«E non approvavi?»
«Non stava a me approvare o meno, di sicuro ho cercato di convincerla a lasciarlo».
«Ma lei non l’ha fatto».
«Credo che ci abbia provato un paio di volte».
«Credeva che Elliot mi avrebbe lasciata?».
La guardò con aria interrogativa.
«È quello che pensi?».
Inghiottì il nodo che sentiva in gola. «Ho trovato una dannata lettera che lui le ha scritto, che però non ha mai spedito chissà per quale ragione. E da quel che ho letto mi è sembrato di capire che lei avesse provato a lasciarlo».
«Forse era un modo per cercare di forzargli la mano».
«Credi?»
«Non lo so. Quel che so è che tu sei molto più forte di Zinnia. E se posso permettermi anche più forte di quanto non fosse Elliot stesso».
«Davvero?»
«E siccome Zinnia era più debole di lui, forse la cosa lo faceva sentire più uomo».
«Detta così è dura. Pensi che io lo facessi sentire meno uomo?». Louisa sospirò.
«Non intendevo questo. Però non puoi negare che ci siano alcuni uomini che hanno bisogno di circondarsi di persone più deboli».
Continuarono a camminare, poi a pochi metri dalla casa di Zinnia, Louisa si fermò. A parte il canto dei grilli il silenzio di quel luogo era irreale. Si sentì di colpo indifesa, era tentata di tornare sui suoi passi verso un luogo in cui sentirsi più al sicuro… qualsiasi esso fosse. Alzò lo sguardo verso il cielo limpido che si intravedeva tra le cime degli alberi, era confusa, indietreggiò.
«Te la senti?», le chiese Leo intuendo che qualcosa non andava. «Non devi farlo per forza».
Era tentata di rispondere: “No, non voglio”, ma si fece forza. «Non devo farlo, eppure in un certo senso sì».
La paura le aveva annodato lo stomaco. La sola idea di Elliot insieme a Zinnia era insopportabile, ma se voleva superare la cosa non le restava che affrontarla una volta per tutte, e quella era una buona occasione. Altrimenti la vita segreta di Elliot sarebbe rimasta tale, con tutti i dubbi che avrebbero continuato a tormentarla per anni. “Non voglio sapere”, pensava, “non voglio vedere”. Eppure…
Leo le fece strada tra le lussureggianti e profumatissime piante in vaso, e dopo aver bussato alla porta entrarono. Louisa si guardò attorno.
«Che disordine», disse.
C’erano diversi indumenti sullo schienale di una sedia, altri per terra, e tutto sembrava coperto da uno strato di polvere.
«Non puoi chiedere a qualcuno di venire a pulire?»
«La polvere si deposita facilmente qui. Ci vengo una o due volte a settimana, e Kamu fa quel che può, ma spesso Zinnia si chiude dentro a chiave e non possiamo entrare. Allora, sei pronta?».
Aprì un’altra porta e fece capolino. Louisa sentì Leo annunciare a Zinnia che una persona voleva vederla, e lei rispose: «Niente dottori».
«Non è un dottore».
Fece cenno a Louisa di seguirlo all’interno. L’aria stantia le tolse il fiato. In quella stanza faceva caldissimo e c’erano pesanti tende che bloccavano la luce del sole. Si sentiva un forte odore di vino rancido che le diede il voltastomaco, poi vide Zinnia. Quando lei le restituì lo sguardo, avrebbe voluto correre a nascondersi in un angolo dove gli occhi neri di quella donna, così simili a quelli di Leo, non potessero vederla. Erano infossati, con profonde ombre violacee attorno. Louisa iniziò pian piano a guardarsi attorno, bersagliata da immagini di Elliot: Elliot nudo, a letto, accanto a questa donna, oppure in piedi accanto alla finestra che fumava una sigaretta buttando il fumo in alto con la testa all’indietro. Si sentì piegata.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?», le chiese la donna.
Louisa notò che era terribilmente pallida, decisamente troppo magra, con i capelli rossi che le incorniciavano, informi, il viso. Che cosa aveva visto Elliot in quella donna di tanto speciale da convincerlo a tradirla?
«Sono Louisa Reeve», riuscì a dire con voce strozzata, paralizzata dalla rabbia. Avrebbe voluto farle del male, quella era la donna che le aveva rubato il marito.
«So chi sei. Che cosa ci fai qui?», rispose Zinnia con un brivido.
«Leo è preoccupato per te», rispose Louisa con voce ancora aspra e affrettandosi a sedersi prima di cadere a terra.
«Sto bene», disse Zinnia.
Mentre Leo parlava con Zinnia, Louisa sentì il suo cuore battere sempre più forte e le mani iniziare a sudare. Cercò di scuotersi di dosso la rabbia, nella penombra di quella stanza. Strinse i pugni conficcandosi le unghie nel palmo delle mani, ripensò al giorno in cui aveva saputo di Zinnia e Conor, il giorno in cui il suo mondo si era incrinato ed era cambiato per sempre. Lei stessa era diventata un’altra persona. C’era stato un prima e un dopo, e niente in mezzo. Rimase lì seduta, le pareva di sentire la voce di Elliot. Immaginava di alzarsi e gridare, avventandosi contro il suo viso, i suoi capelli. Bastardo. Non sei che un bastardo. Ma non c’era trionfo in quella rabbia, e le parole suonavano vuote. Elliot non era lì. Si passò una mano tra i capelli e ascoltò il canto di un uccello fuori dalla finestra.
Leo si voltò a guardarla. «Tutto bene, Louisa?».
Raccolse il coraggio e si rivolse a Zinnia. «Ho bisogno di sapere se volevi davvero interrompere la tua relazione con Elliot».
Zinnia si massaggiò una tempia. «L’ho fatto».
«E lui non ti ha creduto?»
«Gli ho detto che era finita. Ha cercato di convincermi del contrario. Ma era sbagliato. È stato tutto sbagliato. Dio mio! La testa mi scoppia».
«Non hai preso niente?»
«Certo che sì». Zinnia chiuse gli occhi e Louisa ne approfittò per uscire dalla stanza.
In salotto iniziò a raccogliere i vestiti e, sebbene provasse una strana compassione per Zinnia, si sentì di nuovo assalire dalla rabbia. Dopo qualche minuto chiamò Leo. «Questi devono essere lavati», disse porgendogli alcune cose. «Pensi che possa occuparsene il tuo dhobi?»
«Non ho un dhobi, in genere è Kamu che lava le mie cose, insieme a quelle di Zinnia quando lei lo permette».
«Perché non insisti?»
«Credimi, lo faccio».
«Manderò un dhobi a prendere queste cose, e gliele riporterà pulite. Puoi chiedere al tuo inserviente di portare qui qualche straccio e un po’ di sapone?»
«Louisa, non è il caso che te ne occupi tu, davvero. Ci penserò io».
«Hai ragione, non è il caso. Ma non posso andarmene sapendo che è in queste condizioni. Non discutiamone più, lascia che vi dia una mano. Non si sta occupando di sé, e tantomeno di Conor. Bisogna che qualcuno si prenda cura di lei. Che cosa ha detto il medico quando l’ha visitata l’ultima volta?»
«Pleurite, forse».
«Peggiorata da una massiccia dose di tristezza».
La guardò intensamente. «Voglio che tu sappia che ti ammiro moltissimo per questo. Ora però devo andare, i miei lavoratori mi aspettano. Stasera avrò più tempo a disposizione e verrò a dare una sistemata».
«Va’ pure, ma chiedi al ragazzo di raggiungermi. Non voglio restare qui da sola. Ripetimi come si chiama».
«Kamu, è di etnia tamil, è venuto via con me da una piantagione in India in cui lavoravamo insieme».
«Bene. Va’ pure, qui ci penso io».
Kamu arrivò portando tutto il necessario e si misero a lavoro. Chiusero i vestiti in un sacco, lui pulì la cucina e lei spazzò e spolverò il soggiorno. Poi si dedicò alla camera di Conor. Lavarono le finestre e il pavimento, lasciando aperta la porta d’ingresso per far asciugare tutto. Alla fine Louisa andò a sedersi fuori su un tronco con il cuore al galoppo, sforzandosi di fare lunghi respiri profondi, mentre Kamu si accovacciò a fumare una sigaretta.
Ripensò a Zinnia ed Elliot insieme. Era così tanto più bella di lei? O era stato il suo talento a sedurlo? Provò a immaginare come doveva essere Zinnia un tempo, ma subito le venne in mente un’immagine di Elliot che la stravolse di nuovo, il ricordo di come il suo sorriso era capace di illuminare una stanza.
Doveva essere stato quello a conquistare Zinnia, e quel suo modo di guardarti negli occhi e farti sentire l’unica donna del mondo.
Ma cosa, di lei, aveva portato Elliot a mentirle per tutti quegli anni? Certo, era un uomo molto viziato, Irene l’aveva cresciuto con la convinzione che tutto gli fosse dovuto. Era per questo, forse? Credeva di poter prendere qualsiasi cosa gli piacesse? Aveva sempre usato il suo fascino per ottenere quel che voleva, e sapeva bene che questo atteggiamento poteva rivelarsi pericoloso. Ma che l’avesse ingannata così a lungo, senza un minimo di senso di colpa, la lasciava comunque sconvolta. Cosa provava? Amarezza, ecco cosa.
Zinnia doveva essere visitata da un dottore. Louisa pensò di chiedere al suo medico di fiducia, il dottor Russell, di venire il prima possibile. Non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succedere se Zinnia non avesse ricevuto le cure opportune.
Erano pronti a rientrare quando vide tornare Leo.
«Avete finito?»
«Ci mancano la sua stanza e il bagno. La camera di Conor è a posto».
«La faccio spostare in soggiorno allora, così passiamo alla sua stanza».
«Conor dov’è?»
«A casa mia, sta facendo merenda. Forse per oggi basta così, Zinnia si stanca molto facilmente. Mandiamo Kamu a riprendere Conor e noi due andiamo in spiaggia. Non sono sicuro che Kamu sia contento di occuparsi di questa casa, ma come ti ho detto posso occuparmene io stasera».
«Potrei tornare con qualcuno dei miei domestici domani per pulire la stanza di Zinnia. E comunque… non ho portato il costume».
«Di quello non preoccuparti. Aspettami qui, vado a prendere degli asciugamani. Non ci metto molto».
Mentre lui e Kamu risalivano la collina Louisa guardò le nuvole scure che si muovevano nel cielo. Di sicuro nel pomeriggio avrebbe ricominciato a piovere. Si alzò ed entrò in casa. Finalmente c’era un buon odore, lasciò aperta una finestra per mantenere l’aria fresca. Sentì la voce di Zinnia. «Leo, sei tu?».
Louisa aprì la porta della sua camera e vide Zinnia rientrare da quello che doveva essere il bagno. C’era un odore terribile.
«Da quanto tempo soffri di vomito e diarrea?», le chiese.
Zinnia non la guardò mentre si rimetteva a letto. «Cosa sei, un’infermiera adesso?»
«Devi farti visitare».
«Vanno e vengono. Ci sono giorni in cui sto bene».
«Non mi sembra pleurite. Se vuoi posso chiedere al mio dottore di venire a darti un’occhiata, ma qualcuno deve dare una pulita qui». Non riusciva a capire perché le interessava tanto, quando l’unica cosa che desiderava era dimenticarsi che quella donna esistesse.
Zinnia sbuffò. «E a te che te ne importa?»
«Elliot ti amava. Io amavo lui. Non posso lasciarti in difficoltà».
«Molto bene». Zinnia annuì e si lasciò andare sul cuscino.
Louisa uscì e vide tornare Leo con un fagotto sotto il braccio.
«Pronta?», disse guardandola.
Si sentì di colpo profondamente triste. Che brutta sensazione.
«Pronta?», ripeté.
Cercò di scrollarsi di dosso lo shock di aver finalmente conosciuto Zinnia, con la sua malattia, la sua disperazione, e l’aggravante di essere ormai incapace di prendersi cura di sé.
«Dài, ti sentirai molto meglio dopo una nuotata». Si avviarono alla spiaggia. «Non pensare troppo a lei. Stiamo facendo il possibile».
«Spero davvero che accetti di vedere il mio dottore».
La spiaggia era tutta per loro. Louisa voleva tirarsi su il morale con un pensiero felice, e le venne subito in mente il ballo.
«Ce l’hai un abito da sera elegante?», chiese in tono leggero.
«Che strana domanda».
«Allora?»
«Dovrei dargli una sistemata, ma sì, ne ho uno. Perché me lo chiedi?»
«Mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi al ballo d’estate di Galle. Dovresti agghindarti un po’».
Rise. «Ci hanno già provato in tante, e in tante hanno fallito».
«Ti andrebbe?».
Fece una smorfia. «Un’altra domanda difficile. Fammici pensare…».
Rise e lo colpì su un fianco. «Basterà un semplice sì».
«Signora, ne sarei onorato».
«Sai ballare?»
«Si dà il caso che abbia anche un passo molto elegante».
Sorrise. «In questo caso… non vedo l’ora».
La spiaggia era soffice, con le onde che si rovesciavano schiumose sulla riva. Leo si tolse i vestiti, restò in calzoncini da bagno e corse in acqua. Lei si tirò su i pantaloni e iniziò a camminare a piedi nudi nell’acqua bassa, ma dopo quella giornata il desiderio di raggiungerlo era irresistibile.
Il mare grigio metallo era molto mosso, e Leo non si era allontanato troppo. Vide che stava tornando indietro. «Perché non ti spogli sotto un asciugamano? Posso chiudere gli occhi mentre entri in acqua».
Lo guardò, prendendo in seria considerazione il consiglio, poi tornò in spiaggia e prese uno degli asciugamani. Diede un calcio alla sabbia, un po’ imbarazzata, ma moriva dalla voglia di farsi un bagno. Lui si girò, lei si avvolse l’asciugamano attorno al corpo e si tolse i pantaloni e la camicia. Si chiese se tenere comunque la biancheria, ma alla fine decise di togliere anche gli slip e il reggiseno. Al diavolo. Non nuotava nuda dai primi tempi del suo matrimonio con Elliot. Certo, ora era diverso, aveva trentadue anni e portava addosso le ferite della vita. Sentì il cuore in gola mentre si affrettava verso riva, poi si liberò dell’asciugamano ed entrò in acqua. Il mare era mosso ma non freddo, anzi di colpo le sembrò caldissimo, proprio come accade prima di una tempesta. Non le importava. Nuotando le parve di liberarsi di una pelle, e il suo umore tornò leggero. Leo si allontanò e poi si voltò a guardarla. Lei lo ignorò e si mise sulla schiena a guardare il cielo. Quando si voltò verso di lui vide che la stava ancora guardando.
Gli fece cenno di raggiungerla non appena riuscì a rimettere i piedi a terra.
«Meglio non allontanarsi troppo», le disse avvicinandosi.
Louisa non disse niente, si sentì avvampare. Guardò la spiaggia, dove gli alberi si stavano piegando sotto le violente raffiche di vento che si erano alzate.
Leo le mise una mano su una spalla, guardandola. Fu una sensazione intensa quella che le invase il corpo, una sensazione in grado di svuotarle la testa da ogni pensiero per riempirla di emozioni. Era così eccitante essere in acqua, completamente nuda e vicina a lui. Il momento passò, e Louisa alzò gli occhi al cielo che si stava scurendo sempre di più.
«A volte mi sento osservata», gli disse.
«Da Elliot?»
«Sì».
«È solo nella tua testa, passerà».
Le sfiorò la guancia e si avvicinò. «Vuoi che mi fermi?», le chiese a bassa voce.
Lei scosse la testa, annusando la sua pelle salmastra, e lui la baciò.
Il desiderio le si fermò in gola. Premette il corpo contro il suo cercando di trattenere le lacrime. Non erano lacrime di tristezza, ma di sollievo, di speranza, o qualcosa di ugualmente difficile da spiegare. Qualcosa di importante. In quella bolla di pace le sembrò che il suo cuore potesse guarire. Lui l’abbracciò e restarono così, sferzati dal vento, in acqua, come se fossero le uniche due persone al mondo.
L’oceano si fece ancora più impetuoso, l’acqua si agitava attorno a loro sotto un cielo di burrasca. E alla fine iniziò a piovere con una tale violenza che non restò loro altra scelta se non quella di iniziare a correre.
Guidando verso casa Louisa pensò che quella pioggia fosse stata provvidenziale. Chissà fin dove si sarebbero spinti, altrimenti. Anche se lo desiderava moltissimo sapeva che era decisamente troppo presto per andare con un altro uomo. Eppure non poteva fare a meno di pensare di meritarsi un po’ di felicità.
L’aria si era appesantita, era opprimente. I rami degli alberi lungo la strada erano bassi, gravati dall’acqua, tanto che alcuni sfioravano il tettuccio della macchina. Quasi avrebbe voluto che smettesse di piovere, ma ce n’era davvero troppo bisogno.
Rientrò a casa dalla porta sul retro. Una volta di sopra si asciugò i capelli tamponandoli con la spugna, indossò un vestito pulito e si lasciò andare al ricordo di Leo che la teneva stretta. Che meraviglia, quanto le era mancato il contatto con un uomo, quell’intimità che fa scomparire ogni preoccupazione, almeno per un po’. E almeno Elliot non era più padrone di ogni suo respiro, anche se le preoccupazioni di certo non le mancavano. De Vos e il suo falso contratto, per cominciare, e quel tremendo australiano. Le sarebbe piaciuto che Leo non fosse lassù a Cinnamon Hills ma a Galle, perché ci avrebbe scommesso, era una persona che avrebbe potuto farla tornare a vivere.
Era un po’ scossa, ma anche felice, e scese giù in soggiorno dove trovò Margo e William Tyler seduti uno accanto all’altra con le mani intrecciate, le luci basse e la camera piena di ombre. Accese una luce un po’ più forte e la camera si illuminò.
«Allora», disse sorridendo. «A quanto pare avete raggiunto un accordo».
Margo le restituì il sorriso. «Ho accettato di essere citata come co-responsabile».
«Davvero? Ne sei sicura?».
Margo lasciò la mano di William e si alzò dal divano per raggiungerla.
«Lo amo, che scelta ho?».
Louisa guardò la cognata negli occhi. «Sei stata tu a dirmi che abbiamo sempre una scelta. Ma se questo è quello che vuoi, hai il mio pieno sostegno».
«Grazie, significa molto per me. Pensi che William possa fermarsi qui qualche giorno?», disse mettendole una mano sul braccio.
«Certo. Ma non dovete fornire alla corte una qualche prova per il divorzio?»
«Forse no, se ammettiamo entrambi che cosa è successo. O magari per sicurezza potresti scattarci qualche fotografia».
«Oh santo cielo, dici davvero?»
«Se non ti dispiace».
Anche William si alzò per raggiungerle. «Se la cosa ti mette a disagio possiamo trovare un’alternativa».
«No», rispose apprezzando la franchezza di quell’uomo e il suo sguardo diretto e limpido. «Lo farò. Ma, cosa direte a Irene?»
«Non le dirò niente, per il momento. Farebbe di tutto per fermarmi, per lei il divorzio non è che uno scandalo».
Louisa sbuffò. «E cosa credi che provi al pensiero di avere un nipote illegittimo?»
«Penso che si senta confusa. Una parte di lei vorrebbe conoscerlo, e un’altra parte vorrebbe che non fosse vero niente».
«Finalmente abbiamo qualcosa in comune! Ma forse dovremmo spiegare a William come stanno le cose, altrimenti ci prende per matte».
«Non ti dispiace se gli racconto tutto?».
«No. Ma accompagnalo prima alla sua stanza in modo che possa disfare i bagagli».
Nel frattempo Louisa ripensò a quella giornata. Doveva ancora elaborare il suo incontro con Zinnia, e il fatto di essersi tanto avvicinata a Leo. Si ricordò della promessa di parlare con il suo medico e guardò fuori: la pioggia era diminuita, prese un grande ombrello e si avviò verso casa del dottor Russell. In strada c’erano anche molte persone, e salutò diversi conoscenti. Venne ad aprirle la moglie del dottore, che la invitò a entrare e le disse che suo marito era a Colombo ma che sarebbe tornato presto. «Potrebbe cortesemente dirgli di venire da me appena rientra?», le chiese. «Si tratta di una questione urgente».
«Certo».
Aprì la porta e Louisa vide che stava ricominciando a piovere forte. «Sarà meglio che mi sbrighi», disse. «Grazie».
Quella sera Jonathan le raggiunse per cena e gli presentarono William. Poi Louisa lo prese da parte e gli spiegò la situazione.
Il padre era un po’ stupito. «Mi meraviglio. Forse Margo è più simile al fratello di quanto credessimo».
«Non essere ingiusto».
«Io sono un uomo di ampie vedute, mi chiedo solo se sia opportuno che dormano sotto lo stesso tetto. Che intenzioni ha questo signore?»
«Non essere così all’antica. Sta aspettando il divorzio, e comunque li ho sistemati in camere separate, per ora».
Si strinse nelle spalle. «Irene lo sa?».
Scosse la testa.
«Si scatenerà il putiferio».
Louisa sorrise. Aveva proprio ragione.
Dopo cena gli chiese di seguirla nello studio di Elliot.
Mentre attraversavano l’ingresso sospirò. «Ho ricevuto un messaggio da parte dell’ispettore Roberts, in cui ci avvisava che sarebbe passato qui da noi stasera. Come sai, il contratto di De Vos è un falso. E qualche settimana fa l’ho passato alla polizia».
Suo padre annuì. «Potrebbe essere un caso di estorsione, non sono sicuro che sappiano come trattarlo qui».
«Siamo proprio una cittadina un po’ addormentata, eh?», commentò Louisa. «Sappiamo gestire solo le piccole risse da bar».
«Esatto. Comunque penso che dovrei parlarci io».
«Con De Vos? Non so, magari è meglio aspettare che sia lui a farsi vivo. Non ho alcuna intenzione di pagare una somma del genere per qualcosa che non esisteva neppure».
Si accomodarono e lui le chiese qualche aggiornamento sull’emporio. Gli disse che Himal stava andando avanti e lo ragguagliò sull’accordo che aveva preso con Leo per l’esportazione di cannella.
«Sicura che non sia troppo per te? Non ti nascondo che sono preoccupato», le disse guardandola attentamente. «Mi sembra di capire che questo Leo ti piaccia».
Louisa sorrise.
«Penso di sì».
Le accarezzò una mano. «Bene, sta’ attenta però. Non voglio che tu soffra. Ricorda che sei ancora vulnerabile».
«Lo so».
Udirono un colpo alla porta, poi arrivò Ashan. «Mi spiace interrompervi, c’è l’ispettore Roberts, signora».
«Fallo pure accomodare».
Era stato proprio lui a informarla della morte di Elliot. Louisa gli fece un cenno. «Prego, si sieda».
Si appollaiò sul bordo di una sedia e li guardò entrambi.
«Allora», chiese Jonathan, «ci sono stati sviluppi?».
Fece una smorfia, come a dire di no.
«E che mi dice del contratto falso che le ho portato?»
«Il signor De Vos è passibile di denuncia per tentata estorsione. E questo mi fa pensare che possa essere coinvolto anche con il tentativo di furto. Forse pensava di trovare dei preziosi».
«Sono almeno due mesi che non ho notizie di Cooper né di De Vos».
«Magari hanno rinunciato».
«Lei crede?»
«Io lo spero, signora Reeve…».
Jonathan si alzò in piedi. «Bene, se non c’è altro… lasci che l’accompagni. Posso chiederle comunque di sorvegliare la casa di mia figlia con un occhio di riguardo? Vorrei evitare altri inconvenienti».
Louisa si alzò presto con l’idea di portare i cani alla spiaggia. Sembrava che dovesse piovere da un momento all’altro, quindi prese un impermeabile. Quando non doveva guidare, la pioggia le piaceva, in particolare l’odore intenso di terra. Certo, molte cose non si potevano fare e questo le piaceva meno, perché non amava stare tutto il giorno chiusa dentro casa.
Chiamò i cani, ma solo Tommy e Bouncer arrivarono di corsa scodinzolando. Adoravano uscire, con qualsiasi tempo. Il piccolo Zip, stranamente, non c’era. Andò a guardare le loro cucce sul retro e, non trovandolo neanche lì, chiese ad Ashan se l’aveva visto. Lui le rispose preoccupato che credeva fossero insieme, dato che poco prima aveva aperto la porta del giardino ed erano usciti tutti e tre. Non aveva fatto caso che ne mancasse uno quando erano rientrati.
«Che strano», commentò. «Dove può essere?».
Uscì a controllare il cancello posteriore e lo trovò chiuso, ma non con il lucchetto.
Rientrò e mise il guinzaglio agli altri due cani. William e Margo si offrirono di aiutarla e uscirono tutti quanti in direzione del Forte, mentre un ragazzo della servitù aveva il compito di cercarlo in strada. Magari Tommy e Bouncer avrebbero iniziato a guaire sentendo l’odore di Zip. Le strade erano tutte bagnate, tanto che nei vicoli più stretti bisognava evitare di passare sotto i rami più grandi e sgocciolanti. Louisa andò a bussare di casa in casa per un’ora, ma nessuno aveva visto il cane. Chiese anche ai negozi e al mercato coperto. Ancora nulla.
Tornò a casa giusto in tempo per accogliere il dottor Russell, più curvo e grigio di quanto ricordasse. Si sistemò gli occhiali di metallo sul naso e le disse: «Louisa cara, mia moglie mi ha detto che si trattava di un’urgenza. Qualcosa non va?»
«Grazie per essere venuto, non si tratta di me», rispose lanciando un’occhiata alle nuvole. «Meglio entrare, le spiegherò tutto».
«Ha l’aria di essere scossa», le disse all’ingresso.
«Ho appena scoperto che uno dei miei cani è scomparso».
«Mi spiace. A parte questo, sta bene?»
«Sì, mi dia il soprabito che lo appendo qui».
Anche lei si tolse l’impermeabile e appese entrambi al primo gancio libero.
Entrarono in salotto, lui si sedette e lei iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza.
«Allora, di cosa si tratta?»
«Bene, dunque, un’amica – più che altro diciamo una conoscente – sta molto male. Finora non ha voluto essere visitata da nessuno, ma io temo che si tratti di malaria».
«Posso farle qualche domanda?».
Annuì.
«Mi dica innanzitutto cosa ha visto».
«Tremava e aveva freddo, anche se era un giorno molto afoso».
«I brividi possono essere sintomo di molte cose. Pensa che avesse la febbre?».
Louisa scosse la testa. «Non lo so. Ma stava sudando e si massaggiava la testa».
«Il mal di testa è comune, in caso di malaria. E cosa mi dice di vomito e diarrea?»
«Entrambe le cose, credo».
«Non mi sembra nulla di buono. Da quanto va avanti?», chiese dopo averci riflettuto un istante.
«Mesi. A volte sembra riprendersi ma poi si riammala».
«Può succedere, con la malaria».
«Potrebbe visitarla? Vive abbastanza lontano».
«Domani va bene? Oggi sono molto stretto».
«Certamente».
«Come saprà, c’è stata effettivamente un’epidemia di malaria, sebbene limitata alle regioni più settentrionali del Paese».
«È convinta di avere una pleurite».
«Ne dubito».
«Un’ultima cosa, è molto depressa».
«Andremo domani insieme, le preleverò un campione di sangue da mandare in laboratorio a Colombo».
Ashan portò il tè.
«Lascia pure, lo verso io», disse sedendosi.
Più tardi Louisa andò in spiaggia a cercare Zip con William e Margo. Aveva smesso di piovere, ma sapeva bene che quella strana quiete non sarebbe durata a lungo e continuava a guardare verso il cielo, dove altre nuvole andavano addensandosi. La coppia camminava un po’ più avanti rispetto a lei. Margo lanciò improvvisamente un grido guardando a terra, tra l’erba e la sabbia. Temendo che fosse Zip Louisa sentì un tuffo al cuore e corse a vedere. Nell’erba giaceva un animale. Le lacrime le offuscarono la vista.
«È una volpe», disse Margo. «Poverina».
«Cosa pensate che sia successo?», chiese Louisa sollevando finalmente lo sguardo.
«A giudicare dalla schiuma alla bocca potrebbe essere rabbia, o più probabilmente veleno», disse William. «Non la toccherei, comunque. Solitamente sono cose intenzionali, le volpi sono una minaccia per i polli».
«Che brutta fine, per un animale così bello».
«Davvero orrenda», concordò Louisa.
«Dài», fece Margo porgendole una mano. «Non possiamo farci niente. Torniamo indietro, Zip non è qui».
Una volta a casa, Louisa sentì il bisogno di stare per conto suo. Andò di sopra a distrarsi con un po’ di cucito. Il pensiero di Zip l’angosciava molto. Si ricordò quant’era piccolo appena nato, tanto che temeva non sarebbe sopravvissuto. L’aveva nutrito lei con un biberon e da allora erano sempre stati inseparabili. Vedere quella volpe morta sulla spiaggia le aveva riportato alla mente anche altri ricordi, di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Pensò all’incidente, alla strada verso Colombo, e si chiese come fossero andate le cose. Elliot aveva avuto il tempo di capire che sarebbe morto? Di provare paura? O rimorso per quel che aveva fatto? C’era stato il tempo per il senso di colpa o era stato troppo veloce? Immaginò il momento dello schianto, Elliot con gli occhi spalancati, e per reazione chiuse forte i suoi.
Il tempo sembrava non passare mai, e decise di uscire nuovamente a cercare Zip verso i bastioni. Il mare stava cambiando colore, i blu e i viola si mescolavano al grigio. Si ricordò di come gli piaceva correre sulla spiaggia tutto bagnato, e di come all’inizio l’acqua gli facesse paura. Guardò dappertutto, ma di lui non c’era traccia. Con angoscia pensò che poteva essersi arrampicato sulle mura ed essere scivolato in acqua. Le venne da vomitare. Fece diverse volte avanti e indietro tra Aurora e Point Utrecht, dove i cannoni un tempo proteggevano la città dall’arrivo di navi nemiche. Le nuvole erano sempre più minacciose, Louisa si avvolse il corpo con le braccia e guardò il cielo.
Tornò a casa e andò di sopra a cambiarsi. Si era appena spogliata quando sentì bussare alla porta principale e Ashan che andava ad aprire. Non riusciva a capire chi fosse, quindi infilò una vestaglia e si affacciò al pianerottolo. Vide Ashan all’ingresso con una scatola in mano.
«Chi era?», gli chiese.
«Una consegna per lei».
«Non sai da parte di chi, Ashan?»
«No, signora. L’ha consegnata un ragazzino. Mi ha detto che un uomo gli aveva dato dei soldi perché la portasse. Posso aprirla io, se vuole».
«No, mettila pure sul tavolo in sala da pranzo. Scendo tra pochi minuti».
«Porti giù un paio di forbici per tagliare lo spago».
Senza dare inizialmente troppo peso a quel pacco tornò in camera e si guardò allo specchio. Aveva gli occhi rossi e le guance screpolate. Andò in bagno ad asciugarsi i capelli prima di spazzolarli. Dopo aver indossato qualcosa di asciutto si sedette alla toletta e pensò a Zip. Aveva appena preso in mano il libro che stava leggendo quando le tornò in mente quel pacco, insieme a un brutto presentimento.
Prese le forbici dalla stanza del cucito, quelle per uso comune e non le migliori, che riservava al taglio delle stoffe, e scese in sala da pranzo, superando il salone dove William e Margo erano assorti in una conversazione.
Tagliò lo spago e con una certa inquietudine aprì la scatola. Le si fermò il cuore in gola, emise un lungo gemito e lasciò cadere il coperchio a terra con un singulto, poi corse al bagno a vomitare. Uscì e restò ferma all’ingresso, tremante, con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Margo e William si erano spostati in sala da pranzo e stavano guardando inorriditi il contenuto della scatola. Chiuse gli occhi, senza riuscire comunque a togliersi dalla testa l’immagine del povero Zip, della sua testa sanguinante e straziata dentro quella scatola. L’assalì una rabbia feroce. Chi poteva aver commesso un’azione tanto crudele, deliberatamente? Margo la raggiunse incoraggiandola ad allontanarsi e la condusse in salotto, dove Louisa scoppiò in lacrime.
«Non ne posso più», riuscì a dire tra i singhiozzi.
Margo cercava di calmarla, per quanto fosse sotto shock a sua volta. Quando smise finalmente di piangere, Louisa fissò la porta della sala da pranzo. «Come hanno potuto fare una cosa del genere a un povero animale indifeso, Margo? Il mio povero piccolo Zip che non ha mai fatto del male a nessuno».
Louisa era a pezzi, e ricominciò a piangere. Ripensò a quando lo teneva in grembo e gli stropicciava le orecchie, a quando scodinzolava in attesa del cibo, o inseguiva gli altri due sulla spiaggia. Non avrebbe mai più fatto niente di tutto ciò. Che crudeltà. Immaginarlo impaurito e sofferente le fece montare di nuovo un’ondata di rabbia.
«Dov’è il numero della polizia?», chiese Margo.
«Nel quaderno, sul tavolino», rispose.
«Li chiamo», fece Margo alzandosi per andare a parlare con William che nel frattempo si era spostato all’ingresso e stava parlando con Ashan.
Ancora tremante, Louisa chiese ad Ashan di portarle un tè dolce e del brandy.
La servì mentre Margo telefonava alla polizia. Bevve in silenzio, in presenza di Ashan che le rimase accanto, incerto su come potesse esserle d’aiuto e in attesa di altre istruzioni.
«Chi può aver fatto una cosa simile?», chiese Margo.
Louisa scosse la testa, era sicura che qualcuno avesse voluto spaventarla. Cercò di convincersi che la sua preoccupazione per quel Cooper era un’esagerazione, eppure non era sicura. Se erano riusciti a rapire Zip tanto facilmente, cos’altro sarebbero stati in grado di fare? La paura oscurò ogni altra preoccupazione: la sua casa, un tempo così sicura, era improvvisamente vulnerabile; il suo matrimonio, che sarebbe dovuto durare per sempre, non era stato che una strana, torbida relazione senza sostanza. Le appariva tutto così fragile. Povero Zip, andarsene in maniera tanto violenta.
Al risveglio trovò uno splendido cielo color corallo, con la foschia che aleggiava ancora sul mare e un odore di morte che aveva coperto ogni cosa. A colazione i due cani la guardavano con occhi tristi e il muso sulle zampe, come se avessero intuito cosa era successo. Si sedette a terra e li abbracciò entrambi.
Poco dopo, mentre raccoglieva il coraggio per tornare da Zinnia, passò dalla rabbia per la morte di Zip a un profondo senso di solitudine. Decise di accompagnare il dottor Russell alla piantagione, anche se avrebbe preferito restare a casa con i suoi cani tristi e chiudere il mondo fuori da lì. Aveva promesso, però, e doveva farsi forza. La polizia si era portata via la scatola e il suo raccapricciante contenuto, ma nessuno avrebbe mai più potuto toglierlo dalla sua testa.
Nonostante il recente scroscio di pioggia l’aria non era più fresca, e presto il caldo sarebbe aumentato. Guidava in silenzio, ma era sicura che il dottore avesse capito che qualcosa non andava. Le domandò come conosceva quella donna, Louisa esitò, ma si disse che di lui poteva fidarsi.
«Era l’amante di mio marito». Le costò molto pronunciare quelle parole, e lo fece senza guardarlo negli occhi.
«Mi spiace. Non volevo essere indiscreto».
«L’ho saputo dopo la sua morte. La cosa peggiore è che hanno anche un figlio insieme».
A quel punto si voltò a guardare la reazione del dottore e vide che scuoteva la testa.
«Povera cara, dev’essere stato terribile per lei».
Annuì con il cuore che le batteva forte. «E lo è ancora», ammise.
«Perché vuole aiutarla, allora?».
Arrossì, a disagio. «Mi piacerebbe rispondere che è per pura umanità, e in parte è così», disse.
«E invece?»
«Ho ragione di credere che avesse cercato di chiudere la sua relazione con Elliot».
«Capisco».
«E inoltre voglio aiutare suo cugino, Leo McNairn. Questa donna abita nel suo terreno, ora è malata e lui si sta prendendo cura del bambino. Ha sette anni».
«Non dev’essere facile».
«In effetti no. La piantagione richiede molta energia, quindi è dura. E il bambino non va a scuola, per giunta. Leo e io siamo amici. Faccio quel che posso».
«E il bambino?».
Louisa sospirò. «Lui è un’altra storia. Da una parte non riesco nemmeno a guardarlo…».
«Ma dall’altra?»
«Sono curiosa. Somiglia così tanto a Elliot. E mi aiuta a immaginare come sarebbero stati i miei figli».
Seguì un breve silenzio.
«Adesso giriamo, arriviamo fino in cima e ci fermiamo a chiamare Leo, così possiamo scendere a casa di Zinnia insieme».
«Pensa che ci sarà anche il bambino? Vorrei visitare anche lui».
«L’ultima volta che sono stata lì non c’era. Mi scusi avrei dovuto dirglielo prima… in effetti avevo iniziato a pulire la casa, ma la stanza di Zinnia è ancora in pessime condizioni. Vorrei provare a tornare con qualcuno per finire il lavoro».
«Credo che lei sia una santa, Louisa».
L’osservazione la mise a disagio. «No, non lo sono affatto. È che ho scoperto talmente tante cose di Elliot dopo la sua morte che ho realizzato di esser stata sposata con un uomo che non conoscevo. Forse desidero aiutare Zinnia per avere la possibilità di comprendere qualcosa in più sulla sua seconda vita».
«Se c’è qualcosa che ho imparato in questo lavoro è che la vita delle persone non è mai liscia come sembra».
«Mi detesto per quanto mi sento arrabbiata, a volte. Ma non voglio diventare vendicativa».
«Ci sono cose che non amiamo di noi stessi, pensieri di cui ci vergogniamo, cose che avremmo preferito non fare».
«Sono sicura che non sia il suo caso».
«Si sbaglia. Io ad esempio ho lasciato che il lavoro dominasse la mia vita, e ormai è troppo tardi per cambiare le cose».
«Potrebbe andare in pensione».
«A mia moglie piacerebbe, ma io non mi sento ancora pronto».
Arrivarono in cima e Louisa parcheggiò.
Li raggiunse un inserviente per avvisarli che Leo era già a casa della cugina, e che sarebbe stato contento di accompagnarli prendendo la scorciatoia.
Louisa lo ringraziò e porse la mano al dottore.
«La sua borsa è molto pesante? La strada è un po’ accidentata».
«Sono un buon camminatore, non c’è problema. E la borsa non è affatto pesante».
Seguirono il ragazzo, facendo attenzione alle radici sporgenti. L’aria era molto umida, tanto che i punti in cui il sole filtrava tra gli alberi sembravano quasi luccicare. Per un attimo Louisa riuscì a godersi il momento. Più si avvicinavano a casa di Zinnia e più cresceva la sua ansia. Temeva che ci fosse anche Conor. L’ultima volta non era stata nemmeno in grado di guardarlo. Certo, non era colpa sua, era solo un bambino, ma quando ripensava a sua figlia, alla piccola Julia, le veniva la pelle d’oca e non andava fiera del risentimento che provava. Da qualche parte nella sua testa non poteva fare a meno di pensare che fosse il bambino che lei avrebbe potuto avere.
Giunti davanti alla casa Louisa bussò alla porta. Leo andò ad aprire. «Sono felice di vedervi», disse. Era leggermente tesa, essendo la prima volta che si rivedevano dopo essere stati insieme alla spiaggia, ma il suo grande sorriso la mise immediatamente a suo agio.
«Questo è il nostro medico di fiducia, il dottor Russell. Dottore, questo è Leo McNairn».
Seguirono Leo in salotto, che era rimasto pulito quasi come l’aveva lasciato lei. Notò che una delle finestre era aperta, e l’aria era relativamente fresca.
«Dov’è sua cugina?», chiese il dottore guardandosi attorno.
«Mi segua», disse Leo.
Leo aveva tenuto aperte le finestre della camera da letto e aveva messo in ordine, ma Zinnia aveva di nuovo tirato le pesanti tende dicendo che la luce le feriva gli occhi, e si sentiva ancora un cattivo odore. Il dottore si rivolse a Louisa: «Questa stanza dev’essere ben arieggiata». Poi si avvicinò al letto, dove Zinnia giaceva con gli occhi chiusi.
Passò una mano davanti al suo volto impassibile. Niente. Poi le mise un palmo sulla fronte. «Tipico della malaria. Tenetela fresca il più possibile. Pezze bagnate sulla fronte e dietro il collo». Poi si rivolse a Zinnia. «Zinnia, mi sente?».
Lei spalancò gli occhi in preda al panico.
Louisa indietreggiò verso la porta, allarmata da quello sguardo disperato. Nell’intenso silenzio della stanza una cosa era certa: quella donna, così gravemente ammalata, non era più la stessa persona di cui si era innamorato Elliot.
«Sono il dottor Russell. Posso prenderle un campione di sangue?»
«Perché?», chiese lei con un filo di voce.
«Sospetto che abbia la malaria, cara. Sapendolo con certezza, potremo curarla».
Zinnia sollevò le mani in segno di resa, come a dire: faccia quello che deve fare.
Il dottore aprì la borsa di pelle scura e tirò fuori una siringa da una bustina chiusa ermeticamente. Il prelievo richiese più tempo del previsto. «È disidratata», annunciò. «Anche le vene ne risentono, assicuratevi che beva molto».
Quando ebbe finito incartò con molta cura il campione di sangue. «Lo manderò subito ad analizzare. Potrebbe volerci qualche giorno, perché a Colombo c’è stata un’inondazione. Ora mi dica, cara, da quanto tempo si sente così?».
Leo fece cenno a Louisa di seguirlo in salotto. «Volevo avvisarti che potrebbe arrivare Conor da un momento all’altro. Ti senti tranquilla?».
Un ricordo improvviso di Elliot la fermò. Fece un respiro profondo ed espirò lentamente. «Adultero», disse tra sé. «Adultero maledetto». Provò ancora una volta un’emozione violenta e insopprimibile, e subito dopo si incupì inaspettatamente.
«Louisa?»
«Che c’è?», scattò.
Leo non reagì al suo tono. «Cosa posso dire o fare perché tu ti senta meglio?».
Non era quella l’immagine di sé che voleva vedere. Era una donna positiva e generosa, non una persona così, arrabbiata e rancorosa.
«Sto bene», mentì. «Ho solo paura».
«È solo un bambino».
«Non farmi sentire peggio di quanto non mi senta già», disse guardando il cielo. Non c’era più tanta luce e ora il giallo si era tinto di sfumature violacee, segno che sarebbe tornata presto la pioggia.
Leo accennò un sorriso. «E se ti dicessi che ho chiesto al mio inserviente di dare una bella rinfrescata al mio abito da sera? Spero di non deluderti».
«Il ballo è tra poco. Hai avuto modo di riparare il furgone o verrai in moto?»
«Verrò in moto, ma pensavo di cambiarmi da te, se non è un disturbo».
«Va benissimo. Non vedo l’ora di vederti in ghingheri».
«Non ti piaccio come sono?».
Avrebbe voluto rispondere qualcosa di significativo, ma non disse nulla.
Poi l’espressione di Leo si fece seria. «Senti, riguardo all’altro giorno…».
«Non si tratta di quello… è che sono in preda a tante emozioni diverse e complicate, al punto che non mi fido più della mia capacità di giudizio».
«Immagino che ridare fiducia a qualcuno in questo momento sia molto difficile per te».
Sospirò e scosse la testa. «Un po’ più che difficile, se posso essere onesta».
Le si avvicinò e le mise una mano sul braccio, con grande tenerezza. Poi la guardò negli occhi, sinceramente preoccupato. «Ricorda solo che io sono qui, e che sono dalla tua parte».
I suoi occhi erano così sinceri, sereni e colmi di quella misteriosa tensione che c’era tra loro, che si sentì subito meglio, ma proprio in quel momento il dottore uscì dalla camera di Zinnia e loro due si allontanarono immediatamente.
«Bene, Louisa, sarà il caso che andiamo ora che ho il campione di sangue, così posso spedirlo subito».
«Lascio il dottore al suo studio e poi torno con un inserviente per dare una pulita alla camera di Zinnia».
«Sei sicura?», chiese Leo guardandola intensamente. «Posso occuparmene io con Kamu».
Louisa annuì. Era molto nervosa, e mentre risalivano la collina si guardò attorno in cerca di Conor, ma fecero in tempo ad arrivare, salire in macchina e ripartire senza vederlo. Si vergognava un po’, ma ne fu sollevata.
Durante il viaggio il medico rimase in silenzio, e anche lei. Quella piantagione era il posto in cui Elliot aveva il suo cuore, e Louisa doveva accettare il fatto che lui l’avesse già lasciata, in realtà, e molto tempo prima di morire.
«Allora, come l’ha trovata?», chiese infine.
«Difficile da dire. Mi ha riferito che ci sono giorni in cui sta meglio, ma temo che la situazione sia piuttosto grave».
Louisa annuì e si concentrò sulla strada.
«Se riuscisse a disinfettare quella stanza sarebbe di grande aiuto, però Louisa…».
«Sì?»
«Spero di non sembrarle invadente, ma nel mio lavoro mi capita spesso di sentire ciò che dice la gente, e non vorrei mai che lei soffrisse. Vorrei suggerirle di non farsi coinvolgere troppo da Leo».
«È un brav’uomo».
«Ne sono sicuro, ma non sottovaluti quel che ha appena passato».
«Mi accompagnerà lui al ballo. In amicizia».
Sorrise. «Questo mi fa piacere. Lei merita un po’ di svago. Ma faccia attenzione, perché in questo momento è più vulnerabile di quanto creda».
«È la stessa cosa che mi dice mio padre».
«Il lutto ci investe in molti modi diversi, e spesso resta con noi più a lungo di quanto ci rendiamo conto, specialmente se è un lutto complicato».
Louisa non era sicura di sentirsi ancora in lutto per Elliot. Era in lutto per la perdita del suo cane adorato e per se stessa; per aver smarrito la persona che credeva di essere. Aveva senso?
Dopo aver accompagnato il dottore, la prima persona che vide fu Margo, seduta nel giardino sul retro che approfittava di una tregua asciutta prima che ricominciasse a piovere. I due cani erano ai suoi piedi e si alzarono subito per andare incontro alla padrona.
«Quanto mi manca Zip», disse sedendosi e accarezzando Bouncer sulla testa. «Non posso pensare a quello che gli hanno fatto».
«Lo so».
Restarono alcuni minuti in silenzio. Louisa pensò a Zip, ma era troppo doloroso e cercò di concentrarsi su altro. E l’unica cosa che le venne in mente fu il pensiero di Elliot con Zinnia.
«Dove sei stata?», le chiese Margo.
«Ho portato il mio medico da Zinnia. Sospetta che abbia la malaria».
«Santo cielo».
«Tra poco ci torno, per arieggiare e pulire a fondo la sua stanza. Devo solo capire se qualcuno degli inservienti è libero per accompagnarmi».
Margo era pensierosa. «Sei sicura di volerlo fare?»
«Preferisco tenermi occupata. Non mi va di starmene qui seduta a girarmi i pollici. Non mi farebbe bene. Presto potrò distrarmi con l’emporio, ma ora come ora sono troppo arrabbiata per Zip».
«Non per Zinnia?»
«Anche, ma se vedessi com’è ridotta…».
«Posso venire io con te, se vuoi. Non mi dispiacerebbe vederla di persona».
«È quasi irriconoscibile, è troppo malata».
«Posso venire comunque?»
«William dov’è?»
«È dentro che parla con tuo padre».
«Mio padre è qui?»
«È appena arrivato. Voleva sapere se hai qualcuno che ti accompagna al ballo, altrimenti dice che può farlo lui».
«Non è necessario», Louisa pensò alla catena di eventi che aveva portato a quel momento. «Verrà Leo con me».
«Ne sono felice».
«William sarà ancora qui?»
«Sì, ma dovremo fargli confezionare un abito in fretta e furia tra oggi e domani. Non aveva previsto l’eventualità di un ballo!».
«Immagino. E dobbiamo anche scattare la foto compromettente al più presto».
«Sì. Mi spiace…».
«Non preoccuparti. Magari ci divertiamo. Tu sarai mezza nuda?».
Margo rise. «Qualcosa del genere, sì».
«Oddio! E a letto, immagino».
«Sarebbe perfetto. Anche se onestamente penso che se due persone hanno deciso di lasciarsi dovrebbero poterlo fare senza bisogno di tutta questa messinscena».
Louisa si chiese se Margo avesse ragione. Era davvero giusto che due persone fossero legate così inestricabilmente e per sempre? Era così che si sentiva Elliot? In trappola? Scosse la testa, non le era mai sembrato.
Si fermarono davanti a casa di Zinnia, e Louisa notò che la cognata era tesa, confusa, come se stesse lottando con i suoi pensieri e le sue emozioni.
«È davvero strano pensare che Elliot venisse qui tanto spesso», disse Margo. «Sto cercando disperatamente un modo di perdonarlo, dentro di me. Non è facile e mi sento in colpa».
Louisa non rispose.
«Quando penso a tutte le attenzioni che ha ricevuto da piccolo. Mia madre non si interessava quasi mai a me. Ricordo una volta in cui eravamo seduti al tavolo della cucina e lui stava copiando i compiti dal quaderno di qualcun altro. Io gli dissi che era sbagliato, lui rise e mamma disse che non c’era niente di male. A lei interessava solo che prendesse un bel voto. Pensa un po’. E adesso non riesco a smettere di pensare a quel che ha fatto, ma certo per te dev’essere peggio».
«Vorrei solo ricordare com’eravamo insieme, e al tempo stesso non voglio ricordare niente. Conoscere Leo è stato d’aiuto».
«Che intendi?»
«Non saprei. Mi fa sentire meglio con me stessa».
Aprì la porta e Margo la seguì. Quando si voltò a guardarla vide che stava fissando tutti i quadri che raffiguravano Zinnia insieme a Conor, proprio come aveva fatto lei la prima volta che era stata lì.
Sebbene sua sorella fosse sempre stata l’unica a vedere Elliot oltre l’apparenza, capì che doveva essere difficile per lei scoprire fino a che punto il suo perfetto fratellino era stato tutt’altro che perfetto. Con una punta di disagio provò una fitta di gelosia. Era innegabile che Zinnia fosse stata bellissima, piena di talento e forse anche un po’ selvaggia.
«Qui sembra tutto in ordine», disse Margo.
«Sì, qui ho già pulito».
«Lei dov’è?», bisbigliò.
«Di là», rispose Louisa indicando la porta. «Dobbiamo convincerla a uscire e spostarsi sul divano… Oddio, ce la faremo?».
Louisa guardò la cognata con un misto di paura e determinazione.
«Se ce la fai tu, ce la faccio anche io», le disse.
«Può darsi che sia necessario trasportarla, o quanto meno sorreggerla da entrambi i lati, è molto debole».
Bussò alla porta e l’aprì sbirciando nella stanza. Le tende erano aperte e l’aria più pulita. Forse qualcosa stava migliorando, pensò Louisa. Poi entrò in punta di piedi.
«Ti ricordi di me?», le chiese.
Zinnia annuì e disse a bassa voce: «Non c’è bisogno che tu venga qui».
«Ho promesso al dottor Russell che avrei dato una bella pulita alla stanza. Se te la senti di sederti, mia cognata può aiutarci a tirarti su e a spostarti in salotto».
Zinnia spalancò gli occhi. «La sorella di Elliot?»
«Sì».
«Sicuramente mi odierete».
Louisa distolse lo sguardo un istante. «Ci ho provato», disse piano.
Margo entrò con una scatola in mano. «Ho portato l’occorrente per pulire».
Louisa annuì. «Forza, Zinnia, allungati un po’ qui così da tirar giù le gambe di lato».
Zinnia alla fine riuscì a mettersi a sedere. A quel punto Louisa disse a Margo: «Forse potresti prepararle un bagno. C’è l’acqua calda qui, Zinnia?»
«L’inserviente di Leo viene ad accendere lo scaldabagno ogni giorno, dovrebbe essere ancora calda».
Margo andò ad aprire il rubinetto e Louisa sentì scorrere l’acqua.
«Non posso farmi un bagno da sola».
«Ti aiuteremo noi».
«Davvero?».
Louisa annuì, aveva il cuore in gola, ma forse era solo confusione. Di certo non era una situazione facile. Quando sentì arrivare Leo fu un grande sollievo. Non solo perché lui era lì, ma anche perché forse le avrebbe potute aiutare a portare Zinnia fino al bagno.
«Louisa», disse entrando nella stanza e scaldandole il cuore con il suo sorriso. «Ho portato le lenzuola pulite».
Fece qualche passo in avanti, più sicura di sé. «Vorremmo aiutare Zinnia a lavarsi prima che vada a stendersi sul divano. Margo sta preparando l’acqua».
«Molto gentile».
«Sto solo facendo quel che va fatto».
Margo chiamò per dire che il bagno era pronto. Zinnia stava fissando Leo e Louisa. «Sembrate molto vicini voi due».
Louisa fece un passo indietro. «Siamo solo amici», rispose in tono brusco. «Leo, vuoi aiutare Zinnia?»
«Leo non può spogliarmi».
«A quello penseremo noi».
«Dov’è Conor?», chiese Zinnia guardando Louisa preoccupata.
«Tranquilla, è su da me che disegna lumache», disse Leo.
Raggiunse il letto. «Pronta?», chiese a Zinnia prima di mettersi le sue braccia attorno al collo. Poi la sollevò dolcemente. «Sei leggera come una piuma, cugina».
«Ho perso molti chili».
Mentre Leo la portava verso il bagno, Louisa e Margo si scambiarono uno sguardo preoccupato.
«Non è facile».
«Lo so, ma ha bisogno di noi», disse Louisa. «Puoi iniziare a occuparti della stanza dopo per favore?»
«Sì, per prima cosa disfo il letto».
«Potremmo mandarle dal dhobi, ma facciamo prima qui», sospirò. «Ora è meglio che vada».
Quando Louisa entrò in bagno Zinnia era seduta sul bordo della vasca. Ci fu qualche momento di silenzio, e fu Leo a parlare per primo. «Vado a vedere se Conor sta bene, torno più tardi. Louisa, ce la fai o vuoi che resti qui a darvi una mano?»
«No, vai pure da Conor, Margo e io ce la caveremo».
Dopo che se ne fu andato le due donne si guardarono. C’erano così tante cose non dette in quel silenzio, eppure Louisa sapeva che nessuna delle due avrebbe saputo da dove iniziare.
«Io lo amavo, sai?», disse infine Zinnia.
Louisa annuì. «Anche io».
«Mi diceva che il vostro matrimonio non era felice, che ti avrebbe lasciata, ma dopo otto anni ho iniziato a pensare che non sarebbe mai successo. Non ti avrebbe mai lasciata… Ecco perché ho voluto rompere».
«Voleva bene al bambino?»
«Molto. I figli che avete perso gli hanno spezzato il cuore».
Louisa deglutì e controllò la temperatura dell’acqua. «Dobbiamo metterti dentro. Ce la fai a togliere la camicia da notte da sola?».
Margo entrò a dare una mano e Zinnia sollevò le braccia, che però le ricaddero lungo i fianchi. «Non ho la forza».
«Se tieni in alto le braccia la togliamo dalla testa», disse Margo in tono pragmatico.
«Margo è un’infermiera», precisò Louisa.
Quando Zinnia fu finalmente nuda, Louisa fu sconvolta nel vederla così pelle e ossa, con le braccia e le gambe come stecchini, e le costole evidenti sotto la pelle bluastra e trasparente del petto.
«Leo non ti fa mangiare?», commentò in tono apparentemente disinvolto.
«Lui mi porta sempre da mangiare. Sono io che non ho fame».
Louisa la tenne per un braccio mentre si calava nella vasca, dove si accasciò esausta per lo sforzo.
«Margo, puoi prendere una caraffa per favore? Dobbiamo lavarle la testa».
Margo annuì e Louisa la seguì fuori dal bagno. Vide che aveva disfatto il letto e impilato tutte le cose in angolo.
«Tutto bene?», le chiese Margo. «Sembri esausta».
«È troppo magra».
«Ma non è questo che ti turba, vero?»
«No. È che mi sembra così strano stare con lei e immaginarla con Elliot. Voglio davvero aiutarla, ma a tratti continuo a sentirmi tanto arrabbiata».
«Non mi sorprende».
«Ma come si può essere arrabbiati con una persona tanto malata? Mi sento un mostro».
«Mia cara, non lo sei affatto. È normale che tu ti senta così. Molte donne non prenderebbero nemmeno in considerazione l’idea di aiutarla».
Louisa abbassò lo sguardo.
«Vuoi che ci pensi io?»
«No. Hai per caso visto una spazzola in giro?»
«Ce n’è una sul suo comodino».
Louisa prese la spazzola e Margo andò in cucina a prendere una caraffa, poi tornarono in bagno.
Zinnia aveva gli occhi chiusi.
«Riesci a tirarti un po’ su?».
Zinnia aprì gli occhi. «Stavo pensando a cosa direbbe se ci vedesse adesso», disse.
«Probabilmente se la darebbe a gambe levate».
Zinnia sorrise. «Forse ci ha manipolato entrambe».
«Può darsi. Ora tirati un po’ più su, ce la fai?».
Margo fece per aiutarla, ma la donna iniziò a tossire.
«Vado a prendere un bicchier d’acqua», disse.
Louisa iniziò a versare l’acqua sui suoi capelli annodati e lunghi. Trovò dello shampoo e chiese a Zinnia di tenere gli occhi chiusi mentre la insaponava. Ci volle un po’ per sciacquarla a dovere, e Louisa fece del suo meglio per spazzolarla.
«Amava i miei capelli, sai?»
«Non sono sicura di volerlo sapere».
«È così che ci siamo conosciuti», continuò Zinnia.
Louisa si sedette e lasciò Zinnia a mollo per un po’. Chiuse gli occhi, la presenza di Elliot era ancora forte in quella stanza.
«Come è successo?», le chiese infine.
«Era venuto a una mostra a Colombo, credo che cercasse un quadro per te. Stava guardando un autoritratto che avevo dipinto da poco e lo sentii dire: “Che capelli meravigliosi”. Non aveva visto che ero proprio lì dietro di lui, allora mi sono avvicinata».
Louisa inspirò a fondo ed espirò tremante.
«Mi sono presentata e lui mi ha detto che i miei capelli erano ancora più belli dal vivo. Abbiamo bevuto un bicchiere di vino e gli ho chiesto se voleva venire con me in un bar. Il mio turno lì alla mostra era finito quindi ero libera».
«Lo sapevi che era sposato?»
«No, all’inizio no. Era così bello e affascinante. Mi è piaciuto subito. Mi faceva sentire speciale, ci sapeva fare. Comunque non siamo andati a letto insieme quella volta».
«Perché avevi scoperto che stava cercando il quadro per sua moglie?»
«No, mi aveva detto che era per un amico».
«E quando hai scoperto di me?»
«Dopo il tuo primo aborto, otto anni fa. È venuto a trovarmi che era distrutto. È stato allora che siamo stati insieme la prima volta».
Louisa restò senza fiato e seguirono alcuni istanti di pesante silenzio.
Margo tornò con un bicchier d’acqua. «Scusate se ci ho messo tanto».
«Riesci a insaponarti?», chiese Louisa a Zinnia passandole il sapone e cercando di non piangere.
La donna fece del suo meglio, e Louisa distolse lo sguardo per non essere invadente. Poi si alzò e chiese a Margo di aiutare Zinnia a uscire dall’acqua.
Zinnia allungò una mano verso di lei, e con espressione cupa e dolente le disse: «Mi dispiace per tutto il male che ti ho fatto».
Louisa non prese la sua mano ma sostenne il suo sguardo e deglutì.
Avvolsero Zinnia in un paio di asciugamani che Leo aveva portato insieme alle lenzuola pulite.
«Ora ti portiamo in salotto», disse Margo prendendo in mano la situazione. Louisa le sorrise e insieme l’aiutarono a raggiungere il divano. Una volta lì Margo tirò via gli asciugamani bagnati e la coprì con un lenzuolo pulito. «Hai una camicia da notte?», le chiese.
Zinnia indicò un indumento appeso alla porta della camera da letto e crollò sul cuscino dietro di sé. Louisa chinò il capo, con la vista offuscata dalle lacrime, e poi uscì in silenzio fuori a prendere una boccata d’aria, che inspirava tra i singhiozzi con gli occhi ancora lucidi. «Oddio», bisbigliò tra sé senza riuscire a togliersi dalla testa l’immagine di Elliot con Zinnia subito dopo il primo aborto. Ricordò che lui le aveva detto di dover andare urgentemente a Colombo, lei si era offesa ma aveva cercato di capire. Ora sapeva che quell’urgenza era un’altra donna.
«Sei sopravvissuta?», chiese Margo raggiungendola.
Louisa scosse la testa e lei l’abbracciò. «È dura, vero?», disse.
«Sì».
«Se vuoi salire da Leo, alla camera ci penso io. Manca solo il pavimento».
«C’è Conor da Leo».
«Non è che un bambino. E non ti può far male conoscerlo meglio».
«Non lo so».
«Facciamo così: resta qui fuori per un po’, poi se te la senti vai su. Io ti raggiungo quando ho finito, ma Leo dovrà comunque tornare qui per aiutarla a tornare a letto».
«E le lenzuola?»
«Le metto a bagno nella vasca».
«Grazie Margo. C’è una scorciatoia tra gli alberi per raggiungere la casa di Leo, ma forse è meglio se segui la strada».
Rimasta sola, Louisa ci pensò qualche minuto e infine decise di andare. Arrivò proprio mentre stava iniziando a piovere e vedendo che nessuno le apriva la porta entrò. Di sopra trovò Conor sul divano che giocava con un mazzo di carte.
«Dov’è Leo?», gli chiese imbarazzata dal suo silenzio.
Il piccolo si strinse nelle spalle.
«So che stavi disegnando. Ti va di farmi vedere qualcosa?».
La guardò ma continuò a non dire nulla.
«Facciamo così, io mi siedo qui e se ti va mi fai vedere qualcosa».
Cercava di non guardarlo ma non poteva farne a meno. La somiglianza con Elliot era incredibile. Restò seduta lì ad ascoltare il rumore della pioggia, poi si alzò per aprire una finestra.
«Hai pranzato?», gli chiese.
Scosse la testa.
«Vuoi che vada a vedere se riusciamo a farci un panino?».
La guardò di nuovo. «Lo farà Leo».
Sospirò. Il bambino sembrava molto introverso.
Leo tornò dopo mezzora, meravigliato di trovarla lì con Conor.
«Spero non ti dispiaccia», gli disse. «Sono dovuta venire via. Margo sta lavando il pavimento, ma vorrebbe che l’aiutassi a portare Zinnia a letto».
«Certo».
«E credo che Conor abbia fame, anche se non sono riuscita a tirargli fuori molte parole».
«Ci faremo un panino, che ne dici, ometto?».
Il ragazzo gli sorrise e gli corse incontro per un abbraccio.
«Comunque», aggiunse Louisa, «il dottor Russell ha richiesto che i risultati delle analisi vengano spediti qui a nome tuo. Ci vorrà solo qualche giorno».
«Bene. E grazie per tutto quello che hai fatto. Allora, sei pronta per il ballo?».
Annuì. «E tu?»
«Ti verrò a prendere per le sette. Troppo tardi? Voglio essere sicuro che questo ometto sia già a letto quando vado via».
Conor uscì a giocare e Leo la guardò.
«Che c’è?», disse lei con un sorriso.
«Ho pensato di portare Conor a pesca domani. Mi chiedevo se avessi voglia di venire».
«Perché?»
«Penso che gli faccia bene frequentare altre persone. Qualcuno di diverso che non sia sempre e solo io. Ha bisogno di staccare dalla malattia della madre».
«Non sarebbe meglio se foste solo voi?».
Scosse la testa. «Penso che la tua presenza alleggerirebbe l’atmosfera, ma se non te la senti…».
«D’accordo, verrò».
«Fantastico. Una giornata in barca gli farà bene. La malattia di Zinnia lo innervosisce, e poi si sente in colpa».
«È solo un bambino…», disse Louisa, che però non ricordava di aver mai provato niente del genere nei confronti di sua madre.
«Ci raggiungi alla spiaggia per le nove?».
Louisa arrivò alla spiaggia per prima. Non c’era più nebbia e il cielo era azzurro e limpido. Si tolse i sandali e lasciò impronte sulla sabbia bagnata mentre raggiungeva la spuma bianca sulla riva dell’oceano. Entrò di qualche passo e poi si riallontanò per evitare l’onda, gridando quando l’acqua fredda le bagnò le gambe. Sentì ridere dietro di sé e si girò.
Leo e Conor la stavano raggiungendo. Le fece piacere vedere il bambino così di buonumore. Sorrise anche lei e allungò una mano a Conor.
«Perché non ti togli le scarpe e vieni con me?», gli disse.
Dopo appena un istante di esitazione Conor lasciò le borse che stava portando e la raggiunse levandosi le scarpe al volo. Lo prese per mano ed entrarono in acqua, correndo indietro quando arrivavano le onde.
«Nessuno mi vuol dare una mano con la barca?», disse Leo posando a terra due buste piene di equipaggiamento per la pesca, un motore fuoribordo e un piccolo cestino da picnic.
«Ti aiutiamo tutti e due. Vero, Conor?».
Il bambino sorrise e seguirono Leo lungo la spiaggia fino alla vecchia barchetta legata a una palma con una corda.
«Un tempo era tutta blu», disse Leo. «Basterebbe una mano di vernice per farla tornare come nuova».
Louisa era chiaramente in apprensione, ma Leo le sorrise. «Non preoccuparti, è assolutamente sicura. L’ho fatta costruire qui su un progetto inglese, è una specie di ibrido. Va che è una meraviglia».
Sciolse la corda e spinsero la barchetta lungo la sabbia fino alla riva. Lì, Leo montò il motore.
«Mi tieni la cima?», chiese a Louisa. «Vado a recuperare il resto».
Tornò quasi subito, con l’attrezzatura per la pesca e il cestino, che lanciò direttamente a bordo. Conor si occupò di prendere i secchi e la rete che era ammucchiata dentro uno di questi. Leo li sistemò a prua.
«Bene, e ora saltate su e sedetevi sulla panca di mezzo. State tranquilli, non c’è pericolo».
Non appena si furono seduti Leo iniziò a spingere la barca in acqua e poi salì anche lui, passò il cestino a Louisa perché lo sistemasse sotto il telo a prua e andò a mettersi a poppa.
«Non è un motore molto potente», disse mettendo in moto. «Ma va benissimo per fare un giretto. Ora devo concentrarmi, è facile metterlo in moto ma difficile controllarlo».
Louisa vide la spiaggia che si allontanava. Sopra le loro teste volavano alcuni uccelli marini e poco più a largo c’erano un paio di pescatori. La brezza salata rinfrescava l’aria e il mare luccicava, inondato dai raggi di sole. Non c’era aria di pioggia ed era un giorno perfetto per uscire a pesca.
Quando raggiunsero il punto in cui Leo pensava che avrebbero potuto prendere qualcosa, spense il motore e buttò l’ancora.
«Come state?», chiese.
Louisa sorrise, mentre Conor continuava a saltellare tutto eccitato. «Ora possiamo pescare?», chiese.
«Ci puoi scommettere. Aspetta che prendo tutto il necessario».
Aprì la borsa più lunga e preparò una canna per Conor. Poi gliela passò.
«E tu, Louisa? Ne vuoi una anche tu? Se preferisci puoi darmi una mano a posizionare la rete».
«Sì, preferisco aiutarti».
Lo osservò mentre preparava la lenza e la rete con i galleggianti e gli ami, alla maniera dei pescatori locali.
Una volta pronta, la lanciarono insieme in acqua. «E adesso?», chiese.
«Aspettiamo. La pesca è tutta nell’attesa, ma di sicuro non ti dico niente di nuovo».
«Quand’ero piccola andavo spesso a pescare con mio padre; Elliot invece trovava che fosse tutto troppo lento per i suoi gusti. Preferiva le regate in barca a vela, piuttosto. Quindi con lui non ci sono mai andata».
«Pescare con la rete mi piace, ma quando sono in cerca di pace non c’è niente che mi dia più soddisfazione di una giornata con la canna e la lenza. E Conor sarà un bravissimo pescatore, vero?».
Conor sorrise, ma non rispose, concentrato com’era su quel che doveva fare. Nel frattempo, Louisa e Leo continuarono a parlare.
«Che pesci si prendono qui?»
«Ci sono soprattutto sgombri. Nella rete potremmo trovare acciughe, invece. E se siamo fortunati anche un muggine o un lutiano rosso. Pensavo che potremmo fare un barbecue sulla spiaggia, dopo».
«Volentieri. Che cosa c’è nel cestino?»
«Quello che ci occorre per il barbecue, e un po’ di tè pronto, ne vuoi?».
Annuì.
«Allora se non ti spiace dovresti cercare di raggiungere la prua facendo attenzione a non cadere, e prendere il tè e una tazza. Nel cestino c’è anche una bottiglia di limonata per Conor».
Quando si alzò in piedi la barca ondeggiò e Louisa aspettò di ritrovare l’equilibrio prima di raggiungere il cestino e portare da bere per tutti. Leo versò il tè e aprì la bottiglia per Conor, che però non la prese subito perché era impegnato con tutt’e due le mani a tenere la sua canna mentre faceva girare il mulinello.
«Serve una mano?», gli chiese Leo.
Conor scosse la testa, chiaramente determinato a farcela da solo. Alla fine videro un pesce luccicante guizzare in fondo alla canna.
«Che cos’è?», chiese a Leo tutto orgoglioso.
«Un bello sgombro, direi», gli rispose prendendolo e colpendolo alla testa. «Ce ne servono ancora un po’ e poi andiamo a preparare il pranzo».
Mentre Conor beveva la sua limonata, Leo gli preparò una nuova lenza e gli passò la canna pronta.
Per un po’ restarono in silenzio, Louisa canticchiava tra sé, emozionata da quel che la circondava: il sole che picchiava da un cielo turchese, la brezza calda, il blu intenso del mare e il suono dell’acqua che sciabordava contro il fianco della barca.
«Che fai, canti per i pesci?», le chiese Leo per scherzo e lei rise.
Di colpo un pesce saltò fuori dall’acqua e finì dritto sulla prua. Louisa saltò per la sorpresa e Conor per poco non fece cadere la sua canna.
«Questa sì che è bella», esclamò Leo. «Un pesce volante è segno che non siamo lontani da un banco di delfini. Può darsi che il piccoletto stesse scappando».
«E adesso ce lo mangiamo noi», disse Conor ridendo. «Andiamo a cercare i delfini».
E con la barca che ondeggiava iniziarono a scandagliare il mare attorno a loro in cerca di piccole onde che rivelassero la presenza di delfini. Conor gridò quando videro qualcosa di grigio scivolare sott’acqua, e si godettero la caccia dei pellicani che scendevano in picchiata. Dopo qualche istante Conor indicò due o tre delfini che saltavano come acrobati inseguendosi, uno dei quali fece una piroetta in aria prima di tuffarsi sotto la loro barca. Louisa sorrise, mentre quel fazzoletto di Oceano Indiano si riempiva di delfini.
Non ne aveva mai visti così tanti da vicino e rimase incantata da quelle creature acquatiche portatrici di buonumore e gioia di vivere. Li guardò ipnotizzata giocare ancora per un po’ prima di vederli allontanarsi a cavallo delle onde. L’immensità del mare era in grado di suscitare meraviglia anche da sé, ma i delfini erano stati una sorpresa speciale e aveva lasciato in tutti loro un’intensa felicità. Quando realizzò che non aveva mai pensato a Elliot per tutta la mattina fece un sospiro lungo e profondo e mormorò un silenzioso ringraziamento.
«Che fortuna», esclamò Leo e il suo sorriso le annodò lo stomaco.
«Bene, bene, cos’abbiamo qui?», disse Leo ritirando la rete. «Niente male. Qualche acciuga, come pensavo, e un muggine. Uh, guardate, ci sono anche dei gamberoni. Io direi che con lo sgombro e il pesce volante abbiamo messo insieme un bel pranzetto. Ottimo lavoro, Conor, adesso ritira pure la lenza che ce ne torniamo a riva».
La spiaggia appariva sonnolenta nel calore di mezzogiorno, e Leo trovò un posto all’ombra di un fico strangolatore nella macchia che cresceva ai margini della sabbia. Poco più su c’erano alcuni pescatori col turbante indaffarati sulle loro reti e Louisa vide che avevano pescato molti gamberi. Leo accese un piccolo fuoco usando alcuni ciottoli per tenere in equilibrio la griglia che aveva portato.
Quando fu pronto il fuoco sistemò i pesci sulla griglia e nel giro di pochi minuti il loro bottino era già nei piatti di bachelite. Se ne rimasero lì seduti tra l’erba a leccarsi le dita salate e a gustarsi il pesce, annaffiato con altra limonata. Louisa sbadigliò e stirò in alto le braccia.
«Stanca?», le chiese.
«Non dormo molto bene da quando…».
«Sai cosa faccio quando non riesco a dormire?»
«Cosa?»
«Mi alzo all’alba e guardo arrivare il giorno. Perché non mi raggiungi domattina? Ci possiamo vedere prima che sorga il sole. E dopo se vuoi posso offrirti la colazione».
«Mi piacerebbe», rispose. «Sei emozionato per il ballo?».
Annuì. «Anche se è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho ballato».
«E quando è stato?»
«Allo Strand Hotel, a Rangoon. Un posto incredibile. Te lo consiglio, se dovesse capitarti, molto lussuoso».
«Sei stato a Burma oltre che in Malesia?»
«Ho lavorato un paio d’anni per una società che produceva teak».
«Ma non ci sei stato tanto quanto in Malesia?»
«No».
«Perché sei andato via? Per via di quel che è successo con Alicia?»
«Soprattutto, sì. Avevo bisogno di cambiare aria».
Dopo restarono in silenzio, si sentiva solo lo sciabordio del mare e il verso degli uccelli marini in sottofondo.
Louisa stava di nuovo canticchiando.
«Che canzone è?», le chiese.
«Una stupida canzone di Shirley Temple. On the Good Ship Lollipop. Non riesco a togliermela dalla testa».
Rise. «Mi sembra appropriata», disse e iniziò a cantare anche lui la stessa stupida canzone. Nel giro di poco stavano tutti e tre cantando a squarciagola e ridendo con le lacrime agli occhi, mentre i pescatori li guardavano divertiti.
La mattina dopo Leo arrivò in spiaggia che era ancora buio, il mare calmo alle loro spalle. Risalirono il sentiero lungo la piantagione, avvolti dal silenzio e dal suono dei loro passi sul terreno e del loro respiro. Il cielo stellato, la sensazione che la natura fosse a riposo, in attesa. Dopo qualche minuto il cielo cambiò colore, facendosi più chiaro. Louisa chiuse gli occhi, godendosi la pace, il mattino fresco, ed ecco anche il suono delle volpi volanti che si spostavano da un albero all’altro.
Si voltò a guardare l’oceano. Da quella parte il cielo era ancora più chiaro, e all’orizzonte una linea rossa e turchese incontrava il mare violaceo. Adorava l’idea di trovarsi lì con Leo mentre il resto del mondo dormiva ancora, le sembrava quasi di essere in un sogno. Non era ancora giorno, e non era più notte. Una dimensione mistica, le piaceva. Quando il colore del cielo divenne di un rosso dorato, anche gli uccelli iniziarono a salutare l’arrivo dell’alba.
«È così improvviso, vero?», disse. «La luce». E mentre parlava il cielo si schiariva e già si distinguevano le prime ombre degli alberi lungo il sentiero.
Con il coro degli uccelli si alzò anche una brezza leggera. Nel giro di pochi secondi i suoni si fecero assordanti, e Louisa non poté fare a meno di ridere. Sembrava che tutto il bosco si fosse messo a cantare e suonare una selvaggia cacofonia.
«Come fa Conor a dormire con questa confusione?», chiese lei alzando la voce per farsi sentire.
«Ci riesce benissimo. Spesso devo tirarlo giù dal letto, poverino. Sua madre lo fa restare alzato fino a tardi la sera».
«È una brava madre?»
«Non convenzionale, direi, ma fa del suo meglio».
«Ti sento critico, o sbaglio?»
«Forse».
«Cosa faresti di diverso?»
«Come sai, non ho figli quindi non dovrei esprimermi, ma sento che gli mancano delle regole di base. È libero di girare, e questo è un bene, ma credo che abbia anche bisogno delle restrizioni e delle sfide della scuola».
«Avrei giurato che fossi più uno spirito libero».
«Mio padre su una cosa aveva ragione. I bambini hanno bisogno di sapere quali sono i loro limiti».
«E lui si comporta male?»
«No. È un bravo bambino. Ma ha bisogno di più struttura. È troppo piccolo per gestire tutta questa libertà, e inoltre è molto solo. Vorrei che passasse del tempo con altri bambini».
«Gli vuoi bene».
«Sì, mi piace molto. All’inizio ero preoccupato, ma poi averlo nella mia vita, vederlo girare qui intorno e crescere, è stato un privilegio».
Camminarono in silenzio. C’era troppo frastuono per parlare. Quando arrivarono a metà collina un piccolo stormo di parrocchetti verdi dal collo rosa volò loro accanto rumorosamente.
Arrivati in cima, vicino alla foresta, Louisa fu colpita da un canto molto particolare.
«Un oriolo dalla testa nera», disse lui.
«Ah, sì. Credo di averlo già sentito una volta qui», osservò lei continuando ad ascoltarlo.
Dopo un po’ aggiunse: «Grazie. A volte andavo fino al Forte con Elliot per veder sorgere il sole. Ma il canto degli uccelli non era niente in confronto a questo».
Sorrise. «Sono contento che ti piaccia. Colazione?»
«Certo. Sto morendo di fame».
«Uova strapazzate e toast?»
«Divino».
Entrarono in casa e salirono le scale. Mentre Leo si occupava del caffè e della colazione Louisa guardò fuori dalle finestre della veranda, verso le cime degli alberi già avvolte dalla prima nebbia. Gli uccelli stavano ancora cantando, ma lassù sembrava meno assordante di quanto non fosse nel mezzo della piantagione.
Quando portò il caffè, lei bevve il suo che era ancora bollente. «Mai bevuto un caffè tanto buono», disse iniziando subito a mangiare.
Leo rise, e Louisa vide le rughe che aveva attorno agli occhi aprirsi a ventaglio.
«Sei una donna d’appetito».
«È quest’aria fresca. Dopo la morte di Elliot non ho più mangiato tanto volentieri, ma sento che l’appetito mi sta tornando».
«Allora servono altre passeggiate all’alba».
Distolse lo sguardo ma si sentì invadere dal calore.
«Mi dicevi che a volte aspettavi l’alba con Elliot. Che tipo era lui?»
«Non lo so più. E non è bello passare anni accanto a una persona pensando che sia in un certo modo e poi scoprire che era tutt’altro».
«C’è sempre più di un modo di vedere le cose. Magari era vero anche quello che vedevi tu, ma c’era un’altra parte che non conoscevi. Tutti abbiamo dei segreti, no?»
«Non saprei, magari sì… ma non così grandi».
«Vero».
Louisa scosse la testa. «Le sue molte assenze mi disturbavano, ma poi mi ci sono abituata».
«Lo capisco».
«E tu, Leo? Quali sono i tuoi segreti?».
Si strinse nelle spalle. «Tutta la mia vita è un segreto».
Lo guardò cercando di capire cosa intendesse. «Ti è difficile parlare di te?»
«Non sono abituato a farlo. Ma quello che intendevo dire è che se non condividi la tua intimità con nessuno, alla fine tutta la tua vita, la tua persona, diventano misteriosi. Io ho Zinnia, certo, e Conor, ma non è quel che intendo».
«E quindi sei diventato schivo?»
«In un certo senso, sì».
«Ti piace stare per conto tuo?»
«Sto bene con me stesso».
«Posso chiederti una cosa?».
Rise. «Non lo stai già facendo? Comunque, dài, spara».
Louisa sorrise. «Cosa desideri in questo momento?»
«Che la piantagione sia un successo».
Socchiuse gli occhi studiandolo. «Intendevo a livello personale. Non ti pesa mai questo tuo isolamento?»
«Non sono isolato. Ci sono Zinnia e Conor, e ovviamente Kamu».
«Io non sono mai stata da sola fino a ora», si interruppe pensando a Elliot. «Ma forse nessuno di noi può mai davvero entrare fino in fondo nell’intimo di un altro».
«Vediamo quello che vogliamo vedere, non credi?»
«O quello che l’altro ti permette di vedere di sé».
Annuì. «Anche».
Seguì un lungo silenzio, durante il quale Louisa pensò alle parole di Leo. Era convinta che le persone avessero bisogno le une delle altre, che la vita senza relazioni fosse vuota e insignificante, e che condividere l’amore fosse essenziale per stare bene.
«Davvero non ti senti solo?», chiese infine.
Lui la stava guardando intensamente. «Non ho detto questo. Qui a volte la solitudine si fa sentire, specialmente di sera. Ma proprio come tu ti sei abituata alle assenze di Elliot, io mi sono abituato alla mia vita così com’è».
«E divideresti mai la tua vita con qualcuno?»
«Sembra una domanda tendenziosa».
«Non voleva esserlo».
«Diciamo che non lo escluderei. Ma dopo Alicia non sono mai più riuscito a fidarmi di nessuno, e ho sempre allontanato chiunque si avvicinasse troppo».
“E adesso?”, avrebbe voluto chiedergli. “Come ti senti adesso?”. Invece poggiò la schiena alla poltrona e chiuse gli occhi.
«L’alba ti dona», le disse. Louisa aprì gli occhi e vide che le stava sorridendo. «Un altro toast?».
Annuì.
Quando ebbero finito di mangiare Leo si alzò. «Devo andare a controllare Conor prima di iniziare a lavorare. Ti dispiace tornare giù a piedi da sola?»
«Me la caverò senza problemi», disse alzandosi a sua volta. «Grazie per la colazione».
Si guardarono.
«Sono stato bene», le disse.
Sulla via del ritorno Louisa vide alcuni scoiattoli striati che scappavano sugli alberi sentendola arrivare. Gli uccelli erano più silenziosi, anche se ce n’erano diversi che stavano continuando a cantare. Riconsiderò quello che le aveva detto Leo, e osservò che anche se avevano parlato di Elliot, non sentiva il cuore pesante come le capitava di solito quando pensava a lui. Il passato sembrava più lontano. Quel giorno anche lei era leggera come un uccellino, finalmente libera da ogni peso. Il nuovo giorno che stava cominciando non sarebbe stato vuoto come i precedenti, e rise di cuore, colma di una nuova energia. Era tempo di concentrarsi sull’emporio. Non sapeva come sarebbero finite le cose con Leo, ma di sicuro aveva trovato un nuovo ottimo amico.
La mattina del giorno del ballo pioveva e fuori c’era poca luce, quindi Louisa fece uscire i due cani in giardino – non era il caso di portarli a passeggio. Ma prese comunque impermeabile e ombrello e si avviò all’emporio. Gli operai erano già al lavoro da tempo, li trovò che stavano pulendo il vetro sul soffitto. Anche i lavori di falegnameria erano in corso, in particolare stavano sistemando le imposte alle finestre. Notò che dentro la stanza che era rimasta chiusa a chiave alcune delle tavole del pavimento erano rotte.
«Niente paura», le disse Himal. «Ripareremo tutto. Stiamo recuperando l’occorrente per l’arredo, e presto daremo anche una prima mano di vernice».
Tornò a casa e andò di sopra a verificare che l’abito per quella sera fosse stato stirato. Aveva deciso di indossare un vestito blu ghiaccio in satin. La forma allungata, la gonna stretta tagliata di sbieco e avvitata calzava alla perfezione sul suo fisico slanciato. Il corpetto era semiaderente, aveva lo scollo a V sia sul davanti che sulla schiena e maniche ad aletta. L’avrebbe valorizzato con uno scialle blu in chiffon e gli orecchini di zaffiro.
Le ore passavano lentamente, come accadeva spesso nella stagione dei monsoni. Louisa ascoltò la pioggia battere sulla strada e cercò di leggere qualcosa, mentre nel pomeriggio Margo e William andarono a recuperare il completo per lui. Poi decisero di procedere con la questione della fotografia di cui William aveva bisogno per il divorzio. Mentre William e Margo si sistemavano sul letto, lei con i capelli sciolti e le spalle scoperte, Louisa sistemò la macchina fotografica. Lui si era tolto la camicia, ma a parte quello erano entrambi completamente vestiti. Margo ridacchiava.
«È troppo strano», disse.
Fece qualche smorfia e scoppiarono tutti a ridere.
«Magari potresti abbracciarla», suggerì Louisa.
«Secondo me può fare di meglio», scherzò Margo.
William era un po’ a disagio, ma l’accontentò. «La cosa migliore è un bel bacio sulle labbra», disse.
«Oddio, che imbarazzo», disse Louisa.
«Pronta?», chiese William.
«Quando volete», rispose lei.
Mentre William e Margo si baciavano, Louisa scattò molte foto e poi scoppiarono di nuovo tutti a ridere.
«Forse dovresti metterti qui anche tu», disse Margo. «Allora sì che daremmo loro qualcosa di cui parlare».
Più tardi, quando già le ombre della sera si allungavano e il sole disegnava strisce rosa sulle pareti della camera da letto, Louisa fu assalita dalla nostalgia. Incredibile come, malgrado tutto, Elliot riuscisse a essere ancora così presente. Si sedette alla toletta e le sembrò quasi di vederlo riflesso alle sue spalle. “Stai benissimo”, parve dire lui. Lei normalmente gli avrebbe sorriso, ma non lo fece, e anzi lo chiamò bugiardo.
D’improvviso la stanza era di nuovo vuota e lui era scomparso. Chissà, forse l’aveva sentita, si disse. Restò lì seduta, sul ciglio di un silenzio abissale, in cui erano sospesi ogni emozione e pensiero. Lasciò che il tramonto entrasse lentamente in camera, senza accendere la luce.
Arrivarono le sette, e Margo bussò alla porta.
«Che ci fai al buio?», disse entrando e accendendo l’interruttore.
«Niente», disse Louisa. «Stai benissimo».
Margo era vestita in rosso, un colore che metteva in risalto i suoi capelli scuri e gli occhi verdi. «Nessun segno di Leo?», le chiese.
Louisa scosse la testa. «È un po’ in ritardo, ma non mi sorprende. Voleva assicurarsi che Conor fosse a letto prima di venire».
«Rischiamo di far tardi».
«Perché intanto tu e William non cominciate ad andare? Noi vi raggiungiamo appena possibile. Portate anche mio padre».
«Credo che volesse incontrare Leo».
«Lo incontrerà al ballo».
«Come ti senti tu?», le chiese Margo.
Louisa sospirò. «Stavo pensando a Elliot».
«Manca anche a me», Margo si avvicinò e si chinò ad abbracciarla. «E il fatto che tutti continuino a dirti di lasciarlo andare non aiuta, vero?».
Louisa scosse la testa.
«Mi dispiace».
«Ti rendi conto che non avrei mai saputo nulla di Conor né di Zinnia, a meno che alla fine non mi avesse lasciata?».
Margo scosse la testa. «Io non credo che l’avrebbe fatto. Mi spiace dirlo, ma sapeva bene che essere sposato con te gli conveniva. E non avrebbe rinunciato così facilmente… e per cosa poi?»
«Per essere libero di vivere con suo figlio, immagino».
«Desiderava molto avere dei figli. Forse in parte anche per via della morte di nostro fratello».
«Non me l’ha mai detto, ma ho sempre sentito che poteva esserci anche questo».
«Io ero piccolina al tempo, ma credo che tutte le smancerie di mia madre nei suoi confronti siano cominciate allora, insieme con le sue ambizioni. L’ha sempre spinto a essere qualcuno che non era».
«Davvero?»
«Già. E dev’essere stato proprio difficile per lui non deludere quelle aspettative».
«Non è una giustificazione».
«No…», rispose. «Comunque ancora non riesco a capire cos’abbia trovato in Zinnia».
Louisa si strinse nelle spalle. «Non è che l’ombra di se stessa, adesso. Deve essergli apparsa esotica, all’epoca, enigmatica. Sicuramente molto diversa da me. Volevo odiarla, sai, ma alla fine non ci riesco».
«Sono sicura che ti amava. Eppure… nessuno di noi conosceva davvero Elliot, non credi?».
Louisa non rispose.
«Non faccio che chiedermi se avrei potuto fare qualcosa».
«Non incolparti, Margo».
«Comunque, ha chiamato mia madre, voleva informazioni su Conor. Non le ho detto che Zinnia è malata, non vorrei che si mettesse in testa di venire a rapire il bambino».
«Leo non glielo lascerebbe mai fare».
«Potrebbe non avere scelta. È la nonna, in fondo».
Margo uscì e lasciò Louisa a finire di acconciarsi i capelli prima di scendere in salotto ad aspettare Leo. Si sentiva molto sola, la luce di un’unica lampada illuminava le sue unghie laccate. Argento forte, così si chiamava lo smalto. Era passata quasi un’ora quando infine si alzò e iniziò a camminare su e giù per la stanza. Non era da Leo, sicuramente qualcosa l’aveva trattenuto. Poi alle nove accettò la realtà e decise di andare al ballo da sola. Si stava giusto sistemando i capelli allo specchio dell’ingresso quando sentì bussare alla porta. Tornò in salotto e lasciò che andasse Ashan ad aprire. Grazie al cielo, pensò sentendo la voce di Leo. Entrò in casa con un borsone in mano e la guardò incantato. «Wow!», disse.
Louisa arrossì.
«Louisa, mi dispiace tantissimo. Non ero nemmeno sicuro di trovarti ancora qui».
«Sono contenta che tu ce l’abbia fatta. È successo qualcosa?»
«Zinnia non stava bene e Conor non riusciva a tranquillizzarsi. Ho fatto mettere il telefono, ma stanno ancora finendo i lavori, quindi non avevo modo di avvisarti. Sono felice che tu mi abbia aspettato».
«Sì».
«Già».
Si guardarono, sorridendo.
«Ti devi cambiare. Vieni, ti accompagno in una stanza».
«Grazie».
Non si mosse.
«Che c’è?»
«Louisa, hai una luce splendida negli occhi stasera».
Quando scese era un altro. Al posto della giacca che usava per andare in moto indossava un elegante completo da sera. Aveva domato i capelli rossi ondulati, ma non abbastanza da essere irriconoscibile. Era disinvolto, tranquillo, come inconsapevole del suo grande fascino. Louisa non riusciva a smettere di guardare le sue ampie spalle, le gambe lunghe e i suoi occhi scuri. Aveva un nodo allo stomaco.
Le sorrise. «Può andare?»
«Altroché».
Si schiarì la gola. «Non ti ho ancora detto quanto stai bene».
Louisa distolse lo sguardo per un attimo. «Hai detto che ti piacevano i miei occhi».
Annuì.