Parte seconda

«Se piangerai perché il sole è fuggito dalla tua vita, le tue lacrime ti impediranno di vedere le stelle».

Rabindranath Tagore

12

Eliza si era addormentata al suono dolce delle campane della preghiera e, la mattina dopo, si svegliò con un forte senso di speranza che mai avrebbe immaginato. Guardò l’infinito cielo azzurro e una decina di parrocchetti verde brillante che volavano da un albero all’altro, sbattendo le ali per mostrare lampi di piume gialle nascoste nella parte inferiore.

Poi, dopo aver trovato una scalinata, scese a camminare sotto le arcate ricoperte di piante e le delicate colonne del cortile sottostante. Poco più tardi, sopraggiunse Jay, per aiutarla a familiarizzare con la reggia.

«Non mi aspettavo che venissi tu», gli disse.

Lui fece un inchino. «Sono io che ho espressamente richiesto quest’onore».

Era cerimonioso, ma le fece vedere ogni cosa: le sale per il durbar, le armerie, tutti i tipi di salotto, gli alloggi degli uomini, le sale per i banchetti, uffici collegati, grandi biblioteche, laboratori e stanze da lavoro, stalle, magazzini, cucine, altri giardini circondati da mura, per poi tornare alla zenana. Eliza cercò di memorizzare una mappa mentale di ciò che aveva visto, mentre lui le spiegava ogni dettaglio, ma il palazzo era talmente vasto che poteva solo sperare di ricordare qualcosa. Eppure, se fosse riuscita a orientarsi e a girare liberamente senza bisogno di essere accompagnata, anche il suo senso di non appartenenza sarebbe diminuito.

«Allora», disse Jay quando terminò, «come ti senti? Onestamente».

«Vuoi dire dopo aver visto…».

«Sì».

«Lo sto superando, credo».

«Una cosa tanto tremenda non si supera facilmente. Non esitare a chiamarmi, se hai bisogno di parlarne».

«Grazie».

Lui le sorrise. «Adesso, però, ho progettato una breve fuga sul tetto solo per noi. Un piccolo diversivo».

Eliza fece un passo indietro. «Davvero? E dove?».

Lui si toccò il naso. «Seguimi».

La guidò attraverso una porticina che conduceva in quella che sembrava una parte scura e poco usata della fortezza. Eliza rabbrividì quando superarono delle pareti con l’intonaco staccato e salirono su una stretta scala. Le finestre erano anguste e il labirinto di corridoi e stanze odorava di desolazione. Anche gli ambienti da lavoro erano più claustrofobici rispetto al resto della reggia.

«Questa è la parte più antica del forte e della reggia e, come puoi vedere, è abbandonata. Guarda dove cammini, ci sono delle crepe più avanti, sul pavimento».

Dopo che si furono arrampicati su scale sempre più tortuose, alla fine Jay prese una chiave dalla tasca e aprì un grande portone borchiato. Dopo tutta quell’oscurità, la luce colpì Eliza con forza, tanto che quasi inciampò per la sorpresa. Jay le tese la mano per aiutarla e poi la condusse sul tetto.

«Questo è il mio rifugio segreto», disse. «Nessuno ci viene più qui».

Eliza si guardò attorno, estasiata alla vista dell’opalescenza dell’infinito cielo azzurro. Sembrava di essere in cima al mondo, con il vento nei capelli e l’aria talmente fresca che si sentiva la testa leggera.

«È davvero splendido qui».

La città sottostante risplendeva dorata, le ampie pianure punteggiate di colline sembravano avvolte nella nebbia grigia. Tra le colline lontane e la città, enormi greggi di pecore vagavano liberamente. Alzò gli occhi al cielo e vide una poiana che volava da un bastione all’altro. Si trovavano nella parte posteriore della fortezza e, quando si voltò verso il parapetto per guardare giù, vide il palazzo di sotto, con il dedalo di giardini e passaggi. Le persone, tuttavia, sembravano minuscole, cosa che le fece comprendere quanto si trovassero in alto. Fece un passo indietro, sconcertata.

«Tutto bene?», le chiese Jay.

«Sì. È soltanto l’aria. Quassù è molto rarefatta e pura».

«Come il miglior champagne».

«Meglio».

«Adesso ho qualcosa da farti vedere».

Si avvicinò a una piccola struttura rotonda di mattoni e aprì la porta. Un attimo dopo, Jay aveva in mano un enorme aquilone e glielo stava portando. A forma di diamante, con una struttura semplice, aveva la seta tesa sul telaio ed era dipinto con motivi geometrici vivaci, rossi e arancioni. Decine di lunghi nastri gialli scendevano dalla base.

«Vuoi imparare a farlo volare? È la giornata perfetta, con questo vento leggero».

«Prima voglio guardare come fai tu».

«Perché non mi aiuti a lanciarlo? Da queste parti facciamo volare gli aquiloni tutto l’anno, ma soprattutto dall’inizio di dicembre fino al festival di Sankrat, quando non solo si mostrano gli aquiloni più belli e le abilità nel farli volare, ma si boicotta anche la corda degli avversari, così i loro aquiloni cadono, e il nostro resta in cielo».

«Spero di non dover competere con te».

Lui rise. «Be’, di certo non per far volare un aquilone».

Lo guardò che prendeva il gomitolo di corda mentre le chiedeva di tenere l’aquilone. Srotolò una ventina di metri di filo e aspettò, attento alla direzione del vento. Poi le chiese di allontanarsi di circa venti metri, appunto, in modo che fosse abbastanza lontana perché lo spago si tendesse tra loro; infine le raccomandò di rimanere con le spalle controvento e di tenere l’aquilone davanti a sé.

«Ora lascialo andare», le disse.

Eliza fece come le aveva detto e guardò l’aquilone inclinarsi e salire.

«Quando il vento passa sopra la superficie dell’aquilone, si divide in due flussi d’aria. Uno scorre sopra, l’altro sotto. È questo, fondamentalmente, a tenerlo in aria». Diede spago per farlo salire ancora più in alto.

Eliza osservava l’aquilone vorticare e roteare, quasi fosse cosa viva, con i nastri e i disegni che coloravano l’aria.

«Vieni a tenerlo tu», la chiamò Jay.

Quando gli si avvicinò, lui le passò il gomitolo di spago. Non si aspettava che vibrasse tanto e quasi se lo lasciò scappare dalle mani per la sorpresa. A quel punto, Jay si mise dietro di lei e la circondò con le braccia; poi pose le mani sopra le sue, in modo che tenessero il gomitolo insieme. Jay era molto vicino, sentiva le vibrazioni della corda passare attraverso le sue mani; le si seccò la bocca e non riuscì a deglutire. Ammirò il paesaggio punteggiato di verde e il grande deserto in lontananza, dove i piccoli villaggi da lassù non erano altro che puntini. Vide anche un sottile nastro azzurro, forse si trattava dello stesso fiume in cui il burattino era stato messo a riposo. Mentre osservava il panorama, pensava solamente al suo cuore, che batteva veloce. Il tempo sembrava immobile, sospeso, quasi tremante, nell’attesa che uno dei due si muovesse per primo. Infine si levò un’improvvisa raffica di vento e Jay tirò l’aquilone più vicino, per poi lasciarlo andare di nuovo. Lei rimase ferma, tra le sue braccia, senza fiato.

«Adesso lo riprendo», disse.

Eliza si allontanò.

«Grazie».

«Volevo solo fare qualcosa per farti stare meglio».

«Ha funzionato».

«Sai, dovrò partire per un po’. Devo passare dai miei contatti, forse anche in Inghilterra, per vedere se riesco a trovare qualche sponsor o sostenitore per il progetto dell’irrigazione. Tu starai bene?»

«Certamente. E poi c’è sempre la mia amica Dottie».

Fu con il pensiero di Jayant Singh nella mente che Eliza si presentò alla Residenza inglese, la grande casa in città di Clifford Salter, accompagnata da una guardia in livrea e da un guidatore di risciò che l’avrebbe aspettata per riportarla indietro. Si trovava lì per consegnare a Clifford le lastre fotografiche e, cogliendo l’occasione, gli avrebbe chiesto di aiutare Jay a ottenere le autorizzazioni e il prestito per il suo progetto di irrigazione.

La stanza in cui fu condotta sembrava quella di una casa di campagna inglese, ingentilita appena da un tocco orientale. Si sedette dando le spalle alla finestra e posò con attenzione la busta che conteneva le stampe e le lastre fotografiche. Quando Clifford entrò, con un abito di lino chiaro, la camicia e la cravatta, si alzò dalla sedia e gli tese la mano; lui la ignorò e si avvicinò per baciarle la guancia. I suoi occhi brillavano, sembrava davvero deliziato di vederla.

«Che piacere. Farò portare del tè».

Poi prese una sedia, si accomodò di fronte a lei e fece suonare una campanella. Si infilò un dito nel colletto. «Allora? Sputa il rospo».

Eliza sorrise. «Niente rospi. Sono riuscita a scattare fotografie meno formali, ultimamente».

«Magnifico. Vogliamo il vero sapore del Rajputana, e non la serie di immagini impostate a cui questi cosiddetti sovrani sono tanto affezionati. Ora dimmi, Jayant Singh riceve molte visite?»

«Non ne ho idea».

«Eppure devi aver visto qualcosa. Magari qualcuno che ti è sembrato un po’ fuori luogo o più rude. Non si può mai sapere chi stia influenzando quelle persone».

«Ha un amico che si chiama Devdan che mi sembra diverso, ma è tutto ciò che so».

«Molto bene. E cosa mi dici di Laxmi?»

«Laxmi? Non l’ho mai vista in compagnia di nessuno, anche se immagino che riceva molte visite».

«E Chatur? Ha dei visitatori particolari?»

«Tutto quel che so di Chatur è che è arrogante e condiscendente. Come potrei sapere chi viene a fargli visita? Il palazzo è molto grande, Clifford».

«Certamente, certamente. Ma non mi hai ancora detto come mai sei qui. A meno che non sia…». Fece una pausa. «Ho speranza?».

Eliza scosse la testa. «Mi dispiace».

«E dunque?»

«Jayant Singh ha deciso di assumere un ingegnere per progettare un piano d’irrigazione, per convogliare l’acqua nelle sue terre e nei villaggi vicini. Vorrebbe portare prosperità alla zona e crede che l’acqua sia la soluzione».

«Immagino… Acqua. Bene, sì, porta ricchezza. Intende perforare il sottosuolo?»

«Non credo. Il progetto è alle prime fasi. Ma, Clifford, la gente è povera ed è piovuto poco. Quando guardo quei volti devastati mi sento in colpa; il fatto è che abbiamo bisogno del tuo aiuto».

Lui sollevò un angolo della bocca. «Abbiamo?»

«Be’, non io, ma Laxmi e Jay; io mi sono offerta di fare quel che posso. Basta guardare la miseria della gente, bisogna aiutarli».

«Jay? È così che lo chiami?». Ci fu un silenzio imbarazzato prima che Clifford riprendesse a parlare, durante il quale la studiò attentamente. «Voglio sperare che non ci sia niente di più».

«Ovviamente no».

Sembrava che ci stesse pensando su.

«E per che cosa vi serve aiuto?»

«Per la ricerca dei fondi e la presentazione del progetto. Jay ha bisogno dell’approvazione del governo inglese per procedere e di un’autorizzazione prima di costruire una diga su un piccolo fiume».

«Fondi britannici?»

«Esattamente».

Clifford sbuffò. «Hanno ricchezze nascoste ovunque e vengono qui a battere cassa, come al solito!».

Si alzò in piedi a pensare, con le mani in tasca. «Vuoi rimanere a pranzo, Eliza? Così avrò modo di rifletterci e di mandare qualche messaggio a persone influenti. Che ne dici?».

Eliza inclinò il capo. «Ne sarei lieta».

«Andiamo in giardino. Lì c’è tanta ombra».

Si sedettero su una panchina in giardino; erano un po’ troppo vicini, ma Eliza sapeva che avrebbe dovuto pagare un prezzo per l’aiuto di Clifford, quindi, nonostante il fastidio, non si allontanò. Rimase calma, con le mani sul grembo, in attesa, proprio come avrebbe fatto Laxmi. Sorrise pensando a quanta influenza avesse su di lei e si mise a guardare il grazioso gazebo, la splendida fontana, le piante rampicanti che crescevano sulle mura di cinta.

«Un penny per i tuoi pensieri», disse Clifford.

«Che bel giardino», commentò lei, e fu premiata con un sorriso.

«Il mio orgoglio e la mia gioia. A proposito», continuò lui aggiustandosi la cravatta, «ho una lettera per te… a giudicare dal francobollo credo sia di tua madre. Ricordami di dartela prima che tu te ne vada».

Eliza lo ringraziò, anche se una lettera da parte di sua madre – probabilmente piena di lamentele – non era una cosa piacevole per lei.

«Allora, come sta andando, veramente?», le chiese.

Un maggiordomo in livrea bianca portò loro un vassoio d’argento con due aperitivi. Eliza notò che Clifford aveva già preso il suo bicchiere e lo stava sorseggiando. Era chiaramente un uomo schizzinoso, con le unghie tagliate corte e sempre ben vestito, a prescindere dal clima.

«Be’, è tutto strano, ovviamente», rispose lei.

«Strano? Tutto qui?». Clifford si accigliò. «Non pensi alla poligamia? Alle concubine? Se fossi una donna credo che l’avrei trovato disgustoso».

«Cerco di non pensarci e per la verità le concubine sono molto amichevoli».

«E l’idolatria?», la incalzò lui duramente.

«Laxmi mi ha dato delle spiegazioni che mi sono sembrate sensate».

Sapeva che non avrebbe mai potuto parlargli della vedova bruciata viva. Lui alzò le sopracciglia. «Non starai diventando una selvaggia, spero. Avresti molti problemi».

Se solo lui avesse saputo quanto era lontano dal vero. «Davvero, Clifford. Sarà difficile», fu tutto ciò che gli rispose.

La fissò da dietro gli occhiali. «Stai attenta, Eliza».

«Come ti ho già detto, sto bene». Lei alzò gli occhi e sostenne il suo sguardo, sperando che fosse vero.

«Anish non è in grado di regnare. Abbiamo sempre a che fare con rivolte civili e potenziali ribellioni, ma lui non pare nemmeno accorgersene. La Corona britannica regna sovrana in India, ma questa gente a volte sembra esserselo dimenticata. Ci piacerebbe toglierlo di mezzo, se posso essere sincero, e tu potresti essermi utile».

«In che modo?»

«Non ne sono ancora sicuro. È solo un’idea. Suo padre era una brava persona, aperto ai cambiamenti che gli suggerivamo, a lui, invece, piace solo vestirsi in modo sfarzoso e giocare a polo, e adesso è anche diventato troppo grasso per farlo. Se non riusciamo a tenere a bada gli Stati principeschi, i ribelli avranno gioco facile».

«I ribelli?»

«Quelli che vogliono l’indipendenza dell’India. Non possiamo permetterci altre rivolte. Ora come ora sta crescendo la disobbedienza civile».

Ci fu un breve silenzio.

«Clifford, tu sei credente? Credi nel fato?»

«Il fato inteso come il corso degli eventi, determinato a prescindere dal controllo dell’uomo?»

«Immagino sia questo».

Lui scosse la testa. «Quello è fatalismo. Se non possiamo cambiare il nostro destino, perché ci affanniamo tanto?»

«Appunto».

«In ogni caso, io non sono un uomo religioso».

«Non credo che gli hindu vedano il destino come lo vediamo noi», disse Eliza.

«No. Dovresti chiedere a uno di loro, ma credo che sia connesso al concetto di karma. Per noi il destino è semplicemente qualcosa che deve necessariamente accadere; per loro, invece, può influenzare il passato e il presente. A volte mi chiedo se i problemi tra le nostre due culture non siano da addebitarsi a fraintendimenti verbali».

Tornata al castello, Eliza andò dritto alle sue stanze, dove rimase sconcertata nel trovare il lucchetto della sua camera oscura non perfettamente chiuso. Avrebbe potuto giurare di non averlo lasciato aperto dopo aver preso le lastre fotografiche e le pellicole per Clifford, ma forse nella fretta si era sbagliata. Fece suonare il campanello per avere del masala chai, tè speziato, poi si sedette alla scrivania a leggere la lettera di sua madre.

Quando ebbe finito, la lasciò cadere a terra e seppellì la testa tra le mani. Non poteva essere vero. Sua madre mentiva. Le tornò in mente un ricordo a lungo represso: aveva circa otto anni, era una bella giornata di sole, Eliza era felice, perché aveva accompagnato la sua ayah a comprare del pizzo a Chandni Chowk. Mentre l’ayah pagava, Eliza aveva guardato fuori dalla vetrina e aveva sorpreso suo padre in strada, con un enorme mazzo di fiori. Quando era tornata, aveva chiesto eccitata a sua madre dove fossero i fiori che il padre aveva portato a casa. Ma di fiori non ce n’erano. Di fatto, sua madre non lo vedeva da due giorni. Eliza era piccola, ma nonostante ciò, qualcosa in lei aveva raggelato. Raccolse la lettera e la rilesse di nuovo, col cuore che affondava a ogni parola.

Mia cara Eliza,

questa è una lettera che avrei voluto scriverti già da molto tempo. Avrei voluto parlartene già quando tu sposasti Oliver, ma le parole non mi sono mai venute; forse non avrei mai avuto il coraggio di parlare con te faccia a faccia del deprecabile comportamento di tuo padre. So che tu l’hai idealizzato, ma tutto ciò che sto per dirti, lo giuro su Dio, è la pura verità. Adesso che la mia salute comincia a vacillare devo parlartene, finché sono ancora in tempo. Non ti preoccupare, non ti sto chiedendo di tornare a casa, almeno non ancora.

È iniziato tutto quando ti aspettavo, alcuni mesi prima della tua nascita. Non sospettavo nulla, finché una delle mie amiche mi disse di aver visto David baciare una ballerina in un giardino di Delhi. Lo amavo molto e mi rifiutai di crederle, dunque cercai di non pensarci più. Ho preferito pensare che lei non fosse più mia amica. Mi fidavo di David. Eravamo felici e pensai che lei fosse invidiosa. Avevo un bel marito giovane, invece lei era una zitella che viveva grazie alla generosità di suo fratello.

Ma il danno era stato fatto, e a poco a poco iniziai a notare le piccole cose. Il modo in cui tuo padre tornava a casa leggermente profumato di gelsomino, con il colletto un po’ storto. Le inspiegabili nottate fuori casa, che poi si trasformarono gradualmente in giorni. Quando scoprii che aveva debiti di gioco, mi sentii sollevata. Pensa. Perlomeno non si era fatto un’amante, era ciò che continuavo a ripetermi. Ma mi sbagliavo. Ben presto compresi l’entità del suo tradimento, non solo nei miei confronti, ma anche nei tuoi. Era già venuto tutto fuori prima della sua morte. Non solo ci aveva mandate sul lastrico a causa dei suoi debiti di gioco, ma aveva anche sperperato tutto quello che avevamo per indebitarsi sempre di più, perché per anni aveva mantenuto una ballerina in un piccolo appartamento vicino a Chandni Chowk. Debiti che io, dopo la sua morte, ho dovuto in qualche modo onorare. E c’è di più, molto di più, ma non voglio soffermarmi su questo.

Non ho mai voluto rovinare l’immagine che avevi di tuo padre, ma non riesco a tenere più questo segreto. Mi dispiace. Spero che tu stia bene. Per piacere, porta i miei saluti a Clifford. Se lui dovesse mostrare interesse nei tuoi confronti, spero che tu sarai accondiscendente. Come ormai sai, nessun uomo è perfetto, nemmeno il tuo amato padre.

Con affetto,

tua madre

A Eliza mancò la terra sotto i piedi. Si alzò e prese a camminare avanti e indietro, sconvolta dall’amarezza di quelle pagine. Non riusciva a capire quale fosse lo scopo di sua madre, perché le raccontava quelle spaventose menzogne? Anna aveva fatto vacillare in un colpo solo tutte le convinzioni di Eliza riguardo chi fosse lei e su chi credeva che fosse suo padre. Pensò ai suoi abbracci e ai suoi sorrisi caldi, e poi si ricordò anche delle sue assenze. Oh, Dio! E se fosse stato tutto vero? Ma no. Doveva trattarsi di un altro dei tentativi di sua madre di minare l’amore che Eliza nutriva per suo padre. Poteva quasi sentire la voce di sua madre mentre scriveva quella lettera. Eppure, vero o non vero, Eliza era distrutta; il fatto stesso che Anna avesse scritto quelle parole le faceva male al cuore, e c’era persino dell’altro su cui sua madre non si era dilungata. Che altro poteva essere? E la salute di Anna stava davvero peggiorando, o si trattava di un altro dei suoi ricatti emotivi?

Andò a cercare Jayant, ma le dissero che era partito e che sarebbe stato fuori per qualche tempo, dato che doveva incontrare alcuni ingegneri inglesi. Restò sorpresa, perché non aveva neppure aspettato di sentire cosa le avesse detto Clifford. Tornando alle sue stanze, le sembrò di udire dei passi dietro di sé. Le si drizzarono i capelli sulla nuca, si guardò intorno. Non c’era nessuno, solamente l’antico palazzo che scricchiolava e gemeva. Ma si raggelò al pensiero che qualcuno potesse spiarla, in silenzio. Si disse che era solo la sua immaginazione, eppure qualcosa sembrava percorrere quei corridoi, ne era certa. Forse un’ancella? Una delle guardie? Se quella reggia fosse stata abitata da fantasmi, non si sarebbe affatto sorpresa. Quella presenza che non riuscì a identificare, unita alle ombre nella semioscurità dei corridoi, la lasciò con una sensazione di paura strisciante.

Si affrettò a raggiungere un rincuorante giardino baciato dal sole, dove Indira sembrava stesse per iniziare un nuovo disegno al cavalletto. Il profumo di rose e gelsomino riempiva l’aria; desiderando ardentemente di avere una vita normale in quel palazzo, per qualche istante Eliza guardò la fanciulla. Poi, dal momento che aveva un disperato bisogno di un’amica, decise di provare a parlare di nuovo con lei.

«Stai tratteggiando la base per un nuovo quadro?», le chiese con voce gentile, avvicinandosi un po’ a lei.

Indi non rispose ed Eliza credette di aver parlato invano. «Mi chiedevo se avessi voglia di sapere qualcosa di più sulla fotografia. Mi piacerebbe farti vedere come faccio a catturare un particolare momento».

Indi la fissò. «Nahin dhanyavaad».

Poi le voltò le spalle di proposito e tornò a ignorarla. Era stato un “No, grazie” molto deciso.

13

Gennaio 1931

Eliza si dedicò completamente all’unica cosa che sapeva fare, da quando la vita l’aveva sconvolta. Impegnata a lavorare, dimenticò le accuse di sua madre. Prima dell’alba, quando una tenue nebbia azzurra velava la città sottostante, prima ancora che le campane del tempio iniziassero a suonare, esplorò la reggia, alla ricerca di soggetti insoliti per i suoi scatti, di dettagli d’architettura, di piccoli angoli con decorazioni eleganti e dettagliate, o di forti contrasti d’ombra e luce. Erano momenti strani, sublimi, eppure inesorabilmente solitari.

Scese in città, naturalmente accompagnata, e cercò di catturare immagini di artigiani all’opera; immortalò anche un musicista intento a suonare uno strumento che sembrava ricavato da una noce di cocco.

Tornata al palazzo, trovò ad attenderla una buona notizia: Clifford le aveva fatto recapitare un messaggio in cui le spiegava che aveva mosso le sue pedine e che Jay poteva procedere con il progetto idrico. Appresa la novità, scattò foto alla servitù col cuore più leggero. Sembravano tutti ben disposti nei suoi confronti e le concubine, che avevano lunghe e luminose sciarpe rosa e arancioni sulle gonne e tuniche smeraldine, la invitarono a passare del tempo con loro. Iniziavano a fidarsi di lei e, tra una chiacchiera e una risata, le permisero di scattare le fotografie spontanee e rilassate che desiderava. Quando più tardi le sviluppò, le donne esclamarono eccitate indicandosi tra loro nelle immagini e si offrirono di iniziarla alle sedici arti femminili. Non sapendo bene di cosa si trattasse, Eliza all’inizio rifiutò, ma dato che insistevano, non ebbe scelta. La condussero in un’enorme stanza al piano terra, con le pareti e il pavimento ricoperti di piastrelle rosa pallido. Le finestre, schermate dalle grate jali attraverso le quali il sole filtrava disegnando motivi geometrici sul pavimento, sembravano più decorative che restrittive. Più luminose e meno oscure. Quando le ancelle portarono enormi bacili di acqua bollente e li versarono in un profondo ghangal di rame, una sorta di vasca, si sentì curiosa e felice.

Si sedette su una panca di legno, e le concubine le lavarono i capelli con latte di cocco e le fecero il bagno nell’acqua profumata di gelsomino. Eliza si vergognava molto per il fatto di essere completamente nuda davanti a loro, in presenza di tutti quegli occhi che la osservavano e di tutte quelle mani che toccavano la sua pelle pallida, perciò i suoi erano sorrisi imbarazzati. Le donne fecero commenti sul suo seno e sulle sue cosce, ma pian piano lei si rilassò e, quando si arrese, divenne più languida. Mentre le asciugavano i capelli e le massaggiavano il corpo con un olio profumato alla rosa, le raccontarono le loro storie. Una delle concubine le disse di essere la terza figlia femmina di una famiglia indigente, nata in una terra lontana e arida, senza fratelli maschi. «Hai delle sorelle allora?», le chiese Eliza. «Ho sempre desiderato avere una sorella».

Ma la ragazza scosse il capo e cominciò a raschiare i piedi di Eliza con qualcosa di affilato. «Le hanno prese i lupi, io invece sono stata condotta qui».

«Da bambina?»

«I miei genitori non potevano permettersi di mantenermi. A cosa serve una figlia femmina?».

Poi la ragazza spalmò sui piedi di Eliza una specie di burro, cantando dolcemente.

Un’altra fanciulla le fece notare che avrebbe dovuto indossare più gioielli, oppure l’avrebbero scambiata per una vedova. Eliza protestò, ma le consigliarono comunque di far visita al gioielliere il prima possibile e comprare ammennicoli in abbondanza. Lei rise, ma prese nota. Tutte le volte che stava con loro, le donne finivano con l’accarezzarsi fra loro, ridere e farsi scherzi che non capiva, ma in quella specie di delirio caotico si divertiva, quasi riuscisse a comprendere qualcosa di più di quella terra dalle tradizioni tanto diverse.

Una delle donne aveva preparato quello che chiamavano kaajal. Si trattava della pasta scura con cui si ornavano gli occhi, e la ragazza volle mostrarle come si applicava. Quando ebbe finito, Eliza si guardò allo specchio e rimase stupefatta dall’intensità drammatica che il cosmetico donava ai suoi occhi. Sembravano più verdi, più chiari, e, quando sorrise ammirando il risultato, la donna gliene regalò un po’, riponendolo in una scatolina d’argento, assieme al bastoncino di legno per stenderlo.

Era alla reggia da metà novembre, e aveva trascorso un Natale tranquillo a casa di Dottie. Adesso che la notte faceva più freddo, aveva chiesto un paio di coperte supplementari. Le avevano dato un razai, una trapunta imbottita di cotone che odorava di muschio e doveva aiutare a mantenere il calore del corpo. Inoltre, come tutti gli abitanti della reggia, Eliza aveva preso ad avvolgersi in un ampio scialle di cachemire già dalla mattina presto, e se lo toglieva solamente quando la giornata si faceva più calda. Credeva ancora di essere seguita, sebbene non vedesse mai nessuno ogni volta che si fermava a guardare. Il palazzo sembrava avvolto nel mistero. A volte le pareva che stesse per accadere qualcosa di terribile e la brutta sensazione di essere sotto osservazione la rendeva tesa e nervosa. Altre volte sentiva suoni provenire da chissà dove.

Era sorpresa di quanto le mancasse Jay, avrebbe voluto che fossero suoi i passi che sentiva nel corridoio, e non riusciva a liberarsi dalla sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto.

Una mattina presto sentì bussare alla sua porta, e quando aprì, un’ancella le fece cenno di seguirla. Inizialmente Eliza non si preoccupò, ma mentre si addentravano nelle viscere dell’edificio, le venne la pelle d’oca per la tensione. In un luogo tanto vasto, era difficile mantenere la giusta prospettiva; non solo questi corridoi sotterranei erano freddi, senza finestre, illuminati solo dalle lampade a olio, ma c’era qualcosa di veramente strano in essi.

L’ancella si fermò davanti a una porta di legno scuro, e con grande sorpresa di Eliza, fu il dewan, Chatur, ad aprirla e a farle cenno di entrare. Lei esitò, si girò per guardare la serva, ma le guardie improvvisamente apparvero dall’oscurità del corridoio e le impedirono la visuale. Non le piaceva, non si fidava di Chatur. Tutto in lui, dal portamento altezzoso alle labbra arricciate, esprimeva esplicito disprezzo.

Quando Eliza entrò nella stanza buia e soffocante, il sorriso dell’uomo era intimidatorio e privo di calore. «Questo progetto del catalogo fotografico significa molto per lei?», le chiese.

«Sì», replicò lei con il tono di voce più dignitoso che le riuscì.

«Peccato». Ecco un altro di quei sorrisi che non arrivavano mai agli occhi e le davano l’impressione di essere schernita. «Forse sa già che una vedova è considerata una donna colpevole. Riteniamo che sia disonorevole per una donna sopravvivere al proprio marito».

Giocava al gatto e al topo, e lei deglutì nervosamente. «Un’usanza assolutamente ridicola, a mia opinione».

Lui ignorò il commento. «Mi è stato fatto notare che lei è vedova, signora Cavendish. Questo tipo di notizie si diffondono presto, nel nostro piccolo mondo chiuso».

Il cuore di Eliza iniziò a galoppare, ma quando lei aprì la bocca per replicare, Chatur la interruppe.

«Come io lo sappia, non è affar suo».

«Non sono d’accordo».

«Be’, può darsi, ma il risultato è che una donna come lei non può assolutamente essere libera di muoversi qui dentro. Noi crediamo che il contatto con una vedova possa essere estremamente infausto e ben poche persone vorranno stare in sua compagnia. A tal fine io, o uno dei miei uomini, la accompagneremo sempre e supervisioneremo tutte le fotografie che intende scattare, compreso lo scrutinio delle lastre. Tutto ciò che io riterrò indecoroso verrà distrutto. È chiaro?».

Indignata, Eliza alzò la testa impettita. «Perfettamente chiaro, anche se credo che il governatore britannico possa avere qualcosa da ridire».

«Credo che il signor Salter in questo momento sia a Calcutta e starà via per qualche settimana».

«Be’, allora il principe Jay…».

«Non si faccia trarre in inganno. Il principe non ha alcun potere e farà ciò che dico io. È un ordine del maharajah».

«È stato lei a riferire al maharajah che sono vedova».

«Conosco i miei doveri. Noi qui crediamo nei doveri, e il primo dovere di una moglie è quello di tenere in vita suo marito». E fece una risatina. «È stato un gioco da ragazzi convincerlo».

Eliza si girò per andarsene, ma poi si voltò, perché era stanca di chiedersi se fosse tutto frutto della sua immaginazione, e gli chiese: «Perché mi fa seguire?».

Chatur sorrise. «Se lo sta immaginando. Nessuno l’ha seguita, ma, se anche fosse, non sarebbe meglio per lei lasciare ora la reggia, prima che, diciamo, possa accadere qualcosa di peggio? A lei, o a qualcun altro? Questi palazzi possono essere luoghi pericolosi».

Eliza replicò a tono a quella minaccia. «E perché mai dovrebbe accadere qualcosa?»

«È solo un modo di dire, signorina Fraser. Ma ha visto anche lei cos’è accaduto alla partita di polo». Chatur aprì le mani, con uno sguardo fintamente desolato, e scrollò le spalle.

E questo le diede la certezza che dietro la caduta di Jay ci fosse Chatur, quindi si sarebbe dovuta preoccupare non soltanto per se stessa, ma anche per Jayant. Benché avesse accusato il colpo, non poteva dare a Chatur il piacere di notare quanto fosse in apprensione, perciò fece del suo meglio per nascondere la paura. La minaccia velata era crudele, e i suoi movimenti sarebbero stati estremamente limitati, da quel momento in poi. Le cose non sarebbero potute andar peggio.

Avrebbe voluto che Jayant tornasse a casa e, adesso che Chatur era a conoscenza della verità, anche Laxmi doveva sapere tutto. Furiosa, nascondendo il suo stato d’animo, lottò per celare il dolore. Cosa avrebbe detto Laxmi? E lei, con Chatur sempre alle calcagna, quanto sarebbe stata al sicuro a palazzo? Con gli occhi lucidi e le mani sudate, disse a se stessa di non essere sciocca. Non le sarebbe accaduto niente di brutto. Quell’uomo, in fin dei conti, non era solamente un prepotente?

14

Jay non era ancora tornato e dunque Eliza sapeva che il suo unico alleato non c’era; le concubine ciarliere non l’avevano più chiamata, e i suoi movimenti alla reggia erano stati severamente limitati. Aveva occasionalmente visto le figlie di Anish che pattinavano, ma dato che era sempre accompagnata da una guardia, non aveva il coraggio di chiamarle. Era chiaro che le guardie avevano ricevuto ordine di disturbare i suoi progetti e, dal momento che era intrappolata e frustrata, il tempo trascorreva lento e insopportabile. A volte le sembrava di annegare in quel silenzio che tale, però, non era mai. Scattò poche fotografie, tutte molto impostate e formali, e iniziò a pensare che non sarebbe riuscita a portare a termine la sua missione. Gli incubi tornarono a farle visita, ma non c’era più solamente l’esplosione della bomba col suo terribile frastuono a risuonare ininterrottamente nella sua testa, ma anche l’odore della carne bruciata, sul suo viso, sui suoi capelli. Si svegliava graffiandosi la pelle. Altrimenti, vedeva il volto di suo padre disintegrarsi davanti ai suoi occhi, sostituito dall’immagine di una pira funeraria, e poi si destava tremante, con la camicia da notte appiccicata al corpo e i capelli bagnati di sudore.

Per la maggior parte del tempo restò consapevole di essere seguita, e spesso si aspettava di vedere qualcuno intento a spiarla. Chissà se aveva più paura di essere effettivamente seguita o di quello che stava accadendo alla sua mente, al pensiero che sarebbe arrivato il peggio. Doveva sperare che Chatur fosse un uomo tutto chiacchiere, e di non essere in pericolo, ma era cosa del tutto umana considerare l’ipotesi di preparare i bagagli e andarsene. Eppure, se se ne fosse andata, che futuro l’avrebbe attesa in Inghilterra? Aveva speso gran parte dei suoi beni per acquistare l’attrezzatura, confidando nel fatto che questo progetto l’avrebbe condotta a cose più grandi. Veniva pagata mensilmente, ma lasciare il progetto incompiuto significava anche che avrebbe perso la cifra forfettaria prevista alla conclusione, senza considerare che pure la sua reputazione di fotografa ne avrebbe sofferto.

Stava camminando lungo il corridoio che portava alle sue stanze, pensando alla successiva serie di fotografie, quando improvvisamente si bloccò e si nascose velocemente in una nicchia. Aveva visto un uomo uscire furtivamente dalla sua camera da letto e richiudere la porta a chiave dietro di sé. Quando fu certa che se ne fosse andato, corse alle sue stanze e con le mani tremanti girò la chiave nella toppa. All’interno l’uomo era stato abile a coprire ogni traccia della sua presenza ma, anche se bene o male era tutto al suo posto, Eliza notò che gli oggetti sul tavolino erano stati spostati. Di fronte alla prova decisiva del fatto che fosse veramente sotto osservazione, si spaventò e si arrabbiò. Come osavano entrare nelle sue stanze senza il suo permesso? Era certa di aver riconosciuto una delle guardie di Chatur nell’uomo furtivo, quindi dietro tutto ciò doveva esserci proprio il dewan. Trascinò una sedia e la appoggiò con lo schienale contro la porta. Non era un grosso deterrente.

Il mattino successivo, dopo una notte spaventosa e insonne, la guardia lasciò Eliza sola in giardino, dove si accomodò su una delle gigantesche altalene capaci di ospitare quattro donne per volta; quando strusciò i piedi sul terreno, udì una voce e vide Indi che procedeva verso di lei.

«Sei stata tu a dirglielo?», le chiese bruscamente. Era ferita al pensiero che Indi avesse svelato il suo segreto e non riusciva a celare il fastidio.

Indi aggrottò la fronte.

Eliza alzò la voce. «Hai detto loro che sono vedova?»

«Ovviamente no».

«E allora chi è stato?», la incalzò Eliza. Era una comunità chiusa, dove correvano sussurri e bisbiglii, e i segreti finivano per essere scoperti. Lo sapeva bene.

«Non lo so», replicò infine la giovane.

«Be’, la verità è venuta a galla e ora sono sempre sotto osservazione. Non so cosa pensino che io possa fare».

Indi sospirò. «Contaminare le altre donne, probabilmente. Lascia che ti aiuti. Conosco tutti i nascondigli del palazzo, anche meglio delle guardie. Posso farti uscire senza che se ne accorgano».

«Vogliono mettere un veto alle mie lastre fotografiche».

«Posso portarle via di nascosto».

«Mi aiuteresti veramente?».

Indi annuì ed Eliza sperò tanto che fosse sincera.

«E posso anche mostrarti il passaggio segreto tra la zenana e il mardana, dove ci sono gli alloggi degli uomini. È molto utile per sapere ciò che sta succedendo».

«Cosa posso offrirti in cambio?».

Indi sorrise. «Ci ho pensato, sai. Mi dispiace, sono stata meschina. Tu volevi spiegarmi come funziona la fotografia, non solo i dettagli tecnici, ma l’arte. Saresti ancora disposta a farlo?».

Quella scintilla di speranza rese felice Eliza che, convinta che tutto si sarebbe risolto, prese per mano la ragazza. «Ne sarei lieta, davvero. Potremmo imparare a osservare il mondo insieme. Aiutarci l’un l’altra».

Nel giorno più buio della vita, sarebbe sufficiente avere un solo buon amico, pensò Eliza mentre si alzava in piedi. E mentre risalivano la stretta scala che portava alle sue stanze, chiese a Indi del suo passato.

La fanciulla si fermò. «Amavo mia nonna».

«L’ho incontrata. Lo sapevi?».

Indira annuì. «L’ho saputo».

«Jay mi ha raccontato qualcosa di quello che è successo. Tua nonna pensava che tu fossi in pericolo».

«Avevo una collana. La portavo sempre al collo, come la maggior parte dei bambini. Poi un giorno è sparita. Avevo giurato a me stessa che non l’avrei mai persa e, quando una donna sospettata di essere una strega è stata ritrovata morta con un’ascia nella schiena, mia nonna ha saputo che la mia collana mi era stata sottratta mentre dormivo, e che anch’io ero in grave pericolo. Il mio è un villaggio arretrato, gli abitanti sono contadini. Non avevo madre, né padre, né idee in proposito».

Eliza rammentò le linee morbide delle capanne color ocra e delle mura. «Sembrava un luogo pacifico».

«Abbastanza pacifico, ma io non ero remissiva, e quelli pensavano che sarebbe stato meglio se mi avessero sepolta in una giara di terracotta».

«Cosa?»

«Questo è quel che fanno con le bambine indesiderate. Molte neonate vengono messe in vasi di argilla e sepolte nel deserto. Chiedi a Clifford Salter. Gli inglesi ne hanno trovate alcune».

Sconvolta dall’orrore, Eliza sussurrò. «Vuoi dire sepolte vive?»

«Non so. Probabilmente sì, così non erano propriamente costretti a ucciderle. In un certo senso, è anche comprensibile. La gente è povera e le ragazze sono costose. I genitori non hanno nessun ritorno economico dalle femmine, che, tra l’altro, devono andare a vivere con la famiglia del marito, quindi non possono prendersi cura di loro durante la vecchiaia. Rimangono soli, coi cuori spezzati, perché hanno cresciuto con amore le loro figlie. I ragazzi invece restano».

«Accade ancora? L’infanticidio?».

Indira scrollò le spalle. «Non è sorprendente quante neonate siano state prese dai lupi?».

15

Febbraio

Eliza ebbe paura per un momento, quando proprio il giorno dopo si trovò faccia a faccia con Chatur, ma sapeva che non aveva importanza quanto fosse spaventata, doveva affrontare quell’uomo; raddrizzando le spalle, decise di dare voce alla sua rabbia e alla sua frustrazione.

«Perché mi ha fatto seguire?», domandò, lottando per controllare il tremore nella sua voce, mentre le guance le arrossivano. «Voglio la verità. So che era una delle sue guardie».

Lui aggrottò la fronte e si alzò, poi fece un passo verso di lei. «Io l’avevo avvisata che sarebbe stata accompagnata in ogni momento».

«Oh, no. Non se la caverà così. Questo atteggiamento è diverso, furtivo. Ho visto qualcuno che usciva dalla mia stanza».

Chatur sorrise freddo. «Senza dubbio una delle donne delle pulizie».

Lei sostenne il suo sguardo. «Era un uomo».

«Ha una fertile immaginazione, signorina Fraser. Se fossi in lei, cercherei di controllarla. E si ricordi, qualunque cosa possa pensare di me, non sono uno stupido. Queste accuse infondate non piaceranno ad Anish; se continua a blaterare, nessuno le crederà. Glielo posso assicurare».

«A blaterare!».

«Lei non m’inganna, so che è stata messa qui per sorvegliarci. Per chi lavora, veramente?».

Eliza quasi scoppiò a ridere. «È assolutamente ridicolo».

«Ah, sì?»

«Certo!».

«Allora si chieda: non le ha forse fatto qualche domanda dettagliata sulla vita che conduciamo qui, il suo signor Salter?».

Eliza si guardò i piedi e non rispose.

Lui inarcò le sopracciglia. «Credo proprio di aver centrato il punto. Non ho difficoltà ad affermare che qui non amiamo gli intrusi. La avviso, stia attenta a quel che fa. Buona giornata, signorina Fraser».

Eliza era pienamente consapevole che Chatur sarebbe potuto diventare un pericolo, ma la sua teoria sul fatto che lei fosse una spia le sembrava solamente una calunnia volta a danneggiarla. Avrebbe dovuto parlarne con Laxmi? Forse, ma cosa sarebbe accaduto se non le avesse creduto? E se Chatur avesse già iniziato a diffondere bugie sul suo conto? No, meglio rimanere con i nervi saldi e tenere per sé i sospetti, fino al momento in cui avrebbe potuto parlare con Clifford. Tra l’altro, doveva ancora chiedergli di convincere Anish a concederle nuovamente la libertà di movimento ma, dal momento che sia lui che Jay non erano ancora tornati, lei era allo sbando. In effetti, il problema era che non riusciva a togliersi dalla testa il fatto che, fin dall’inizio, Clifford in realtà le avesse chiesto resoconti dettagliati di ciò che aveva visto alla reggia.

Alla fine, fu a Jay che parlò per primo, perché fu lui più tardi, quel giorno, a comparire inaspettatamente. Bussò alla sua porta e quando lei aprì, se lo trovò davanti, con una coperta rosso borgogna sulle spalle e uno sguardo gentile.

«Sei contenta di vedermi?», le chiese, raggiante.

Eliza tirò un sospiro di sollievo e dovette appoggiarsi allo stipite della porta perché le gambe le tremavano.

«Non resterò a lungo. Facciamo una passeggiata? In città, intendo».

«Mi piacerebbe uscire», rispose. In realtà in quel momento tutto sarebbe stato meglio piuttosto che rimanere al palazzo.

«Potremmo andare subito?»

«Certamente, perché no? Basta che tu ti copra. Fa davvero freddo», rise lui. «Anche se è niente in confronto allo Yorkshire».

«Quindi sei andato in Inghilterra?».

Jay annuì, le porse un braccio e uscirono.

In città, l’inverno, all’apparenza, non aveva cambiato nulla. Le bancarelle si aprivano ancora sulle strade e le persone gironzolavano come al solito, anche se avvolte in sciarpe. Nessuno sembrava indossare i cappotti, soprattutto, supponeva Eliza, perché in quelle giornate fredde e azzurre non pioveva.

«Chai?», le propose, e portò due bicchieri colmi della dolce bevanda. «Sembra sempre più buono quando fa freddo».

Bevvero i loro tè, poi lei si fermò ad ammirare alcuni scialli di seta finissima, rossi, blu e oro. Quello che attirò maggiormente la sua attenzione era di un intenso color blu e verde pavone; lo sfiorò: era liscio e morbido. Con la coda dell’occhio notò che Jay si avvicinava al venditore e, dopo una breve trattativa, tornò da lei. «È tuo. Seta e cachemire, ha detto».

«Davvero, non posso accettare».

«Certo che puoi, come segno della mia stima».

Glielo avvolse gentilmente attorno alla testa e poi le accarezzò la guancia. «Bello. Ha il colore dei tuoi occhi».

Eliza arrossì, ma gli sorrise.

«Grazie».

«Allora, come sei stata?».

Lei esitò per un attimo. «Sono accadute molte cose. Chatur ha convinto Anish a limitare i miei movimenti, ma la cosa che mi preoccupa maggiormente è che ho visto un uomo uscire furtivamente dalle mie stanze. Ho affrontato Chatur, ma lui ha negato e mi ha accusato di essere una sorta di spia. Che ne pensi? Che follia è mai questa?»

«È davvero insopportabile. Ma cosa ha causato queste restrizioni?»

«Chatur ha scoperto che sono vedova, e questo sembra avergli dato carta bianca su ogni cosa. Pensano che io possa contaminare le altre donne».

Il volto di Jay si rabbuiò e distolse lo sguardo. «Non è un buon segno. Ne parlerò con Anish».

«Be’, non sono sicura che sia una buona idea. Se parli con Anish, e lui contesta Chatur, quell’uomo mi odierà ancora di più. Seguono ogni mia mossa. All’inizio pensavo che fosse la mia immaginazione, ma adesso ne sono certa».

«Dirò a un fabbro di cambiare la serratura alla tua stanza. Chatur non deve saperlo e solo tu avrai la chiave. E se pensi che non sia sufficiente, forse puoi stare a casa della tua amica Dottie».

Eliza storse il naso. «Dottie è deliziosa, ma non sono sicura di voler stare così tanto vicina a Clifford».

«Cos’è, un complotto?»

«Forse».

«Dobbiamo proteggerti. Risolverò la questione delle serrature, ma stasera ripartirò per Jaipore. Solo qualche giorno, stavolta. Se ti sentirai in pericolo mentre sarò via, vai dalla tua amica. E chiedi a Clifford di farti liberare dalle restrizioni. Anche lui è tornato».

Quella notte, soddisfatta della sua nuova serratura perfettamente funzionante, aspettò Indi. La fanciulla arrivò da lei portando dei vestiti indiani; Eliza si cambiò e la seguì nei corridoi del pianterreno. Aveva deciso di fidarsi di lei, sperava che le indicasse come insinuarsi in alcune parti della reggia senza essere vista. Eliza avrebbe insegnato a Indi l’arte della fotografia, e Indi avrebbe insegnato a lei come uscire dal palazzo, sia la mattina presto per scattare le foto, sia al tramonto, per consegnare le lastre impresse.

Udirono qualcuno tossire più avanti, nel corridoio, ed Eliza si fermò, cercando con gli occhi una nicchia; Indi, invece, proseguì. Se fosse stato Chatur, o una delle sue fedeli guardie, non sarebbe mai riuscita a portare le lastre a Clifford. Chatur le avrebbe sequestrate e sarebbe finita lì. Eliza aveva il sospetto che quel lungo corridoio, non lontano dalle dispense, con l’aroma del cardamomo, del peperoncino e del coriandolo che aleggiava nell’aria, corresse parallelo alle cucine. Non solo, anche laggiù, il profumo dolciastro degli incensi delle preghiere della sera filtrava negli spazi bui, unito all’odore dell’olio delle lampade, che rendeva difficile respirare normalmente.

Udì una risata. Indi, pensò, e aspettò un po’ prima di arrischiarsi a uscire. Quando si mosse, trovò Indi ad aspettarla.

«Ci siamo quasi», sussurrò la fanciulla, chiamandola, «nessun problema».

«Mi sembra che ci stiamo addentrando nel palazzo».

«Voglio mostrarti una cosa prima di uscire. Non è ancora abbastanza buio, per cui aspettare qualche minuto in più non guasterà».

Poco dopo, Indi si fermò nuovamente. Non c’erano lampade a olio, ma nell’oscurità Eliza riuscì a distinguere un disegno del castello, incorniciato e appeso sulla ruvida parete. Indi lo sollevò e lo posò a terra con cautela. Poi, con l’aiuto di una limetta per unghie che teneva in tasca, sfilò una piccola pietra e posò l’orecchio sul foro nel muro.

«Tocca a te. Ascolta».

Eliza esitò.

Un ampio sorriso si allargò sul volto di Indira, ed Eliza non poté fare a meno di ammirare l’entusiasmo di quella ragazza – e il modo con cui afferrava tutto ciò che la vita le offriva e se lo teneva stretto, sprezzante dell’autorità.

«Vai pure».

Eliza fece come le diceva. Quando posò la guancia contro il muro di pietra gelida, non fu il freddo a colpirla; bensì le voci che riuscì a sentire. Le sembrò di udire Devdan, l’amico di Jay.

«Non capisci che dobbiamo decidere?», stava dicendo.

«Secondo me non è necessario», rispose un altro uomo, ma la sua voce non era chiara. «Perché dovremmo cambiare qualcosa?»

«Non abbiamo scelta».

«Vorresti rimettere tutto nelle mani di un mucchio di ribelli?». L’altra voce era soffocata, ma Eliza era quasi certa che a parlare fosse Jay. Eppure pensava che avesse già lasciato Juraipore.

«Sempre meglio che riporre fiducia in un Impero cadente. I vostri trattati non avranno alcun valore quando gli inglesi cadranno».

«Cadranno? Sei convinto di questo?»

«Hai visto come si sta diffondendo la rivolta civile. La Corona britannica è finita».

Seguì il silenzio, e poi il rumore delle sedie che venivano spostate. Eliza scosse il capo e si voltò a guardare Indira. «Quanta gente lo sa?»

«È un canale d’ascolto. Un tunnel stretto, una feritoia. Un giorno, da piccola, l’ho sbloccato. Viene citato in un vecchio libro sul palazzo e avevo calcolato che approssimativamente dovesse trovarsi qui».

«Non lo sa nessun altro?»

«Non ne sono sicura, qualcun altro potrebbe aver letto della sua esistenza. Queste fortezze erano molto pericolose, nei tempi antichi. Piene di intrighi e omicidi, perché tutti rivendicavano il trono; ho fatto del mio meglio per imparare i segreti del palazzo quando ero ancora una bambina. Tutti mi ignoravano e io riuscivo a nascondermi facilmente, non ho fatto troppa fatica. Quando Laxmi comprese cosa ero in grado di fare, mi chiese di tenere d’occhio Chatur. Non si fida di lui».

«Da dove parla Devdan, in questo momento?»

«Jay ha un piccolo studio proprio sul corridoio che conduce alle stanze degli uomini».

«Avresti dovuto dirglielo».

«Perché perdere quel poco di potere che ho?»

«Ma a te piace Jay?».

Indi sbuffò. «Devo pensare a me stessa».

Mentre passavano sotto un arco basso che conduceva a una delle tante gallerie connesse ai giardini esterni, Eliza rifletté sul fatto che fosse inevitabile che una persona con il passato di Indira proteggesse sempre prima se stessa, a qualunque costo e a prescindere da quante persone avrebbe dovuto tradire. Forse il solo sostegno di Laxmi non era sufficiente per Indi.

«Hai pensato a chi potrebbe essere stato a dire a Chatur che tu sei vedova?», le chiese la ragazza.

«Un po’, ma non lo so ancora».

«Potrebbe essere stato Dev, suppongo. Lo sapeva?».

Eliza annuì e ragionò su quell’idea. Forse era stato Dev a dirlo a Chatur, o, molto peggio, se fosse stato Jay? Forse gli era sfuggito? Era un pensiero orribile, che la faceva sentire persa. Non poteva essere stato Jay. Si fidava di lui, e del resto, Jay non ci avrebbe guadagnato nulla. Ma quel pensiero non l’abbandonò mentre seguiva Indi fuori nel cortile, dove l’acqua che zampillava dalle fontane a forma di pavoni scintillava alla luce delle finestre e delle lampade di terracotta che punteggiavano i sentieri e guidavano i loro passi.

«Che meraviglia», disse Indi. «Eppure nessuno viene mai da queste parti. Laxmi fa curare il giardino alla perfezione. È qui che è morta la sua unica figlia femmina, la più piccola».

«Non lo sapevo».

«Laxmi non ne parla mai, ma la gente mormora che fu Anish a spingerla, da ragazzo. La bimba si ferì la testa cadendo su uno dei pavoni della fontana e non riprese più conoscenza».

«Che tristezza».

«Desiderava ardentemente una figlia femmina e, molti anni dopo che erano nati i maschi, era finalmente arrivata. A volte penso che finga che sia io la figlia che ha perduto».

La notte era ormai scesa, perciò riuscirono ad allontanarsi dal palazzo e a confondersi nelle strade, dove la vita degli indiani proseguiva, nel completo disinteresse degli inglesi. Un mondo dove i santoni mistici stavano gomito a gomito con i fumatori d’oppio. Quando Eliza vide la vita notturna e nascosta della città, celata dall’oscurità, temette per la propria vita, ma chinò la testa e seguì Indi. Il dedalo di strade era la scorciatoia utile a condurle alle dimore degli inglesi, dall’altro lato della città.

Percorrere un’altra via, che evitava quelle strade, avrebbe richiesto loro troppo tempo a piedi.

Quando raggiunsero la Residenza inglese, un’automobile si avvicinò ed Eliza fece un passo indietro quando vide uscirne Clifford, che l’aveva riconosciuta dal finestrino e aveva aggrottato le sopracciglia. Anche se aveva bisogno di parlargli, avrebbe voluto bussare alla sua porta, e non essere scoperta come una ladra in agguato nel buio.

Qualcun altro stava uscendo dall’auto, mentre l’autista in livrea teneva la portiera aperta, ed Eliza riconobbe il viso di una donna inglese molto nota. Per un attimo non riuscì a capire chi fosse, ma poi si rese conto che si trattava della moglie dell’attuale viceré. La seguiva un uomo dai capelli grigio argento, che sembrava altrettanto importante. Di sicuro Clifford aveva conoscenze di un certo livello e trattava con le autorità. E senza dubbio in casa sua dovevano esserci spesso feste ed eventi sociali tipo quello.

La voce della donna era nitida e squillante. Stava parlando con Clifford. Un maggiordomo uscì per scortare lei e l’altro uomo all’interno, mentre Clifford fece un cenno a Eliza.

Eliza gli si avvicinò, ma lui non ne fu contento.

«Buon Dio, Eliza! Cosa diamine ci fai in giro di notte, e vestita a quel modo?»

«Indira mi ha aiutato a uscire dal palazzo. Ti ho portato alcune lastre e stampe. Hanno limitato i miei movimenti, sai».

«Ah, sì? Ci penserò io. Probabilmente è stato Anish o più probabilmente quell’intrigante di sua moglie. Si lava le mani dopo aver toccato un inglese. Tu pensa che sfrontata impudente. Anish farebbe lo stesso, se fosse per lei». Si fermò. «In realtà, il fatto che ti stiano remando contro mi fa venire in mente un’idea. Ma ora non posso parlartene». Indicò la porta attraverso la quale era appena scomparsa la moglie del viceré. «Ma ti ricordi che ti avevo detto che forse potresti aiutarci?»

«Sì».

«Bene, mi riservo di scambiare due parole con il maharajah e poi ne discuteremo».

16

Il giorno seguente, poco dopo le campane del mattino, Eliza fu convocata nello studio di Jay. Troppo nervosa per tentare di attraversare da sola il passaggio segreto, si gettò il suo nuovo scialle di cachemire sulle spalle e percorse i soliti corridoi. Jay le sorrise lieto quando aprì la porta e la vide, ma lei fece un passo indietro.

«Cosa c’è?», le chiese. «È successo qualcosa?».

Eliza lo guardò, non sapendo bene cosa dire. Non si era fatto la barba, ma i suoi occhi ambrati brillavano e la sua pelle splendeva, tutta salute e vitalità.

I dubbi su chi potesse essere stato a denunciarla a Chatur l’assalivano ancora e non aveva altra scelta se non quella di chiedere a Jay.

«Eliza, entra. Non parliamo nel corridoio».

Lei scosse il capo.

«Dimmi, qual è il problema?».

Aprì la bocca per rispondere, ma la voce le tremò e non fu in grado di guardarlo negli occhi per qualche momento.

Lui aggrottò la fronte. «Dunque?».

Eliza esitò, poi le parole uscirono come un fiume in piena. «Devo chiederti una cosa».

Lui le sorrise. «Spara».

«Sei stato tu a dire a Chatur che sono vedova?», gli chiese, sentendosi morire dentro e senza riuscire a sostenere il suo sguardo.

«Certo che no. Perché l’hai pensato?»

«Indi mi ha giurato di non essere stata lei. Mi ha suggerito l’ipotesi che possa essere stato il tuo amico Dev, ma lui è tornato qui ieri sera, non prima».

Jay rimase perplesso. «Devdan era qui ieri?»

«Lo sai che era qui».

«Mi risulta strano. Per quel che ne so io, Dev non è stato qui in mia assenza».

«A che ora sei tornato ieri?»

«A mezzanotte circa».

Eliza abbassò la voce. «Mi è sembrato di averti sentito parlare con lui».

«Quando?»

«Poco dopo il tramonto».

Lui scosse il capo. «Non ne so niente».

Eliza ci pensò rapidamente. Se non era stato Jay a parlare con Devdan, allora chi era stato? La voce non le era arrivata molto chiara e forse era giunta alla conclusione sbagliata. Magari si trattava di Anish?

«Dove hai sentito la conversazione?»

«Non è il caso di parlarne qui. Possiamo andare in uno dei giardini?»

«Certo. Ma devi ammettere che sembra tutto molto strano».

Si sedettero vicini su una panchina accanto a una delle fontane. Eliza guardò il cielo azzurro e luminoso, e osservò i parrocchetti che volavano da un albero argentato all’altro. Scoprire i lampi gialli delle loro piume sotto le ali l’aveva sempre riempita di gioia, ma non quel giorno.

«Presto farà più caldo, è quasi primavera», le spiegò Jay. «Dopodiché ci sarà un caldo insopportabile».

Eliza non riusciva a sentire il calore incipiente, piuttosto era consapevole della vicinanza di Jay, soprattutto in quel momento, in cui erano completamente esposti alla zenana.

«Comportati in modo naturale», disse lui come se avesse intuito il motivo della sua riluttanza. «Sorridi e non torcerti le mani».

Eliza arrossì. «Non mi ero resa conto che lo stessi facendo».

Lui tacque e guardò a terra per qualche secondo, poi si voltò verso di lei.

«Ammetto di aver parlato di te a mia madre».

Eliza lo guardò. «Sapevi quanto fosse importante. Mi fidavo di te».

«Mi dispiace».

«Sono andata da Clifford per te».

«Fantastico. L’ingegnere arriverà domani con i primi progetti. Rimarrai colpita. Anche se potrebbe essere necessario attendere ancora, prima di avere il permesso di deviare il fiume».

«Non capisci cos’hai fatto?».

Lui si accigliò. «Senti, mi è sfuggito. Mia madre ti ammira molto e ha compreso tutto, davvero, Eliza. Non ti giudica e non lo direbbe mai a nessun altro, come me del resto».

Eliza si indignò: come aveva fatto Jay a pensare di poterlo dire a Laxmi! Avrebbe tanto voluto essere sincera con Laxmi, e adesso Jay aveva rovinato tutto. Sua madre l’avrebbe considerata come minimo disonesta, e certamente una bugiarda. Chinò la testa e se la prese tra le mani.

«Togli le mani dal volto. Siamo osservati».

Lui si comportava come se fosse tutto normale, ma Eliza aveva colto la preoccupazione negli occhi dell’uomo.

Eliza si alzò in piedi, ignorando il sorriso finto sul suo volto.

«No. Tu sei in grado di dissimulare, ma io non ci riesco».

«Per favore, rimani».

Eliza gli voltò le spalle. Jay avrebbe dovuto sapere che Chatur avrebbe avuto da ridire se avesse conosciuto la verità. Era stato proprio Jay a dirle che prima o poi le cose saltavano fuori. Ora aveva spifferato tutti i suoi segreti, perché lei avrebbe dovuto aiutarlo rivelandogli l’esistenza del canale d’ascolto nel muro? Meritava di essere spiato.

Eliza tornò nella sua stanza, e si sdraiò sul letto, a pezzi. Era furiosa, ma soprattutto invasa dal dolore pressante per essere stata tanto sciocca da fidarsi di Jay. Si rimproverò perché si era preoccupata per un uomo che in realtà l’aveva tradita, ma non riuscì a dimenticare le sue parole e la preoccupazione nei suoi occhi.

Sola con la sua ansia, Eliza guardò il sole dorato del mattino tingere la città di rosa pallido. Poi, poco più tardi, udì il suono di un clacson e si affrettò a raggiungere l’ampio atrio d’ingresso, dove vide Clifford uscire da una grande automobile nera, seguita da una macchina più piccola. Un giovane ne uscì con cautela, portando sotto braccio un grosso rotolo di carte. Era vestito con abiti occidentali, ma le sembrò che potesse avere origini indiane. Un anglo-indiano, forse? Pensò che dovesse trattarsi dell’ingegnere assunto da Jay. Avrebbe sinceramente voluto studiare quei progetti ma, sebbene un messaggero fosse venuto a richiedere la sua presenza nello studio del principe, aveva deciso di non andare. Era ancora offesa perché lui aveva svelato il suo segreto senza pensarci, quindi mandò a dire che era indisposta e tornò nelle sue stanze, a fare avanti e indietro, a rimuginare indignata sull’ingiustizia subita, arrabbiata e confusa. Fu soltanto quando le venne in mente che il progetto idrico di Jay poteva essere spiato da qualcuno che capì che doveva intervenire. Nonostante fosse stato indiscreto, il suo piano per rendere più efficiente l’approvvigionamento idrico avrebbe migliorato la qualità della vita di così tante persone che non poteva permettere che finisse nelle mani sbagliate. Quindi decise di raggiungerlo, prese il coraggio a due mani e attraversò il passaggio segreto che Indi le aveva mostrato, superando le guardie ignare; ancora senza fiato, bussò alla porta di Jay.

Si sentì in subbuglio quando lui le aprì e molte paia di occhi presero a fissarla.

«Pensavo che non stessi bene», le disse Jay sorridendole debolmente.

«Devo parlarti. Ma prima di’ loro di prendere visione dei progetti nelle stanze di Laxmi. È davvero importante».

«Molto bene», rispose Jay, e rientrò nello studio.

Udì un mormorio di voci e poi il principe tornò da lei. «Sono tutti d’accordo, solo mio fratello sembra furioso».

«Il progetto è tuo, è necessario proteggerlo e il tuo studio non è un luogo sicuro».

«Eliza…». Lei lo interruppe, conducendolo lontano dalla portata d’orecchi della stanza, e tenne un tono di voce basso. «Dove hai detto a tua madre che sono vedova? In quale stanza?»

«Dove? Ma che importanza ha?»

«Dimmelo».

«Un pomeriggio è venuta nel mio studio».

Eliza scosse la testa. «Jay, ti giuro che questa stanza non è sicura».

Gli raccontò del canale d’ascolto, spiegandogli di aver sentito le voci provenienti dal suo studio quando aveva appoggiato l’orecchio sul foro nel muro.

«Santo cielo. Per questo non volevi che parlassimo dei progetti lì dentro?»

«Non sapevo se il progetto dovesse restare segreto in questa fase iniziale…». Si bloccò. «Quindi con chi parlava Devdan?»

«Era un uomo? Ne sei certa?».

Eliza annuì.

«Allora forse mio fratello?»

«Sembrava che stessero complottando qualcosa ai danni degli inglesi».

«Tipico di Dev, anche se pensavo che avesse rinunciato a fare pressione».

«Fare pressione?»

«Per cambiare il modo di pensare della gente».

«A volte penso che sarebbe stato meglio se la gente si fosse ribellata agli inglesi».

Jay sorrise. «Ma tu guarda! Un pensiero poco patriottico, non credi?».

Eliza si strinse nelle spalle. «Non mi piace il modo in cui parlano Clifford e la gente come lui».

Poi seguì Jay negli appartamenti di Laxmi e, quando superarono le grandi porte di legno di sandalo ed entrarono nella stanza profumata di gelsomino, la vista delle decorazioni luminose e piene di specchi le tolse il respiro, come già le era capitato. Riconobbe Anish, Priya, Laxmi, Clifford e un altro uomo, quello che aveva visto poco prima con i fogli di carta arrotolati, che ora erano stati aperti e dispiegati su un grande tavolo.

Laxmi sorrise. «Sono contenta che ti sia unita a noi, Eliza».

Eliza ricambiò il sorriso, anche se non le piaceva l’idea di essere tanto esposta, ora che Laxmi e gli altri sapevano della sua vedovanza; tuttavia, era lieta che Chatur non fosse stato invitato.

«Allora, come mai questo cambiamento improvviso?», domandò Anish, chiaramente infastidito dallo spostamento da una stanza all’altra. «Che mistero c’è dietro?»

«Nessun mistero», rispose Jay. «Mi sono reso conto che la mia scrivania non era abbastanza ampia per contenere tutti i disegni».

«E come mai la donna inglese è qui con noi?», chiese Priya, con il solito atteggiamento sprezzante.

«Perché l’idea iniziale è stata sua», spiegò Laxmi, sorridendo a Eliza con calore.

«E voi permettete a una vedova inglese di mettere bocca nelle nostre decisioni?», obiettò Priya, e poi esplose in un fiume di parole troppo veloci perché Eliza potesse seguirla, anche se riuscì a capire che la donna era indignata e disapprovava.

«Da quel che so, sei in grado di dare tu stessa degli ordini», replicò Laxmi, ed Eliza stavolta comprese. Sorrise tra sé, perché tra le due donne c’erano evidenti dissapori, ma Laxmi sarebbe sempre stata più potente. Si chiese da dove venisse la forza innata di quella donna.

«Madre. Priya», s’intromise Anish. «Mettiamo da parte le nostre divergenze e parliamo di questo progetto».

L’ingegnere si avvicinò. «Mi chiamo Andrew Sharma, ho studiato a Londra e ho lavorato a diversi impianti di irrigazione in tutto l’Impero indiano».

«Qui nel Rajputana non è come nel resto dell’India», commentò Anish con voce atona.

Il giovane fece un inchino. «Ovviamente no, maestà, ma ho preso in considerazione tutto».

Anish sorrise con indulgenza. «Come già saprà, molti altri progetti sono falliti. Perché il suo dovrebbe essere differente?».

Un soffio di vento portò nella stanza il profumo dei giardini e di qualcos’altro; a Eliza parve di riconoscere gli odori del deserto e tentò di sorridere a Priya, che, però, inarcò le sopracciglia e fece un sorrisetto prima di voltarsi dall’altra parte.

Il giovane guardò Clifford, che annuì. «Con tutto il rispetto, i progetti precedenti sono falliti perché nessuno ha ascoltato i locali. È interrogando gli abitanti che ho scoperto dove dovrebbero essere scavati precisamente i laghi, quanto dovrebbero essere profondi e come si dovrebbe affrontare la questione della pendenza delle terre del principe. Alla fine dovremmo essere in grado di arginare un fiume, ma all’inizio procederemo a piccoli passi, in modo semplice. Quella gente conosce bene le fragilità della terra e sa dove devono essere costruiti argini per evitare infiltrazioni. I miei progetti prendono in considerazione tutto questo».

«Perché sprecare tempo e denaro per qualche contadino?», chiese Priya. «Non ne vedo il motivo».

Eliza intrecciò le dita dietro la schiena quando Anish si rivolse a Jay. «E tu sei pronto ad assumerti l’intera responsabilità di questo progetto?».

Jay annuì. «Lo sono».

«E se fallisce?»

«Non credo che accadrà».

«E gli inglesi sono disposti a finanziarlo?», chiese Anish a Clifford.

«In parte».

Quando ebbero esaminato tutti i dettagli, Clifford volle parlare in privato con il maharajah, cosa che indusse Eliza a pensare che volesse perorare la sua causa e fargli ritrattare gli ordini di restrizione. Quando anche gli altri se ne furono andati, rimasero solo Jay ed Eliza assieme a Laxmi, a cui Jay disse che stava puntando tutto sull’appoggio di Anish, anche se suo fratello non aveva visto i progetti fino a quel giorno.

«Al momento sto usando le escavatrici alimentate a vapore, che sono ottime per scavare e divellere pietre e rocce. Ma sono macchine pesanti e complesse, occorrono tre uomini per manovrarle, perciò spero di riuscire al più presto a procurarmi delle escavatrici più semplici, economiche, possibilmente a gasolio. Perlomeno gli uomini sono sul posto e hanno già iniziato a scavare».

«Ho cercato di convincerlo a prendere tempo», disse Laxmi, «ma per lui è necessario che il primo lago artificiale sia pronto prima delle piogge di luglio».

«Dovrebbe esserci tempo a sufficienza, sempre che non sorgano imprevisti», aggiunse Jay.

Laxmi tese le mani a Eliza. «Vieni qui, mia cara».

Eliza fece un passo avanti e poi chinò il capo, sentendosi in grave imbarazzo. «Mi dispiace…».

«Non devi scusarti, ti capisco».

Eliza alzò lo sguardo e tentò di sorriderle.

«Veramente?»

«Non pensiamoci più. Farò di tutto per convincere le persone a farsi fotografare da te. Molti di loro sono anime semplici, non hanno studiato, ma se riuscissi a spiegar loro che essere vedova nella tua cultura è una cosa differente, forse potrebbero capire. So che ti sei divertita a immortalare le concubine».

«Sì, molto. Sono tanto affettuose e simpatiche».

«Vedrò cosa posso fare».

Jay guardò Eliza con apprensione e, con un fremito nelle narici, le chiese: «Quindi sono perdonato?»

«Credo di sì, anche se non so ancora chi l’abbia detto a Chatur».

Jay le porse la mano. «Ora è tempo di lasciare le stanze di mia madre, perché deve andare alle sue pujas».

Dopo essere usciti, Jay ed Eliza presero una delle scalinate principali che conducevano alla grande sala dove si tenevano i durbar. Eliza gli chiese come fossero i rapporti tra Priya e Laxmi.

«Le suocere in India sanno essere molto crudeli», rispose lui.

«Ma non è il caso di Laxmi?»

«No, ma lei è stata maltrattata da mia nonna, sua suocera. Mia nonna la rinchiuse in una stanza da sola per giorni, per tenerla lontana da mio padre».

«Ma perché?»

«Perché così mia madre non lo avrebbe influenzato, visto che è sempre stata molto all’avanguardia; tuttavia nella nostra cultura si deve sempre obbedire ai genitori».

«Anche quando sbagliano?»

«Certo», rispose lui, molto serio.

«E tuo padre non poté fare nulla?»

«La nostra etichetta prevede che il marito non parli. Laxmi provò a compiacere sua suocera, ma invano. Per fortuna morì giovane e mia madre ebbe modo di sbocciare».

«Ma questo non spiega come vadano le cose tra Priya e Laxmi».

«No, infatti. Penso semplicemente che a mia madre non piaccia la moglie di mio fratello».

«E forse non si fida di lei».

«Forse».

Camminarono lentamente ed Eliza non sapeva cosa dire. «La nuova serratura funziona bene», fu tutto ciò di cui riuscì a parlare.

Jay sorrise. «Ne sono sicuro… Senti, per farmi perdonare, mi permetteresti di portarti alla seconda notte della Festa dei Colori, l’Holi Festival, nella parte antica della città, il mese prossimo?».

Jay aveva proposto l’invito in maniera casuale ed Eliza ne rimase sorpresa. «E ti è permesso andare in città per l’Holi? Pensavo che dovessi festeggiarlo al palazzo».

«Scappo sempre via dalla festa che si tiene qui già coperto di polvere colorata. È un buon travestimento. Se anche tu indosserai abiti indiani, e avrai un po’ di colore sul viso, nessuno baderà ai tuoi capelli».

Lei ci pensò un momento. «Sembra divertente».

«Ti assicuro che non hai mai visto niente di simile. Ti toccherà il cuore, è una festa celebrata per lasciare andare il passato».

Proprio quello di cui aveva bisogno, allora, pensò lei.

«Si festeggia la primavera, il tempo in cui si risveglia la speranza», aggiunse lui.

«Non ti riconosceranno?»

«Non importa. Ma indosserò dei vecchi abiti e nessuno si aspetta di incontrarmi lì, quindi nessuno mi riconoscerà. È sempre una questione di aspettative, non trovi?».

17

Eliza amava le prime ore della mattina. Per il momento, non aveva più visto ombre che sparivano scivolando negli angoli bui, non aveva più sentito nessun sussurro o passo silenzioso. Non era stata più seguita e le stava tornando la speranza. Si era alzata presto per approfittare della luce migliore e, quando uscì con la sua Rolleiflex, pensò all’invito di Jay per l’Holi festival. Si rese conto che l’idea le piaceva. Respirò l’aria frizzante del mattino e iniziò a fotografare le grandi altalene del cortile. All’improvviso udì un rumore, si guardò attorno e sentì alcuni passi leggeri e silenziosi. No, non di nuovo, pensò, e posò la fotocamera. Si diresse verso l’arcata da dove le pareva di aver udito provenire il suono, poi proseguì lungo il breve passaggio. Silenzio. Eppure qualcuno era stato lì, qualcuno che aveva il passo leggero, ne era certa. Forse una delle concubine aveva voluto parlarle, ma poi aveva avuto paura? Il silenzio sembrò intensificarsi ed Eliza, che iniziava a spaventarsi, cercò di capire se ci fossero dei sussurri. Di nuovo, silenzio. Eliza tornò indietro, verso il giardino per portare a termine il lavoro, ma quando prese la macchina fotografica ne fu sconvolta e si spaventò: l’obiettivo era rotto; eppure, fino a poco prima era intatto. Forse aveva posato con troppa veemenza la fotocamera a terra e aveva involontariamente rotto l’obiettivo? Era sicura che se ne sarebbe accorta, se così fosse stato, perciò le sembrò altamente improbabile. Chi era stato in quel cortile? Eliza tornò alle sue stanze, mormorando tra sé e sé.

Ormai faceva un po’ più caldo, ma ancora le temperature ardenti dell’estate erano lontane. Sapeva che sarebbe stato impossibile fuggire in città con il caldo soffocante e voleva scoprire cosa fosse accaduto alla sua macchina fotografica, quindi decise di approfittare di un pranzo che Clifford aveva organizzato e a cui era stata invitata quel giorno. Avrebbe ragionato con lui su dove poter far riparare la fotocamera.

Indossò una gonna estiva, leggera, di seta cinese color rosa pallido e una blusa con le maniche a sbuffo. La gonna stringeva in vita e scivolava sui fianchi, delineando la sua figura più di ogni altro abito in suo possesso. Si vestiva così quando voleva fare una buona impressione. Si mise un filo di perle al collo e poi, indossando gli orecchini abbinati, decise che, ora che la sua serratura era stata cambiata, non avrebbe detto nulla a Clifford dell’uomo che aveva visto uscire furtivamente dalla sua stanza; altrimenti, il dignitario avrebbe certamente insistito per farla trasferire da Dottie.

Mentre usciva, proprio dove un raggio di sole filtrava attraverso le grate disegnando giochi di luce il pavimento, incontrò Jay.

«Oggi sei davvero bella», le disse con un sorriso. «Questi colori ti donano».

«Vado a un pranzo», mormorò lei, pensando di essere un po’ troppo vistosa.

«Sei molto inglese». E le fece un inchino. «Divertiti. A proposito, i lavori procedono magnificamente, ma dobbiamo ancora ottenere i fondi per finire il primo lago artificiale, oppure rischiamo di rovinare tutto».

«Ci riuscirai?»

Jay inclinò la testa e non rispose. «Dovresti venire a vedere i lavori prima o poi».

Eliza non poteva dirgli che avrebbe preferito di gran lunga passare il suo tempo con lui, piuttosto che con Clifford, e che lo avrebbe seguito anche subito. Tuttavia, mentre pensava queste cose, si accorse che il rossore le saliva dal collo fino alle guance e cercò di pensare ad altro.

«E quando arrossisci sei ancora più bella», aggiunse lui.

«Oh, smettila! Sicuramente questo pranzo sarà terribilmente noioso».

«Magari forse puoi parlare con Clifford per capire a che punto siamo con i finanziatori e con i permessi per deviare il fiume? A Calcutta, le negoziazioni mi sembravano procedere positivamente ma, da quando sono tornato, non ho avuto risposte definitive».

Poco più tardi, dal finestrino della macchina, Eliza osservava la povertà della gente, che ancora la stupiva, chiedendosi che senso avesse. Bambini smarriti, con occhi enormi e scuri, seguivano bramosi l’automobile, sperando senza dubbio che lei desse loro qualcosa una volta giunta a destinazione. A giudicare dalle baracche ai margini delle strade, era evidente che molte persone non avessero neppure una casa dove vivere. Frugò nella borsa per cercare qualche rupia da dar loro una volta uscita dall’auto. Notava i dettagli, l’aveva sempre fatto. Era stata la sua via di fuga, un modo per affrontare la vita dopo la morte di suo padre. Annotava mentalmente le cose e poi col pensiero gliene parlava. Una volta sua madre l’aveva trovata in giardino con una margherita in mano, mentre parlava con il padre immaginario. Le aveva dato uno schiaffo sulla mano e la margherita era caduta a terra. Dopo quell’episodio, Eliza aveva tenuto le conversazioni col padre in segreto, senza farsi vedere da nessuno.

Mentre l’auto si avvicinava alla casa di Clifford, Eliza pensava ancora che si trattasse di un pranzo ufficiale; in realtà, però, si trovò da sola con Clifford. Dopo un pasto delizioso, a base di pollo arrostito, patate e verdure al vapore, Eliza era sazia. Anche se le piacevano molto le pietanze indiane che mangiava, iniziava a stancarsi di riso e dahl.

«Allora», le chiese Clifford. «Hai spazio per la torta di mele?»

«Vuoi farmi ingrassare?»

«No, affatto. Credo che tu sia perfetta così come sei».

Eliza rise. «Non mi hai fatto venire qui per dirmi ciò».

Lui le sorrise. «No, volevo farti sapere che la tua libertà di movimento è stata ristabilita».

«Ti ringrazio, per me significa molto. Però adesso mi occorre il tuo aiuto per un’altra cosa».

«Oh?»

«Stamattina mi è accaduto qualcosa di strano. Mi sono allontanata per pochi minuti e quando sono tornata la lente della mia macchina fotografica era rotta. Il vetro si è incrinato proprio al centro. È la fotocamera che uso quando sono fuori, in giro».

«Probabilmente l’hai rotta tu senza rendertene conto».

«Non penso proprio. In ogni caso sai dove potrei procurarmi una lente nuova? Anche se temo che pure il meccanismo interno della Rolleiflex sia stato danneggiato».

«Ma avevi la fotocamera con te?»

«L’avevo lasciata sul tavolo».

«La farò spedire a Delhi, ma devo avvisarti che non sarà una cosa rapida». Fece una pausa. «Ora voglio parlarti della mia idea. Voglio condividerla con te, se ti va».

«Va’ avanti».

Lui annuì. «Be’, come già sai, sto facendo del mio meglio per procacciare i fondi per il progetto idrico del tuo bel principe».

«Non è il mio principe, Clifford».

«È solo un modo di dire. Quel che intendo è che, se tu potessi fare qualcosa per me in cambio, sarebbe assolutamente cosa gradita».

«Ovviamente. Qualsiasi cosa».

«Vorremmo che tu tenessi gli occhi aperti e venissi da me nel caso ti accorgessi di qualcosa di strano. Penso di averti già detto che credo che Anish sia un sovrano debole, senza carattere, e non ci dispiacerebbe apportare qualche cambiamento, se capisci cosa voglio dire».

«Mi stai chiedendo di fare la spia?», chiese lei, incerta su come porsi rispetto alla strana richiesta e preoccupata che le accuse di Chatur potessero avere qualche fondamento di verità.

«Ovviamente no. È sufficiente che tu tenga gli occhi aperti. Se accade qualcosa di strano, o su cui hai dei dubbi, fammelo sapere. Puoi sempre dire che hai bisogno di vedermi col pretesto delle lastre fotografiche e delle stampe».

18

Marzo

Giunse infine il secondo giorno dell’Holi festival. Emozionata e nervosa per il fatto di uscire di notte, in città, con Jay, Eliza ripensò alla loro prima escursione assieme. Una parte di lei avrebbe desiderato trovarsi nelle foreste selvagge ai piedi degli Aravalli, per osservare le gru damigella planare sul deserto e i grandi pellicani bianchi che si alzavano in volo dal pelo dell’acqua. La richiesta di Clifford l’aveva sconcertata e Jay rimaneva l’unica persona di cui poteva realmente fidarsi.

Quella sera, quando prese parte alla festa che si teneva nel palazzo, lo cercò con lo sguardo in uno dei giardini e lo vide assieme a un giovane che pensò subito fosse il fratello minore di Jay, di cui aveva sentito parlare ma che non aveva ancora mai visto. Dopo circa un’ora, Jay venne da lei, avvolto in un mantello di lana a righe. Le sussurrò qualcosa all’orecchio e se ne andarono dal cortile tramite un passaggio a lei sconosciuto. Eliza respirò libera, estremamente sollevata di aver lasciato l’opprimente atmosfera della reggia.

«Era tuo fratello?», gli domandò.

«Sì, sta frequentando una scuola in Inghilterra, ma è tornato per una breve visita. È importante che non diventi troppo inglese, ma il viaggio è lungo e non riesce a tornare a casa spesso come dovrebbe». Jay fece una pausa. «Ora, nessuno tranne i componenti della famiglia conosce questo passaggio. Prendi la mia mano, temo che dovrai tenerla stretta. È molto buio».

Eliza rise. «Ne sono onorata».

Procedevano lentamente, con cautela, e il fatto di essere tanto vicina a lui, nell’oscurità, le sciolse la lingua. «Una volta mi hai chiesto se credevo al destino. Perché?»

«È una lunga storia. Un giorno te la racconterò».

«Dimmelo adesso. Per favore».

Quando il tunnel divenne talmente stretto da consentire il passaggio di una persona alla volta, Eliza riconobbe l’odore di terra umida e foglie, e udì il flebile rumore d’acqua che scorreva. «C’è un ruscello sotterraneo», le spiegò lui, e le prese anche l’altra mano, chiudendo le dita strette attorno alle sue. Smisero di camminare.

«Mi hai parlato di tuo padre e della bomba che fu lanciata il giorno della sua morte, a Delhi».

«Sì», ricordò lei, sentendo un insetto che le ronzava attorno e chiedendosi cosa mai le avrebbe detto poi.

«Ti ricordi del giovane indiano che era presente?».

Lei ci pensò su. «Penso di sì. Intendi giù, in strada?»

«Ti aiutò ad alzarti mentre tu eri inginocchiata accanto al corpo di tuo padre».

«Sì».

«Era accaduta una cosa terribile, ma io non ho mai dimenticato quella bambina inglese. Non ho mai dimenticato te. Ero io. Ero io quel ragazzo».

Sembrava impossibile da credere, ma Eliza fu felice che al buio Jay non potesse vedere le lacrime che le sgorgavano dagli occhi. Gli strinse forte le mani e, nell’oscurità, accadde qualcosa di inspiegabile tra loro. Rimasero immobili per qualche minuto, durante i quali Eliza fu pervasa da un’intensa e meravigliosa sensazione di pace, perché con lei c’era lui, che aveva condiviso il momento esatto in cui aveva perso suo padre. Qualcosa si liberò nel suo animo. Non era in grado di spiegarlo, ma era come se, dato che aveva capito di non essere stata sola nel momento più buio della sua vita – perché anche lui vi aveva assistito – potesse superare il dolore della morte di suo padre e ricominciare a vivere.

Eliza trattenne il fiato e si lasciò coccolare da questa nuova emozione, qualunque essa fosse. Non avrebbe voluto più muoversi, ma la galleria era fredda e umida, quindi iniziò a tremare. Ripresero a camminare.

«C’ero anch’io nella processione», disse Jay, «con mia madre, su uno degli howdah in groppa a un elefante. Sono sceso all’istante quando c’è stata l’esplosione».

«Hai capito subito chi ero? Intendo quando sono arrivata qui».

«Non immediatamente, ma poi mi hai detto che avevi vissuto a Delhi e mi sono ricordato il nome dell’uomo che era stato ucciso, Fraser. Dopo aver fatto qualche ricerca, mi sono chiesto se non fossi proprio tu».

«Perché non me l’hai detto quando ti ho parlato della bomba?», gli chiese.

«Non ti conoscevo ancora abbastanza bene. Temevo che la cosa potesse influenzarti negativamente».

«Sono felice che tu me l’abbia detto adesso. Per me significa molto, te ne sono davvero grata».

L’uscita dalla reggia era protetta da una pesante porta di legno che cigolò quando Jay l’aprì. «Attenta alle spine», le disse mentre uscivano. Poi, quando presero la via per la città, Jay le porse il suo mantello e le suggerì di coprirsi il capo e il volto più che poteva, anche se ormai era stata già ricoperta dalla polvere colorata e nessuno si sarebbe accorto che non era indiana. Nulla della celebrazione al palazzo l’aveva preparata a quello che stava accadendo in città.

Mancava una notte alla luna piena: ovunque bruciavano fuochi di foglie secche e rami invernali; la gente radunata in capannelli riempiva le strade e le piazze. Ma a ipnotizzarla furono i tamburi, il cui ritmo le entrò nel sangue, attraverso le persone che ballavano e si lanciavano polveri colorate, che illuminavano l’aria: vortici di rosso, blu, verde e giallo volavano in grandi sbuffi e ricadevano sulla gente, come se il cielo avesse aperto la sua tavolozza e stesse riempiendo di colori il mondo sottostante. Il rumore rendeva impossibile parlare, ma Jay le tenne stretta la mano ed Eliza sapeva che non l’avrebbe lasciata andare. Lei si toccò il viso e, quando si guardò le dita, si accorse che erano blu. Aveva polvere colorata tra i capelli, sulle ciglia e in bocca, e si sentì sollevata quando le persone affacciate ai balconi delle case con vista sulle strade iniziarono a spruzzare l’acqua da tubi di gomma. Ma con l’acqua il colore si solidificava e non andava via. Se Eliza non fosse stata assieme a Jay in quella pazza notte esotica, ne sarebbe stata sopraffatta. Tuttavia, provò solo un po’ d’ansia quando il caos e il rumore eccessivi minacciarono di urtare la sua sensibilità inglese. L’intera città sembrava vorticare senza controllo, ma era la festa più gioiosa a cui Eliza avesse mai partecipato in vita sua e alla fine si arrese alla frenesia. Jay era a suo agio, rideva mentre lei cercava di schivare l’acqua e le polveri colorate, perciò Eliza, impotente, buttò indietro la testa e rise.

Poco dopo, Jay la prese e la tirò verso un vicolo appartato, al riparo dalla strada. Rimase attonita a guardare la gente che si disperdeva in tutte le direzioni, mentre degli uomini Rajput arrivavano a gran velocità a cavallo attraverso nuvole rosse e rosa, gettando al loro passaggio altra polvere colorata sulle persone. Era profondamente consapevole di essere molto vicina a Jay che, invece, era immobile; il cuore di Eliza batteva all’impazzata. Quando la strinse tra le braccia, non pensò a nulla, semplicemente si abbandonò al suo abbraccio. Jay la cinse e la tenne stretta, il calore della sua pelle era tale che ne fu allarmata, ma anche eccitata, e non avrebbe voluto che lui la lasciasse andare mai.

Quando lui si discostò un poco, le sfiorò il mento ed Eliza lo guardò dritto negli occhi d’ambra.

«Eliza, ho aspettato che ti rendessi conto di quello che provo».

Lei quasi non riusciva a respirare, con il cuore che ormai le batteva in gola. E poi, quando la baciò dolcemente, non seppe più cosa pensare. Jay non si fermò, la baciò con maggiore ardore, posandole la mano sulla nuca. Stordita dalla Festa dei Colori, si rese conto che il suo mondo si era capovolto. Un passo ancora e si sarebbe perduta. Quando il bacio terminò, Eliza cercò di dire qualcosa, poi desistette. Le parole non avevano importanza. Quella era una notte di emozioni. Alla luce di una lampada a olio, ammirò la curva delle sue labbra e la sua pelle brunita, poi gli posò una mano sulla guancia. La sua pelle era più morbida di quanto si fosse aspettata, profumava di legno di sandalo e cedro, ma fu il pallore della sua mano sulla sua carnagione che la scosse.

In quel momento, dalla strada si levarono delle grida ed Eliza si accorse che qualcosa stava accadendo attorno a loro. Jay le sorrise e scansò la sua mano.

«Questo devi proprio vederlo».

Rimasero con la schiena contro l’edificio su uno dei lati della strada e videro arrivare gli elefanti, dipinti con colori sgargianti e con decorazioni ricamate sulle teste; procedevano con passo pesante al centro della strada, mentre le campane che avevano attaccate alle gambe tintinnavano. Tutti i mahout, i conducenti degli elefanti, avevano in mano ombrelli parasole brillanti e sedevano su tappeti ricamati d’oro.

«Allora», disse Jay quando furono passati, «non credo che sia possibile non avere rimpianti, ma tu sei pronta a dire addio al passato?».

Eliza giaceva sul letto, guardava l’alba e ripensava a ogni dettaglio della notte appena trascorsa. Si concentrò sugli occhi ambrati di Jay e su come l’intossicazione da Holi l’avesse resa spensierata. Non si era mai sentita così con Oliver. Infatti, se ne rendeva conto solo in quel momento, non riusciva a ricordare molto di come fosse stare con Oliver. Al contrario, immaginò le braccia di Jay attorno al proprio corpo e i suoi sensi sembrarono risvegliarsi. Si rotolò sul letto, prona, bramando di sentire le sue mani sulla pelle e si abbandonò languida contro il materasso. Il desiderio era quasi insopportabile. Poi ripensò alla sua domanda. Era pronta a lasciarsi il passato alle spalle? Una parte di lei lo desiderava ardentemente, ma poi si ricordò ciò che le aveva detto Jay a proposito del giorno in cui suo padre era morto. Credeva che il destino fosse una formula prestabilita che determinava le vite? No. Eppure doveva ammettere che era straordinario che lui fosse stato presente tanti anni prima, nel momento più terribile di tutta la sua esistenza; ora che erano di nuovo insieme, Eliza trovava molto difficile non pensare al futuro.

Tuttavia, la sua mente era piena di immagini che vagavano da uno scenario all’altro, non riusciva a impedirsi di proiettarsi in un futuro troppo roseo e idealistico. Con lui. Chiaramente, sarebbe stato impossibile, lo sapeva bene, e pur tuttavia non poteva fare a meno di sognarlo come se ci fosse una speranza.

Cercò di sminuire i propri sentimenti, incolpando la notte e l’incanto della festa. Ma Jay le aveva toccato l’anima e nulla avrebbe potuto ridurre la potenza di quella connessione, quel legame intimo che aveva provato con lui. Era come tornare a casa, solo che casa sua non era un luogo, ma una persona…

Il giorno seguente venne un servo con una lettera e, quando l’aprì, scoprì che era da parte di Jay. Le scriveva che era stato molto bene in sua compagnia e che sperava di rivederla al più presto. Scriveva anche che non era mai stata tanto bella come con tutta quella polvere colorata addosso. Quando Laxmi le chiese di incontrarla, poco più tardi, Eliza temette di essere stata in qualche modo scoperta. Forse Chatur li aveva spiati o aveva mandato qualcuno a seguirli, qualcuno che li aveva osservati e aveva visto tutto, che li aveva visti uscire dal palazzo e che li aveva pedinati.

Eliza odiava il pensiero che ogni sua mossa potesse essere sottoposta a giudizio e che non ci fosse un luogo in cui nascondersi. Laxmi non sarebbe stata affatto felice della sua scappatella in città con Jay e, di certo, non sarebbe stata felice di sapere del bacio. Eliza sapeva che sua madre aveva cercato di combinare svariati matrimoni per Jay negli ultimi anni, sperando in un’alleanza con un’altra nobile famiglia, anche se non Rajput, perché all’apparenza era proibito, ma di qualche altro luogo dell’Impero.

Fece ricorso a tutta la forza che possedeva, mentre si avvicinava lentamente agli appartamenti di Laxmi. Per raggiungerli, doveva attraversare quattro diversi corridoi, solitamente sorvegliati da eunuchi, da sempre considerati custodi della castità femminile e preposti a costituire una barriera attorno alla maharani. Tuttavia, gli appartamenti, all’interno, erano sempre presidiati da due donne. Eliza fece un cenno di saluto ai due eunuchi di guardia e bussò gentilmente alla porta. Laxmi le aprì e lei fu lieta di vedere che la donna le sorrideva con calore. Forse, dopotutto, non sapeva nulla.

«Vuoi qualcosa di fresco?», le chiese Laxmi. Orgogliosa e fiera, ma anche gentile e generosa, era graziosa come sempre. Aveva occhi accoglienti e amichevoli, ridenti, le piccole rughe erano l’unico segno dell’età che avanzava sul viso altrimenti liscio della donna. Eliza chiese dell’acqua. Quel giorno Laxmi sembrava una regina a tutti gli effetti, col suo abito blu e verde ornato d’argento. Ogni volta che si trovava al suo cospetto, Eliza era portata a sedersi sempre più ritta, o forse, a provocare quell’atteggiamento, era la maestosità delle pareti, decorate con mosaici di specchi e angeli alati dipinti sul soffitto.

«Ho saputo che sei andata nella città vecchia per la festa dell’Holi». Eliza ingollò l’acqua e posò rapidamente il bicchiere, facendone traboccare un po’ sul tavolo di madreperla. «Oh, mi dispiace molto, io…».

Laxmi fece un cenno per indicare che accettava le scuse e fece suonare una campanella d’argento. «Ci penserà la mia ancella Sahili. È molto competente. Sai che sta con me da quando ero una ragazza?»

«Davvero?»

«Era parte della mia dote. Adesso ascoltami, cara. Io non sono preoccupata perché trascorri del tempo assieme a mio figlio. Spero che tu mi comprenda. Di fatto sono stata io a suggerirgli di portarti alla fiera dei cammelli e al villaggio».

Era la verità. Senza dubbio Laxmi li aveva fatti avvicinare, anche se non doveva essere pienamente consapevole delle conseguenze. Stava per separarli?

«Jay ha trascorso molto tempo a scuola in Inghilterra. Mi sembrava annoiato e ho pensato che sarebbe stato felice di avere un’inglese per compagnia».

Laxmi parlava con un tono di voce confortante, ma Eliza trattenne il fiato.

«Però non potrà mai offrirti niente più che un’amicizia. Lo capisci, Eliza?».

Eliza inspirò rapidamente, valutando la certezza celata dietro il dolce interrogatorio di Laxmi. «Sì, naturalmente».

«Non è solo perché sei inglese. Un tempo ci furono molti matrimoni tra i reali indiani e gli europei, aristocratici e non. Le mogli erano riconosciute e i figli erano legittimi eredi. Poi Lord Curzon fece approvare una legge in base alla quale i figli dei nobili indiani, avuti con le legittime mogli europee, non sarebbero potuti succedere al trono».

«Non lo sapevo».

«Anche se Jay non è un sovrano, dovrebbe regnare nel caso accadesse qualcosa ad Anish, che non ha figli maschi. Un regno senza eredi sarebbe facile preda degli inglesi. Tuttavia, c’è anche un altro ostacolo più grande del fatto che sei inglese e che i vostri figli non avrebbero diritto a ereditare il trono».

Eliza aggrottò la fronte. «Non sono sicura di quello che intendi».

«Non può sposare una vedova. A meno che non si tratti della moglie del suo predecessore».

Ecco il punto. Si domandò per un momento che cosa rispondere, poi decise di parlare.

«Ma io non sono a caccia di un marito, Laxmi, te lo garantisco». Cercò di relegare Jay in un angolo remoto della sua mente.

«Questo è un bene. Non voglio che tu ti crei false speranze o che possa soffrire, o che faccia la fine delle seconde o terze mogli, che sono poco più che concubine, nascoste al mondo. Spero che tu capisca. Il matrimonio qui da noi non è una faccenda romantica. Si tratta di una complessa strategia che può incrementare le ricchezze di entrambe le famiglie e migliorare il loro status sociale».

Seguì un breve silenzio.

«Potrei dire che sei voluta andare via a causa dei problemi insorti con Chatur. Sì, so tutto a riguardo, ma… Forse sarebbe meglio che tu andassi via prima delle piogge e che non rimanessi con noi l’intero anno», aggiunse Laxmi.

Quest’ultimo commento colpì Eliza, preoccupata delle implicazioni. Fissò il volto acuto di Laxmi e si chiese cosa stesse organizzando la donna.

Aveva sempre pensato che sarebbe rimasta per le piogge e anche dopo. Aveva intenzione di fotografare non solo la fase iniziale del progetto di Jay, ma anche le piogge stesse. Tutti ne parlavano con tanta riverenza che voleva vederle di persona. Jay le aveva detto che avrebbe dovuto vedere le nuvole sopra Udaipore, la città dei laghi.

Eliza annuì, ma non disse nulla. Prima delle piogge sarebbe stato troppo presto e andarsene non faceva parte dei suoi piani. Clifford si era accordato per un anno intero.

«Ammetto che Jay mi piace», spiegò dopo qualche momento, «ma io devo essere qui per le piogge e l’inizio dell’autunno. Non devi temere per le mie aspettative».

«Sia come sia, lascia che ti spieghi qualche altra cosa, così potrai comprendere meglio. Mi preoccupo per te, mia cara. Una maharani gode di uno status più alto di una rani, una seconda moglie. Una maharani ha un appartamento favoloso, mangia su piatti d’oro, indossa bei vestiti e gioielli preziosi. Una rani, invece, a prescindere dal fatto che sia una seconda, terza o quarta moglie, avrà solo una stanza tutta sua, forse assieme alla sua piccola corte, forse no. Come vedi, lo status è tutto».

«Come ho detto, non ho mire su tuo figlio», replicò abbastanza bruscamente.

Laxmi annuì, approvando. «Le donne di cultura europea non vengono mai accettate fino in fondo dalla nostra gente. Le nostre relazioni con i sudditi sono specifiche e molto particolari. La gente comune non accetterebbe mai una vedova, lo sai».

Ci fu un momento di silenzio. Eliza non sapeva cos’altro dire per convincere Laxmi che Jay era al sicuro da lei.

«In ogni caso, sono lieta di dirti che ho consultato vari esperti e sacerdoti, e sembra che io abbia trovato finalmente la moglie per mio figlio. Una splendida ragazza di nobile famiglia, che ha una dote consistente. Spero che possano sposarsi al più presto».

Laxmi aveva parlato con entusiasmo e stava sorridendo, mentre Eliza si sforzò di rimanere impassibile e nascondere lo shock. Jay lo sapeva? Era d’accordo? Il destino pesava immobile su di lei, pronto a mettere in atto la sua punizione per quel bacio; sarebbe volentieri strisciata via a leccarsi le ferite.

«Dunque penso che ora ci capiamo. In tutti i palazzi c’è una forte tradizione di spionaggio. Nulla passa inosservato, mia cara. Nulla. Avrei voluto dire qualcosa già prima, ma non volevo intervenire, perché non c’era nulla di cui preoccuparsi».

«E invece adesso dovresti preoccuparti? Perché sta per fidanzarsi?»

«Conosco mio figlio». Laxmi tacque per un momento e, in quella pausa, Eliza colse un senso d’apprensione.

Nel frattempo, avrebbe voluto trovarsi da un’altra parte. Non aveva importanza dove, aveva bisogno di mettere ordine al caos dei suoi pensieri.

«Può essere dura per una donna. Sai, in passato se le rani o le concubine venivano sorprese con un altro uomo, per loro era prevista la pena di morte; del resto, abbiamo sempre governato usando la paura e l’ammirazione. Nessuna donna del palazzo oserebbe mostrare il volto a un uomo che non fosse suo marito».

«E tu approvi tutto questo?»

«Non direi. Tuttavia, credo che il dovere di una moglie sia quello di tenere unito il suo matrimonio e la sua famiglia».

«Anche se il marito se ne va?»

«Il marito?». Laxmi rise. «I mariti hanno talmente tante mogli e concubine. Mio padre ne aveva trecento. Il fatto che se ne vada, come dici tu, fa parte del sistema».

«E non credi che questa disuguaglianza sia ingiusta?»

«Penso solo che, se una donna non è in grado di tenere insieme il suo matrimonio e la sua famiglia, chi può farlo? Non siamo uomini, per noi è diverso».

«Ho saputo di recente che mio padre aveva un’amante e la cosa ha distrutto mia madre». Era la prima volta che Eliza ne parlava. In realtà era la prima volta che ammetteva con se stessa che le accuse di sua madre erano fondate, ma qualcosa in Laxmi sembrava spingerla a dire la verità, a confessare.

«Gli uomini saranno sempre uomini, mia cara, quindi è meglio inquadrare le loro pulsioni all’interno di un sistema sociale, non credi? Così non possono esserci brutte sorprese».

«Non hai una così alta opinione degli uomini».

«Al contrario».

«E cosa pensi della gelosia? Di certo fa parte della natura umana».

«Molte delle rani e delle concubine erano, e sono, buone amiche, ma certo la gelosia c’è e c’è sempre stata».

«E allora cosa accade?»

«Avvelenamenti, molto più spesso di quanto tu possa credere».

19

L’umore di Eliza era cambiato radicalmente da quando aveva parlato con Laxmi. Era stata una folle a indulgere in quei romanticismi senza speranza. Da quel momento in poi i suoi rapporti con Jay sarebbero stati strettamente formali, perciò, quando lo incontrò, mentre lasciava la sua ala del palazzo, lo salutò a malapena e si affrettò a salire le scale. Non si fermò neppure a controllare quale reazione avesse avuto; arrivata nella sua stanza, chiuse a chiave la porta, con il cuore che le pulsava tra le costole. Non riusciva a respirare, aveva il fiato corto, anche se non aveva corso, e ripensando a quello che era successo, decise che sotto la dignità di Laxmi c’era una volontà d’acciaio.

E se Laxmi avesse avuto ragione? Forse la cosa migliore da fare era portare a termine il lavoro il più velocemente possibile, stare solo sei mesi a Juraipore e uscire finalmente da quel palazzo dimenticato da Dio una volta per tutte. Dottie sarebbe stata d’accordo con lei, ne era sicura. Avrebbe dovuto scattare qualche altra foto ai componenti della famiglia reale e alla città antica e, ovviamente, usare la sua Sanderson.

Clifford aveva organizzato un picnic sulle rive del lago appena fuori città, dove lei gli avrebbe detto di voler accelerare le cose. E per quanto riguardava il piano idrico di Jay? Avrebbe dovuto continuare senza il suo aiuto.

«Le cose belle hanno vita breve», sussurrò, pensando a quando lei e sua madre avevano lasciato l’India per andare a vivere da James Langton nel Gloucestershire. Aveva creduto che lui l’avrebbe accolta, che gli sarebbe piaciuto avere una bambina attorno, ma fu spedita lontano, in una scuola femminile, ed Eliza aveva sempre pensato che lui volesse togliersela di torno.

Il picnic di Clifford le fece tornare in mente un altro ricordo.

Era accaduto poco prima che lei partisse per la scuola. L’unica volta che James Langton aveva accompagnato Eliza e Anna a fare una piccola gita, avevano percorso i campi assolati con lui che teneva in mano un cestino da picnic. Era l’inizio della primavera, Eliza era così felice che anche James si fosse unito a loro, ma l’uomo non aveva gradito il tortino di pollo che sua madre aveva preparato e, quando accidentalmente si era seduto sopra gli escrementi di una mucca, Eliza era scoppiata a ridere. Langton l’aveva afferrata per il gomito e fatta alzare dalla coperta su cui stava seduta, poi l’aveva schiaffeggiata duramente. Doveva avere già tredici anni e aveva trovato quell’episodio davvero umiliante. Era scappata di corsa a casa, piangendo per tutta la strada, e Anna era tornata più di un’ora dopo, con i capelli scompigliati e i bottoni del vestito allacciati male. Proprio quando avrebbe avuto bisogno dell’amore e della consolazione di sua madre, Anna aveva preso le difese di Langton; Eliza l’aveva vissuto come un amaro tradimento.

Eliza non era in vena di picnic, ma aveva indossato un abito verde pallido con una gonna a ruota e un cappello di paglia a falde larghe. Molti conoscenti di Clifford si sarebbero uniti a loro, perciò Eliza si preparò mentalmente a un pomeriggio di convenevoli.

Con sua grande sorpresa, non fu così.

Il luogo prescelto per il picnic non avrebbe potuto essere più spettacolare. La servitù si occupò di scaricare le poltrone, un tavolo, i ventagli e gli enormi ombrelloni parasole dalle carrozze e dai carri tirati dai cavalli. Il tutto fu sistemato sulle rive di un lago scintillante alla luce del pomeriggio. Gru, pellicani e cicogne si erano raccolti sugli argini; sull’acqua nuotavano le anatre e gli alberi che fiancheggiavano il lago pullulavano di uccelli canterini. Le colline si alzavano tutt’attorno, azzurrine in lontananza. Sembrava proprio che Clifford non avesse badato a spese e che avesse pensato a tutto. Julian Hopkins e Dottie, erano sempre amichevoli, anche se Eliza si sentì un po’ in colpa quando andò ad abbracciare l’amica. Avrebbe voluto andare a far visita a Dottie molto più spesso, invece negli ultimi tempi non l’aveva fatto.

«Non fa troppo caldo per te?», le chiese Clifford indicandole una sedia all’ombra. «Saremmo potuti scendere al lago, ma quassù l’aria è più fresca. Spero che ti piaccia, Eliza».

«È davvero incantevole», rispose lei, e ammirò gli uccelli che si radunavano sull’acqua. «Mi piacerebbe scattare un paio di foto dopo pranzo, più tardi nel pomeriggio, quando il sole sarà meno forte. Mi piace fotografare con una luce più tenue».

Gli altri parlavano tra loro amabilmente, mentre sul tavolo venivano adagiate una tovaglia inamidata di lino e poi delle posate d’argento. C’erano anche due tende chiuse, con le pareti di seta e il telo superiore di mussola, aperte verso il lago.

«Sono kanat», le spiegò Clifford, notando che le stava osservando. «Perfette per riposare dopo un lungo pranzo».

Eliza si alzò in piedi e andò a guardare all’interno di una tenda. Era piena di cuscini di raso e tre musicisti si erano già preparati lì accanto. L’aria sapeva di pulito ed era sorprendentemente fresca; Eliza si sarebbe dovuta rilassare, eppure riusciva a pensare solamente a Jay. Quello che era successo la notte dell’Holi l’aveva lasciata profondamente scossa e tesa. Non era venuta fin lì per cercare l’amore, e di certo quello non era ancora amore. Ma cos’era stato? Lussuria? C’era qualcosa di più profondo che li univa? Se ne stava immobile a pensare davanti al lago, lo guardava ma non lo vedeva. Una volta le aveva detto che erano uniti dal cuore spezzato, anche se in quel discorso aveva incluso anche Indi.

«Dunque», stava dicendo Clifford, «cosa ne pensi?»

«Come, scusa?»

«Non mi stavi ascoltando?»

«Scusami, ero soprappensiero», e indicò vagamente il paesaggio. «È davvero un luogo affascinante».

«Dicevo che dovremmo visitare la reggia sul lago a Udaipore. È il posto più romantico del mondo, specie nella stagione delle piogge».

«Un posto dove innamorarsi, eh, Clifford?», scherzò uno degli uomini, e diede una pacca all’altro. Gli altri due uomini che facevano parte della piccola compagnia erano militari che stazionavano a sud, ma la moglie di uno di loro, che li accompagnava, aveva conosciuto Clifford da ragazza; era per quel motivo che erano andati a fargli visita di passaggio sulla via del Punjab, dove la sorella della donna stava per sposarsi.

«Dovrebbe essere piacevole per lei essere di nuovo nel suo mondo, signorina Fraser», stava dicendo il più giovane dei due uomini.

Infastidita da quella domanda, Eliza a malapena annuì.

La donna, che si chiamava Gloria Whitstable, iniziò a parlare. «Non so proprio come faccia. Io non sarei mai riuscita a dormire in uno di quei palazzi spaventosi. Sono certa che verrei assassinata nel letto».

«Veramente», replicò Eliza con crescente irritazione, «a me piace molto. E non ho ancora portato a termine il mio anno lì».

«Sono certa che sia un luogo affascinante», s’intromise Dottie, ed Eliza le sorrise grata.

«Ho delle novità per te», disse improvvisamente Clifford.

«Oh?»

«Mi è stato chiesto di capire se hai voglia di andare a Shimla per un breve progetto. È una buona offerta e potresti evitarti il caldo di qui. A essere onesti, Shimla sarebbe un buon posto per vivere. Non dovresti più stare con gli indiani e si tratterebbe di realizzare un reportage sugli inglesi. Sai, le feste d’estate, gli attori dilettanti, il club, quelle cose lì».

Anche se aveva pensato di chiedere a Clifford di poter terminare prima il progetto, ora quel pensiero era del tutto scomparso dalla mente di Eliza.

«Oh, ci mancherai», stava dicendo Dottie. «Ma di sicuro Shimla è meravigliosa. Sono anche un po’ invidiosa».

Eliza si sentì ancora più in colpa pensando alla solitudine di Dottie. Non disse una parola e Clifford sembrò accigliarsi. «Se almeno mi ringraziassi, Eliza, non guasterebbe. Non saresti più tanto sola e verrei a trovarti, qualora avessi del tempo libero».

Eliza ancora non sapeva che dire. Certo sarebbe sfuggita alla sua attuale situazione, ma non avrebbe più rivisto Jay, e la profondità di quel sentimento la spaventò. Era facile pensare di andarsene in via teorica; era molto più difficile dover affrontare una proposta concreta.

«Eliza?»

«Scusami, ci stavo solo pensando su».

«Non credevo che avessi bisogno di pensarci su. È un’occasione unica».

«Ma non ho terminato il mio anno qui».

Lui scrollò le spalle.

«Hai mai avuto intenzione di farmi rimanere un anno, Clifford?»

«Certamente. È solo che poi è arrivata questa proposta».

«Ti offenderesti molto se io ci dormissi su? Sai, la mia fotocamera non è ancora tornata da Delhi e non vorrei assolutamente perdermi qualcosa di davvero cruciale per l’archivio».

«Sono certo che non ti perderai nulla, ma sappi che è richiesta una risposta entro la fine della settimana, o chiederanno ad altri. Potrai sempre tornare qui a settembre».

«Avrai la tua risposta. Mi dispiace, sono complicata».

«Non sei complicata. Ti capisco».

Ma era chiaro, dall’aspetto grave e offeso del suo volto, che non la capiva affatto. Eliza tenne per sé le proprie riflessioni, senza avere la minima intenzione di illuminarlo in proposito, e continuò a seguire il filo dei propri pensieri, ignorando il suo sguardo. Fu servito un pranzo sontuoso, ma lei non aveva fame. Giocherellava col cibo sperando che Clifford non si aspettasse di sdraiarsi in una delle tende assieme a lei.

«A proposito», disse Clifford con un piccolo colpo di tosse, «c’è qualche problema con i fondi del progetto idrico».

«Pensavo avessi detto che avevi già trovato i soldi».

Lui scosse la testa. «Speravo di trovarli, Eliza, ma non ho mai promesso niente».

«Ma Jay deve portare a termine il primo stadio del progetto entro luglio, quando arriveranno le piogge, o avrà lavorato invano. Le piogge dilaveranno gli argini se i lavori non saranno completati».

«Mi dispiace. Ho fatto del mio meglio».

«Quindi mi stai dicendo che il denaro non c’è».

Lui si strinse nelle spalle.

«Clifford, è terribile. Avrebbe significato molto per gli abitanti di quel villaggio».

«Per gli abitanti del villaggio o per te, Eliza?». La guardava intensamente e lei trovò quasi impossibile dissimulare i suoi reali sentimenti.

Clifford si chinò su di lei e le sussurrò piano: «Ti sei messa nei guai, Eliza? Nutri dei sentimenti per lui? Non sarebbe legale».

Lei rispose al suo tono perentorio. «Certo che no», ribatté ritraendosi, e finse uno sguardo sdegnato.

«Bene. Lui non ti farà alcun favore, lo sai, e la mia offerta è ancora valida».

«Intendi Shimla o…».

«Entrambe, mia cara. Entrambe. Non mi arrendo facilmente», aggiunse con insistenza. «Ma se tu mi renderai felice, io farò lo stesso con te, se capisci cosa intendo. Non si sa mai», e si fermò come se stesse pensando, «i fondi per l’irrigazione potrebbero comunque arrivare, dopotutto».

20

Quando Eliza tornò alla reggia, ormai era quasi scesa la notte ed era furiosa. Non aveva mancato di cogliere i sottintesi nelle parole di Clifford ed era indignata per quello che le aveva detto, ma se ne dimenticò completamente quando si rese conto che il palazzo era in totale subbuglio. Smise di pensare a Clifford, almeno per il momento, e guardò la gente indaffarata fare avanti e indietro per i cortili con i volti tirati. Nessuno badò a lei.

Stava per chiudersi nelle sue stanze a pensare a Shimla, ma poi vide Indi ferma sotto uno degli archi del colonnato. La ragazza la chiamò ed Eliza la raggiunse.

«Cosa sta succedendo?», chiese.

«Anish è malato».

«Una cosa grave?»

«Penso di sì. Ci sono medici e astrologi da lui».

«Sai di cosa si tratta?».

La fanciulla scosse la testa, ma Eliza ebbe la netta impressione che qualcosa l’angosciasse.

«Ma guarirà?».

Indi scosse di nuovo il capo. «Nessuno lo sa. Il problema è che, se accade qualcosa ad Anish, Jay dovrà prendere il suo posto e Chatur non si fermerà davanti a niente per impedirlo».

«Ma perché?»

«Jay è un principe moderno. Chatur è l’esatto opposto e non accetterà mai nessun altro punto di vista. Ora può manipolare Anish, ma non potrà fare lo stesso con Jay. Credo che Chatur sia preoccupato per la salute di Anish già da qualche tempo e che ce lo stia nascondendo».

Mentre si allontanava, Eliza ripensò inquieta a quello che le aveva detto Indira; o forse a influenzarla era stato solo l’accenno di Laxmi all’avvelenamento. Tuttavia, dal momento che la malattia di Anish probabilmente non aveva niente a che vedere con lei, decise di sparire dalla circolazione per il resto della serata e di lavorare nella sua camera oscura. Eppure, non riusciva a fermare i pensieri che correvano veloci. Aveva sempre cercato di adeguarsi alle aspettative degli altri, prima come figlia e poi come moglie, ma non era riuscita a farlo fino in fondo in nessuno dei due casi. Aveva fatto del suo meglio per amare Oliver: cucinava per lui, teneva immacolato il loro piccolo appartamento e cercava di rispondere ai suoi approcci, anche se la maggior parte delle volte tutto finiva in frustrazione per entrambi. Suo marito era l’unico uomo con cui Eliza fosse mai stata e all’inizio, ignara delle cose dell’amore, aveva biasimato se stessa, ma aveva dei grandi alleati dalla sua: i libri. Era una grande lettrice e aveva trascorso buona parte della sua infanzia col naso infilato in un libro, e così pian piano, dopo aver letto di tutto sul sesso ed essere arrossita più e più volte, aveva realizzato che Oliver non era affatto un tenero amante, né una persona amorevole. Voleva solo che lei aprisse le gambe ogni volta che gli garbava e, allo stesso modo, pretendeva di penetrare il suo corpo. Quando Eliza non lo faceva, peggio per lei. Odiava il sesso con lui e aveva dovuto sforzarsi di non odiare anche lui. Era stata in una di quelle occasioni che Oliver, furioso, le aveva detto che era fredda e frigida. Per tutta risposta lei aveva scagliato la sua fede fuori dalla finestra e gli aveva detto di voler intraprendere una carriera lavorativa. Il giorno seguente aveva cercato di fare pace con lui, aveva sistemato dei fiori sulla tavola da pranzo, s’era messa il suo vestito migliore, il profumo dietro le orecchie. Ma non aveva funzionato; le parole erano uscite da sole, quando gli aveva ribadito che avrebbe fatto la fotografa qualunque cosa lui pensasse. Lui era uscito sbattendo la porta e quella era stata l’ultima volta che l’aveva visto vivo. Tuttavia, anche se capiva di non averlo mai amato davvero, la addolorava pensare che fosse morto in maniera tanto insensata.

Gradualmente si calmò. Il silenzio ovattato della sua camera oscura le dava modo e tempo di pensare; leniva il suo dolore, persino, come se versare meccanicamente le sostanze chimiche distendesse le pieghe della sua mente. Però, fotografia a parte, doveva affrontare il fatto di avere ben poco da offrire a un uomo. Cosa avrebbe portato in dote? Aveva valore saper scattare la foto di qualcuno cogliendo la sua vera essenza? Aveva valore saper mettere le persone a proprio agio per poterle immortalare in modo spontaneo? Era stata una moglie senza speranza, prima, e certamente non aveva alcun desiderio di sposarsi nuovamente, se compiere quel passo significava sprecare la sua vita a prendersi cura di qualcuno che avrebbe dovuto essere in grado di badare a se stesso. Certamente Jay avrebbe voluto una moglie sottomessa e non sarebbe mai stato interessato a lei; era destinato a una vita molto diversa. Era stato solo un bacio, dopotutto, chissà quante donne lui aveva baciato. Aveva preso un abbaglio, niente più, e cercò di convincersi che la cosa non aveva importanza.

Ma Clifford l’aveva delusa. Le aveva promesso che l’avrebbe aiutata con il piano d’irrigazione, invece Jay sarebbe rimasto a bocca asciutta. Laxmi aveva già impegnato alcuni dei suoi gioielli di famiglia per pagare l’ingegnere e i macchinari necessari all’avvio dei lavori. Sarebbe stato un disastro dover annullare tutto. Si erano affidati a Clifford e, anche se non avrebbe voluto arrivare a tanto, sembrava che l’inglese fosse ancora in grado di procurare i fondi se lei gli avesse dato quello che voleva.

Quando Jay andò a trovarla in camera sua, a notte fonda, Eliza aprì la porta e, dopo aver studiato il corridoio in lungo e in largo, lo fece entrare. Jay aveva un giornale aperto in mano.

«Hai visto?», e lo sbatté. «Il tuo Winston Churchill ha definito Gandhi un fachiro mezzo nudo».

Eliza era perplessa.

«Gandhi è andato fino alla residenza del viceré indossando solo un mantello. Agli inglesi non è piaciuto nemmeno un po’». L’aveva detto con rabbia, e poi si era fermato. «In realtà, se ci pensi, è quasi divertente. Peccato che non ci fossi tu a scattare le foto. Avresti fatto una fortuna».

«Immagino».

Lui si accigliò e si grattò la testa.

«C’è qualcosa che non va? Mi dispiace, non sono riuscito a venire prima».

«Come sta tuo fratello?», gli chiese, ma aveva la bocca secca e cercava di combattere emozioni contrastanti, desiderando assaporare ogni momento che trascorreva assieme a lui, pur sapendo di non poterselo permettere. La sua stessa voce le sembrò strana. La spontaneità tra loro era scomparsa, vanificata, come se quella notte in cui lui le aveva mostrato il suo mondo segreto non ci fosse mai stata.

Jay aveva il volto teso e lei non riuscì a capire cosa stesse pensando o come si sentisse.

«Sta bene, starà meglio. Probabilmente un’indigestione».

«Ma Indi mi è sembrata preoccupata».

«Sì?». Tacque e andò a sedersi su una poltrona. Eliza avrebbe voluto essere più coraggiosa, però aveva sempre paura di essere rifiutata, o di parlare troppo, o di essere ferita. Meglio restare sulla difensiva.

«Non sono venuto per parlare di Indi o di mio fratello».

Lei gli guardò le mani e le immaginò sulla sua nuca, come quando l’aveva baciata.

«E per cosa, allora?».

Stava lottando per mantenere una voce calma, ma temette di non riuscirci comunque.

«Ho pensato a quanto è accaduto la notte dell’Holi».

«Anche io», disse lei, vergognandosi per la sua poca forza di volontà, ma lieta che avesse iniziato lui a parlarne.

Jay sospirò. «Dimmelo».

Lei ne fu sorpresa. «Cosa vuoi che ti dica?»

«C’è sempre qualcosa che non osi dire, non è così? L’ho sempre saputo. Tu non appartieni a questa cultura, ma mi chiedo se in effetti ci sia un mondo a cui appartieni».

L’aveva detto a bassa voce, con lo stesso tono con cui le aveva raccontato di essere stato lì con lei quando suo padre era morto. Eliza si tuffò sul divano, poi si sedette composta e si guardò i piedi.

«A volte c’è bisogno di rischiare qualcosa nella vita».

Lei lo guardò, e poi distolse lo sguardo. «Venendo qui ho corso un bel rischio».

«Sto parlando del tuo cuore». Tacque. «Eliza, guardami».

Lei scosse la testa. «Clifford mi ha offerto un altro lavoro».

«Bene. Non è un bene?»

«Sarebbe a Shimla. Devo dargli una risposta entro la fine della settimana». Eliza non ebbe il coraggio di guardarlo per capire se il suo volto rivelasse i suoi sentimenti, ma quando lui parlò, la sua voce era inespressiva.

«E quando dovresti partire?»

«Immediatamente».

Sentì che lui stava trattenendo il fiato.

«Eliza, non so quali siano le tue aspettative».

Lei lo guardò. «Puoi rilassarti. Non ne ho».

«È importante che tu capisca che sei padrona della tua vita».

«E che ne è del destino?»

«Tu sei l’artefice del tuo destino».

«Davvero lo pensi?»

«È quello in cui credo. Sai che noi qui crediamo nel karma, ovvero che le azioni influenzino il futuro, sia in questa vita che in quelle future».

«Allora se faccio la brava potrò tornare a vivere e sarò una principessa indiana; così potrei sposare il mio principe. Vuoi dire questo?»

«Certo che no». Le sorrise. «L’avresti odiato in ogni caso. Essere una moglie indiana, intendo».

Ma lei non sorrise, lo guardava in tralice. Qualunque cosa si fossero detti, non avrebbe fatto alcuna differenza. Lei sarebbe sempre rimasta una vedova dal passato dubbio e lui sarebbe sempre rimasto il glorioso e inaccessibile principe Jayant Singh Rathore, un uomo che contava innumerevoli ammiratrici. Non sarebbe mai riuscita a scalfire la superficie di quel palazzo, né dell’India, né di Jayant. Aveva la fronte imperlata di sudore e se l’asciugò con le dita della mano; sentiva caldo anche alla base del collo.

«Eliza, cosa c’è che non va? Dimmelo».

Lei sospirò. «In realtà ho qualcosa da dirti. Clifford non è riuscito a trovare i fondi per il tuo progetto».

Eliza si irrigidì, desiderando che lui la implorasse di declinare l’offerta di Shimla, e cercò di non vacillare sotto il suo sguardo.

Ci fu silenzio e l’aria sembrò congelare.

«Perché mi guardi così?», gli chiese alla fine, ancora speranzosa, anche se dentro di sé conosceva la risposta.

Il suo cuore sprofondò quando lui si alzò per andare via.

«Per poter ricordare il tuo viso, dopo che te ne sarai andata», le rispose.

Eliza lottò per non farsi sgretolare dalla delusione, eppure stranamente si sentiva anche sollevata. Le cose stavano così. Era tutto finito già prima di iniziare.

Lui raggiunse la porta. «Se vuoi scusarmi, ho qualcosa da fare. Non ti preoccupare. Ora che è tutto nelle mie mani, non mi fermerò. Devo finire prima delle piogge e ho ancora qualche mese. Grazie per il tuo aiuto. Buona notte».

Fece un inchino e uscì dalla stanza.

21

Eliza dormì male e si svegliò in subbuglio. Ma una cosa le era chiara: non poteva andarsene così. Desiderava vedere Jay, aveva bisogno di parlare di nuovo con lui, sebbene non fosse certa di quanto fosse genuino il suo sentimento; poteva anche essere semplice attrazione per un amore proibito.

Si lavò e si vestì velocemente e poi, col cuore in gola e le mani sudate, corse a cercarlo. Dopo aver bussato ripetutamente alle sue stanze senza aver ricevuto risposta, le rimase solo il suo studio da perlustrare. Marciò nuovamente sul lungo corridoio, con la crescente sensazione che stesse commettendo un grave errore, e quando si avvicinò allo studio, vide che la porta era rimasta leggermente socchiusa. Non tornare indietro proprio adesso! Prese il coraggio a due mani e la spalancò, aspettandosi di trovare Jay. Invece dentro alla stanza trovò un Dev sensibilmente sorpreso, che, a giudicare dalla posizione della sedia, sembrava essersi alzato di scatto dalla scrivania di Jay, dove stava scrivendo a macchina.

Eliza osservò la scena e immaginò che anche lui stesse aspettando Jay, benché ci fosse qualcosa che strideva.

«Come sei entrato?», gli chiese.

«La porta era aperta. Jay mi lascia usare la sua macchina da scrivere, a volte».

«Quando sei arrivato?», gli chiese poi; Eliza, tuttavia, si accorse che sembrava seriamente a disagio, come se il suo arrivo l’avesse sorpreso e disturbato.

«La scorsa notte», le rispose, con un breve sorriso, ricomponendosi, e piegò rapidamente i fogli di carta che aveva sfilato dalla macchina da scrivere.

«Dov’è Jay?»

«E chi lo sa? È uscito all’alba con la motocicletta».

«Davvero? E dove è andato?».

Dev scrollò le spalle. «Non l’ha detto. Lo fa da sempre, specie quando ha qualche pensiero. O se è arrabbiato. Forse è andato a vedere come procedono i lavori del progetto per l’irrigazione».

«È meglio che io vada», replicò Eliza e fece un passo indietro verso la porta. «Ho molte cose da fare».

«Stai facendo le valigie? Jay mi ha detto che stai per partire».

Eliza tacque. Non voleva che la sua partenza diventasse argomento di pettegolezzi, anche qualora si fosse verificata veramente.

«Nulla è ancora deciso».

«Guarda, anch’io ho una moto. Ce l’ho qui in realtà. È una moto da corsa e non ha il sidecar come quella di Jay, ma se ti tieni stretta puoi venire con me al palazzo di Jay. Andiamo a cercarlo. Potresti scattare qualche foto ai lavori».

«Non ne sono sicura», disse Eliza esitante, non voleva che Jay pensasse che lo stava inseguendo, ma poi si ricordò del profumo della mattina nel deserto e la colse un impeto irrazionale: non aveva niente da perdere e acconsentì.

«Dovrò prendere la Sanderson, è una macchina fotografica più pesante, con le lastre e il cavalletto. È ingombrante e difficile da usare, ma il risultato è migliore. Ci sarà posto nella moto?»

«Fisseremo tutto con le cinghie».

Un paio d’ore dopo, sotto un cielo brillante, Eliza era aggrappata a Dev che correva troppo velocemente sulla pista polverosa del deserto, sussultando a ogni cespuglio e albero spinoso. Dopo qualche chilometro, Eliza si avvolse la sciarpa attorno alla testa, coprendosi la bocca per evitare le nuvole di sabbia e polvere. La motocicletta di Dev era più piccola di quella di Jay e molto più rumorosa; quando arrivarono al palazzo di Jay il sole era già salito sulle loro teste e lei aveva le ossa doloranti. L’edificio era languido e sonnolento nella foschia, sembrava deserto e silenzioso. Eliza cercò di sistemarsi i capelli arruffati, consapevole di avere un aspetto spaventoso, cosa che le fece pensare nuovamente che forse non aveva avuto una buona idea. Il suo cuore batteva sordo, un chiaro segno di disagio; non rimpiangeva il fatto di essere andata lì, ma cosa avrebbe realmente potuto pensare Jay del suo repentino ripensamento?

«Pensi che sia giusto che io sia venuta qui senza avvisarlo prima?», chiese, cercando di non sembrare troppo patetica.

Dev scoppiò a ridere. «Dài. Diamo un’occhiata ai lavori in corso».

«Non dovremmo prima cercare Jay? E chiederglielo?»

«Se Jay è qui, si accorgerà presto che ci siamo anche noi».

Si diressero al portico dove Eliza si era seduta con Jay qualche mese prima e, immaginando di vederlo seduto lì, si chiese come l’avrebbe affrontato. Si era davvero fidanzato, o stava per farlo? Si pentì di essersi lasciata baciare, anzi, di averlo quasi incoraggiato. Seguì Dev attraverso i giardini rigogliosi fino a un piccolo frutteto, infine giunsero al luogo dove erano in corso i lavori più importanti. Per centinaia e centinaia di metri era stata parzialmente scavata una fossa oblunga, rimasta ormai incompiuta.

Eliza osservò la terra dura come la roccia e si rese conto della vastità dell’impresa, di quanto lavoro ci fosse ancora da fare. C’era ancora molto da scavare e il tempo stava per finire. Notò anche che su un lato era stato iniziato un lavoro in muratura: presumibilmente uno dei muri di contenimento che avrebbero arginato le acque.

La fossa era del tutto asciutta, naturalmente, ma a causa delle scarse piogge dei due anni precedenti, Jay doveva per forza portare a termine quel primo lago artificiale.

«Dovrà darsi da fare se vuole che le mura di contenimento delle acque siano pronte», disse Dev. «Sei mai stata qui durante i monsoni?»

«Quando ero piccola. Me lo ricordo a malapena».

«Oh, è meraviglioso. Quando le cataratte del cielo si aprono, le piogge sono accolte da risa selvagge e gioia. Segnano la fine del caldo soffocante».

«E anche la fine della siccità». Eliza indicò il lago artificiale di Jay. «Spera di poter deviare un piccolo fiume, di costruire una diga e un massiccio terrapieno con scale di marmo che portano fino all’acqua. Ma so che sta progettando un lago ancor più grande, ampio e largo quasi un chilometro, per quando avrà finito».

«Ma ora nessuno sta lavorando?», chiese Dev.

Eliza scosse la testa e, col cuore gonfio, osservò le escavatrici a vapore abbandonate. Lottava per non mostrare la sofferenza per l’amara delusione che Jay doveva provare.

«C’è un ritardo nei finanziamenti», spiegò, controllando il dolore.

«Solo un piccolo ritardo?»

«Non lo so. Camminiamo?».

Mentre procedevano sull’argine dell’area appena scavata, Dev sembrava perso nei suoi pensieri. Eliza non diede molta importanza alla cosa. Anche lei stava riflettendo e si chiedeva come dovesse sentirsi Jay nel vedere l’opera che giaceva abbandonata. Avrebbe voluto dargli conforto, ma aveva un vuoto allo stomaco ogni volta che pensava di potersi imbattere in lui da un momento all’altro.

«Sono britannici i fondi che sono stati bloccati?», chiese infine Dev.

Eliza annuì.

Dev si fermò. «E chi ha organizzato tutto?»

«Clifford Salter».

Dev sbuffò e poi guardò il lago asciutto. Eliza comprese che lui stava tacendo ciò che realmente pensava, forse per proteggerla, ma poi dedusse la dura realtà.

«Io non ti piaccio, vero?», gli domandò.

«Ho le mie ragioni, non credi?».

Lei inarcò le sopracciglia.

Dev scrollò le spalle e insieme ripresero a camminare. «La verità è che personalmente non ho niente contro di te, ma gli inglesi qui non sono più i benvenuti. Sono passati dodici anni dal massacro di Amritsar, e c’è molto risentimento. Ora ci sono disordini ovunque».

«So che quello che è accaduto ad Amritsar è stato orribile».

Dev quasi gemette.

«Orribile? Lo definisci così?»

«E in quale altro modo dovrei definirlo?»

«Gli inglesi hanno sparato a migliaia di indiani durante una manifestazione pacifica contro una legge profondamente ingiusta che decretava che non potessero radunarsi insieme più di cinque indiani alla volta. Quando l’assemblea s’è riunita per protestare, le truppe britanniche hanno aperto il fuoco. Ci sono stati trecentosettantanove indiani uccisi e millecinquecento feriti. Erano bersagli facili, se ne stavano seduti in un parco cinto da mura». Tacque per un momento. «Credo che sia stato più che orribile».

Eliza immaginò la carneficina e si sentì male al pensiero della perdita di tante vite umane.

«Tutto questo come rappresaglia in seguito all’assassinio di tre europei e per vendicare una donna inglese che era stata molestata. Hanno ordinato agli indiani di strisciare per terra, sulla strada dove la donna era stata aggredita».

Eliza lo guardò e vide quanto fosse adirato.

«Ma l’umiliazione non è mai bene accetta». E rise debolmente. «Gli inglesi detestano soprattutto il pensiero delle nostre mani scure e lascive sulla pelle di una donna bianca. Per loro è un abominio».

«Comprendo la tua rabbia, veramente», disse lei, pensando al bacio di Jay.

«Come potresti capire?».

Eliza non sapeva cosa rispondere e in ogni caso sarebbe stata una risposta poco convincente. Ma non voleva che lui la vedesse come una rappresentante del dominio inglese, quindi si era sentita in dovere di dire qualcosa.

Dev continuò. «In passato gli inglesi sceglievano le ragazze più belle dei villaggi e le facevano prostituire. Poi le fanciulle venivano sbattute fuori. Le famiglie non potevano riprenderle in casa, perché erano state contaminate. Come pensi che possa reagire il popolo a queste angherie? Sì, la gente è risentita».

«Mi dispiace».

«E pensi che questo sia d’aiuto?».

Eliza scosse la testa.

«Sono convinto che la madre di Indira fosse una di queste ragazze, stuprata e sfruttata dagli inglesi e poi cacciata quando è rimasta incinta».

«Credi che il padre di Indira fosse inglese? È questo che pensano tutti?».

Lui scrollò le spalle. «È più chiara di noi e non sappiamo nulla di lei. Sua nonna non ha mai parlato delle origini della nipote. Se ne vergogna».

Ripresero a camminare lungo il bordo degli scavi ed Eliza ne fu contenta. Voleva rivedere Jay, ma allo stesso tempo non voleva sentire la verità sul suo fidanzamento. Ancora non si era visto, ma nella mente di Eliza riecheggiavano le parole di Laxmi.

«Sua madre potrebbe essere stata una di quelle ragazze, usate e abusate. Indi la sposerei io stesso, ma mia madre avrebbe molte riserve».

«E tuo padre?»

«Se n’è andato molto tempo fa».

«Mi dispiace».

Dev la guardò e un’ombra attraversò il suo viso. «Anche a me. I rapporti tra indiani e inglesi hanno superato molte fasi diverse. Ma è tempo che noi rivendichiamo i nostri diritti».

«Lo pensi davvero?»

«Certo. E molti inglesi lo sanno. Già nel 1920 Montagu disse che non si può rimanere in un Paese dove non si è benvoluti».

«E tu cosa stai facendo, personalmente, per accelerare il nostro ritiro?»

«In questi giorni, non sono attivo. Ho provato a chiedere ad Anish il permesso di organizzare una marcia di protesta, ma lui non ha voluto. Comunque, non te l’ha detto anche Jay? Io sono tutto chiacchiere».

«Non è quel che ho sentito dire».

«Cosa intendi?»

«Erano solo voci».

«Non sarei sorpreso se gli inglesi l’avessero fatto apposta», e indicò in direzione del lago, «a tirarsi indietro come finanziatori».

«Perché avrebbero dovuto?»

«Jay si è già indebitato?».

Lei si morse le labbra per non rispondere.

«Questo potrebbe screditare Jay e creare scompiglio a palazzo. Non è un segreto che vogliano liberarsi di Anish e, se Jay perdesse la sua credibilità, sarebbe una buona occasione per non farlo salire al trono».

Eliza ripensò a quello che le aveva detto Clifford. Gli inglesi volevano deporre Anish, quindi era comprensibile che i problemi finanziari di Jay e i conseguenti disordini alla reggia avrebbero giocato in loro favore.

«E adesso cosa accadrà?», esclamò lei con i palmi delle mani al cielo.

«Dimmelo tu».

Dopotutto, Jay non era al suo palazzo. Quando tornarono alla reggia di Juraipore, Eliza decise di andare a origliare dal canale d’ascolto nel corridoio inferiore. Sapeva che di tanto in tanto anche Jay andava a origliare, ma per lui era strano essere visto nelle viscere del palazzo.

C’era già andata qualche volta, ma lo studio di Jay era sempre stato silenzioso. Invece, quel giorno, stava accadendo qualcosa. Udì un sospiro e poi un respiro pesante. Poi la voce di un uomo. Forse Jay era a casa, tornato da chissà dove.

«Non mi sembri felice oggi. Ti sei stancata di me?».

Una donna rispose mormorando, e poi ci fu un rumore forte, come se qualcosa si fosse schiantato a terra. L’uomo imprecò e la donna rise. Eliza riconobbe quella risata.

«La porta è chiusa a chiave e ho lasciato la chiave nella serratura. Non lo saprà nessuno».

«Non qui. Te l’ho detto. Non qui».

«Non vuoi far finta che io sia il tuo adorato principe Jay? Pensavo che ti eccitasse farlo qui».

Eliza comprese che l’uomo era Chatur, ed era certa che si trovasse nello studio di Jay con Indira.

Riposizionò il quadro sul muro e corse verso le stanze di Jay, sperando che fosse tornato a casa. Ma la reggia era immensa e, anche usando il passaggio segreto, era facile perdersi. Impiegò circa dieci minuti per arrivare a destinazione e, quando vi giunse, non trovò nessuno. Si affrettò a raggiungere lo studio senza fermarsi a pensare se la sua fretta fosse poi tanto necessaria. Non sembrava che Indi fosse in pericolo, ma Eliza non poteva immaginare che una donna fosse felice di passare il proprio tempo con un uomo come Chatur. La porta dello studio era stata bloccata, quindi lei bussò forte, facendosi male alla mano.

«Chi c’è là dentro?», gridò.

Nessuna risposta. Eliza aspettò per cinque minuti, poi vide arrivare Jay lungo il corridoio, sbatté le palpebre incredula e sentì un groppo in gola.

«Pensavo che stessi per partire», le disse Jay.

Lei scosse la testa. «Non partirò».

Poi si portò un dito alle labbra e si allontanò dalla porta.

«Ho sentito Indira con Chatur», sussurrò. «Erano là dentro e credo che lui stesse cercando di fare sesso con lei. In ogni caso provava a fare qualcosa».

«Contro la volontà di Indira?»

«Non mi è sembrato che lei cercasse di fermarlo. Ma mi è sembrato che volesse andarsene».

«Non voleva essere scoperta in quella stanza».

Jay raggiunse la porta e girò la sua chiave nella serratura. Aprì la porta, ma entrambi videro che lo studio era vuoto. Jay entrò, seguito da Eliza, che iniziava a chiedersi se non avesse per caso immaginato l’intero episodio.

Jay si guardò attorno.

Poi parlò, a voce bassissima. «Sembra tutto in ordine».

Fece qualche passo dietro la scrivania e si inchinò per raccogliere un frammento di vetro rotto.

«Il mio orologio aveva un vetro sul quadrante», e guardò la scrivania. «E ora manca».

Anche Eliza sussurrò. «Mi è sembrato di sentire anche qualcosa che cadeva».

«Buon Dio, in che guaio si sarà ficcata adesso? Meglio tornare nel corridoio», disse, e aprì la porta.

Una volta che furono usciti, Jay si guardò attorno e continuò a parlare a bassa voce.

«Cosa farai?», gli chiese Eliza.

«Informerò Chatur che so cosa sta succedendo. Questo dovrebbe fermarlo».

«Non puoi sbarazzarti di Chatur?»

«Vorrei tanto. Ma solo Anish può farlo».

«Perché non lo dici a tuo fratello allora?»

«Non mi crederebbe sulla parola e Indi potrebbe finire nei guai. Penserò a qualcosa».

«Sei molto protettivo nei suoi confronti».

«Indira è sola al mondo, fatta eccezione per la sua anziana nonna».

«Tutto qui?»

«Mi piace molto Indira, anche se non nel modo in cui pensavi tu. Mi biasimo per questo. Sono abituato a pensare a lei come a una sorella e ho provato a prendere un po’ le distanze. Ma non voglio ferirla».

Eliza si accorse che stava arrossendo, perciò si voltò dall’altra parte.

«Specie ora che stai per fidanzarti», trovò il coraggio di dire, confusa da molteplici emozioni: paura, delusione, imbarazzo e, peggio ancora, desiderio.

Lui tirò indietro la testa e scoppiò a ridere. «Tu, cara mia, stai dando retta a mia madre. Andiamo via di qui».

Andarono nelle stanze di Eliza, dove Jay si accomodò sul piccolo divano.

«Siediti qui vicino a me, Eliza. Ti giuro che non sono fidanzato e non ho alcuna intenzione di fidanzarmi. Ora dimmi che è vero che non ci stai lasciando. Non mi lascerai?».

Il cuore di Eliza sussultò per il sollievo e lei sorrise. «Resterò».

Anche se sapeva che non avrebbe mai potuto avere una relazione stabile con Jay, perlomeno gli importava che non se ne andasse. Quando andò a sedersi accanto a lui, trasse un bel respiro. Jay le prese la mano e la girò per seguire le linee che ne segnavano il palmo.

«Riesci a leggere il mio futuro?», gli chiese.

«Non ancora», le rispose lui, «ma presto ci riuscirò».

Eliza sentì come un ronzio nella testa e sollevò l’altra mano per sistemargli i capelli sulle tempie. Guardò i suoi occhi d’ambra, meravigliata dall’intensità del suo sguardo. Jay lasciò andare il palmo di una mano e le prese l’altra, se la portò alle labbra e le baciò le dita con dolcezza. Eliza adorava il modo in cui lui la toccava, anche se non l’aveva mai toccata così prima. Più le stava vicino, più si sentiva viva e la sua mente vedeva solo amore, speranza, calore; la paura non esisteva più.

22

Più tardi, quel giorno, Eliza fu convocata nel salotto di Anish, una stanza talmente fitta di decorazioni che era impossibile posare lo sguardo su un solo dettaglio. Anish stava seduto su un enorme cuscino, con le gambe larghe per far spazio al suo ventre sempre più prominente, e Jay sedeva su una sedia di fronte. Sul pavimento c’erano molti cuscini di seta, disposti attorno a un grande tavolo basso. Eliza notò il punkawallah magro, l’inserviente, che tirava una corda pesante che azionava un grande ventilatore realizzato con un panno teso su una cornice di legno. Oscillava avanti e indietro, ed era posizionato sul soffitto proprio sopra Anish. Lievi refoli d’aria arrivavano anche a Eliza, che si sentiva sempre più a disagio.

«Non guardarti troppo attorno, signorina! Siediti».

Eliza si guardò attorno e scelse una sedia con lo schienale duro, dove si sedette rigida con le mani adagiate in grembo. «Sta meglio adesso?», gli chiese. «Ricordo che non è stato bene dopo l’Holi».

Lui inclinò la testa di lato. «È iniziato qualche tempo prima, difatti. Ma durante l’Holi, Chatur è venuto da me con una bottiglia di qualcosa di chimico che aveva scoperto da qualche parte. E tu sei l’unica ad avere accesso a quel tipo di cose».

«Di quale sostanza chimica si trattava?»

«Pirogallolo, credo. C’era scritto qualcosa del genere sull’etichetta. Mi chiedevo se fosse velenoso».

Eliza impallidì. I cristalli di pirocatechina e il pirogallolo erano terribilmente pericolosi e potevano avere effetti degenerativi sul sistema nervoso, anche a lungo termine. Si trattava di un veleno che poteva essere ingerito o penetrare nel sistema nervoso per via cutanea, e quello era il motivo per cui teneva le bottiglie chiuse a chiave nella sua camera oscura.

Anche se Indi era stata nella camera a lavorare con lei, l’aveva sempre tenuta d’occhio; comunque, la ragazza non aveva una chiave sua, quindi non poteva essere stata lei.

A quel punto, Eliza ricordò con terrore il giorno in cui era tornata e aveva trovato la porta della camera oscura aperta. Aveva pensato di averla dimenticata aperta accidentalmente, ma forse, dopotutto, non era andata così, quindi qualcun altro doveva avere la chiave.

Raccontò l’episodio ai due fratelli e Jay si alzò in piedi. «Ecco qui, il problema è risolto. Anish voleva soltanto sapere come avesse fatto il pirogallolo a uscire dalla tua camera oscura e se tu non l’avessi per caso dato a qualcuno».

«No, naturalmente no. Ma perché qualcuno dovrebbe rubarlo?»

«E c’è bisogno di chiederlo?»

«Ma di certo nessuno vorrebbe danneggiare il maharajah».

Anish rise, una risata corta, acuta e triste.

«Temo costantemente per la mia vita. Sarà pure il ventesimo secolo, ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Stuoli di miei antenati sono morti avvelenati nel corso dei secoli. Se non sapessi che a mio fratello non interessa affatto il trono, avrei già sospettato di lui».

Jay alzò gli occhi al cielo.

«Dov’è la bottiglia adesso?»

«L’ho fatta smaltire».

«Era piena?»

«Fino all’orlo».

Eliza tirò un sospiro di sollievo. «Bene, spero che lei si senta meglio, adesso, maestà».

«Meglio, anche se c’è ancora qualcosa che non va. Rimanga tra noi, ma vorrei chiedere al signor Salter di consigliarmi un buon medico, uno che mi visiti il torace. Non voglio che si sappia alla reggia».

Eliza si alzò in piedi. «C’è un buon medico che vive accanto a Clifford Salter. Saprà aiutarla di sicuro».

«Certamente. E adesso, nell’eventualità che qualcun altro abbia la chiave», aggiunse Anish, «conta le bottiglie e cambia il lucchetto della porta. Fallo oggi stesso. Jay ti aiuterà».

Uscirono dalle stanze di Anish e, mentre percorrevano il corridoio, Jay si fermò e la guardò negli occhi.

Lei gli sorrise. «Sai che sono andata a guardare i lavori con Dev?»

«Sì». Le prese la mano. «Non sai quanto io sia felice che tu sia rimasta».

Quell’uomo le toccava l’anima, la faceva sentire più vera, come se ci fosse un posto per lei nel mondo. Pensò, anche se non lo disse apertamente, che era molto stanca di scappare: dalla scuola, da sua madre, che le aveva fatto sposare Oliver ad appena diciassette anni e, a essere onesti, ancora da sua madre, quando era partita per il Rajputana. Le tornò in mente sua madre, emaciata e pallida.

«A cosa pensi?», le chiese Jay.

Eliza scosse il capo. «Niente d’importante».

«Allora», continuò Jay, «parlami di questo veleno. Sei al sicuro, tu che lo usi?»

«Il pirogallolo può causare convulsioni e intacca l’apparato gastro-intestinale, anche a lungo termine. Può persino uccidere».

«E gli effetti a breve termine?»

«Irrita la pelle e gli occhi. Uso sempre i guanti, altrimenti avrei le dita nere, e una mascherina sul volto. Tremo al solo pensiero di cosa sarebbe potuto accadere».

«Fammi vedere le dita».

Eliza alzò le mani e agitò le dita.

Jay sorrise. «Non so chi possa aver sottratto l’acido, ma andiamo subito a prendere un nuovo lucchetto».

«E tu, hai avuto successo?», gli chiese, cercando di non pensare più al pirogallolo, e gli sorrise.

«Vuoi dire con la ricerca dei finanziatori? Non ancora».

«Potrei provare a parlare di nuovo con Clifford, anche se non so se sia conveniente».

«Non voglio che tu vada a elemosinare da lui».

Eliza sospirò. «Potrebbe essere la nostra unica speranza».

«Ho un paio di contatti, gente con cui studiavo in Inghilterra. Proverò con loro. Il tempo è tiranno, ma, non appena avrò la possibilità di mettere un po’ d’ordine, perché non vieni al mio palazzo con me?». Le sorrise dolcemente. «Resta qualche giorno. Una volta che il progetto sarà avviato e la temperatura sarà salita, lì farà molto più fresco. Vieni, scatta qualche foto. Potremo finalmente parlare con più agio».

«Mi piacerebbe molto».

«In effetti, potrei aver bisogno di una mano per le questioni amministrative, se non ti dispiace».

«Certamente, però mi piacerebbe sapere se hai chiesto a Indi di Chatur».

«Indi ha ammesso che Chatur le ha chiesto di procurargli alcune informazioni».

«E a proposito di quell’altra cosa?»

«Sembrava offesa e non ha voluto parlarne, ma ho parlato con Chatur». Si fermò. «Sai, io credo che sia stato lui a rubare il pirogallolo, o uno dei suoi uomini. Dubito che l’abbia trovato nascosto da qualche parte».

«Ma perché darlo ad Anish?»

«Per incriminarti».

Quando Eliza fu convocata alla residenza di Clifford qualche giorno dopo, lo trovò seduto in un angolo ombreggiato del giardino, sotto una veranda. Si alzò in piedi, ma fu molto meno affettuoso e accogliente rispetto al suo solito.

«Allora, cosa posso fare per te?», le chiese, sorseggiando quello che sembrava un gin tonic. «Ne vuoi uno?», le chiese quando notò il suo sguardo.

«Vorrei della soda con un po’ di lime, per piacere».

«Sale o zucchero?»

«In realtà, entrambi, grazie». Fece una pausa. «Clifford, gradirei andare dritto al punto».

«Sarebbe stato bello se tu fossi venuta semplicemente a trovarmi, senza volere qualcosa».

Eliza pensò rapidamente. «A dire il vero, ho tentato di aiutarti ottenendo alcune informazioni su Anish».

Clifford si tirò un po’ su.

«Non sta bene».

«Be’, sapevo che era stato male dopo l’Holi. Un’indigestione, non è vero?»

«Non solo. Ha un problema al torace. Verrà a chiederti se puoi raccomandargli un buon medico occidentale, ma vorrebbe tenere il suo problema lontano dagli occhi indiscreti alla reggia».

«Interessante. Chiederò a Julian Hopkins qui a fianco di raccomandarmi qualcuno. Se riuscissi a mettere lì uno dei miei uomini, sarebbe ottimo. Grazie. Fammi sapere se scopri qualcos’altro».

Eliza sorrise. «Senti, sono contenta di esserti stata d’aiuto, ma hai ragione, c’è dell’altro».

«I finanziamenti per l’irrigazione?».

Eliza annuì.

«Può darsi che io abbia una trattativa in corso, ma il suo successo dipende molto da te».

«Da me?»

«Voglio che tu prenda in considerazione la mia proposta di matrimonio. Tu mi piaci molto, Eliza».

Eliza si guardò le mani, desiderando essere da un’altra parte, ma Clifford la guardava intensamente, in attesa di una risposta. Si chiese se non fosse meglio fingere un minimo di interesse.

«E se io acconsento, questo potenziale finanziatore…».

«Sarà sicuramente dalla nostra parte. Tuttavia, vuole avere prove dettagliate di come il suo investimento sarà ripagato, e vuole anche guadagnarci dei soldi».

«Allora io accetto di prendere in considerazione la tua proposta di matrimonio. Ma questo è tutto».

Clifford si alzò in piedi e le prese le mani.

Anche lei si alzò, lasciò che le prendesse le mani, e poi lui la baciò.

23

Shubharambh Bagh, aprile

Eliza si trovava al palazzo di Jay, che, da quando era arrivato sul posto, aveva lavorato duramente, nascosto dietro un’enorme scrivania nel suo studio dalle sette del mattino fino a tarda notte. Diversi documenti e svariate pile di lettere erano sparsi tutt’attorno, e il principe stava passando al setaccio tutti i progetti, giunti ormai al secondo stadio, quello riguardante la deviazione del fiume, per cui ancora non aveva ricevuto i permessi. Era come se gli inglesi lo stessero prevaricando. Riceveva molte visite: mendicanti dai villaggi, inglesi benestanti e anche ricchi mercanti indiani provenienti dagli altri Stati principeschi e dall’India britannica. Trattava tutti con gentilezza ed Eliza riconobbe in lui una determinazione che non aveva mai notato prima e che glielo fece amare ancora di più. Non voleva intromettersi, ma era lieta di aiutarlo con i documenti, e a volte lo sorprendeva a guardarla con occhi ardenti, che dicevano più di mille parole. Poi, quando si accorgeva che lei l’aveva notato, abbassava lo sguardo. Ogni volta che gli passava dei documenti e lui accidentalmente sfiorava la sua mano, Eliza sentiva una scossa. Desiderava che la baciasse di nuovo e avrebbe potuto giurare che il desiderio fosse reciproco, specie quando la guardava negli occhi e le sorrideva, in modo lento e seducente. Ogni giorno che passava era una tortura ed Eliza temette che Jay si fosse pentito di quello che era successo tra loro. Repressi i suoi desideri, Eliza si accontentava del piacere di stargli vicino, nell’attesa di qualcosa di più.

Una sera, col fresco, quando le campane del tempio presero a suonare, uscirono per andare a guardare i lavori. La cinse con un braccio, tenendola stretta a sé mentre osservavano gli scavi, e lei seppe che il momento era giunto. La fece girare verso di sé e la baciò dolcemente.

«Volevo farlo di nuovo», le disse, mentre si allontanava un po’ e si posava una mano sul cuore. «Sono felice che tu sia qui. Spero di avere più tempo, adesso».

«Va bene così».

«No, non va bene. Meriti di più».

La abbracciò e fece correre le dita tra i suoi capelli. «Mi dispiace se sono poco attento. A volte mi sembra che sia tutto nelle mani degli dèi».

«Ma tu non preghi, vero?», gli chiese lei, prendendogli una mano e portandosela alle labbra. Gli baciò le dita e poi la lasciò andare.

«Lascio che siano le donne a pregare. La forza della nostra società è sempre stata nel nostro coraggio e nella nostra resilienza».

«E le tue credenze? Il karma, per esempio?».

Camminarono un po’, a braccetto.

«Il karma svolge un ruolo determinante nella vita di ogni essere vivente. Crediamo che non siamo nati una sola volta, ma che siamo qui da sempre. Nei testi sacri il dio Krishna afferma: non c’è stato un tempo in cui io non sono stato qui, e non ci sarà un tempo in cui io non sarò qui!».

«Credo di aver capito».

«Ma il karma ha un passato e un futuro. Possiamo influenzare gli avvenimenti; adesso è giunto il tempo di cambiare le cose, in India», disse Jay.

«Tu stai aiutando a cambiarle».

«Non mi sto riferendo solo al miglioramento delle vite degli agricoltori e dei contadini, ma anche all’atteggiamento nei confronti degli inglesi. Persino nei nostri palazzi, nei nostri haveli, siamo separati dagli europei nostri ospiti. Si prendono le poltrone migliori e i posti più in vista a tavola, mentre noi restiamo relegati negli angoli. Si tratta di un gioco al rialzo, ma hai idea di come ci si senta a giocarlo?».

Si era fermato, non camminava più, e il suo sguardo penetrante la scosse. Voleva che Jay la baciasse ancora, ma sentiva la sua energia traboccante, il bisogno impellente che aveva di parlare.

«Deve essere molto umiliante», disse alla fine.

«Siamo come burattini nelle mani dei governanti inglesi. Siamo solo una piccola parte di quel grande teatro che è l’Impero britannico. Gli inglesi hanno accettato la nostra richiesta di ottenere lo status di dominio, nel 1929, ma ciò non ha fatto altro che sollevare la questione spinosa dei pari diritti tra indù e musulmani, quindi non ci sono stati progressi in proposito».

«Cosa deve accadere?»

«Abbiamo bisogno di libertà, a prescindere dalle differenze religiose. In effetti, abbiamo davvero bisogno che gli inglesi si ritirino, irrevocabilmente, completamente; solo allora potremo davvero essere giudicati in base alle nostre azioni».

Eliza restò immobile. «Lo capisco. Sul serio».

La guardò con occhi tristi. «Veramente? Detesto dover andare da persone come Clifford Salter, col cappello in mano. So che gli inglesi stanno già cedendo il potere, ma non è sufficiente. Vogliamo vedere il giorno in cui gli indiani governeranno da soli il loro Paese libero».

«Arriverà, Jay, è necessario che arrivi, persino io me ne rendo conto».

Jay posò il palmo della mano sulla guancia di Eliza. «Sono felice che tu capisca. Ero solito presenziare alla Camera dei Principi, sperando di poter fare la differenza; ho anche ricoperto un ruolo importante agli incontri di Delhi. Dal 1920, siamo rappresentati dalla Camera».

«Allora perché te ne sei allontanato?»

«Soprattutto perché sono rimasto deluso dalla mancanza di parità tra noi e gli inglesi. A prescindere da quello che facciamo, ci è proibito pubblicizzare le nostre riunioni e veniamo minacciati. La Camera dei Principi ha le mani legate».

Jay l’aveva invitata a rimanere solo qualche giorno e lei non voleva approfittare della sua ospitalità, perciò più tardi, mentre la luce sfumava e il cielo era ancora tutto rosato, gli chiese se per caso non fosse tempo che lei ripartisse.

Lui la guardò stupito. «Vuoi andartene?».

Eliza distolse lo sguardo, poi scosse la testa, ma le parole le rimasero impigliate in gola.

«Resta, devo dirti altre cose. Hai visto tutti gli uomini che vanno e vengono?»

«Sì, certo».

«Ho chiesto in prestito i soldi ai mercanti e ho ampliato il progetto».

Eliza rise. «E io che credevo che stessi cercando un modo per tagliare i costi».

«All’inizio era così, ma poi ho preso spunto da Bikaner, che ha intrapreso ben nove progetti di irrigazione, oltre alle linee ferroviarie e agli ospedali. Assumerò tutti gli abitanti che posso. Una parte di questi uomini inizierà domani e continuerà gli scavi. Altri lavoreranno alle sponde e poi scaveranno canali di irrigazione fino ai villaggi».

Di fronte a quell’entusiasmo incrollabile, Eliza avvertì un tale senso di speranza che si chiese se il suo cuore non stesse per scoppiare.

«Naturalmente Bikaner ha costruito il canale Ganga che porta l’acqua dal Punjab. Qui siamo troppo lontani dal Punjab, ma c’è pur sempre quel piccolo fiume non lontano dalle mie terre. Abbiamo solamente bisogno dell’autorizzazione a deviarlo».

«Hai già definito i dettagli con l’investitore di cui mi ha parlato Clifford?»

«Certamente. Credo che creeremo cinquanta nuovi insediamenti entro cinque anni, e che il lavoro non solo ripagherà il loro prestito, ma fornirà anche un reddito fisso».

Eliza era contenta, anche se non aveva ancora rivelato a Jay del cappio che le era stato tanto efficacemente preparato. «Bene», disse invece. «Mancano meno di quattro mesi alle piogge».

«Già».

«Mi chiedo come stia Indi».

«È tornata al suo villaggio».

Eliza ne fu sorpresa. «Per sempre?»

«No. Sua nonna è gravemente ammalata, perciò Indi è tornata da lei per accudirla. Il Thakur baderà a lei e comunque ci sarà sempre un posto per Indi alla reggia».

«Ma per fare cosa? Per cadere preda di un uomo come Chatur? Ha bisogno di farsi una vita, di un marito, di una famiglia tutta sua».

«Proprio tu parli di famiglia».

«Cosa vuoi dire?»

«Hai lasciato sola tua madre. L’hai detto tu stessa».

«Non potevo aiutarla. Ho tentato. Se fossi rimasta con lei, avrei rovinato anche la mia vita. È un’alcolizzata».

Jay abbassò lo sguardo per un momento, poi tornò a guardarla. «Da queste parti crediamo che sia dovere dei figli prendersi cura dei genitori».

Eliza si irrigidì. «A prescindere da tutto?».

Lui annuì. «Ti preoccupa?».

Eliza rimase in silenzio e non rispose.

Jay non aveva idea di come fosse Anna Fraser, né di come fosse vedere sua madre suicidarsi lentamente.

«Ci ho provato e ho fallito», fu tutto ciò che riuscì a dire.

Lui le porse le mani. «Non ti sto giudicando».

«A me sembra di sì». Offesa e sconvolta, si rifiutò di prendergli le mani.

«Dài, Eliza. Stavo solo dicendo che qui è diverso».

Lei girò sui tacchi e si allontanò. Un minuto dopo, lui l’aveva già raggiunta e abbracciata da dietro.

«Eliza. Eliza».

La fece girare e le posò le labbra sul collo.

Eliza fremette, sussultando al tocco della sua mano sulla spalla, senza fiato; socchiuse le labbra pronta a rispondere a un bacio che sembrava da sempre il loro destino. Poi, mentre tornavano lentamente al palazzo, mano nella mano, Eliza bandì ogni dubbio dalla propria mente. Jay le aveva ceduto le sue stanze e, quando arrivarono alla dari khana, dove il grande tappeto era coperto di cuscini, le ordinò di rimanere immobile, mentre lui la svestiva. La spogliò pian piano, baciandole le braccia, il ventre, e denudandola con estrema lentezza. Anche se Eliza provava un desiderio feroce di sdraiarsi sui cuscini assieme a lui, comprese chiaramente cosa stesse facendo.

Quando alla fine fu completamente nuda davanti a lui, Jay le baciò i seni. Poi si allontanò. «Come ti senti?»

«Folle. Insicura. Terrorizzata».

«Bene», replicò lui.

A quel punto, Eliza adagiò la schiena sul tappeto coperto di cuscini. La sera era ormai scesa e nella stanza non c’era quasi più luce. Desiderosa di vedere il suo viso, avrebbe voluto accendere la lampada. Ma ormai Jay era sopra di lei e i loro corpi si stavano cercando.

Eliza dimenticò la lampada. Lui si fermò per un istante e le sfiorò il viso esplorandolo con le dita. «Riesco ancora a vedere i tuoi begli occhi», le disse, «anche nell’oscurità».

Eliza ansimò, quando le dita di Jay scivolarono dentro di lei. E poi fecero l’amore, in un modo che lei non aveva mai ritenuto possibile: la comunione tra le loro anime era talmente forte da toglierle il respiro. Eliza provò a parlare senza riuscirci, e poi, quando tutto finì, si trovarono sdraiati sul letto, madidi di sudore, con le gambe intrecciate. Eliza aveva perso la capacità di formulare un pensiero coerente. Voleva quell’uomo, ecco tutto. Lo voleva con tutta se stessa, più di quanto avesse mai desiderato qualcosa o qualcuno, e non l’avrebbe mai lasciato andare.

«La mia bella inglese», stava dicendo lui, disegnando il profilo del suo viso. «Hai ancora dubbi?».

Eliza rise. «Vuoi davvero saperlo?»

«Vuoi che accenda la luce?»

«Non ancora», rispose Eliza. «Voglio sentire il tuo corpo accanto al mio».

Jay sembrò riflettere, poi parlò. «Sei coraggiosa, ragazza mia. Non sono certo di essere al tuo livello».

«Non essere sciocco, certo che lo sei. E io non sono affatto coraggiosa».

Prima di addormentarsi, Eliza rimase sdraiata, completamente immobile, ad ascoltare il suo respiro e il silenzio della notte nel deserto.

Quando Eliza si svegliò, Jay era ancora al suo fianco. Lo guardò, addormentato, e il suo cuore traboccò di piacere mentre lo osservava dormire. Ammirò le sue lunghe ciglia, la sua pelle liscia e brunita, non era cambiato per nulla. Ogni cosa in lui, e in lei, sembrava sempre la stessa, eppure erano entrambi diversi.

Gli carezzò la guancia, piano, non per svegliarlo, ma solo per apprezzarne la morbidezza. Gli si avvicinò e gli baciò il lobo dell’orecchio. Lui fremette. Eliza gli fece correre la punta delle dita sul collo, e poi sul petto e sul ventre. Lui gemette. La mano di Eliza scese e il sesso di lui si inturgidì, quando lo afferrò. Non l’aveva mai fatto a Oliver, ma ora lo desiderava, perciò mosse dolcemente la mano. Jay gemette ancora di più e a lei piacque la sensazione di potergli dare piacere. Forse le sedici arti femminili servivano a qualcosa, pensò Eliza con un sorriso ironico.

All’improvviso Jay la sollevò e se la mise sopra.

«Cosa mi stai facendo?», le chiese.

«Non si capisce?»

«E chi avrebbe mai detto che dietro alla signorina inglese tanto riservata, si nascondesse una donna vogliosa e impertinente?»

«E chi lo sapeva che non eri né un ufficiale né un gentiluomo!».

Le loro giornate al palazzo cambiarono da quel momento in poi. Giorno dopo giorno si dedicavano al lavoro e all’amore; consumavano i loro pasti e facevano l’amore; camminavano e facevano l’amore. A volte trascorrevano l’intera giornata ad amarsi. Lì al palazzo, il resto del mondo non esisteva più. C’erano i lavori in corso, i progetti e Jay. Eliza non aveva mai conosciuto una gioia simile. Si alzava felice e andava a dormire col sorriso. Perché nessuno le aveva mai parlato dell’esistenza di qualcosa di simile? Questo pensiero la spinse a chiedersi che tipo di relazione avessero avuto i suoi genitori. Sicuramente una volta sperimentata quella gioia, anche solo una volta, si doveva amare la vita per sempre.

Quando Eliza e Jay non parlavano dell’acqua o del passato, leggevano e si scambiavano opinioni sui libri. Jay non aveva mai letto gli scrittori russi, perciò lei gli consigliò Guerra e pace e anche Le memorie di un cacciatore di Turgenev. Lei gli confessò di adorare Thomas Hardy e Henry James, ma di non sopportare Dickens. Il poeta più amato da Jay era John Donne, che anche a lei piaceva molto, ma la poetessa preferita di Eliza era Emily Dickinson, di cui lui non aveva mai letto niente. Le chiese se avesse mai letto Tagore, e quando lei scosse la testa, Jay si offrì di prestarle un suo libro. Amavano anche i film. Parlarono di cibo e dei loro posti preferiti. A Jay piacevano le piazze di Londra. Aveva un amico che viveva a Orme Square. Eliza rise e gli disse di non avere amici tanto altolocati. Jay le comunicò che non le avrebbe raccontato nessuna delle sue avventure adolescenziali ed Eliza gli rispose che non avrebbe voluto saperne niente in ogni caso.

Jay non le disse mai di amarla, e nemmeno Eliza lo fece.

Tuttavia Eliza sapeva che la loro unione andava ben oltre l’attrazione sessuale, i libri o i film. Per la prima volta in vita sua era convinta dell’esistenza di una connessione tra le anime, che fosse possibile incontrare un’altra persona a livello spirituale. Con alcune di quelle persone si poteva parlare solo per un’ora o due; con altre si poteva restare amici per sempre. Quel pensiero le fece comprendere che l’India la stava cambiando. Prima, Eliza non aveva mai nemmeno pensato all’anima. Le relazioni per lei erano solo complicazioni, possibilmente da evitare, non un processo profondo di apertura vicendevole. Lo spazio tra loro esisteva, ma si dissolveva facilmente; era come vivere senza pareti, o confini, non sapeva dire dove finisse lui e iniziasse lei. Quanto più la loro intimità diventava profonda, tanto più in Eliza si faceva strada la consapevolezza che senza quegli occhi splendenti a guardarla, durante l’amore, la sua vita si sarebbe spezzata, come costretta a separarsi da una parte di sé.

Una sera, quando finalmente si sentì abbastanza al sicuro da permettere a Jay di accedere alla zona più oscura della sua anima, il dolore per la morte di suo padre la colse di nuovo, e qualcosa di molto simile al panico le afferrò la bocca dello stomaco. Tutti i suoi tentativi di dominarsi fallirono e seppe che l’unica cosa da fare era lasciarsi sopraffare da quella sensazione. Sarebbe sopravvissuta o ne sarebbe stata schiacciata. Il dolore aumentava a ondate, opprimendole il petto e togliendole il respiro. La sua mente annegava nel dolore, si consumava, e infine Eliza si abbandonò alle esigenze primordiali. Jay la tenne stretta mentre piangeva sconsolata. Sembrava che non avesse mai davvero pianto per suo padre, prima, e che la presenza di Jay gliel’avesse infine reso possibile.

Jay le asciugò le lacrime con le dita, la allontanò un poco e la guardò. «L’unica cosa che può guarire un simile dolore è piangere, in modo da lasciar cadere le lacrime che non possono più essere trattenute. Devi essere devastata dall’amore per riuscire a farlo».

«E noi siamo devastati?», gli chiese.

Jay sorrise. «Ancora no».

«Hai esperienza in proposito?».

Lui scosse la testa. «Ma forse lo impareremo insieme».

Quando Jay aveva bisogno di convincere gli abitanti del villaggio che la diga avrebbe portato benefici a tutti, lui ed Eliza uscivano in groppa al suo cavallo e, sebbene all’inizio la gente fosse esitante, dopo qualche visita sorrideva ogni volta che li vedevano arrivare. La grave siccità aveva comportato l’impossibilità di coltivare i campi per due anni e il bestiame era morto. Eliza non sapeva come fossero riusciti a sopravvivere, ma poi per caso sentì che Jay concedeva piccoli prestiti agli agricoltori, dunque non poté fare a meno di pensare che sarebbe stato un sovrano meraviglioso. Di certo non se ne sarebbe rimasto chiuso a casa a ingozzarsi di dolcetti turchi. Era forte, sano, e più lo conosceva, più si rendeva conto di esserne profondamente innamorata. Aveva relegato l’avvertimento di Laxmi in un angolo della mente. Finché Anish fosse rimasto in vita, non avrebbe pensato al futuro.

A volte partivano per brevi escursioni, soli, a parte uno dei fedeli servi di Jay, e si sistemavano in piccole tende, accanto al fuoco. Durante il viaggio di ritorno da una di queste escursioni, si erano accampati e Jay stava già raccogliendo la legna per il falò. Poco oltre le loro tende, c’erano alcuni alberi bassi e tozzi, con un nugolo di uccellini verdi che svolazzavano tra i rami e, lontano, le sabbie del deserto erano appena visibili. Quando Jay tornò con un fascio di legname sotto braccio, Eliza lo vide concentrarsi sull’accensione del fuoco e non riuscì a trattenere un sorriso. La sera era scesa, ma non era ancora buio, il fuoco era acceso e le fiamme danzavano sul viso di Jay mentre lei lo guardava.

«Cosa c’è?»

«Ero curiosa di sapere qualcosa di tuo padre. Mi hai detto così poco di lui».

«Era un gigante. Un riformatore, non come suo padre prima di lui, che quasi ci ha fatto perdere il regno. Mi piacerebbe essere come mio padre e, con il tuo aiuto, credo che ci riuscirò».

«Con il mio aiuto?»

«Siamo una bella squadra, non credi?».

Eliza sorrise. «Lo spero».

«Non parliamo invece del mio nonno paterno! Gli inglesi lo accusarono di malgoverno e si fece una brutta reputazione, era crudele e corrotto».

«Che aveva fatto?»

«Una delle sue mogli si era suicidata in maniera orribile, ma la verità era che l’aveva fatta uccidere lui. Se non fosse morto all’improvviso, sarebbe stato certamente deposto dagli inglesi e avremmo perso il reame. Fortunatamente mio padre era un uomo rispettabile e divenne un riformatore. Aveva militato nell’esercito inglese e sapeva colmare i divari tra le nostre culture con grazia e semplicità. Me lo ricordo, vestito di seta e broccato, e con una lunga piuma sul turbante».

«Gli assomigli?»

«Un po’. Aveva una magnifica scorta che lo seguiva ovunque andasse e, quando avevamo ospiti nobili, arrivavano su carrozze d’argento trainate da tori».

«Non era libero come te?»

«I tempi sono cambiati; tra l’altro io ho studiato in Inghilterra».

«Mi piaci di più nelle tue vesti selvagge».

«Eppure, proprio come me, mio padre amava lo sport e ha migliorato il nostro status sposando mia madre, che proviene da una grande famiglia reale. È così che si fa da queste parti, da sempre. Il matrimonio qui è un affare tra famiglie, non tra due individui. C’è in gioco l’intera reputazione della famiglia». Jay tacque e fissò il fuoco, perso nei suoi pensieri.

Aveva glissato sulla questione del fidanzamento; tuttavia, anche se non si era ancora impegnato, non significava che non l’avrebbe fatto, prima o poi.

«Posso farti una domanda?», gli chiese Eliza.

«Ti ascolto».

«Che mi dici del tuo matrimonio combinato?», riuscì a domandargli alla fine.

Lui si girò a guardarla ed Eliza gli vide una tale tristezza negli occhi che ne fu ferita.

«Tra noi è tutto nuovo. Non pensiamoci adesso».

Sebbene Eliza fosse contenta di non dover approfondire l’argomento, non riuscì tuttavia a smettere di pensarci.

«Parlami di tua madre», le chiese lui.

Eliza sospirò. «Mia madre da anni ha problemi di alcolismo. Credo che la morte di mio padre l’abbia distrutta. Era una donna orgogliosa ma debole, e non avevamo soldi. Ha dovuto vivere della carità di James Langton. Diceva che era mio zio, ma in realtà non eravamo parenti. Lo conobbe prima di sposare mio padre e poi, quando tornammo in Inghilterra, divenne il suo amante».

«Dev’essere stato difficile anche per te».

«Avevo solo lei. Nessun altro parente. Perlomeno, nessun parente che avesse voglia di vederci. Amavo mio padre, mentre i rapporti con mia madre sono sempre stati difficili. Mi ha spedito una lettera in cui ha scritto cose terribili su di lui, accusandolo di averci ridotto in miseria a causa del gioco d’azzardo e di aver mantenuto un’amante per anni».

«Forse c’è qualche vantaggio ad avere più di una moglie». Jay si fermò per studiare l’espressione di Eliza. «Non serve nessuna amante».

Lei sapeva che la stava prendendo in giro, più o meno, ma non poté evitare di rifilargli una rispostaccia. «Peccato che non funzioni mai anche al contrario. Nessuno si ferma mai a pensare che anche noi donne gradiremmo avere più di un marito».

Jay si appiccicò in volto un’espressione seria e rispose ostentando un tono esageratamente offeso. «Questa è una cosa profondamente sconveniente da dire, madame. Quale donna onesta vorrebbe due uomini quando ne ha già uno? Un uomo: molte donne. Questo è corretto».

Avrebbe dovuto fingersi infastidita, invece scoppiò a ridere. «Oh, smettila, idiota!».

«Stai dando dell’idiota al raja? Esiste solo una punizione per te. Vieni qui!».

«E se mi rifiuto?»

«Ti terrò legata al letto per molte lune».

«Prima devi prendermi!». Si alzò in piedi e corse nell’oscurità oltre il fuoco. Poi si nascose dietro a un cespuglio spinoso cercando di respirare piano mentre lo teneva d’occhio. Lo sentiva muoversi, ma non riusciva a vedere quasi niente. Le stelle, polvere d’argento nel cielo, erano l’unica fonte di luce. Udì lontano il lamento triste di uno sciacallo, poi sentì una puntura sulla gamba e lanciò un grido.

Non sapendo bene dove si trovasse precisamente, Jay poté soltanto correre seguendo la direzione della sua voce. «Tutto bene? Non dovresti allontanarti dal fuoco, di notte. In agguato ci sono creature di ogni genere».

«Credo di essere stata morsa, ma non mi ha fatto molto male».

«Hai gridato».

«Per la sorpresa, tutto qui».

«Ma ti ha fatto male?»

«A essere sincera è stato solo un pizzico, forse una formica?».

Jay la circondò con un braccio.

«Sicura che non fosse un serpente?»

«Non ne ho idea. Era troppo buio».

«Un morso di serpente ti farebbe male. Penso che dobbiamo fare i bagagli e tornare indietro, in ogni caso».

«È troppo buio. Veramente, sto bene. Voglio solo andare a dormire».

Si misero a dormire subito dopo ma, passata circa un’ora, Eliza si svegliò con i crampi allo stomaco. Si sedette sul letto e si ripiegò su se stessa, cercando di non svegliare Jay e ascoltando il silenzio terribile che silenzioso non era. Trascorse il resto della fredda notte del deserto rabbrividendo accanto a Jay, vicina a lui quanto bastava per non disturbarlo. Aveva la nausea e voleva muoversi ma, troppo nervosa per lasciare la tenda, rimase lì a tremare nel letto improvvisato fino alla prima pallida luce dell’alba. Quando Jay si svegliò, le diede una rapida occhiata e impallidì.

«Dimmi cosa senti».

«Mi sento male. Ho mal di pancia. Forse ho mangiato qualcosa?».

Ma lui la guardò talmente serio che Eliza si preoccupò.

«Voglio controllare di nuovo quel morso».

La notte precedente aveva cercato di trovarlo alla luce di una lampada a olio, ma non era riuscito a vedere niente ed era sembrato piuttosto sollevato.

«Davvero?».

Lei gli mostrò la caviglia.

«Non credo che sia il morso di un serpente. Ma la zona tutt’intorno si è arrossata e gonfiata».

«Cosa pensi che sia?».

Lui scosse la testa. «Non ne sono sicuro. Altri sintomi?»

«Mi fa male il petto».

«Provi dolore quando respiri?»

«Un po’».

Jay aprì un lembo della tenda e chiamò il suo servo, poi parlò a bassa voce e troppo rapidamente perché Eliza potesse capire.

«Cosa gli hai detto?», gli chiese quando tornò da lei.

«L’ho mandato a chiamare la nonna di Indi. Ci vorrà un’ora, forse due, ma nessuno è più competente di lei. Ha preso la mia moto, che è più veloce del suo cammello».

«Credi che sia grave?». Eliza cercò di sorridere, ma non ci riuscì.

Jay le prese le mani tra le sue, le strofinò per scaldarle, ma non le rispose.

«Credevo che la nonna di Indi fosse ammalata».

«Dobbiamo sperare che stia abbastanza bene per venire qui».

«E come tornerà a casa sua? Come torneremo a casa noi?»

«Non vorrei farti spostare, e di certo non a cavallo di un cammello o in moto. Non voglio che tu ti preoccupi di niente e non voglio che soffra troppo il caldo, ma è ancora molto presto, fa freddo. Dovresti bere. Riesci a bere un po’ d’acqua?».

Eliza cercò di sollevare il capo, ma ricadde indietro sul cuscino.

«Mi fa male tutto».

Jay le mise un braccio attorno alle spalle.

«Appoggiati a me e sorseggia appena».

Con l’altra mano, Jay portò la tazza d’acqua alle sue labbra.

«Ho le vertigini», si lamentò lei e scivolò indietro sul letto, eppure era come se non riuscisse a stare ferma.

«Ancora un altro po’», insistette Jay, tenendole le braccia.

Eliza sapeva che Jay era rimasto con lei tutto il tempo, tranne quando era uscito a controllare se fosse arrivata la nonna di Indi. Anche se stava tanto male, era meravigliata di poter stare con lui in quel modo. Si sentiva strana, eppure era felice.

«Non hai risposto. Credi che sia grave?».

Jay sorrise. «Non sono un dottore, ma sono sicuro che non sia grave. Perciò rilassati e riposati».

Eliza tentò di mettersi seduta. «Mi sembra che giri tutto».

«Sarà stato tutto il gin che hai bevuto ieri notte».

«Io non ho…». In quel momento, però, la stanza le andò sottosopra. A Eliza sembrava di percorrere un tunnel buio a enorme velocità, e poi sentì Jay che la sosteneva mentre cadeva in avanti.

Poi più niente.

Quando rinvenne, Jay era accanto a lei sul letto.

Inizialmente, si accorse solo del palmo della sua mano che le accarezzava dolcemente i capelli, poi sentì il suo respiro, lento e regolare.

Per un momento quasi dimenticò di essere malata, si mise a sedere e diede di stomaco sul copriletto. Lui saltò su, afferrò la coperta, la tirò via, l’arrotolò e la gettò fuori dalla tenda. Poi tirò fuori da sotto il letto la pelle di un qualche animale.

«È tutto quel che ho, finché il giorno non sarà più caldo. Come ti senti?»

«Non ne sono sicura. E se do di nuovo di stomaco?»

«Speriamo di no, ma devi bere. Non voglio che ti disidrati».

Jay le toccò la pelle sulla fronte e sulla nuca. «Stai sudando molto».

«Mi fa male la testa».

«Speriamo che arrivi presto».

«Ma cosa può fare?»

«Sa tutto quel che c’è da sapere sul deserto e su quello che può farci».

«Sarà in grado di aiutarmi?»

«Non temere. Andrà tutto bene. Ora sdraiati di nuovo».

Anche se Jay aveva cercato di calmarla, Eliza percepì la preoccupazione nei suoi occhi. Respirò e si rimise supina.

Era vagamente consapevole del trascorrere del tempo: i minuti sembravano ore, però passavano in un lampo.

Di tanto in tanto Jay le chiedeva come stesse, mentre Eliza gli domandava cosa stesse pensando. Nessuno di loro, tuttavia, diceva la verità: lui sosteneva che sarebbe andato tutto bene, ma i suoi occhi rivelavano altro; lei affermava di sentirsi meglio nonostante non fosse così. In un momento di lucidità si ricordò di non aver parlato con Jay di cosa sarebbe successo dopo le piogge. Delirava, mormorava cose sulle piogge e Jay sembrava sempre più preoccupato; di tanto in tanto usciva e girava attorno alla tenda quando non era accanto a lei. Alla fine, Eliza udì il suono del rombo di una motocicletta e delle voci che parlavano. Poco dopo, entrò l’anziana signora, aiutandosi con un bastone. La prima cosa che fece fu osservare il morso.

«Due piccoli puntini rossi», disse in modo chiaro, per farsi capire da Eliza. «Vedova nera. Un ragno».

Jay ne fu visibilmente sollevato, ed emise un lungo sospiro. «Lo immaginavo».

«Hai fatto bene a tenerla ferma. Non vogliamo che il veleno le fluisca più velocemente nel sangue».

«Quindi non posso spostarla?»

«Non oggi, ma devi tenerla al fresco. Solo i bambini e gli anziani ne muoiono».

«Ma ha avuto una reazione grave?»

«Sì, proprio come te, ragazzo mio. Quando eri molto piccolo ti ho dato un rimedio a base di erbe, che, però, non ho qui con me oggi. Non sarà piacevole per lei, ma sopravvivrà».

Jay annuì.

«Falle aria col ventaglio, mettile panni bagnati sulla pelle – dietro al collo, sul petto, sul viso – e aggiungi un po’ di sale alla sua acqua».

«Strano che sia accaduto anche a lei», commentò lui, mentre accompagnava la donna fuori dalla tenda.

«Ami questa donna?», le sentì domandare Eliza, ma non riuscì a sentire la risposta di Jay.

Pochi minuti dopo, Jay tornò da lei, sorridente.

«Allora oggi stiamo qui e, se ti sentirai meglio, ripartiremo domattina».

«E lei come sta?»

«Più magra e più fragile».

«Mi sento in colpa per averla fatta venire fin qui».

«Non preoccuparti, era lieta di venire. Ora bevi. Meglio evitare un colpo di calore».

Eliza annuì. Sentiva che la temperatura stava aumentando e sapeva che il caldo sarebbe potuto diventare soffocante.

«Mi sembra di avere un’ascia piantata nel cranio. Devo avere un aspetto orribile».

«Povera la mia inglese. L’ascia non ti giova, ma tu non potresti mai essere orribile».

«Non è questo che hai pensato di me quando mi hai vista la prima volta». Eliza non aveva la forza di ridere, ma lui sorrise. «Ora ascoltami. Prima delle piogge ti porterò a Udaipore per vedere l’arrivo dei monsoni. Pensa alla pioggia fresca che cade. Pensa al refrigerio. Ti aiuterà».

«Perché quei ragni sono chiamati vedove nere?»

«Perché sono nere e perché le femmine mangiano i mariti».

Eliza riuscì a sorridergli, stavolta, nonostante il dolore.

Due giorni dopo, tornati al palazzo di Jay, si stavano guardando negli occhi nella stanza di Eliza, senza parlare. Lei slacciò lentamente i bottoni della camicia di Jay, che chiuse gli occhi. Chi dei due dominava l’altro? Chi guidava il gioco? Chi dettava il passo? Eliza aveva creduto di volere che quel qualcuno fosse lui, eppure in qualche modo c’erano sempre più uguaglianza e parità, e la cosa le piaceva, amava sentire la sensazione di potere sulla punta delle dita.

«Sei certa di stare bene?», le chiese Jay.

Lei scoppiò a ridere.

«Cosa c’è da ridere?», esclamò Jay, aprendo gli occhi.

«Mi sento abbastanza bene».

I momenti passavano e loro penetravano sempre più l’uno nell’altra, o perlomeno a Eliza sembrava così. Le pareva di entrare in un mondo nuovo, diverso dai loro rispettivi mondi, dove non c’era spazio che per loro due. Un universo che, una volta creato, non poteva più essere cancellato, che sarebbe esistito anche quando loro se ne fossero andati. Eliza avrebbe voluto essere dentro di lui, alla ricerca di ciò che rendeva Jay tale.

Più tardi, dopo che ebbero fatto l’amore, con le gambe e le braccia aggrovigliate, Jay fece scorrere le dita lungo la spina dorsale di Eliza.

«Guardami», le disse. «Apri gli occhi».

Eliza dischiuse gli occhi, gli sorrise e prese la sua mano.

«Perché sorridi?», le chiese.

«Non so. Sono felice, credo».

Jay rise. «Adoro vederti sorridere e sentirti ridere».

«Sei tu a farmi ridere», gli fece notare lei.

«Non sono sicuro che sia una cosa positiva».

«Lo è. Moltissimo».

Jay la baciò ed Eliza lo guardò dritto negli occhi, accarezzandogli i capelli. Jay ebbe un fremito e la strinse a sé. A volte, Eliza aveva paura del futuro, ma poi, con lui vicino, non le importava più. Si girò dolcemente tra le sue braccia, con le labbra contro la sua guancia.

«Grazie», gli sussurrò.

«Di cosa?»

«Di essere te stesso, di essere qui, di…». Si fermò.

«Di…?»

«Di avermi fatto provare qualcosa che non avrei mai pensato di provare». Si allungò pigramente. «Vorrei che tutto questo potesse durare per sempre. Che potessimo rimanere per sempre così».

Jay non replicò, ma le accarezzò la parte interna della coscia.

«Anche se suppongo che prima o poi avremo fame», aggiunse Eliza.

«Io ho già fame. E tu?»

«Sì, ma non voglio muovermi. Mangiare mi sembra una cosa troppo materiale dopo tutto questo».

«Le cose materiali sono fondamentali, donna».

«Non quanto l’amore».

Jay fece una smorfia. «Mmmm. Fammi pensare. Cibo? O amore?».

Eliza gli diede un colpo tra le costole.

«Ohi», si lamentò Jay ridendo, la strinse e la abbracciò.

Eliza adorava i suoi abbracci, i suoi sorrisi, le sue risate, adorava persino quando la guardava in tralice. Esisteva qualcosa che non le piacesse di quell’uomo?

«Mi vuoi?», gli chiese, trovando all’improvviso il coraggio per chiederglielo. «Voglio dire, veramente?»

«Non è già abbastanza chiaro?».