver la sostenne mentre zoppicava verso l’altro lato della strada, dove si appoggiò a un muro con il cuore che le batteva forte. Poi si voltò ad aiutare chiunque avesse bisogno di rimettersi in piedi. Chi aveva riportato solo pochi graffi si stava già rialzando da solo, mentre chi era rimasto gravemente ferito giaceva ancora a terra. Oliver assicurò a tutti che stava arrivando un’ambulanza e fece il possibile per ciascuno di loro prima di tornare da Belle.

Poi allungò le braccia verso di lei. «Lascia che ti dia un’occhiata».

Invece di stringergli le mani, Belle gli pulì uno sbaffo di polvere nera dalla guancia sinistra e poi chiuse gli occhi.

«Belle?».

Lei annuì. Stordita e frastornata com’era, trovava però impossibile esprimere la bufera che stava imperversando dentro di lei. Avrebbe tanto voluto mettersi a piangere, ma aveva gli occhi secchi e le lacrime le erano, chissà come, rimaste bloccate in gola.

«Tu stai bene?», chiese quando riaprì finalmente gli occhi.

«Io sì. E adesso fatti dare un’occhiata».

Era sporca di polvere e pietrisco a seguito dell’esplosione, e all’inizio gli fu difficile capirci qualcosa, ma dopo qualche istante concluse che aveva riportato solo dei tagli e un paio di graffi, ma nessuna ferita grave.

Suggerì di far chiamare un dottore dall’albergo piuttosto che scarpinare fino all’ospedale, dove il personale medico sarebbe stato oberato di lavoro e lei avrebbe ricevuto cure mediocri. Quando tornarono indietro ripercorrendo le solite stradine tortuose, a Belle tremavano ancora le gambe, ma si appoggiò a lui, che la cinse con un braccio e l’aiutò a procedere a piccoli passi, strascicati e incerti. Alla fine, trovarono un risciò solitario.

Mentre Oliver la sosteneva e l’aiutava a varcare la porta per entrare nell’atrio dell’hotel, incrociarono Harry che correva giù dalle scale, con la valigia in mano. Non appena li vide, sbiancò di colpo e cercò di superarli con uno spintone, mormorando qualcosa a proposito di un impegno per il quale era richiesto altrove.

Oliver lo afferrò per un braccio. «Non penso proprio», disse e, dopo aver lanciato un’occhiata a Belle per assicurarsi che stesse bene, la lasciò andare e quasi trascinò l’ometto in un angolo in fondo alla sala d’aspetto dell’albergo. Belle li seguì.

«Che fine avevi fatto?», volle sapere Oliver, assumendo un’aria minacciosa.

Harry lo fissò con gli occhi sbarrati e tentò di rispondere, ma gli uscì di bocca solo un balbettio incomprensibile.

«Io… io… io sono uscito da dietro».

«Vediamo se ho capito bene. Sei uscito da dietro. Perché?»

«Per… per… andare in bagno».

«Ma non sei tornato dentro?».

Harry si osservò i piedi, poi alzò lo sguardo su Belle, il senso di colpa stampato in faccia.

«Ascoltami bene, verme schifoso», ringhiò Oliver, «ci hai quasi fatti ammazzare. Ora mi spieghi per filo e per segno cosa sta succedendo».

L’ispettore, che continuava a spingere indietro gli occhiali che gli calavano sul naso, sembrava terrorizzato.

Oliver gli stava stringendo il braccio e iniziò a scrollarglielo con forza. «La verità, Harry».

Lui continuava a tacere.

«Vuoi davvero che ti spezzi un braccio?».

Harry scosse la testa. «Ti prego, non farmi del male», disse con un singhiozzo. «Io non lo sapevo».

«Non sapevi cosa?», domandò Belle, lasciandosi cadere di peso su una sedia.

«Mi hanno detto che non avevo altra scelta».

«Altrimenti?».

Gli si era rivolta con freddezza e Harry impallidì. Quando, a capo chino, indirizzò le sue parole al pavimento, la sua voce non era altro che un sussurro.

«Se non avessi fatto come dicevano loro, avrebbero fatto del male a mia moglie».

Belle si passò una mano tra i capelli impolverati e si massaggiò la cute. Stava dicendo la verità? C’era Harry dietro al biglietto che aveva ricevuto? Poi notò un taglio sanguinante sul proprio braccio e, sotto gli occhi di Oliver, se lo tamponò con la camicia. Quando ebbe finito, studiò il viso di Harry; vide che era in condizioni pietose. E, per quanto fosse arrabbiata e altrettanto scossa, non poté fare a meno di provare un briciolo di compassione per quell’uomo tremante e con i nervi a pezzi.

«E cosa volevano che facessi?», chiese Oliver.

Harry alzò gli occhi e per la prima volta incrociò lo sguardo inferocito del giornalista. «Giuro che non sapevo che sarebbero arrivati a tanto».

«E a cosa pensavi che sarebbero arrivati, allora?»

«Pensavo che volessero limitarsi a spaventarla».

Oliver sbuffò. «Be’, questo sì che è ammirevole. Perché per te è normale spaventare una giovane donna che non ha fatto niente di male, giusto?».

Harry si morse un labbro e rivolse uno sguardo implorante a Belle. «Mi hanno detto che avrebbero fatto del male ad Angela. E lei è già molto tesa, capite».

Oliver allentò la presa e lo spintonò bruscamente per farlo sedere su una sedia.

«Penso sia il caso che tu ci racconti tutto».

Harry non aprì bocca.

«Harry», disse Belle, sporgendosi verso di lui. «Devi parlare. Ce lo devi».

«Mi dispiace», replicò, guardandola di sfuggita.

«Allora?».

Ancora una volta, Harry non rispose.

«Ora stammi bene a sentire, piccola carogna», intervenne Oliver, ma poi si trattenne e fece avanti e indietro per un istante o due, sforzandosi di tenere a bada la collera. Belle era sicura che fremesse dalla voglia di assestare un pugno all’altro uomo e gli fece cenno di mantenere la calma.

«Chi è stato, Harry? Chi ti ha costretto a comportarti in questo modo?», chiese lei.

L’ispettore assunse un’espressione abbattuta e gli si appannarono gli occhiali. «Trattienila, mi hanno detto».

Oliver si voltò verso di lui. «Chi?»

«Giuro che non lo sapevo che ci sarebbe stata una bomba. Mi avevano detto di contattare un numero e dire che Belle stava andando al ristorante. Il barista mi ha detto che doveva parlarmi di una cosa e siamo andati sul retro, in un magazzino, dove mi ha comunicato che ce ne dovevamo andare. Poi ho sentito l’esplosione e ho capito».

«D’accordo, Harry», replicò Oliver con freddezza. «Allora immagino che faremo così…».

43

Diana, Minster Lovell, 1923

Il dottor Gilbert mi osserva con aria benevola dal divano su cui è seduto, appoggiato a uno dei miei cuscini di piume. «Mi pare di aver capito che ha vissuto a Mandalay prima di trasferirsi a Rangoon, dico bene?».