Annuisco.
Mi interroga, mi domanda se c’è niente che mi andrebbe di dire in proposito. Me la prendo comoda prima di rispondere e, mentre rifletto, rabbrividisco al ricordo della furia irrazionale di mio marito, del suo viso infiammato dalla rabbia. Gli racconto che Douglas era molto arrabbiato con me, anche se è dire poco.
Fu una sciocchezza, ma volevo un figlio con tutta me stessa e non sembravo in grado di concepire. Quando andai da lei, il sole rosso e cocente aveva lasciato il posto a una tipica serata afosa di Mandalay. La donna, vestita di raso e seta e con un trucco molto pesante, danzò per me e per le altre donne, quasi in trance. Bevve una birra, e ciascuna di noi appuntò delle banconote sulle maniche del suo costume scintillante. A quanto pareva, gli spiriti adoravano fare baldoria. Una volta finito lo spettacolo, disse che gli spiriti avevano parlato, anche se non ci rivelò cosa le avessero detto. Spiego al dottore che la gente del posto amava i medium. Che credevano ciecamente al fatto che un Nat Gadaw, perché era così che li chiamavano, potesse mettersi in contatto con gli spiriti, e pensavano che questi avessero il potere di far avverare i desideri.
Douglas fu inamovibile. È un uomo molto razionale e rimase sconcertato quando scoprì che avevo ceduto a una delle loro superstizioni oscurantiste.
«E ha funzionato? L’intervento della spiritista?», mi domanda il dottor Gilbert.
Confermo con un cenno del capo. Invece di darmi per vinta, avevo preso in mano la situazione. Dopo mi ero sentita diversa. Speranzosa. Arrivò un nuovo giorno, il sole splendeva, e poco tempo dopo rimasi incinta di Elvira.
«E suo marito la perdonò?»
«A parte un’altra occasione, non ne parlammo più».
«Ed è una cosa che la turba ancora?».
Cala un lungo attimo di inquietante silenzio.
«L’unica volta che ne riparlammo, Douglas diede la colpa alla Nat Gadaw per le voci che avevo cominciato a sentire».
Mi è difficile aggiungere altro.
«Un uomo razionale, ha detto?». Il dottor Gilbert mi sorride, oh, così dolcemente.
«Sì. Strano, vero? Disse che me l’ero andata a cercare dilettandomi con pratiche tanto superstiziose e pericolose».
Oliver trascinò via Harry dalla sedia e socchiuse gli occhi. «Faremo così».
Harry tremava visibilmente, troppo spaventato per parlare.
«Ti porterò dritto al commissariato e dirai alla polizia cosa hai fatto. Spiegherai come ci hai attirati in quella trappola mortale. Tentata strage, come minimo, e chissà quanti feriti non riusciranno a sopravvivere».
Harry ritrovò la voce. «Non ci daranno retta».
«Scherzi? E perché mai non dovrebbero?»
«Perché…». Fece una pausa. «Perché è la polizia… ad avermi minacciato».
Oliver rimase di stucco. «E a chi ti riferisci di preciso?»
«Ehm, non proprio alla polizia».
«Allora a chi?»
«All’unità di intelligence di Rangoon».
«Iniziamo a ragionare. Chi ne fa parte, Harry?».
Lui scrollò il capo. «Non so come si chiama. È un uomo alto, pelle scura e capelli corti, rasati».
«Nient’altro?»
«Indossava un completo di lino. Non riesco a ricordare altro. Mi ha soltanto detto che dovevo trattenerla».
Oliver e Belle si scambiarono un’occhiata, poi fu l’americano a riprendere la parola. «Levati dai piedi, Harry. E giuro su Dio che se dici una sola parola sul fatto che io e Belle siamo usciti indenni da quell’esplosione, ti troverò».
Harry non se lo fece ripetere due volte e schizzò letteralmente via dall’atrio.
«Ma dobbiamo comunque andare alla polizia, no?», chiese Belle, continuando a tremare al ricordo della devastante deflagrazione della bomba.
Oliver la guardò con aria sprezzante. «Sarebbe una perdita di tempo».
«Perché?»
«Corruzione. Se dietro tutta questa storia c’è l’unità di intelligence, e in questo credo a quanto ci ha raccontato Harry, hanno antenne molto lunghe».
«Oliver, perché hanno fatto una cosa del genere? Non capisco. Perché vogliono farmi del male?». Le tremava la voce e represse un singhiozzo. Anche se cercava di non lasciarsi andare, sapeva che stava cedendo. Era troppo spaventoso per pensarci.
Oliver le posò le mani su entrambe le braccia e strinse delicatamente. «Non per cercare il pelo nell’uovo, ma hanno tentato di ucciderti, amore mio, non di farti del male».
Lo guardò negli occhi e vide che era molto preoccupato per lei. «Lo so», sussurrò. «Lo so».
Ci fu un breve attimo di silenzio.
«Hanno cercato di uccidere anche te».
Lui si strinse nelle spalle, disgustato. «Danni collaterali. Ma quei bastardi vogliono te. Qui si tratta di tua sorella. È chiaro che tua madre non ha avuto niente a che fare con l’accaduto, ma qualcun altro c’entra eccome».
Inspirò a fondo, poi espirò lentamente per allentare la tensione. «Abbiamo fatto bene a lasciare andare Harry?»
«Harry Osborne non è nessuno. Qua c’è da salire molto più in alto».
«Fino a chi?»
«Potrei tirare a indovinare, ma vediamo se riusciamo a scoprire qualcosa».
«Mio Dio, però, cos’è che stanno nascondendo?».
Oliver sospirò. «Non lo so, ma non si fermeranno di fronte a nulla pur di mantenere il segreto. E ti vedono come una minaccia».
Belle si massaggiò le tempie doloranti con la punta delle dita e rimpianse di essersi lanciata in quell’impresa. Avevano attentato alla sua vita, per l’amor del cielo! La volevano morta e il pensiero la faceva stare malissimo. Ma c’era qualcosa di più. Strinse i pugni perché iniziava a sentirsi pervadere dalla rabbia, e desiderava scagliarsi contro chiunque le aveva fatto una cosa simile. Come osavano? Che diritto avevano?
«Non torneremo direttamente a Rangoon», continuò Oliver. «Ho degli amici a Maymyo. È a una quarantina di chilometri da qui, a nord-ovest. Andremo lì e capiremo come muoverci. È più fresco sulle colline, così avremo un po’ di tregua da questo maledetto caldo».
«E come ci arriviamo?»
«In treno. Pensi di aver bisogno di farti vedere da un medico?».
Belle scosse la testa. «Sono solo sporca e ho qualche taglietto sul braccio. Ho dei cerotti di sopra».
«D’accordo. Datti una rinfrescata e fai la valigia, ma sbrigati. Meglio darsi una mossa».
«Ci riproveranno, vero?», chiese lei, senza riuscire a nascondere la sua paura.
«La verità?», domandò lui.
Belle annuì.
Era passata un’ora e avevano fatto appena in tempo. Mentre il treno lasciava la stazione di Mandalay, Belle guardò dal finestrino i vialoni alberati e le grandi dimore britanniche. Il panorama era rimasto invariato per un bel pezzo, ma adesso le capanne di legno punteggiavano i sentieri sterrati che correvano paralleli ai binari. La strada pullulava di carovane di carretti trainati da vitelli, che rientravano dai campi nel tardo pomeriggio, di cani che giacevano profondamente addormentati nell’aria polverosa, di graziose ragazze birmane con i fiori nei capelli che portavano caraffe d’acqua sopra la testa, e di uomini che sobbalzavano sulle loro biciclette mentre procedevano sul terreno roccioso. Oliver le spiegò che i suoi amici, Jeremy e Brenda, dirigevano un piccolo albergo o pensione, e che li aveva già avvisati del loro arrivo. Anche se Belle si era cambiata d’abito, non aveva avuto il tempo di lavarsi i capelli, quindi sentiva ancora la cute secca e le dava prurito. Il viaggio sarebbe durato tre ore e, scossa dall’esplosione della bomba, e da quanto appreso da Harry, non desiderava far altro che dormire.
Si appoggiò al finestrino ma, a mano a mano che il treno si inerpicava più in alto, il suo sferragliare e gli scossoni le impedirono di addormentarsi. Aprì gli occhi e percepì di aver preso le distanze dalla realtà. Con una lentezza angosciante, superarono villaggi in cui gli alberi della pioggia offrivano riparo dal caldo, dove i banani crescevano a perdita d’occhio e dove le colline in lontananza erano avvolte da una cupa foschia viola. Poi vennero i boschetti di acacie gialle e le pendici verdeggianti delle colline coperte da tappeti erbosi, ma ben presto i binari passarono in mezzo a ripide colline dalle basi rocciose circondate da una fitta vegetazione. Sotto un cielo ancora azzurro, oltrepassarono dei templi e attraversarono un ponte sopra la vallata, continuando a salire. Osservò attentamente i crinali inghiottiti dalla giungla, verde scuro nelle vicinanze, verde muschio più avanti, e poi via via a schiarire sempre di più fino a diventare color carta da zucchero.
Per un tratto, Belle si appoggiò a Oliver e riuscì a concedersi un sonno intermittente. Mentre si avvicinavano a Maymyo, si svegliò e restò sorpresa nel vedere quanto fosse verdeggiante la zona. Oliver le indicò la frutta che cresceva vicino ai binari: fragole, susine selvatiche, uva, limoni e lime.
«È una terra incredibilmente fertile», le disse.
Lei osservò il suo bel viso spossato e annuì.
Oliver le sfiorò la guancia, e Belle trovò che nella semplicità di quel gesto ci fosse qualcosa di rassicurante. «Stai bene?»
«Penso di sì».
In prossimità della stazione, del bestiame che si era addormentato sui binari ritardò il loro arrivo, ma alla fine riuscirono a scendere. Un facchino caricò le loro valigie su un carretto trainato da un pony che li stava aspettando e, superati i soliti chioschi e una chiesa metodista, iniziarono a salire più in alto. Lì, racchiuse tra gli alberi, c’erano le case coloniali di mattoni rossi, con le loro persiane verde bosco, le travi in legno, i portici e i giardini. Subito dopo il palazzo del governo, le sedi dell’amministrazione e l’ufficio dell’ispettorato, risalirono un’altra collina. Oliver le indicò una grande casa signorile parzialmente costruita in legno.
«È il Candacraig», disse, notando che stava guardando. «Il circolo britannico. È dove vivono anche i militari non sposati. Non siamo lontani dalla pensione dei miei amici».
Quando arrivarono al piccolo albergo, il sole stava tramontando. Belle accolse con gioia la presenza di un leggero venticello e alzò gli occhi al cielo, che ormai aveva assunto una cupa sfumatura color corallo striata di violetto.
«Qua può fare parecchio freddo di notte», disse Oliver, «a seconda della stagione. Accendono persino il fuoco».
Per prima cosa, Belle venne presentata agli amici di Oliver, Jeremy e Brenda, un’anziana coppia di americani che, a parte dirigere il posto, era ormai in pensione. Oliver le spiegò che aveva alloggiato da loro durante le sue prime settimane in Birmania e che l’avevano aiutato a prendere dimestichezza con l’ambiente. Gli chiesero come stesse andando il lavoro e si informarono sulla sua salute, e di certo sembravano essergli davvero molto affezionati. Brenda era cordiale e amichevole, nonché una cuoca eccezionale, disse Oliver a Belle, quindi dovevano senz’altro aspettarsi una cena coi fiocchi.
Vennero accompagnati in una camera che affacciava sul giardino anteriore e, una volta soli, Belle si voltò a guardarlo. «Una stanza sola?»
«Ti crea problemi? Pensavo sarebbe stato più sicuro. Io posso dormire in poltrona».
Belle si chiese cosa fare.
«Altrimenti posso chiedere un’altra stanza», propose lui.
«I tuoi amici pensano che… be’, hai capito».
«Ti darebbe fastidio se lo pensassero?»
«Un pochino. Non vorrei si facessero un’idea sbagliata di noi due. Di me».
«Non ti preoccupare. Ho spiegato a entrambi cos’è successo. Hanno capito che dobbiamo stare insieme. Lui è un ex militare, nervi d’acciaio e paura di niente, quindi è proprio la persona giusta da avere al nostro fianco. Andrà tutto bene».
«D’accordo». Tacque, poi lo raggiunse e gli sfiorò la guancia. «Condivideremo il letto».
«Magari prima ci facciamo un bagno e mangiamo qualcosa?»
«Magari», rispose lei, fissando i suoi occhi azzurri e luminosi. Poi si allungò per baciarlo.
L’impatto avuto da quanto accaduto e dal fatto che fossero stati a un passo dalla morte aveva pervaso entrambi di un grande bisogno di conforto e sicurezza. Più tardi, mentre erano sdraiati a letto insieme dopo il bagno e la cena deliziosa che Oliver le aveva promesso, ma che quasi non era riuscita a consumare, Belle cominciò a tremare. La paura ricominciò a serpeggiare, raggiungendo ogni parte di lei finché non le si annidò nel petto. Era come rivivere da capo l’intero massacro. Più di ogni altra cosa, desiderava essere abbracciata e che qualcuno le dicesse che sarebbe andato tutto bene. Ma non sarebbe andato tutto bene. Non finché restava in Birmania. E anche se Oliver la stava stringendo forte a sé e riusciva a sentire il suo cuore che batteva all’unisono con il suo, era consapevole di quanto anche lui fosse rimasto traumatizzato. Poi arrivarono le lacrime. Era lo shock, le mormorò lui, una reazione a scoppio ritardato, e Belle capì che aveva ragione, perché il terrore prese a scorrerle nelle vene, annientandola al punto da farle quasi dimenticare chi era. Provò a parlare, ma balbettò e incespicò nelle parole finché non si ritrovò a boccheggiare, strozzandosi e agitando le mani. Lui l’aiutò a mettersi seduta e le portò un bicchiere d’acqua alle labbra.
Quando si fu calmata un po’, le chiese se era pronta a parlare di quanto accaduto a Rangoon.
Lo guardò in silenzio e poi, dapprima a spizzichi e bocconi, cominciò a dare voce al suo dolore. Gli raccontò tutto, e la paura che aveva sepolto e mai condiviso si riversò fuori come un fiume in piena. Le atrocità a cui aveva assistito, il sangue versato, la brutalità animalesca e le sventurate vite spezzate, e infine, ansimando al ricordo, gli parlò della piccola bambina che aveva trovato ancora viva. Quando ebbe finito di sfogarsi, Oliver le accarezzò le guance e le baciò la fronte con una dolcezza infinita.
«Ho paura», disse lei.
Lui annuì.
«Cosa facciamo adesso?».
Le prese una mano e la strinse delicatamente. «Non lo so. Dormiamo un po’ e ci penseremo domani, a mente fresca».
Dopo colazione, la mattina seguente, presero due biciclette ed esplorarono la città fresca e verdeggiante sotto un cielo celeste pastello. Oliver le indicò i vari palazzi del governo britannico e le case dei funzionari che si occupavano della gestione amministrativa della Birmania. Belle assimilò tutto, sconcertata dalla sfarzosità di quelle ville in confronto alle minuscole baracche della gente locale. Quando Oliver espresse ancora una volta la convinzione che un giorno o l’altro la Birmania sarebbe tornata in mano ai birmani, lei si disse d’accordo.
«Non manca molto», aggiunse con un cenno d’approvazione. «I segnali sono ovunque».
«Intendi i disordini?»
«Già. Proprio nel cuore dell’Impero. Le cose cambieranno, e presto».
Si fermarono al mercato dei fiori che sorgeva al limitare di uno dei vialoni principali. L’atmosfera, carica del profumo delicato dei fiori bianchi e viola, riempì Belle di una strana euforia dolceamara. Si intrufolarono all’interno dell’enorme giardino botanico, dove trovarono un alto tamarindo frondoso sotto il quale sedersi e a cui appoggiarsi. Mentre osservavano gli alberi di tek in lontananza, Oliver le spiegò che i britannici erano stati attirati in Birmania proprio dal tek. Avevano bisogno di legname per le loro flotte ed era ben presto diventato una crescente fonte di guadagno, insieme all’oro e ai rubini degli Shan, e alla giada trovata nei giacimenti all’estremo nord. E dopo aver esiliato in India l’ultimo re della Birmania, i britannici avevano fatto man bassa di tutto ciò che era rimasto a loro disposizione.
Sollevò il mento. «Allora, come ti senti?»
«Ancora molto scossa».
Lui annuì. «Forse è meglio se torno a Rangoon da solo».
«Lasciandomi qui?»
«Sì».
«Preferisco venire con te».
«Jeremy e Brenda baderebbero a te».
Lei scosse la testa. «Non saprei».
«Altrimenti dobbiamo farti tornare di nascosto a Rangoon e imbucarti su un aereo».
«Ho sentito dire che adesso ci sono degli aeroplani di linea».
«L’Imperial Airways. Ma non ci sono così tanti voli. Ci vogliono undici giorni per arrivare a Londra».
Ci pensò su.
«Se solo sapessi chi c’è dietro a quella bomba, saprei da dove cominciare».
«Chi pensi possa essere stato?», domandò Belle.
«Credo sia tutta una questione politica. Nel 1935, l’ultima Costituzione birmana ha sancito che la Birmania dovesse essere separata dall’India britannica. Avrebbero creato un nuovo Senato e una nuova Camera dei rappresentanti. Il tuo amico, Edward de Clemente, fa parte della commissione che sta definendo gli ultimi dettagli della Costituzione e della legge elettorale in vista delle elezioni generali».
«Non me n’ero resa conto».
«Chiunque abbia preso parte a questa fase di transizione deve essere al di là di ogni sospetto, altrimenti le prescrizioni di legge non saranno accettabili. Di conseguenza, posso ipotizzare che qualche pezzo grosso si stia sentendo minacciato a causa tua».
«E cosa pensi che abbia fatto?»
«Che stia tentando di insabbiare qualcosa. Ecco cosa penso. È ovvio che qualcuno ha nascosto la verità su quanto accaduto il giorno in cui è scomparsa tua sorella».
«Sospetti di Edward?»
«Non nello specifico. Potrebbe trattarsi di chiunque».
Ci fu un lungo attimo di silenzio. Belle ascoltò il ronzio degli insetti e il rumore del vento che faceva frusciare le foglie sopra le loro teste. I prati verdi si estendevano a perdita d’occhio.
«Facciamo una passeggiata fino al lago», propose Oliver, e spinsero le loro biciclette fino a un’altra zona del parco, dove i cigni solcavano la superficie argentata dell’acqua.
«Te l’ho detto che il portiere dello Strand mi ha riferito che suo padre sentì urlare una bambina quella notte del 1911? Faceva il guardiano notturno».
«Ne è passato di tempo per ricordarsi dell’episodio».
«Be’, non c’erano bambini che alloggiassero in albergo e, quando arrivò sul retro, vide una macchina sfrecciare via. Gli è rimasto impresso».
«L’ha denunciato?»
«Penso che l’abbiano persuaso a tacere».
«Vale la pena indagare».
«Tu dici?».
Oliver annuì.
«In tal caso, torno insieme a te».
«Potrebbe non portare a niente».
Belle gli lanciò un’occhiata. «Oliver, non credo che riuscirò mai a lasciare la Birmania se prima non scopro cos’è successo a Elvira, e devo anche pensare alla mia casa. Non posso lasciarla andare in rovina».
«Non puoi tornare in albergo».
«No».
«Vieni a stare da me».
Lo fissò con attenzione. «E cosa ne penserà la gente?»
«Malgrado il sentore di altre condotte indecorose qui non manchi di certo, sparleranno e fingeranno di essere scandalizzati. Forse per alcuni sarà un vero shock, ma, in ogni caso, la tua incolumità è l’unica cosa che conta realmente in questo preciso momento».
Diana, Minster Lovell, 1925
Ho vissuto come se tutta la mia esistenza fosse stata determinata da un singolo momento in quel giardino in Birmania. Vorrei urlare al mondo che quella non sono io, ma poi mi chiedo quanto sia vero. Forse ciascuno di noi ha un solo momento determinante al quale non potrà mai sfuggire.
Quello in cui me ne sbarazzo davvero è un giorno come tanti altri. Il sole sta cercando di brillare oltre una cortina di nubi e io sono seduta sulla solita sedia.
Mi sembra di annegare quando mi chiede di descrivere il giorno in cui ho perso Elvira. Mi dice che non devo farlo per forza, ma io so di averne il dovere. Chiudo gli occhi. Ci provo e ci riprovo, ma c’è qualcosa che continua a fermarmi, come se un muro di mattoni mi stesse impedendo di andare oltre. Spingo per abbatterlo, eppure non cede. Dice che mi sto sforzando troppo e mi incoraggia a non concentrarmi affatto sulla carrozzina, ma a richiamare alla mente tutti gli altri bei dettagli del giardino. Man mano che mi rilasso e comincio a smarrirmi nei ricordi, la deliziosa dépendance inizia a prendere forma, anche se non mi ci immagino dentro. Gli altri spezzoni cominciano a tornare a galla. E quando metto a fuoco l’albero di bahuinia, con le sue foglie a forma di cuore e i fiori bianchi e rosa, e le fronde enormi con i rami da cui si dondolano le scimmie, sorrido. Riesco a vedere gli uccelli verde brillante, a sentire il magnifico profumo dei fiori: le rose nei mesi di giugno e luglio, gli enormi cespugli di poinsezia con i loro fiori rosso acceso a dicembre, gli aster viola circondati da delicate farfalle bianche in primavera. Poco a poco, torno indietro nel tempo ed è come se fossi davvero di nuovo lì in Birmania, oppressa dal caldo umido.
Sento che mi chiede cos’altro riesco a vedere, ma è come se la sua voce giungesse da molto lontano. Scuoto la testa e comincio a respirare più in fretta. «Solo la carrozzina sotto il tamarindo», dico.
Il dottor Gilbert non parla più.
Poi, quando sento di non poterlo sopportare ulteriormente, vengo investita da un’immagine sfocata. Strizzo gli occhi, chiudendoli ancora di più, e provo a metterla a fuoco. Oppure no. Non saprei dire quale delle due. La scena acquista nitidezza e riesco a distinguere una donna vestita di nero che si allontana di corsa dalla carrozzina con un fagotto tra le braccia. È tutto finito in un battibaleno, e mi chiedo se non me lo sia immaginato, ma poi la scorgo di nuovo quando si volta a controllare che nessuno l’abbia vista e, per un brevissimo istante, ho la sensazione di conoscerla.
«Non sono stata io a fare del male alla mia piccina. Non sono stata io».
Riapro gli occhi e vedo che il dottor Gilbert mi sta sorridendo. «Ben fatto, mia cara», dice. «Ben fatto».
Avrebbero dovuto passare un’altra notte a Maymyo, e Belle aveva intuito che era cambiato qualcosa di essenziale. La loro relazione aveva cominciato a pendere da un lato ben preciso, era leggermente diversa. Quando si spogliò davanti a lui, a capo chino e ammutolita, provò imbarazzo e un insieme di sensazioni mai provate prima. Speranza? Trepidazione? Magari persino un po’ di apprensione? Forse essere scampati insieme a una morte quasi certa l’aveva resa più attenta ai suoi sentimenti più profondi, forse aver trascorso insieme una giornata tranquilla aveva cementato il loro legame, o forse era perché era finalmente riuscita a parlare del massacro a Rangoon. O magari era il complesso di tutte quelle cose. In ogni caso, sentiva di aver perso la capacità di comunicare attraverso le parole e l’atmosfera in camera da letto era satura di un bisogno inespresso. Fin dall’inizio, tra loro c’era sempre stata una forte attrazione. Oliver non le toglieva gli occhi di dosso e, quando Belle sollevò la testa e incrociò il suo sguardo, ci trovò tutta la profondità del suo desiderio. A prescindere da cosa li avesse fatti avvicinare sempre di più, era giunto il momento.
Si spogliò a sua volta e, quando restarono nudi uno di fronte all’altra, abbassando la guardia, fu come se avessero tacitamente concordato di mettere a nudo anche la loro anima, di scoprire i loro difetti, le insicurezze, il palese desiderio. Non faceva freddo, ma Belle rabbrividì e allungò una mano verso di lui.
A letto, Oliver le ordinò di sdraiarsi e di restare immobile. Quasi non mosse nemmeno un dito, Belle, mentre lui le accarezzava il corpo e, lasciandolo fare, percepiva ogni singolo momento con una sensualità talmente amplificata da diventare, visto che continuava a trattenersi un po’, una specie di dolcissima tortura. Ogni tocco delle sue dita – sul collo, sui seni, sulle cosce, sulla bocca – le provocava una scarica elettrica. Ogni volta che la sfiorava con le labbra, la lasciava senza fiato. E poi cambiò di nuovo tutto. Con l’aumentare del fervore, sentì che tutte le tensioni e le preoccupazioni che si portava dietro da così tanto tempo si stavano allentando; e stava lasciando andare anche il dolore e la paura. Lo voleva talmente tanto che la sua mente non riusciva a pensare ad altro.
«Adesso facciamo l’amore», lo incitò con tono pressante.
Il sesso in sé fu potente, sconvolgente, e le fece venire voglia di piangere, anche se non sarebbero state lacrime di tristezza; sarebbero state lacrime liberatorie, di gioia, e poi, prima di rendersi conto di cosa stesse succedendo, una risata cominciò a scuoterle il petto. Proruppe dalle sue labbra, crebbe e divenne inarrestabile. Una risata così innocente e spontanea, di cui in passato non serbava ricordo. Le sembrava di essere tornata bambina e si sentiva libera, come uno degli uccelli che aveva liberato alla pagoda Shwedagon.
Oliver rise insieme a lei, poi si puntellò su un gomito e studiò attentamente la sua espressione, con una concentrazione assoluta. «Sapessi da quanto tempo aspettavo questo momento!».
Belle socchiuse gli occhi. «Da quanto?»
«Mmm». Storse la bocca, come se ci stesse pensando. «Dal primo momento in cui ti ho messo gli occhi addosso».
Sorrise compiaciuta e un brivido d’eccitazione percorse ogni centimetro del suo corpo ancora formicolante.
«Stai bene? Non ti ho fatto male, vero?».
Gli punzecchiò le costole. «Se quello era farmi male, puoi farmene ancora un po’, per favore?»
«Adesso?»
«Ah-ah».
Rise. «Sei una maestra quando si parla di ardue imprese».
Stavolta se la presero incredibilmente comoda, e in seguito le disse che l’amava e che l’avrebbe amata sempre. Belle gli prese una mano e gli baciò la punta delle dita, quindi si accoccolò accanto a lui, esausta, ma con la mente sgombra.
Il giorno successivo, Oliver sistemò i loro bagagli nelle rastrelliere sopra i sedili di quello che si era rivelato essere un treno per Rangoon senza vagoni di prima classe. Condivisero il loro con alcuni indiani addormentati e, sporadicamente, con varie donne birmane che portavano frutta e verdura più a sud. Al di là della puzza di sigaro, non era così male. Tuttavia, quando vennero raggiunti da un venditore di pesce, Belle si vide costretta a spostarsi, sbiancando, accanto a un finestrino talmente inceppato da far passare soltanto un leggerissimo accenno d’aria calda. Da lì riusciva a sentire l’odore del fumo dei fuochi dei villaggi e dei venditori ambulanti che cucinavano sulla brace accanto ai binari del treno. Il fumo la fece tossire, ma era comunque un passo avanti rispetto alla nausea provocata dalla puzza di pesce.
Ogni ora o giù di lì, orde di ambulanti si avventavano contro i finestrini o percorrevano il corridoio centrale vendendo riso appiccicoso e spaghetti piccanti. Belle e Oliver non capivano perché il treno continuasse a fermarsi e ad aspettare. In certi casi, sembrava che stessero ancora lavorando alla riparazione dei binari, ma altre soste restavano inspiegabili e nessuno sembrava in grado di rispondere alle loro domande in merito ai continui ritardi. Ogni volta che si fermavano, Oliver insisteva affinché Belle restasse al suo fianco, perché era risaputo che i ladri frequentavano le stazioni più remote e isolate, pronti a sgattaiolare a bordo e a derubare i passeggeri addormentati.
Ora che aveva superato il trauma iniziale causato dall’esplosione, Belle era felice e la rincuorava essere di nuovo con lui, anche se le sarebbe piaciuto che le circostanze fossero diverse. Sentiva la sua presenza in modo viscerale. Il fatto che le avesse salvato la vita valeva più di qualsiasi altra cosa al mondo, e si appoggiò a lui, inspirando a fondo l’odore della sua pelle e pregando di non incappare in altre minacce. Oliver, invece, sembrava inquieto, sempre intento a scrutare i passeggeri che salivano e scendevano dal treno e a lanciare occhiate alle piattaforme a ogni fermata. Portava gli occhiali da sole e un cappello di paglia, grazie ai quali era difficile che qualcuno notasse cosa stava facendo, ma Belle riusciva a percepire tutta la sua tensione. Anche lei squadrava tutti i nuovi arrivati, ma, quando salirono cinque o sei agenti di polizia, si rilassò un pochino.
Dopo seicentoventi chilometri per i quali c’erano voluti tre giorni di estenuante viaggio, molto più di quanto fosse ragionevole, tornarono al caldo umido e appiccicoso di Rangoon e andarono subito all’appartamento di Oliver. Provando un enorme senso di sollievo, e senza avere la più pallida idea di cosa potesse attenderli, si sdraiarono sul letto senza neanche cambiarsi. Lui le prese una mano e il suo respiro rallentò immediatamente. Belle, troppo stanca per fare chissà quali ragionamenti, sapeva però che quanto accaduto tra loro indicava una cosa nella quale aveva segretamente sperato, per quanto solo vagamente compreso. Aveva un senso, quella relazione, un senso che parlava del presente, sì, ma anche del futuro. E sapeva che la forza del loro amore avrebbe portato a una vita completamente diversa. Se non altro, di quello era convinta. Poi chiuse gli occhi, si accoccolò al suo fianco e si addormentò.
Belle si svegliò per prima e scoprì che avevano dormito avvinghiati, come se i loro corpi, malgrado loro fossero troppo stanchi, avessero saputo ciò di cui le loro anime avevano bisogno. Gli sfiorò la barbetta sul mento e si godette quel senso di conforto, la vicinanza, il suo alito caldo sulla guancia, e quando aprì gli occhi, Oliver le sorrise. Lo baciò con foga sulle labbra e sentì la sua erezione che premeva di nuovo contro il suo corpo. Mentre tracciava i contorni del suo bel viso con la punta delle dita, si accorse di quanto fosse stupendo, la pelle dorata e lucente, gli occhi azzurri e pieni di sentimento. Fecero l’amore, dapprima con gentilezza, ma finendo con una tale passione che si ritrovò a urlare. Oliver le coprì delicatamente la bocca per zittirla e le sussurrò di fare piano. Quando l’alzarsi e l’abbassarsi del suo petto tornarono alla normalità, Belle si divincolò dall’abbraccio e scivolò in bagno per andare a lavarsi. Ormai tutti i suoi vestiti erano sporchi, perciò sciacquò una camicetta e una gonna lunga e le mise ad asciugare sopra la vasca.
Quando uscì dal bagno, con i capelli umidi e appiattiti attorno al viso, vide che Oliver le stava dando le spalle ed era intento a preparare il caffè.
Sentendola, si voltò e le sorrise con una tale dolcezza che a Belle si fermò letteralmente il cuore. Provare così tanto amore mentre si era attanagliati dalla paura era davvero indescrivibile.
«Scusa, non c’è da mangiare», commentò lui. «Faccio un salto a prendere qualcosa».
«Non ho così fame. Il caffè andrà bene».
«Vieni qui», disse con un sorriso ancora più grande a illuminargli il viso.
Tutto d’un tratto, però, la cruda realtà prese il sopravvento, e con essa la paura divenne più forte. Le si strinse il petto mentre sussurrava: «Qualcuno ha tentato di uccidermi». Rimase dov’era e ispezionò il pavimento. Qualsiasi cosa pur di non doverci pensare.
«Andrà tutto bene», disse lui.
Alzò la testa per guardarlo in faccia. «Davvero?».
Oliver fece cenno di sì con la testa. «Vieni qui», ripeté.
Gli si avvicinò, e lui la tenne stretta e le accarezzò delicatamente i capelli. «Faremo in modo che vada tutto bene. Insieme».
Si sentiva più al sicuro sapendo che era lì con lei. Ciò che li teneva uniti era un legame istintivo. Era un legame sincero con il quale ciascuno dei due dichiarava all’altro: so chi sei e scoprirò ciò che ancora non conosco. Le vennero in mente le parole «anime gemelle» e, per quanto sembrasse un cliché, era la verità.
Quando si incamminarono verso l’hotel Strand e cominciarono a percorrere quelle strade familiari, a Belle vennero le palpitazioni per l’agitazione. Anche se la città era frenetica e c’era gente ovunque, sapeva che se qualcuno avesse deciso di pedinarli, scivolare tra le ombre senza farsi notare sarebbe stato un gioco da ragazzi. Oliver continuava a incoraggiarla, eppure lei temeva un’altra aggressione e aveva paura che ogni uomo a cui passavano accanto stesse nascondendo un coltello, o persino una pistola. Rimase aggrappata a lui, ma i suoi occhi sfrecciavano da una parte all’altra, e non era in grado di tenere a bada le sue paure. Percependo la sua ansia crescente, Oliver la condusse in mezzo alla folla e si affrettò a fermare un risciò.
Arrivati in albergo, lasciò una lettera di dimissioni alla reception e le venne consegnata una busta spedita per posta aerea che era arrivata mentre era via. La infilò in borsa per leggerla in un secondo momento, poi corse in camera sua per recuperare alcuni dei suoi effetti personali. Prima se ne andava da lì, meglio era.
Non ci mise molto. Aveva appena finito di mettere in una valigia i vestiti e i cosmetici e si stava accingendo ad andarsene quando Rebecca entrò nella stanza, le curve messe in risalto da un classico abito rosso attillato.
«Belle! Dove sei stata? Hai una pessima cera».
Belle sorrise all’amica e notò la stanchezza che le si leggeva negli occhi, e i capelli che avevano bisogno di una bella spazzolata. Sembrava fosse stata di nuovo fuori per tutta la notte.
«È una storia lunghissima», disse Belle.
Rebecca si lasciò cadere sul letto. «Be’, dimmi almeno dove stai andando. Torni a casa in Inghilterra?»
«Non ancora. Ho lasciato il lavoro e mi trasferisco a casa di Oliver».
Gli occhi di Rebecca erano pieni di incredulità. «Perbacco! Be’, buon per te, ma hai pensato alle solite malelingue? Ci andranno a nozze».
«Non mi importa più, davvero».
«Ma perché lasci il lavoro? Sei una cantante meravigliosa».
Belle incrociò lo sguardo dell’amica e fece una faccia abbattuta. «Mi spiace sul serio, ma adesso non posso dirtelo. Te ne parlerò quando sarà tutto finito, te lo prometto».
«Ha qualcosa a che vedere con le ricerche di tua sorella? Hai scoperto cos’è successo?», domandò Rebecca, perspicace come al solito.
«Non ancora».
Quando annuì, negli occhi di Rebecca c’era un velo di tristezza. «Mi mancherai».
Le due donne si abbracciarono, poi Belle raggiunse Oliver davanti all’albergo. Il portiere garantì che avrebbe fatto in modo che il suo baule venisse portato al deposito della stazione, quindi Oliver gli chiese di ripetere la storia che gli era stata raccontata da suo padre a proposito della bambina sentita urlare nel cuore della notte. Dopo aver chiesto loro di assicurargli che non avrebbero rivelato a nessuno da chi avevano appreso quelle informazioni, l’uomo scese un po’ più nel dettaglio rispetto alla volta precedente.
«La cosa che non avevo detto è questa… poco dopo l’incidente, mio padre fu licenziato con una falsa accusa».
«Venne messo a tacere», osservò Oliver.
«Perché non me l’avevi detto prima?», domandò Belle.
Il portiere alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardarla. «Si vergognava. Non mi sentivo in diritto di parlarne. Ed ero nervoso anche per il mio lavoro».
Belle annuì. «Mi dispiace tanto».
Il portiere si strinse nelle spalle. «È successo talmente tanto tempo fa, ma ha rovinato la vita di mio padre. Non gli vennero lasciate delle referenze ed ebbe difficoltà a ritrovare un lavoro».
Oliver gonfiò le guance e sbuffò. «Che gente!».
Ringraziarono il portiere e, dopo aver lasciato l’albergo, si fermarono a fare provviste in un negozio che era di strada. Quindi, assicurandosi di non essere stati seguiti, presero un risciò. Quando tornarono al suo appartamento, Oliver aprì la porta e le disse che aveva avuto un’intuizione e voleva passare al setaccio gli archivi di un altro giornale. Sarebbe dovuta restare da sola e non ci volle molto a convincerla a rimanere in casa con la porta chiusa a chiave.
«Almeno nessuno sa che sei qui», disse lui. «Così ti lasceranno in pace».
Belle fece una smorfia. «Rebecca lo sa».
«Terrà la bocca chiusa?»
«Non lo so. Forse non avrei dovuto dirglielo. O avrei almeno dovuto chiederle di non parlarne con nessuno».
«Ormai non possiamo farci nulla. Non avrai problemi se non lasci l’appartamento, ma, ti prego, non aprire la porta a nessuno. Non ci metterò molto». Poi, come se avesse avuto un ripensamento, aggiunse: «Meglio che tu stia alla larga dalla finestra, però».
Non appena se ne fu andato, Belle si preparò del pane tostato e un’altra tazza di caffè prima di provare a sedersi a leggere un giornale. Qualche minuto dopo, troppo nervosa per concentrarsi, era di nuovo in piedi a esaminare le costole dei libri di Oliver, e fu allora che si ricordò della lettera arrivata per posta aerea. Si lasciò cadere su una sedia, armeggiò con la fragile busta, l’aprì e la lesse.
Mia cara Annabelle,
spero che questa mia lettera ti trovi in buona salute. Volevo informarti che presto dovrei venire in visita in Birmania. Mi sono sempre ripromessa che un giorno o l’altro ci sarei tornata, e se non affronto subito questo viaggio, temo che non mi deciderò mai più. Spero davvero tanto che avremo modo di incontrarci. Certo, non so se vivi ancora a Rangoon, ma chiamerò lo Strand alla prima occasione utile.
Be’, mia cara ragazza, penso che per il momento sia tutto. Prenditi cura di te.
Con i più cordiali saluti,
Simone
Belle rilesse due volte la lettera, poi si appoggiò allo schienale e pensò a Simone. Era straordinario. Non avrebbe mai immaginato di avere la possibilità di incontrare la vecchia amica di Diana lì in Birmania, ma sarebbe stata una fantastica opportunità per saperne di più su sua madre. Aveva undici anni quando suo padre le aveva detto che non l’avrebbero più rivista, e Belle ricordava soltanto che pioveva e che aveva appena cominciato a frequentare il college femminile di Cheltenham. Anche se aveva pianto un po’ alla notizia della morte di sua madre, le lacrime le erano sembrate forzate, le emozioni confuse e difficili da decifrare. Di Diana non avevano più parlato. E adesso i sentimenti di Belle erano persino più incerti. Anche se adesso capiva quanto avesse contribuito la perdita di Elvira al malessere di sua madre e alla conseguente noncuranza, il dolore provato da piccola restava comunque. La bambina che era in lei non riusciva ancora a perdonarla e questo le lasciava un senso di tristezza. Non riusciva a fare a meno di pensare che sua madre avrebbe potuto trovare un altro modo per affrontare la tragedia. Avrebbe potuto sforzarsi di più. Per quanto riguardava Simone, invece, non sapeva se in futuro sarebbe ancora stata lì per accogliere l’arrivo della vecchia amica di sua madre.
Mentre stava riflettendo, qualcuno bussò molto delicatamente alla porta e, prima che le tornasse in mente l’avvertimento di Oliver, si era già diretta all’ingresso. Con una mano sulla chiave, esitò e si rimproverò. Era stata una mossa stupida. Ora chiunque fosse doveva aver sentito i suoi movimenti. Bussarono di nuovo, più forte. Belle continuò a restare immobile, pietrificata dalla paura. Aspettò e, dopo qualche istante, udì una voce di donna.
«Belle, lo so che sei lì».
Gloria. La sua era una voce che avrebbe riconosciuto tra mille. Doveva dire qualcosa? Permettere all’amica di entrare?
«Belle?»
«Sì?»
«Per l’amor del cielo, fammi entrare. Sono preoccupata per te».
Appoggiò un attimo la fronte al fresco pannello di tek, poi aprì la porta, non sapendo se stava facendo la cosa giusta. In fin dei conti, Gloria era la sorella di Edward, e lei si sentiva sempre più dubbiosa nei suoi confronti.
Gloria entrò a passo impettito e si mise a studiare il viso di Belle, come se fosse a caccia di indizi. «Che sta succedendo, Belle?».
Belle era diffidente e stava cominciando ad arrossire. «Non so di cosa stai parlando».
La donna, invece, sembrava sinceramente divertita. «Suvvia. Hai lasciato il lavoro, vivi nell’appartamento di un uomo poco raccomandabile dal quale ti ho già messa in guardia. Questa è una follia».
Si lasciò cadere sulla sedia su cui poc’anzi era seduta Belle. «Hai del caffè, cara? Sono trafelata».
Lei annuì, felice di avere la possibilità di nasconderle il viso in fiamme con la scusa di darle le spalle per preparare il caffè. Sapeva che la gente avrebbe iniziato a sparlare non appena avesse scoperto che si era trasferita lì, ma perché per Gloria se ne faceva un problema? In genere all’amica non importava un fico secco di ciò che pensava la gente e, anzi, si vantava dell’esatto contrario.
«Ecco il tuo caffè», disse, sforzandosi di sorridere.
Gloria prese la tazzina, poi tirò fuori un portasigarette d’argento e ne offrì una a Belle.
Quando declinò, Gloria inclinò la testa. «Oh, ma certo, la tua voce».
«Come facevi a sapere che mi trovavo qui?», domandò Belle.
«Oh, sai com’è, un uccellino. Doveva essere un segreto? Gliel’ho cavato fuori con la forza».
«Rebecca?».
Gloria socchiuse gli occhi e le rivolse un sorrisetto soddisfatto. Poi, quando assunse un’espressione più severa, Belle diventò subito apprensiva. Vero, a Gloria non piaceva Oliver, ma c’era qualcos’altro? Qualcosa che avrebbe dovuto sapere?
«Dimmi perché hai lasciato il lavoro», chiese la donna con uno sguardo critico che si trasformò subito in pura incredulità. «Buon Dio, non te l’avrà chiesto lui?»
«Oliver?»
«Mia cara, ti esprimi a monosillabi. Oliver, chi altri? Questa era casa sua l’ultima volta che ho controllato».
«Ho avuto un semplice ripensamento. Non è stato lui a chiedermi di lasciare lo Strand. Potrei tornare in Inghilterra».
A giudicare dalla faccia di Gloria, sembrava lieta della notizia. «Ma perché sei venuta a stare da Oliver? Sai che ha una brutta reputazione. Non voltare le spalle ai tuoi veri amici».
«Quale reputazione?»
«Donne, tesoro. Te l’ho già detto. E il fatto che stia dalla parte sbagliata della legge. Ne abbiamo già parlato, no?».
Belle annuì, ma era sempre più dubbiosa sul vero motivo della visita di Gloria.
«Non si può mai sapere con certezza per chi stia lavorando».
«Fa solo il giornalista».
«Così dice, ma non puoi fidarti di lui. E, naturalmente, è anche un americano».
Belle sospirò, frustrata. «E questo che c’entra?».
Negli occhi di Gloria guizzò un lampo e gli angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso. Giusto un pochino. Quanto bastava per rivelare i suoi pregiudizi. Malgrado gli atteggiamenti ribelli, sotto sotto era una conformista.
«Pensa alle conseguenze di stare con un uomo come lui», disse Gloria.
«Quali conseguenze?»
«Ti deluderà, tanto per dirne una».
«E poi?».
Gloria gettò indietro la testa e si strinse nelle spalle, come se i difetti di Oliver fossero lampanti.
Belle sospirò. «Sto bene così, Gloria. E senti questa, ho appena scoperto che mia madre non ha avuto niente a che fare con la scomparsa di Elvira».
La donna fissò il fondo della sua tazza di caffè, un tantino inquieta. «Come l’hai saputo?».
Belle esitò, quindi decise di non dirle niente a proposito della bomba. «È una lunga storia».
Gloria non sembrava affatto rabbonita e continuò a insistere con caparbia determinazione. «Cara, non restare qui. Sai bene quanto parleranno a vanvera non appena trapelerà la notizia. Vieni a stare da me, piuttosto, almeno finché non tornerai in Inghilterra. Starai molto più tranquilla».
«Fammici pensare».
«Preferirei che venissi adesso».
«Come ti ho appena detto, fammici pensare».
«Allora tornerò a prenderti più tardi, nel pomeriggio. E adesso», si guardò attorno, «raccontami delle tue avventure a Mandalay».
Belle le descrisse con entusiasmo il viaggio sul fiume e il giro in mongolfiera, ma non le parlò di Mandalay. Le spiegò che la ricerca della bambina bianca non l’aveva portata a niente e che quello, unito a tutti i disordini scoppiati a Rangoon, era il motivo per cui stava considerando l’idea di tornare in Inghilterra. Gloria annuì e propose di avvalersi dell’aiuto di Edward per prenotare quanto prima un posto in nave se era davvero decisa di andarsene.
«Qualunque sia la tua decisione», aggiunse, «ti assicuro che io ed Edward faremo del nostro meglio per darti una mano. Ma, Belle, non potrò mai sottolinearlo abbastanza. Devi prendere le distanze da Oliver. È pericoloso».
«C’è qualcosa che lo riguarda di cui non mi hai parlato?»
«Cos’altro ti serve sapere?».
Fremette di fronte al compiacimento con cui Gloria dava per scontato di essere nel giusto, poi si sentì avvampare di nuovo le guance, stavolta per l’irritazione. Ne aveva abbastanza.
L’altra, notando la faccia che faceva, scosse la testa e alzò le mani, in un gesto che avrebbe dovuto essere conciliante. «Voglio solo saperti al sicuro».
Gloria non era una donna abituata a essere contraddetta, ma Belle prese le difese di Oliver. Il legame che li univa era l’unico sprone di cui aveva bisogno per schierarsi dalla parte dell’uomo che amava. «Ti sbagli su Oliver. È un brav’uomo. E io mi fido di lui».
Le due donne si fissarono per un istante, poi Gloria inarcò un sopracciglio e fece un sospiro profondo, come se fosse alle prese con una bambina recalcitrante. «Be’, non ha importanza. Non litighiamo, e la mia offerta è ancora valida. Come ti ho già detto, non voltare le spalle ai veri amici».
Belle distolse lo sguardo. Gloria le era sempre piaciuta, l’aveva persino ammirata. Era sempre stata una donna divertente e pronta a darle una mano, ma adesso si stava irrigidendo sempre di più a causa della rabbia repressa.
Mentre la donna tirava fuori un’altra sigaretta, Belle ripercorse le tappe della loro amicizia, setacciando i ricordi e tornando indietro nel tempo fino al loro primo incontro a bordo della nave. All’epoca, l’interesse di Gloria l’aveva lusingata, ma adesso si sentiva pervadere dalla diffidenza. La loro era davvero stata un’amicizia così spontanea? O Gloria aveva appositamente coltivato la conoscenza dopo aver scoperto il cognome di Belle?
Furibonda per la sua costante insistenza nel dirle che non c’era da fidarsi di Oliver, scrollò il capo. Sapeva che la fiducia che ora riponeva in lui non era il risultato di chissà quale enorme errore di valutazione, come insinuato da Gloria, e non le avrebbe mai permesso di farle cambiare idea. Quella donna non aveva alcun diritto di piombare così in casa sua e ordinarle, in pratica, di fare le valigie.
«Penso che faresti meglio ad andare», disse alla fine, riuscendo a nascondere il fatto che le si stava spezzando la voce e conscia che tra loro si era appena incrinato qualcosa. La verità era che non sapeva più chi fosse Edward, né cosa stesse combinando, e lo stesso valeva per Gloria.
Diana, Minster Lovell, 1928
Ormai vivo a Minster Lovell da sei anni. Il primo anno, Simone è rimasta quasi sempre con me, ma dopo, quando sono diventata più forte, è tornata a casa sua e si è fermata a dormire da me solo di tanto in tanto. Negli ultimi due anni ho vissuto da sola. Esco. Saluto i vicini. Ogni giorno, tempo permettendo, lascio il mio cottage, l’ultimo sulla strada del paesino, e salgo per un tratto prima di svoltare subito a destra e scendere prendendo Church Lane. La vecchia canonica, vicino ai piedi della collina, è dove abita il dottore. Se lo vedo intento a potare o a cimare le rose appassite – ha un bellissimo roseto – ci scambiamo un sorriso di intesa, poi facciamo due chiacchiere, come se non avesse già sentito tutto ciò che c’è da sapere sulla mia storia. La strada finisce a Manor Farm, quindi lì giro a destra e attraverso i terreni davanti alla chiesa di St. Kenelm, costruita in pietra delle Cotswolds. Mi piace leggere i nomi sulle lapidi e immaginare le vite delle persone che se ne sono andate prima di me. La prima volta che ho notato quante famiglie avessero patito la perdita di più di un figlio piccolo, proprio come me, non mi ha fatto provare un senso di malinconia. Anzi, l’affinità che ho sentito con queste persone mi ha fatto piantare radici più profonde di quanto non mi fosse mai capitato. Dopo la chiesa, in genere passo tra le suggestive rovine di Minster Hall, quindi prendo il sentiero che scende fino al fiume Windrush, e mentre passeggio tra i fiori delicati, l’aria risuona del canto degli uccellini, delle anatre e delle folaghe.
Spesso mi domando come facciamo a capire quando siamo felici. È nell’assenza di preoccupazioni o nell’assenza del dolore? O, nel mio caso, è perché ho trovato un ritmo così dolce e meraviglioso da dare alla mia vita? Il giusto ritmo che mi concede di vivere con serenità, facendomi apprezzare la semplicità ristoratrice delle cose. Eppure, per ciascuno di noi, la felicità è fragile. Sarei una sciocca se non l’avessi ancora capito.
Dentro di me si era rotto qualcosa. Forse è ancora guasto. Ma adesso so che posso conviverci. Prima non ci riuscivo.
Non vivo più in un mondo popolato di fantasmi, a parte quelli che un tempo hanno vissuto a Minster Hall, e loro non sono soltanto miei. E anche se a volte tendo l’orecchio per sentire, la voce è stranamente silenziosa. Se mai dovesse rifarsi udire, il dottor Gilbert, sempre previdente, mi ha insegnato a parlarci. Non averne paura, mi dice. Mi ha insegnato che sono io a controllare la voce e non il contrario. Non sempre è facile. A volte, quando sono sola al buio nel cuore della notte e percepisco il fogliame fitto e il raspare dei rami degli alberi di Rangoon, cedo. In quei momenti, il passato ha ancora effetto su di me, ma quando l’alba inizia ad avvolgere la mia camera da letto, rischiarandone a poco a poco ogni angolo, ritrovo la strada. Superare le difficoltà fa semplicemente parte della vita, dice il dottore. Nei primi cinque anni che ho vissuto qui, ci siamo visti due volte a settimana, e ci sono state tante, tante occasioni in cui mi sono detta sicura che fosse soltanto una perdita di tempo e denaro. Ora ci vediamo una sola volta al mese. Mi ha salvato la vita e non potrò mai ripagarlo per la sua gentilezza e la sua dedizione. Lui, insieme alla mia carissima Simone, è stato il mio miglior amico.
E adesso è rimasta soltanto una cosa da fare.
In tutti questi anni, ho nutrito un grande senso di colpa nei confronti di Annabelle e ho sentito la sua mancanza, ed è giunto il momento di fare qualcosa. Muoio dalla voglia di rivederla e vorrei tanto provare a trovare un modo per rimediare all’indifferenza che le ho dimostrato in passato, se Douglas me lo permetterà.
Così, con immensa trepidazione, la settimana prossima riprenderò la strada dalla quale sono venuta. Verso Cheltenham.
Mentre faceva avanti e indietro per la stanza, Belle iniziò a sentire caldo e cercò l’interruttore per mettere in funzione le pale. Lo trovò e lo accese, ma il ventilatore si limitava a spostare l’aria calda e non le era di alcun giovamento. Non vedeva l’ora che tornasse Oliver, nella speranza che il legame che li univa le togliesse le perplessità che Gloria era riuscita a instillarle nella mente. Per quanto la necessità di credere in Oliver avesse radici profonde, e malgrado avesse preso le sue difese, il minuscolo seme del dubbio aveva attecchito. E se invece ci fosse stata una minima possibilità che Gloria avesse ragione? Ma no, non poteva essere. Era semplicemente spaventata e preoccupata, e non sapeva più cosa pensare.
Alla fine, quando tornò a casa con una valigetta in mano, il suo sguardo le parve impenetrabile ed ebbe un tentennamento. “Amarti mi spaventa”, pensò, e chinò il capo affinché non notasse cosa le si sarebbe letto negli occhi.
«Qualcosa non va?», fu l’unica cosa che le chiese.
«È venuta Gloria».
«Ma io…».
Belle lo interruppe. «Ha detto che non dovrei fidarmi di te».
Un lampo di irritazione gli attraversò il volto. «Perché l’hai fatta entrare?».
Si fissarono a vicenda.
«Belle, non è di me che devi preoccuparti».
«Lo so. Ma di chi, allora?».
Lui fece spallucce. «Non lo so ancora, ma guarda, ho trovato qualcosa». Prese la valigetta e tirò fuori uno scampolo ingiallito di giornale che, a giudicare dall’angolo annerito, sembrava scampato al fuoco che aveva distrutto il resto.
«L’ho trovato per caso mentre cercavo riferimenti alla Valle Dorata. È un minuscolo frammento di un articolo più lungo, ma si riesce ancora a leggere la data. Otto anni fa, poche settimane prima che arrivassi in Birmania. A quanto pare, durante dei lavori di ristrutturazione in una casa nella Valle Dorata, venne rinvenuto lo scheletro di un neonato mentre gli operai scavavano in giardino per prepararsi a costruire una dépendance».
Belle si sentì sbiancare. «Era la casa dei miei genitori? È per questo che mia madre stava scavando?».
Cosa sapeva sua madre, pensò? E se non era stata Diana a seppellire la bambina, allora chi era stato? Immersa nei suoi pensieri, non sentì cosa le stava dicendo Oliver.
«Hai capito?».
Scosse la testa, avvilita.
«Ho detto che non dice di chi fosse, Belle. Ma dice che era il numero ventuno, quindi non era la casa dei tuoi genitori».
«Ma era talmente vicina. Questa dev’essere la prova che mia sorella è stata seppellita lì, no?».
Lui annuì. «Potrebbe essere. Come ti avevo anticipato, sono andato a controllare negli archivi di un altro giornale, ho un amico che lavora lì come redattore, e l’ho trovato infilato in mezzo ad altri due articoli sullo sviluppo edilizio nella Valle Dorata. Non c’è altro sullo scheletro. Immagino che abbiano insabbiato l’intera vicenda. Non ho trovato nient’altro».
«Pensi che mio padre ne fosse stato informato?»
«Non saprei. Il caso era stato chiuso tanti anni prima. Nessuno ha portato avanti delle indagini, anche se è evidente che il resto dell’articolo a cui apparteneva questo frammento è stato distrutto…». Fece una pausa. «Deve significare qualcosa. Comunque, farò il possibile per scoprire a chi apparteneva quel giardino».
«A quale scopo?»
«Se Elvira è stata sepolta lì, non vuoi sapere chi ne è stato responsabile?».
Arrivarono un’ora dopo all’ufficio del registro catastale, dove alla fine riuscirono a risalire alla famiglia che all’epoca abitava al numero ventuno. Quando saltò fuori che le persone in questione erano George de Clemente, commissario della divisione di Rangoon, con sua moglie Marie e una bambina piccola, Oliver lanciò un fischio.
«Edward ti ha mai fatto accenno alla casa al numero ventuno?».
Belle scosse la testa. «Ha detto che gli piacerebbe comprare casa mia».
Oliver inarcò le sopracciglia. «Interessante».
«Questo George dev’essere un parente di Edward e Gloria. È un cognome inconsueto».
«Controllerò chi ha ereditato la casa o chi l’ha acquistata».
Mentre lui continuò a leggere per qualche altro minuto, Belle non riusciva a capire perché nessuno le avesse detto che era stato ritrovato uno scheletro sepolto nel giardino della casa al numero ventuno. Gliel’avevano nascosto di proposito? O era l’oscuro segreto di qualche altra famiglia e non aveva niente a che vedere con Elvira? Una gravidanza indesiderata, magari?
«Eccoci qua. Pare che la casa sia stata ereditata dal nipote della coppia, Edward de Clemente, quindi eccoti la tua risposta».
«Gloria ha una casa nella Valle Dorata. Non ci sono mai stata, ma forse vive lì. E se è la stessa casa, perché non mi ha detto che ci hanno ritrovato uno scheletro?»
«È quello che penso anch’io. Strano, non trovi?».
Belle annuì. «Cosa pensi che abbia a che fare Edward con tutta questa storia?».
Lui fece una smorfia. «Non lo so. Forse niente. Comunque, è da un po’ di tempo che so che Edward non si limita a lavorare come consigliere del commissario».
«Cos’altro fa, allora?»
«Lavora per l’unità di intelligence di Rangoon».
Belle era orripilata. «Pensi che ci sia lui dietro alla bomba a Mandalay?»
«Meglio evitare di saltare a conclusioni affrettate. Abbiamo bisogno di prove inconfutabili per poterlo dimostrare».
«Dunque, cosa sappiamo su questo George de Clemente?».
Oliver aggrottò la fronte e valutò la domanda. «Be’, qui dice che avevano solamente una figlia femmina. Certo, è possibile che lui e sua moglie abbiano avuto un altro bambino. Forse dei gemelli, di cui uno è morto».
«Ma perché seppellirlo in giardino?»
«Magari era nato morto?»
«Questo non spiega un bel niente. Perché non seppellirlo al cimitero, in chiesa? Dev’essere Elvira».
«Potrebbero averlo fatto per altre ragioni. E se fosse stato il figlio di una domestica?».
Belle chinò il capo.
«Per prima cosa, arriviamo a stabilire cosa ne è stato di questo George. Scopriamo dove abita adesso».
Dall’ufficio del catasto, andarono agli archivi dei dipendenti pubblici per vedere se fosse possibile trovare qualche informazione tra i pochi documenti consultabili dal pubblico. Ammesso che molti atti sarebbero stati segretati, valeva la pena fare un tentativo. Mezz’ora dopo, la loro perseveranza venne premiata, perché lessero una nota a piè di pagina sotto un paragrafo dedicato a George de Clemente, nel quale veniva descritto con dovizia di particolari che lui e la sua famiglia si erano trasferiti a Kalaw nel 1911.
«L’anno in cui è scomparsa Elvira», disse Belle.
«Conosco un tizio che ha lavorato per anni a Kalaw, nella sanità pubblica. Forse saprà dirci qualcosa di più».
Il Dicastero delle poste e telegrafi era stato fondato nel 1884 e, visto che Oliver era un giornalista, il quotidiano per cui lavorava l’aveva aiutato a procurarsi quasi subito una linea telefonica. Mentre lui faceva alcune telefonate, Belle lo osservò, mordendosi l’interno della guancia e interrogandosi sulla famiglia de Clemente. Quale diamine poteva essere il collegamento tra loro e sua sorella? Si sentiva stremata per le tante domande che le vorticavano per la testa, ma era anche emozionata. Bramava con tutta sé stessa di sapere con esattezza cos’era successo tanti anni prima e perché tali informazioni fossero andate perdute o fossero state tenute nascoste.
Quando Oliver smise di fare telefonate, fu per dirle che la famiglia de Clemente aveva lasciato la Birmania per andare a vivere in America, ma che fino a quel momento aveva tenuto una bambinaia cinese, la quale, una volta partita la famiglia, era tornata a gestire un chioschetto dei giornali a Rangoon. «Non hanno mai vissuto a Kalaw».
«È strano».
«Già. Perché andare a Kalaw se avevano intenzione di lasciare il Paese?»
«A meno che non ci siano andati in vacanza. È un posto collinare, no? Un po’ come Maymyo».
Oliver annuì. «Penso che dovremo tornare al segretariato. Conosco l’impiegato dell’ufficio che rilascia le licenze di servizio. Se riuscissimo a trovare la bambinaia, potrebbe sapere qualcosa sul neonato sepolto nel giardino della casa al numero ventuno».
Belle rise. «Perché le bambinaie sanno sempre tutto».
«E se ha ottenuto una licenza per il suo chiosco, la troveremo».
«Loro sanno tutto e tu conosci tutti».
Oliver simulò un inchino. «Sto solo facendo il mio dovere, mia signora. I britannici tengono tutto segreto, quindi non mi resta altra alternativa che scovare le informazioni di cui ho bisogno in qualunque altro modo possibile».
Belle gli rivolse un sorriso riconoscente. «Be’, ne sono veramente lieta».
«Sembri molto british…», disse lui, ricambiando il sorriso. «Ma non farti troppe illusioni. La bambinaia potrebbe essersi trasferita altrove, o magari potrebbe persino essere tornata a vivere in Cina».
Quando si ritrovarono nei pressi del segretariato, Oliver le indicò un chiosco del tè con tavoli e sedie all’aperto, all’ombra di un grande tendone.
«Meglio se aspetti lì».
Lei scosse la testa con decisione. «Vengo con te».
«Tesoro, conosco quel tizio. È un tipo all’antica. Non parlerà con una donna. Se vieni anche tu, desterai soltanto sospetti. Se vado da solo, penserà che sto facendo ricerche legate a una notizia per il mio giornale».
«A proposito del tuo giornale, non dovresti essere al lavoro?»
«Sono in aspettativa. Senti, non ci metterò molto, ma stai attenta. Chiunque abbia ordito l’attacco a Mandalay potrebbe tranquillamente averti seguita».
«Oddio».
«Forse non è una cosa negativa. Potrebbe aiutarci a farlo o farla uscire allo scoperto. Siamo in un luogo pubblico e c’è troppa gente perché ti possa capitare qualcosa di male. Se senti anche solo vagamente puzza di guai, entra in quella caffetteria e chiedi aiuto al proprietario. È un amico».
Oliver se ne andò, e Belle attraversò la strada per raggiungere uno dei tavoli, dove prese posto accanto a un gruppetto di signore e poi ordinò un tè. Era una giornata torrida che prometteva temporali e si sentiva infiacchire da quell’umidità estrema. In lontananza, il brusio che si levava dalle strade affollate di Rangoon andava avanti incessantemente. Con i nervi a fior di pelle, rimase seduta a scrutare le persone che si aggiravano davanti all’imponente segretariato. Alcune, che non erano britanniche, aspettavano stizzite che le facessero entrare, mentre uomini altezzosi che procedevano a passo svelto andavano e venivano a loro piacimento. Pregava che Oliver non ci mettesse molto. Ma quanto era stato scrupoloso, non lasciando niente di intentato e dimostrando di essere un vero giornalista d’inchiesta.
Più Belle si avvicinava a conoscere il suo passato, più le sembrava reale. Quanto doveva essere stato devastante per sua madre fronteggiare le accuse mentre stava cercando di fare i conti con un dolore straziante. L’aveva giudicata per così tanto tempo. Si disse che all’epoca era soltanto una bambina e non avrebbe potuto fare altrimenti. Ma non le era di alcun aiuto. “Mi dispiace, mamma, mi dispiace tanto”, sussurrò tra sé e sé. Ma era troppo tardi.
Una voce si insinuò nei suoi pensieri, e strizzando gli occhi a causa del riverbero del sole, alzò lo sguardo e vide che Edward si stava avvicinando al suo tavolo. Si sentì attraversare da un brivido di paura e si sforzò di mantenere la calma. Lui sembrava a disagio, la pelle più arrossata del consueto, come se fosse troppo accaldato.
«Belle». Il suo fu un saluto conciso.
Lei provò a deglutire, ma le si era chiusa la gola, così fece scattare il polso per indicargli una sedia libera.
Non si accomodò e, accigliandosi, parve osservarla con attenzione. «Ho sentito dire che stai facendo un sacco di domande. Devi stare più attenta alle persone a cui ti rivolgi e a quelle che parlano in tua vece. Se volevi sapere qualcosa, bastava che tu me lo chiedessi».
«Io…».
«Lascia perdere il tuo tè, mia cara, vorrei che tu venissi con me».
Le si era rivolto con una certa concitazione e un tono che non ammetteva repliche, ma Belle scrollò il capo e, conficcandosi l’unghia del pollice nel palmo della mano, ritrovò la voce. «Scusami, Edward, sono davvero felicissima di rivederti, ma sto aspettando Oliver».
«Pensavo che fossimo amici, io e te». Inclinò la testa e stavolta le sorrise, ma c’erano ben poco calore e sincerità in quel sorriso, e Belle notò le ombre scure che aveva sotto gli occhi.
«Sembri stanco», disse.
«È sempre così in questo periodo dell’anno».
Anche se Belle aveva capito cosa intendesse, quella faccia torva diceva qualcosa di completamente diverso. Si asciugò la fronte con il palmo della mano e pregò che Oliver tornasse in fretta. «Fa veramente caldo, eh? Ma come ti dicevo…».
«La mia è una semplice richiesta, Belle. Non mi sognerei mai di costringerti, ma dico sul serio, ho bisogno che tu venga con me. Per il tuo bene, capisci». Il tono era cambiato di nuovo, era diventato più carezzevole.
«Ma, Edward, il punto è che non capisco», disse lei, cercando di parlare in modo quanto più spensierato e cordiale possibile, malgrado un persistente senso di paura. «Di cosa si tratta?»
«Ho una macchina che ci sta aspettando», continuò lui, senza rispondere alla sua domanda. «Non posso spiegartelo adesso. È una questione di poco conto e non ci vorrà molto. Avremo finito in men che non si dica. Vorremmo soltanto farti un paio di domande. Non ti succederà niente di male e ti riporterò qui in un batter d’occhio».
«Vorremmo chi?»
«I miei colleghi, chi altri?».
Belle prese fiato, poi espirò lentamente. Il caldo era aumentato a dismisura e adesso era diventato insopportabile.
Mentre Edward tirava fuori un fazzoletto e si asciugava la fronte, Belle lanciò un’occhiata alla sua sinistra e intravide Oliver in lontananza, diretto verso di loro. Sperava che Edward non avesse sentito il sospiro di sollievo che aveva tirato, vedendo il suo amato, e che l’avrebbe tradita. Rimase seduta e guadagnò tempo dicendogli che non vedeva l’ora di assistere all’arrivo dei monsoni. Dentro, stava tremando. Non sarebbe mai andata con Edward, neanche per idea.
«Come sta Gloria?», chiese alla fine.
«Gloria sta bene, molto bene. Grazie per averlo chiesto. Ad ogni modo, vogliamo andare? Ti riporterò indietro in un battibaleno, fai la brava».
La stava trattando con condiscendenza, pensò, ma era indubbiamente agitato.
Oliver li aveva quasi raggiunti, ma Edward doveva aver sentito il rumore dei suoi passi, perché si voltò a vedere chi stesse arrivando.
Belle incrociò lo sguardo di Oliver, poi si alzò in piedi e afferrò la borsa per dare l’impressione di voler seguire Edward, anche se le tremavano le gambe. Appoggiò una mano sul tavolo per ritrovare l’equilibrio e sperò di riuscire a mandare in porto quella messinscena. «Edward vuole che vada con lui. Dice che non ci vorrà molto. Così, faccio giusto…».
«È stato mandato dalla polizia?», domandò Oliver all’altro uomo, interrompendola. «Volete metterla in stato d’arresto?»
«Certo che no. Perché dovremmo? Sto solo cercando di tenerla d’occhio».
«In tal caso, a meno che non vogliate arrestarla, lei rimane con me. Ci penso io a tenerla d’occhio. Giusto, Belle?».
Lei annuì.
Edward si voltò verso di lei e le rivolse uno sguardo duro e dispiaciuto. «Non posso dirti come scegliere le tue amicizie, ma posso dirti che stai commettendo un gravissimo errore. Vorrei solo che mi avessi prestato ascolto».
Diana, Cheltenham, 1928
Cheltenham non è cambiata. Ci sono ancora gli stessi edifici eleganti in stile Reggenza che ho sempre amato, gli stessi vialoni alberati, gli stessi parchi sconfinati. Sono io a essere cambiata e, quando Simone ferma la macchina nei pressi della mia vecchia casa, mi volto a guardarla.
«Grazie. Ora me la cavo da sola».
Si allunga verso di me e mi stringe la mano. «Faccio una passeggiata al parco per una mezz’ora, poi ti aspetto in auto».
Scendo, chiudo la portiera e mi incammino pian piano verso la casa con una tale fiducia in me stessa che mai avrei immaginato di poter ritrovare. Per qualche istante non faccio niente, mi limito ad assimilare il fatto di essere qui. Poi, di punto in bianco, penso alla sera in cui io e Douglas ci siamo conosciuti. Io avevo diciotto anni. Era una sera di mezz’estate, una di quelle serate miti e perfette. Di quelle che ti fanno struggere con il profumo del caprifoglio e delle rose in piena fioritura e che ti fanno desiderare che la notte non finisca mai. Mio padre aveva dato una festa con amici e vicini, com’era solito fare ogni anno quando mia madre era viva.
Avevo intravisto Douglas ancor prima che lui si accorgesse di me e, per qualche inspiegabile motivo, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Era alto e aveva un’aria da accademico, e di certo non era il tipo da fare battere forte il cuore di una giovane fanciulla. Poi, quando mi sedetti su una panchina in fondo al giardino, lontana dalla calca, lui venne da me e chiese se poteva farmi compagnia. Il suo sorriso era sincero e nella sua voce c’era una particolare espressività quando si presentò e mi domandò come mi chiamavo. Il cuore cominciò davvero a battermi forte, ma riuscii a rispondere e a ricambiare il sorriso. Quando il resto della festa si dissolse sullo sfondo e restammo soltanto noi due, ci trattenemmo a lungo seduti a parlare e a scherzare, e alla fine mi chiese se mi poteva chiamare il giorno successivo. Andai a dormire stringendomi in un abbraccio e sapendo che sarebbe successo qualcosa di speciale. Qualunque cosa avessimo provato entrambi con la medesima intensità quella prima sera, si tramutò ben presto in amore, e io capii che volevo passare il resto della mia vita con quell’uomo dagli occhi ballerini, dietro gli occhiali dall’aria seriosa, che parlavano di una passione segreta.
Il suono delle risate nel parco mi riporta al presente. Busso e attendo. Dopo un lasso di tempo che a me sembra interminabile, sento dei passi e la signora Wilkes apre la porta. Con le sopracciglia inarcate, mormora parole di benvenuto ben poco convinte e mi invita a entrare. Poi mi indica di aspettare in salotto. Mi sento più ansiosa ora che sono dentro casa, ma non posso permettermi di cedere al nervosismo, perciò, invece di sedermi, scivolo davanti alla finestra. Avevo dimenticato quanto fosse diversa la vista da quaggiù. Non riesco a vedere granché rispetto al panorama che ero abituata a contemplare dal piano di sopra, e da quella che un tempo era la mia finestra sul mondo.
Quando entra Douglas, noto che non sta sorridendo, e sembra invecchiato molto.
«Non vuoi sederti, Diana? Tra un attimo la signora Wilkes ci porterà il tè. Dunque…». E adesso mi rivolge un rapido sorriso. «Come stai?».
Sorrido anch’io. «Come ti dicevo nella mia lettera, ho fatto enormi progressi, mi sono ripresa e ho tanta voglia di vedere Annabelle. Il dottor Gilbert è un genio».
Lui annuisce. «Sono estremamente lieto di sentirtelo dire».
«Come sta nostra figlia?», domando con brio.
«Sta bene, ma è piuttosto rischioso, Diana. Ricordi il nostro accordo?». Si è espresso con una flemma oltremodo evidente, e mi chiedo cosa significhi.
«Ma certo, che dovevo restarle lontana», rispondo con la stessa vivacità.
«Esatto».
Sfodero un gran sorriso e continuo ad adottare un tono quasi scanzonato. «Ma ora sto meglio e questo cambia tutto».
Lui socchiude gli occhi e mi sembra a disagio. «No, Diana. Mi dispiace, ma questo non cambia niente».
Sbatto rapidamente le palpebre e cerco di ignorare il primo accenno al fatto che non andrà a finire bene. Non può dire sul serio, giusto? Aspetto, ma non aggiunge altro, così mi sporgo in avanti, come a incoraggiarlo. Alla fine, sono io a parlare.
«Non dire sciocchezze, Douglas. Sono una persona diversa adesso, e naturalmente ho tutto il diritto di vedere la mia bambina». Mi guardo attorno, emozionata. «È qui? Nella lettera te l’avevo detto che avrei voluto vederla».
«Durante la settimana frequenta il college femminile qui a Cheltenham, quindi no, non è qui».
«Ma, Douglas…».
Solleva una mano, e intuisco che sta cercando di nascondere una certa esitazione. «Davvero, è quasi impossibile che tu possa rivedere Annabelle».
La sensazione è quella di aver ricevuto un pugno nello stomaco. «Perché?».
Piega la testa come se mi stesse scrutando, poi riprende a parlare con cautela, scandendo ogni parola. «Lasciami finire. Se ben ricordi, avevamo concordato che una volta passato un certo lasso di tempo le avrei detto che eri morta».
«Non parlarmi così, come se fossi una stupida».
«Diana, pensa che tu sia morta. Gliel’ho detto quattro anni fa. Si è abituata all’idea. L’ha superata». Ora è deciso, risoluto, inflessibile, più simile al Douglas degli ultimi tempi del nostro matrimonio.
Mi palpita il cuore, inorridito e allarmato. Buon Dio, non può parlare sul serio. Non può. Vacillo di fronte alle mostruosità che mi sta dicendo, ma non gli consento di intimidirmi. «Per l’amor del cielo, ero malata quando lo decidemmo».
«Mi spiace, mia cara, ma adesso sta crescendo sana e forte, e temo che se tu tornassi, improvvisamente viva e vegeta, rovineremmo tutto l’ottimo lavoro che abbiamo fatto per lei. La scombussolerebbe troppo dopo tutto questo tempo». La sua voce è dura, non ammette repliche. Ma io voglio ribattere. Eccome. E stringo i pugni.
«Ma Douglas, questa è una pazzia! Sono sua madre. Possiamo farci venire in mente qualcosa da dirle. Che ti sei sbagliato riguardo la mia morte. Che hai ricevuto informazioni errate, o qualcosa del genere. Dev’esserci un modo».
Scuote la testa e parla a bassa voce, come se volesse attenuare la mia rabbia. «Devo davvero insistere perché ci atteniamo ai termini del nostro accordo».
Quando la signora Wilkes ci porta il vassoio con il tè, le sue parole centrano il bersaglio. Sento che sto cominciando a chiudermi in me stessa, così, per evitarlo, mi alzo, raddrizzo la schiena e mi allontano di qualche passo per andare di nuovo a guardare fuori dalla finestra e tenere a bada il respiro. Dopo un momento, mi guardo indietro e vedo che la signora Wilkes versa a entrambi una tazza di tè e poi lascia la stanza.
«Biscotti?», chiede lui mentre solleva il piattino. «Torna a sederti. Questa è la migliore ricetta della signora Wilkes».
«Non me ne frega un accidenti di niente dei suoi stramaledetti biscotti!», esclamo, furiosa, e resto dove sono. «Voglio vedere Annabelle».
Rimette giù il piatto, si alza e mi viene incontro, ma io gli volto le spalle. «Devi capire che adesso Annabelle ha quindici anni e ha trovato la sua dimensione. Non posso stravolgerle la vita. Questo riuscirai sicuramente a capirlo, no?».
Mi giro di scatto. «No, non capisco. Non puoi impedirle di vedere sua madre. Io non mi muovo da qui e, se mi costringi ad andare via, ti trascinerò in tribunale».
«Non stai ragionando con lucidità».
Non posso fare a meno di sbuffare. «Che è esattamente quello che dicevi anche un tempo quando eravamo in disaccordo su qualcosa. Su qualsiasi cosa. Tu non sei cambiato, ma io sì. E per la prima volta dopo anni e anni riesco a ragionare con lucidità. Sei tu quello che non ragiona».
Scuote la testa, e capisco che sta diventando sempre più irremovibile. Quanto è testardo. L’avevo quasi dimenticato.
«Sei stata via per sei anni. Perderesti in tribunale e, in ogni caso, pensa alle ripercussioni che avrebbe su Annabelle».
Lo guardo in cagnesco e alzo la voce, anche se so per esperienza che urlando peggiorerò soltanto le cose. «Non lascerò che tu mi metta i piedi in testa. Se non vuoi permettermi di vederla, le scriverò a scuola! Questo non puoi impedirmelo».
Quasi si mette a ridere. «Seriamente, Diana, pensa a come si sentirebbe. E potrei tranquillamente chiedere alla scuola di intercettare le tue lettere, se pensassi che è nel suo interesse. Perché lo è. Devi ammettere che è così».
«No, non posso ammetterlo. È mia figlia, Douglas. Ne ho già persa una».
«Entrambi abbiamo perso Elvira», mormora a voce ancora più bassa, ma non reagirò.
«Come hai potuto chiedermi di accettare di non vedere mai più la mia bambina quando stavo così male? È stato di un’insensibilità assoluta».
Ora inizia a parlare più in fretta, con tono più concitato, si sta arrabbiando e odia perdere le staffe. «Stammi a sentire. Non c’era l’intenzione di essere crudeli. Credevo fosse la soluzione migliore e lo penso ancora. Non riesci a immaginare l’angoscia se dicessimo ad Annabelle che la madre defunta all’improvviso non è più così morta? Le ci è voluto tantissimo tempo per trovare la stabilità a cui è arrivata adesso».
Sento bruciare gli occhi, ma poi raddrizzo la schiena. Non piangerò davanti a lui, assolutamente no. «E questa è la tua ultima parola?».
Annuisce. «Sono contentissimo che tu sia migliorata così tanto, credimi, ma temo che debba andare così, almeno fintantoché è ancora una ragazzina. Mi dispiace, Diana».
Avverto la sua tensione mentre tira dritto per la sua strada, come ha sempre fatto, ma le parole che vorrei dire mi muoiono in bocca. Rifletto a lungo e attentamente prima di parlare, ricordando cos’avevo provato negli ultimi anni trascorsi in questa casa. Ripensando a come mi ero sentita in trappola, a impazzire tutta sola nella mia stanza. A quanto era stato traumatico per nostra figlia. All’orribile caos in cui ci trovavamo tutti. Alla fine, arrivo alla conclusione che Douglas potrebbe avere ragione. Fa così male. Sento un macigno piantato nel petto, che si rigira, si capovolge e mi strappa il respiro. Mi mordo l’interno della guancia nell’improbabile speranza che quel piccolo fastidio possa sottrarmi all’angoscia schiacciante che sono certa arriverà a momenti. Non so come potrò mai sopportarlo, ma non posso causare altra sofferenza a mia figlia. Ne ha già passate abbastanza, vale per tutti noi, e per quanto sia un pensiero atroce, davvero atroce, forse devo davvero rinunciare al mio ruolo di madre.
«Diana?», dice Douglas.
«Be’, non sono più la donna di un tempo», è ciò con cui riesco a uscirmene alla fine. Non riesce neanche lontanamente a esprimere tutti i pensieri che mi sono venuti in mente, ma è vero. Vorrei dire che cambiamo tutti, dico bene, che diventiamo diversi da ciò che eravamo, forse persino di giorno in giorno. Io sono diversa e ne sono felice, ma Douglas non riesce a vederlo. Lui vuole che tutto resti invariato.
Invece di dirlo, annuisco, sul punto di scoppiare in lacrime. «Accetterò la tua decisione… almeno per il momento. Ma c’è una cosa che devo ancora chiederti».
Mi posa una mano sul braccio e il contatto fisico scatena una tempesta di ricordi.
«Douglas, perché hai avuto un’altra donna mentre ero incinta di Elvira? Non l’ho mai capito. Ci amavamo, sbaglio?».
Sembra imbarazzato, come se l’avessi preso alla sprovvista, impallidisce e le sue labbra si tendono per lo sbigottimento. Trema mentre risponde. «Tu… tu stavi aspettando la nostra bambina. Io non volevo… be’, lo sai».
«Non volevi toccarmi? È questo che stai cercando di dire?»
«Non volevo farti del male… a te o alla bambina».
«Eppure l’hai fatto, e in modo peggiore. Avresti dovuto parlare con me di come ti sentivi. Non mi hai mai detto cosa stavi provando».
«Non sapevo come fare», sussurra.
Ma io non ho ancora finito. «Ho sempre creduto che fosse colpa mia. Che avessi fatto qualcosa di sbagliato. È un peso che ho portato per anni».
Non risponde, ma curva le spalle e non incrocia il mio sguardo.
«Ma non era colpa mia, vero?».
Scuote la testa, poi mi guarda con una tale angoscia negli occhi. «Mi dispiace. Non sarebbe dovuto accadere. Dico sul serio. Ero così arrogante da credere che se… se avessi dato sfogo ai miei bisogni altrove, per te sarebbe stato meglio».
«E così facendo mi hai spezzato il cuore. Perché pensi che fossi tanto demoralizzata?».
Una breve pausa mentre lo vedo in difficoltà.
«E continui a dare la colpa a me se mi sono ammalata?», domando, improvvisamente intontita dal dolore.
Quando mi risponde, parla a bassa voce. «Nessuna colpa, Diana, non per quello. Compassione. Ecco cosa provavo… cosa provo tuttora».
«Compassione?»
«E un costante senso di smarrimento».
Ci rifletto un istante. «Siamo entrambi perduti, vero?».
Annuisce lentamente e, mentre nei suoi occhi vedo il peso immenso della tristezza, parte della mia rabbia si dissolve.
«Mi ritieni ancora responsabile per Elvira? Credi ancora che abbia qualcosa a che fare con quanto accaduto?»
Scuote la testa. «No, questo non l’ho mai pensato».
«Non ricordi niente di com’eravamo un tempo?», chiedo. «Ti ricordi di noi?».
Il suo sguardo si addolcisce ancora di più e intravedo qualcosa dell’uomo che ho amato, ma so che non cambierà idea in merito ad Annabelle.
«Certo, non devi neanche domandarlo», risponde. «Ma adesso sono certo che darai la precedenza alle necessità di nostra figlia, come devo fare anch’io».
Mi sfiora la guancia in modo così delicato, e vedo che ha gli occhi lucidi. Decido che devo attendere il momento opportuno. Forse un giorno, quando sarà più grande, rivedrò la mia bambina.
«Hai una sua fotografia recente?».
Si incammina verso lo scrittoio e tira fuori un raccoglitore, poi ne estrae una singola fotografia e me la porge. Ora fatico davvero a trattenere le lacrime perché mi struggo per mia figlia. È diventata tale e quale a me alla sua età. Traccio il contorno del suo viso con i polpastrelli. «Ti prego, posso tenerla?».
Lui tentenna per un secondo, dopodiché acconsente.
Mi volto per andarmene, ma poi mi trattengo e sollevo una mano. «Arrivederci, Douglas», saluto, e non so perché, ma il cocente rammarico che trapela dai suoi occhi mi dice che non rivedrò mai più mio marito.
Belle lanciò un’occhiata a Oliver. «Hai trovato l’indirizzo della bambinaia?».
Le sorrise compiaciuto. «Tu che dici?».
Lei rise. «Sì?»
«Andiamo». Le tese una mano. «Meglio tornare all’appartamento. Sembra che voglia mettersi a piovere».
«Non dovremmo andare a cercarla subito?»
«Si sta facendo buio. Siamo entrambi stanchi e il suo chiosco è a Chinatown, che non è il posto ideale da frequentare di notte. Ci andremo domattina come prima cosa. A dire il vero, ho bisogno di fare una doccia, e sono sicuro che anche tu debba lavarti».
Belle si sentiva sudata sotto l’abito e, sì, avrebbe ucciso per una doccia, ma… «Non dovremmo darci una mossa?», chiese. «Se sa qualcosa, potrebbero arrivare a lei prima di noi».
«Vero. Prima mangiamo un boccone?».
Concordò e, dopo un viaggio in risciò fino a Chinatown, entrarono in un ristorantino con le luci soffuse e pieno zeppo di cinesi.
«È sempre un buon segno quando un locale è strapieno di gente del posto», commentò lui mentre si accomodavano all’ultimo tavolo disponibile.
«Spero che il servizio non sia troppo lento».
«Rilassati. C’è tempo, e l’ufficio per il rilascio delle licenze è già chiuso, quindi nessuno scoprirà che sappiamo dove si trova».
«Edward mi ha detto che sapeva che stavo facendo domande».
«È possibile che gliel’abbiano detto quelli dell’ufficio del catasto».
«Perché mai?»
«Un uomo come Edward ha informatori ovunque. Ma ricorda, al di là del nesso familiare, non abbiamo altri motivi per collegarlo alla bomba o alla scomparsa di Elvira».
Belle rifletté per un istante. «A eccezione di quanto ci ha detto Harry a proposito dell’unità di intelligence di Rangoon».
«Vero. Ma ci sono un sacco di altre persone che potrebbero esserne responsabili, non solo Edward».
«Perché lo stai difendendo?»
«No. Sto solo dicendo che ancora non lo sappiamo».
Tacquero e si misero in ascolto delle voci cinesi e del clangore e dell’acciottolio che provenivano dalla cucina. D’un tratto, più affamata di prima, a Belle venne l’acquolina in bocca sentendo il profumino aromatico delle spezie cinesi. Si stava guardando attorno, scrutando gli altri clienti, quando uno scroscio di pioggia improvviso, seguito da un tuono, attirò l’attenzione dei presenti. Tutte le teste si voltarono d’istinto in direzione della finestra, dove le luci del ristorante avevano tinto di rosso e oro la fitta cortina di pioggia.
«I monsoni», disse Oliver, e Belle riuscì a carpire il sollievo nella sua voce. «Le prime piogge della stagione. Meraviglioso».
Anche lei condivideva quel senso di meraviglia. L’umidità crescente era diventata insopportabile e, anche se la pioggia rendeva più difficili alcune cose, avevano bisogno di un attimo di tregua dal caldo.
Quando ebbero finito di cenare, Oliver prese un ombrello in prestito dal proprietario, promettendo che gliel’avrebbe riportato il giorno seguente.
Fuori, il mondo si era dissolto sotto il diluvio, con la pioggia che rilasciava nell’aria migliaia di odori e olezzi, alcuni gradevoli, come i profumi dei fiori che scendevano a cascata dai vasi alle finestre, altri meno allettanti. Forse olio rancido e qualcosa di acidulo che stava risalendo dalle fogne traboccanti. Il torrente di pioggia cancellava tutto ciò che altrimenti sarebbero riusciti a vedere e, nonostante l’ombrello, si ritrovarono bagnati fradici nel giro di pochi minuti. Oliver aveva un’idea abbastanza precisa di dove stavano andando e continuava a controllare gli androni e a sbirciare nei vicoli per capire la loro posizione esatta. Scorsero il bagliore dei fanali di un’auto che risaliva la strada a passo d’uomo, e Oliver la trascinò in un androne buio finché non li ebbe superati. Poco dopo, raggiunsero un’area dove le luci dei negozi erano ancora accese, come fari che brillavano fiocamente dietro un muro di pioggia scintillante.
«Chiediamo», disse alla fine, quando si fermarono davanti a un chiosco dei giornali. «Penso sia questo. Sono abbastanza sicuro di esserci già stato, anche se non è gestito da una donna. Conosco il proprietario».
Si aggrappò al braccio di Belle, poi aprì la porta. Entrarono insieme, scrollandosi l’umidità dai capelli.
Oliver spiegò chi stavano cercando, e l’uomo lo fissò con freddezza. «Come ho già detto all’altro tizio, se n’è andata. Non so dove».
«Suvvia, mi conosci. Non lavoriamo per il governo e credo che l’anziana signora possa essere in pericolo. Noi possiamo darle una mano».
L’edicolante sembrava confuso.
«Dimmi almeno che aspetto aveva l’altro tizio».
«Era alto. Un eurasiatico».
Belle e Oliver si scambiarono un’occhiata.
«Ma era in compagnia di un altro uomo. Più anziano, britannico. Non troppo alto. Magro, capelli grigi a quest’altezza». Si indicò le tempie. «Era il capo, comandava lui».
«Potrebbe essere Edward?», sussurrò Belle, ma poi pensò a quanti altri britannici potevano tranquillamente corrispondere a una simile descrizione.
«Senti», stava dicendo Oliver, «siamo venuti qui per aiutare la signora. Non vogliamo causare problemi».
L’uomo scosse la testa, ma sembrava sempre più preoccupato, e Belle si chiese come procedere. «Sicuro di non sapere dove sia finita?», fu la domanda con cui se ne uscì.
«Mi ha ceduto l’attività. Non c’è niente di illegale».
Belle sorrise e gli si rivolse con gentilezza. «Questo non ci interessa».
Socchiuse gli occhi. «E allora cosa volete?»
«Parlare. Siete parenti?».
L’edicolante aprì la bocca, ma, proprio quando Belle cominciava ad avere la sensazione che stessero arrivando a qualcosa, lui chiese a entrambi di andarsene. Si sentì profondamente sconfortata. Non c’era nessun altro a cui chiedere e adesso, a quanto pareva, non avrebbero mai scoperto chi aveva sepolto il neonato, o perché lo avevano seppellito al numero ventuno, e neanche l’identità del bambino. Non voleva ammetterlo, ma in fondo in fondo aveva la certezza che fosse sua sorella.
Proprio in quell’istante, però, un’anziana emerse dal retro del chiosco. L’uomo le fece subito cenno di tornare dentro, ma Oliver l’aveva preceduto.
«Liu Lin?», stava domandando, e la donna annuì senza riflettere. «Facevi la bambinaia?».
Annuì di nuovo, guardinga. «Tanto tempo fa».
L’edicolante le si rivolse in un dialetto cinese, ma lei agitò una mano per accantonare qualunque cosa le avesse detto.
«Parlerò con voi. Di sopra».
Seguirono l’anziana su una scala stretta e angusta. Arrivati in cima, la donna scostò una tendina e spinse una sezione del pannello di legno nascosto dietro. Varcarono quella che era indubbiamente una porta segreta ed entrarono in quella che doveva essere la casa a fianco.
«Casa di mia sorella», disse a mo’ di spiegazione. «Morta. Ora è mia e mio fratello ha il negozio. Mi sto nascondendo qua dentro».
Indicò a entrambi di sedersi sui cuscini sparpagliati sul pavimento.
«Di che cosa volevate parlare?», chiese non appena si furono accomodati.
Fu Belle a prendere la parola. «Volevamo sapere se la bambina che è stata sepolta nel giardino della casa di George de Clemente, presso cui lavoravi, è mia sorella».
Liu Lin la fissò con attenzione per un lungo istante.
«Ti prego, se sai qualcosa, diccelo», la implorò Belle.
«Chi era tua sorella?»
«I miei genitori, Diana e Douglas Hatton, vivevano due case più avanti, nella Valle Dorata. La loro bambina, mia sorella, una neonata di nome Elvira, scomparve dal giardino di casa nel 1911».
L’anziana signora scosse la testa. «Non era lei».
«Allora chi era?»
«Mi diedero dei soldi per comprare il mio silenzio».
«Chi? Ti prego, diccelo».
«Il corpicino sepolto nel giardino della casa della famiglia de Clemente apparteneva alla figlia della mia padrona. Nata morta».
Belle aggrottò la fronte. «Ma perché doveva essere un segreto?».
Liu Lin si morse il labbro e impallidì.
«Qualcuno doveva aver saputo che la bambina non era sopravvissuta».
«Solo io. Io sì. La bambina era un pochino prematura e assistetti la signora durante il parto. Il signor de Clemente era ancora in viaggio, di ritorno dagli Stati degli Shan, e arrivò tre giorni dopo».
«E poi?»
«La signora de Clemente era impazzita, mi assicurò che se l’avessi detto a qualcuno mi avrebbe licenziata. Rifiutava di accettare la morte della bambina, non voleva che mi avvicinassi, non mi lasciava organizzare un funerale, non permetteva a nessuno di entrare nella sua stanza. Tranne che a me. Nessuno in casa sapeva che la bambina era morta. Dissi agli altri che andava tutto bene e che la signora de Clemente aveva bisogno di un po’ di tranquillità. Il giorno dopo, quando sentì la bambina degli Hatton che piangeva e piangeva…».
La donna si interruppe, ma Belle, affascinata dalla storia e con un groppo in gola, sapeva come sarebbe andata a finire.
«Si introdusse nel giardino del numero ventitré, da un sentiero che passava dietro tutte le proprietà, prese la bambina e la portò a casa. Quella notte, mi disse di seppellire sua figlia nella parte più incolta del nostro giardino, dove non andava mai nessuno».
«Oh, buon Dio!», esclamò Belle quando la verità cominciava a fare presa.
«Scavai una buca e coprii la terra smossa con rami e foglie. Dovetti aspettare che tutta la servitù fosse tornata a casa o fosse andata a dormire».
«E nessuno collegò mai le due cose quando scomparve Elvira?», domandò Oliver.
«No, perché nessuno tranne me sapeva che la bambina della signora de Clemente era nata morta».
«Nemmeno un dottore?»
«Mi impedì di chiamare il medico».
«E suo marito? A lui disse la verità?»
«No».
«Non ne sapeva nulla?»
«Quando la polizia cominciò a cercare la bambina scomparsa, mi spaventai e gli raccontai cos’era successo. Pensavo che avrebbe convinto sua moglie a restituire la bambina, ma disse di no. Piuttosto avrebbero lasciato Rangoon. Lo scandalo, se la gente avesse scoperto che sua moglie aveva rapito una neonata, l’avrebbe mandato in rovina».
«E così andarono a Kalaw?»
«Io andai con loro. Dissero a tutti che stavamo andando in vacanza, ma dopo una settimana tornammo a Rangoon nel cuore della notte. Mi diedero un sacco di soldi affinché non parlassi mai dell’accaduto, dopodiché lasciarono il Paese in macchina, in gran segreto. Credo che fossero diretti in Thailandia. Di sicuro non si sono più fatti rivedere in Birmania. Mi dissero che sarei morta se avessi parlato, così comprai il negozio e queste due case, una per mia sorella e una per me e mio fratello».
Oliver sembrava incredulo. «E non hai pensato a come dovevano sentirsi gli Hatton? Non ti è mai venuto in mente di andare alla polizia?»
«Provai a far capire alla signora de Clemente che era sbagliato, ma lei mi inveiva contro, e con il signor de Clemente era anche peggio. Minacciava la mia famiglia. Ero spaventata».
«Ma avranno dovuto farsi aiutare da qualcuno per scappare, no?»
«Tornammo a Rangoon da Kalaw con una macchina, poi incontrammo il nipote del signor de Clemente all’hotel Strand».
«Edward de Clemente», disse Belle con un filo di voce, nauseata.
«Sì, il signor Edward. Veniva spesso a trovarli a casa per cena. Suo zio lo aiutò a fare carriera».
«C’è da scommetterci», commentò Oliver con tono deliberatamente brusco.
«Suo nipote aveva un’altra macchina che li stava aspettando».
«E così la mia sorellina è andata con loro e la mia povera mamma è stata accusata di aver fatto del male a sua figlia».
«Mi dispiace».
«Perché rivelarci tutto proprio adesso?»
«Sono malata. È stata una cosa terribile. Non voglio andare nella tomba portandomi questo peso sulla coscienza».
«Edward de Clemente ti ha mai minacciata?».
Annuì. «Ha minacciato mio fratello».
«Di recente?»
«Qualche mese fa. Io ero quassù, ma ho sentito che mio fratello gli diceva che ero andata in Cina. Edward de Clemente gli ha detto che se fosse venuto qualcuno a fare domande, doveva farglielo sapere o sarebbe finito nei guai».
«Perché non te ne sei andata, allora?»
«Ho intenzione di farlo».
«E tuo fratello, verrebbe con te?»
«Sì, ma prima devo vendere le case. Senza soldi, dove potremmo andare? So che restando potremmo finire entrambi ammazzati, ma non ho ancora trovato un acquirente e, come vi ho già detto, sono malata».
Oliver le appoggiò una mano sulla spalla e le parlò con gentilezza. «Sei disposta a raccontare tutto alla polizia?».
La donna chiuse gli occhi e non rispose per alcuni momenti, ma alla fine acconsentì.
Oliver le rivolse un sorriso incoraggiante. «Sarebbe meglio che tu e tuo fratello veniste con noi e vi fermaste in un posto sicuro, almeno finché non avrai rilasciato questa testimonianza alla polizia».
Lei annuì.
Lì per lì, per Belle fu un grandissimo shock, ma poi, a poco a poco, malgrado avesse sentito com’erano andate veramente le cose, un’emozione che somigliava alla speranza cominciò a crescere e a prendere il sopravvento su tutte le altre. Se i de Clemente erano andati in America, e se a Elvira non era accaduto niente di terribile negli anni successivi, forse aveva ancora una vera sorella ed era viva. Era più di quanto avesse osato immaginare e il cuore le si riempì di nuove prospettive e speranze.
Prima di parlare, osservò attentamente l’anziana. «Sai se la bambina è sopravvissuta?».
Liu Lin e suo fratello vennero portati al sicuro e rilasciarono le loro deposizioni alla polizia. La mattina successiva, di buon’ora, Belle, rimasta da sola nell’appartamento di Oliver, mentre lui era uscito a comprare qualcosa da mangiare, stava rimuginando su tutto. A un tratto sentì bussare alla porta e, dopo un momento, udì la voce di Gloria.
«Belle, se sei in casa, fammi entrare. Per l’amor di Dio, è un’emergenza».
Era esitante, ma la rabbia che provava sentendo la voce di quella donna le fece capire che doveva affrontarla di persona.
Quando Gloria entrò in casa, Belle ne rimase sconvolta. La sua faccia era un disastro. Portava il trucco del giorno prima e si notava quanto fosse colato nelle rughe d’espressione attorno agli occhi e nelle linee più scavate che andavano dal naso alla bocca. Puzzava di profumo stantio e il bianco degli occhi gonfi era iniettato di sangue.
«Mi devi davvero aiutare», disse tutto d’un fiato, senza guardarla mentre faceva avanti e indietro per la stanza, fuori di sé.
«Che vuoi dire?».
Gloria la fissò esterrefatta, come se fosse una stupida. «È tutta colpa tua. Hanno arrestato Edward e l’hanno accusato di aver ostacolato il corso della giustizia. Se lo mettono in carcere, rischia di perdere tutto. Carriera, reputazione, amici».
«Intendi un po’ come i miei genitori, che hanno perso tutto ciò che contava?»
«Mi dispiace, Belle, ma quello è successo talmente tanto tempo fa. Qui parliamo del presente, ed Edward potrebbe ancora avere un futuro talmente brillante. Non vorrai distruggerlo, vero?».
La sconcertava che Gloria potesse svilire tanto a cuor leggero quanto era accaduto ai suoi genitori.
«Non penso che tu capisca quanto abbiano sofferto i miei genitori. E quali ripercussioni abbia avuto su di me».
«Ma se non hai mai conosciuto tua sorella».
«Ha fatto impazzire mia madre. Penso fosse arrivata a convincersi di aver fatto del male alla sua bambina».
«Edward stava soltanto aiutando suo zio. Non è mica stato lui a prendere la bambina».
«Ha occultato tutto. È un reato punibile a livello penale, Gloria. Fosse per me, lo accuserei anche di concorso in reato e favoreggiamento, nonché di aver intralciato le indagini della polizia. E vale anche per te».
«Ti giuro che all’epoca io non ne sapevo niente. È venuto fuori soltanto dopo…». Le si affievolì la voce mentre Belle la guardava con aria torva.
Gloria si accese una sigaretta, poi cercò di arruffianarsela. «Senti, farò tutto quello che vuoi. Potrei contattare mia cugina, Emily… si chiamava Elvira, giusto? Potresti aiutare Edward a uscirne pulito se lo facessi?».
Belle rimase ferma immobile. Era ancora viva. Finalmente ne aveva la certezza. Sua sorella era ancora viva.
Tuttavia, ora che aveva avuto la sua conferma, non sapeva bene come reagire. Dopo tutto quello che aveva passato, si limitò a fissare Gloria mentre il sollievo crescente si opponeva alla sua collera. Si fece coraggio. Gloria e suo fratello le avevano tenuta nascosta l’esistenza di sua sorella e questa era una cosa che non poteva essere perdonata.
«Lei lo sa? Emily sa cosa le è successo?».
Gloria annuì.
«Quando l’ha scoperto?»
«Quando è morta sua madre, Emily ha trovato una lettera… Marie aveva confessato tutto».
«Quando?»
«Appena qualche mese fa».
«E quindi?»
«E quindi cosa?»
«Sa di me?»
«No».
Dopo un lungo attimo di silenzio, Belle strinse i pugni e sbuffò. «E pensi che basti contattarla per rimediare a ciò che hai fatto?»
«Be’, cos’altro vorresti? Ho molto denaro».
Mentre la sua rabbia si tramutava in glaciale freddezza, Belle articolò i propri pensieri con amara precisione. «Tu fraintendi le mie parole. Tu lo sapevi che stavo cercando Elvira. Tu mi hai fatto credere che c’era la possibilità che fosse stata mia madre ad averle fatto del male».
«Io…».
Belle alzò una mano. «No! Tu non hai il diritto di parlare. Mi hai incoraggiata a lanciarmi in un’impresa inutile con Harry, a causa della quale, dovrei aggiungere, per poco non sono stata ammazzata. Quanto sarebbe stato comodo. E immagino che il mio piccolo faccia a faccia con la morte non abbia nulla a che vedere con te o tuo fratello, giusto?».
Gloria scrollò il capo. «Non ne so niente, e sono sicura che anche Edward ne è all’oscuro. Puoi dimostrare che è stato lui?»
«Probabilmente no, ma la nostra testimone sì che può attestare quanto accaduto ventisei anni fa».
«Ti prego, Belle. Edward era così giovane all’epoca, stava appena cominciando a fare carriera. Ti supplico di chiedere alla testimone di ritirare la sua accusa».
Belle la fissò in preda all’incredulità.
Gloria si lasciò cadere di peso su una sedia, coprendosi il viso con le mani, si mise a piangere. «Distruggerà il nome della nostra famiglia».
«Stammi bene a sentire, Gloria, perché ora ti spiego cosa faremo. Tu mi darai l’indirizzo di Emily, così la contatterò di persona. È il minimo che tu possa fare».
«E cosa ne sarà di Edward?»
«Edward avrà esattamente quello che si merita».
Scosse la testa mentre continuava a fissare Gloria, e nessuna delle due donne aggiunse una sola parola, ma c’era una luce negli occhi dell’altra, una consapevolezza, il senso di colpa forse, che la lasciò a bocca aperta. All’improvviso, ebbe la sensazione che le si fosse gelato il sangue nelle vene. «Sei stata tu, vero? Me li hai mandati tu quei biglietti anonimi. Per l’amor di Dio, Gloria, perché?».
Si aspettava una smentita categorica, ma Gloria non negò affatto. Anzi, in uno slancio di spavalderia, i suoi occhi si illuminarono. «L’ho fatto con le migliori intenzioni. Volevo evitare che ti avvicinassi troppo alla verità. Se avessi scavato troppo a fondo, avevo paura che ti saresti messa in pericolo».
«In pericolo a causa di chi?».
Gloria ignorò la sua domanda, ma Belle sapeva che si stava riferendo a Edward. «Speravo che i biglietti ti incoraggiassero ad andartene».
Belle fece un fischio. «Santo cielo. Questa sì che è bella! E sei orgogliosa di ciò che hai fatto? Mi stavi proteggendo?».
Gloria annuì inebetita. «Ecco perché ti ho spronata ad andare a Mandalay. Avevo bisogno di tempo per trovare un modo per convincerti ad abbandonare le ricerche, soprattutto a Rangoon».
«Però all’inizio mi hai aiutata».
«Sarebbe stato troppo evidente che avevo qualcosa da nascondere se avessi cercato di ostacolarti».
«Vale anche per Edward?».
Lei assentì con un cenno del capo. «Nessuno dei due pensava che avresti mai riportato a galla la verità».
«E così mi hai messa in guardia da Oliver. Sapevi che disponeva dei mezzi e dei contatti giusti per farlo. Ti eri resa conto che avrebbe capito dove cercare».
Gloria non mosse un muscolo, il volto pietrificato se non per il mascara che le stava colando sulle guance. Belle non provò neanche un briciolo di pietà per lei.
Belle si chinò sulla lettera che stava cercando di scrivere a Elvira, o Emily, come si chiamava adesso. Con troppe domande senza risposta a offuscarle la mente, aveva già fatto cinque tentativi infruttuosi. Emily l’avrebbe voluta conoscere? Le avrebbe fatto piacere sapere che l’aveva ritrovata e poi contattata in quel modo? O sarebbe stata ancora troppo scioccata dalla rivelazione sulle sue origini da non essere in grado di prendere in considerazione altre sorprese? Faticando a trovare le parole adatte, Belle aveva già appallottolato ogni tentativo di stesura prima di gettarlo via. Cosa scrivere a una sorella perduta da tempo che non sapeva ancora nulla della sua esistenza?
Accartocciò l’ennesimo foglio e lo scagliò via con forza in preda all’esasperazione. Oliver, entrando nella stanza, lo prese al volo. «Wow», disse, «siamo arrivati a questo punto?». Poi la raggiunse e le diede un bacio sopra la testa. «È così complicato?»
«È terribile», si lamentò lei, alzando lo sguardo. «Ogni frase che scrivo mi sembra raffazzonata. Tu fai il giornalista. Dimmi cosa scrivere».
«Lo sai che non posso, ma ti consiglio di farla semplice e di andare dritta al dunque».
«Più facile a dirsi che a farsi, eh?»
«Attieniti semplicemente ai fatti. Evita troppe spiegazioni. Dalle la possibilità di reagire come meglio crede».
«E se non mi volesse conoscere?».
Oliver inarcò le sopracciglia. «Scusa, amore mio, ma è un rischio che devi correre».
«Dovrei farle le mie condoglianze per la morte della donna che è diventata sua madre?».
Lui fece spallucce. «Decidi tu».
Belle chinò un attimo il capo, poi alzò di nuovo gli occhi. «Sei proprio sicuro di non volerla scrivere al posto mio?».
Oliver rise. «Abbastanza».
Quando uscì dalla stanza, Belle riprese la penna, tirò fuori un foglio intonso di carta intestata e ricominciò da capo. Stavolta le parole cominciarono a fluire.
Cara Emily,
non mi conosci, ma mi chiamo Annabelle Hatton e sono tua sorella minore, nata quando i nostri genitori hanno lasciato la Birmania. Tua “cugina”, Gloria de Clemente, mi ha detto che di recente hai appreso la verità su quanto successo quando sei nata, nelle tue prime settimane di vita. Immagino che scoprirlo in quel modo debba essere stato devastante.
Cambiando discorso, mi spiace molto per il lutto che hai dovuto affrontare. Purtroppo anche mia mamma, Diana (la tua madre biologica), è morta alcuni anni fa, ma avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere che sei ancora viva. Ho scoperto cosa ti era successo solo quando è venuto a mancare mio (nostro) padre, e mi ha stupita trovare i ritagli di giornale che parlavano della tua scomparsa. La notizia era stata messa a tacere per così tanto tempo, e io non sapevo nemmeno di aver mai avuto una sorella.
Per quanto mi riguarda, sono venuta in Birmania e ho accettato un lavoro come cantante all’hotel Strand, ma ho passato tanti mesi a cercare di capire cosa ti fosse capitato. Ho sempre desiderato una sorella e sono così emozionata all’idea di averti finalmente trovata. Naturalmente, forse tu non sei dello stesso avviso, e lo capirei.
Ora come ora vivo a Rangoon e ho deciso di restare qui, almeno per il momento, specialmente perché mi sto divertendo un sacco a ristrutturare la casa in cui sei nata. Se per te non fosse troppo doloroso, mi piacerebbe avere tue notizie e sapere com’è la tua vita. Se fossi interessata a incontrarmi, qua ci sono molte stanze libere e saresti più che la benvenuta a trattenerti da me. Ciononostante, accetterei la tua decisione se invece preferissi evitare. So che scoprire in questo modo di avere una sorella dev’essere abbastanza sconvolgente.
Tra quattro mesi mi sposerò con Oliver, un giornalista americano. È un uomo fantastico. Ci sono talmente tante cose che vorrei dirti o chiederti, ma non mi dilungherò in questa lettera, alla quale spero davvero tanto che tu risponda.
Con i miei auguri più sinceri,
Belle
Sapeva che per evitare un’amara delusione avrebbe dovuto mettere un freno alla speranza e alla trepidazione, ma non riusciva a smettere di sorridere. Quando chiuse la busta da spedire per posta aerea e prese il tram per andare in città, la sua esuberanza innata iniziò a traboccare. Di certo sua sorella l’avrebbe voluta conoscere, no?
Belle, Rangoon, tre mesi dopo
Belle appoggiò con cautela il pennello sul coperchio del barattolo di vernice, poi fece un passo indietro per ammirare la terza camera da letto che aveva completato, la muffa ormai sparita e le pareti fresche e luccicanti come la prima. Quella stanza, con la veranda che affacciava sul patio, quella che era sicura fosse appartenuta a sua madre, sarebbe diventata camera sua, anche se al momento le sue comodità materiali si limitavano a una branda da campeggio e a uno sgabello su cui sedersi. Quantomeno, però, erano state riallacciate le utenze, aveva un bagno, i pavimenti erano stati riparati e il tetto impermeabilizzato. Alcuni muri erano stati ristuccati, il cucinotto rudimentale era abbastanza funzionante da permetterle di preparare la colazione e il tè, e il salotto, per quanto spoglio, vantava un divano e due poltrone. Aveva riverniciato personalmente ogni stanza e, un poco alla volta, con la pittura bianca che ridava vita alle pareti, aveva osservato la sua nuova casa con una soddisfazione immensa. L’unica tristezza era dovuta al fatto che i suoi genitori non potessero essere lì per vederla.
Durante la settimana si occupava dei lavori in casa a ritmi febbrili, mentre i weekend erano riservati al nuovo posto come cantante al Silver Grill. Non era granché, ma per fortuna l’eredità ricevuta da suo padre bastava a coprire i lavori di ristrutturazione.
Mentre sciacquava i pennelli nel lavandino rettangolare della piccola lavanderia sul retro della casa, udì il cigolio della porta, ormai riparata, e l’arrivo di Oliver.
«La sua carrozza la sta aspettando, mia signora».
Sorrise. «Intendi dire che hai noleggiato un risciò».
Oliver scoppiò a ridere. «Beccato».
«Dammi il tempo di cambiarmi», disse lei, e indicò la camicia e i pantaloncini imbrattati di vernice.
Le andò incontro, le tolse di mano i pennelli e le diede un bacio sulla punta del naso. «Hai della vernice qui», disse. Poi le baciò la fronte. «E qui».
Mentre le baciava le guance, il collo e finalmente le labbra, lei reclinò indietro la testa, sperando in qualcosa di più.
«Resta a dormire da me stasera», le propose, il viso atteggiato a una maschera di fastidio. «Non penso che la mia schiena sia in grado di sopportare un’altra notte sulla tua brandina, specie quando alla fine finisco sempre sul pavimento».
Belle si rigirò l’anello di fidanzamento attorno al dito e lo guardò con un sorriso raggiante.
«Ma devo tornare presto. Ho ancora un sacco di cose da fare se voglio che sia tutto in perfetto ordine prima dell’arrivo di Simone».
Lui inclinò la testa e le rivolse uno sguardo interrogativo. «Verrebbe da pensare che è la regina d’Inghilterra».
Belle sorrise gioiosa, lieta di essere riuscita a scrivere a Simone e di averle comunicato tutto ciò che aveva scoperto. «È ancora meglio. E comunque, l’ultima volta che ho controllato avevamo un re».
«Indovina un po’?», fece lui. «Ho scovato degli splendidi pezzi di antiquariato in uno di quei negozietti cinesi vicino a casa mia».
«Pezzi costosi?»
«No… Quando parlo di antiquariato…».
«Intendi ciarpame».
Sorrise. «Bel ciarpame».
Belle lo prese a braccetto. «Mi servono delle lenzuola nuove e una trapunta imbottita».
«Per quelle c’è Rowe’s. Ma non stai dimenticando qualcosa?»
«I letti li ho già ordinati. Arriveranno dopodomani».
Andò al piano di sopra per lavarsi e cambiarsi e ripensò a quel lontano giorno del 1911 in cui la piccola Elvira era stata rapita dalla zia di Edward e Gloria. Dopo aver imbucato la lettera per Elvira, o meglio Emily, aveva vissuto in un’alternanza di ansia ed eccitazione. Poi, quando la risposta era finalmente arrivata, l’aveva aperta con mani tremanti. E in quel momento la tirò fuori di nuovo e la rilesse da capo, forse per la ventesima volta.
Mia cara Belle,
non so cosa dire. Sono sconvolta. Anzi, sono allibita, ma sono anche tanto, tanto emozionata e mi fa piacere sentirti. Nemmeno io ho avuto fratelli o sorelle, ma l’ho sempre desiderato. Mia madre – scusami, devo chiamarla così – be’, non è più riuscita ad avere figli. Purtroppo, ha dato alla luce soltanto me. Una bambina nata morta.
Lavoro qua a New York nel settore dell’editoria, sono sposata e ho un bambino di cinque anni che si chiama Charlie, cioè tuo nipote. Sarei felicissima di venirti a trovare a Rangoon, anche se dovrei sistemare alcune faccende rimaste in sospeso prima di essere libera di partire. Ci sono così tante cose che voglio sapere su di te e su Diana.
Dici che stai per sposarti. Se puoi farmi sapere la data precisa, e se riesco a liberarmi per tempo, mi piacerebbe essere presente, sempre che sia invitata, ovviamente.
Nel frattempo, con affetto,
tua Emily
Ogni volta che la rileggeva, sentiva gli occhi riempirsi di lacrime. Emily era davvero felice di aver ricevuto sue notizie o stava soltanto cercando di essere gentile scrivendole ciò che avrebbe voluto sentirsi dire? Belle sapeva che non doveva essere semplice per Emily accettare ciò che avevano fatto i suoi genitori, e fare i conti con una sorella che non aveva mai saputo di avere, ma le aveva risposto dicendole che sarebbe stato perfetto se fosse riuscita ad arrivare in tempo per il matrimonio.
Aveva pensato fosse meglio evitare di accennare a cosa era successo a Gloria ed Edward nelle sue due lettere, ma la indispettiva che Gloria avesse lasciato Rangoon e nessuno sapesse dove fosse finita. Aveva sfruttato la sua posizione influente e Belle era infuriata perché, a quanto pareva, l’avrebbe passata liscia e non avrebbe pagato per quello che aveva fatto. Edward, al contrario, era stato riconosciuto colpevole di aver ostacolato il corso della giustizia e stava ammuffendo nel carcere di Rangoon, dove avrebbe scontato una pena a diciotto mesi di reclusione. Tutti pensavano che la polizia l’avrebbe rilasciato e rispedito in Inghilterra con la coda tra le gambe, ma ciò non era accaduto grazie al giovane e coscienzioso avvocato della pubblica accusa, che non si era lasciato corrompere. In ogni caso, la reputazione di Edward ne era uscita distrutta e la sua carriera fatta a brandelli.
Belle chiuse la finestra, poi sfilò un paio di scarpe rosse con il tacco alto da sotto la branda e si mise degli orecchini d’argento. Un’ultima occhiata nel minuscolo specchietto per controllare i capelli ed era pronta.
Due giorni dopo, nel tardo pomeriggio, Belle passeggiava nell’atrio di casa sua e ammirava il pavimento di marmo appena tirato a lucido. Aveva comprato un delicato tavolo orientale dipinto a mano e un grazioso specchio dal “rigattiere” di Oliver, quindi l’ingresso, per quanto ancora piuttosto spoglio, adesso aveva un’aria più accogliente. Le pareti erano bianche e nell’aria aleggiava il profumo delle rose fresche sistemate in un vaso di vetro sul tavolino, che mascherava l’odore della vernice. Aveva piovuto per tutto il pomeriggio e, benché ormai avesse smesso, il cielo era rimasto cupo e minaccioso. Pregava che il maltempo non ritardasse l’arrivo di Simone.
Oliver, impegnato nell’organizzazione in cucina, stava cantando e stonava. Era stata felicissima di scoprire che era molto bravo a cucinare, un compito che non l’entusiasmava affatto, e nel suo appartamento avevano condiviso tanti gustosi manicaretti. Era stato durante una di quelle cene che Oliver l’aveva sorpresa inginocchiandosi, guardandola negli occhi e chiedendole di sposarlo. Cercando di non scoppiare a ridere, aveva osservato con attenzione il suo bel viso e l’inclinazione speranzosa della testa, ed era riuscita a sorridere e a dirgli di sì. Quando si era rialzato, gli aveva dato del vecchio sdolcinato, ma poi avevano bevuto una bottiglia e mezzo di champagne, avevano fatto l’amore pazzi di gioia, e da allora erano diventati inseparabili. La sua avversione per l’alcol, naturalmente, era stata dimenticata, e Belle preferiva di gran lunga la persona più rilassata che era diventata.
Oliver l’aveva anche sorpresa con una cucina elettrica, oltre a tegami, posate, stoviglie, bicchieri e provviste: tutta roba nuova di zecca consegnata da Rowe’s. Di conseguenza, ora disponevano di tutto il necessario per preparare la prima cena per Simone. Belle salì al piano di sopra per controllare la camera di Simone per la centesima volta. Il letto nuovo, di una comodità appagante, era pronto e rifatto con lenzuola di un bel bianco brillante e un morbido copriletto color avorio.
Finora Belle e Oliver non avevano discusso a fondo del futuro. Lui era preoccupato che potesse scoppiare un’altra guerra e, non essendo affatto sicuro di quali potessero essere le ripercussioni lì in Birmania, aveva suggerito di trasferirsi in America se la situazione si fosse complicata. Nonostante questo, non aveva obiettato quando lei aveva espresso il desiderio di ristrutturare la vecchia casa dei genitori, con la prospettiva di andarci a vivere se fossero rimasti in Birmania.
Mentre rifletteva su queste cose, Belle sentì bussare alla porta d’ingresso e, sullo slancio dell’emozione, si precipitò da basso per andare ad aprire.
Una bella donna di mezz’età, con i capelli biondi e gli occhi color ambra, ricambiò il suo sorriso. Belle, talmente elettrizzata dal fatto che stava finalmente conoscendo la vecchia amica di sua madre, la guardò raggiante e scese di corsa i gradini all’ingresso.
«Benvenuta», disse, tendendo entrambe le mani. «Non so neanche dirti quanto mi rende felice che tu sia arrivata».
Simone fece un passo avanti e le due si abbracciarono, dopodiché allontanò Belle da sé per guardarla meglio.
«E così tu sei Annabelle. Quanto somigli a tua madre».
«Davvero?».
La donna annuì. «Senti, non sono stata del tutto onesta con te». Lanciò un’occhiata alla sua sinistra e, appena oltre la sua visuale, un’altra donna con un elegante abito celeste fece un passo avanti.
Lì per lì, Belle pensò che quella donna dai capelli ramati dovesse essere sua sorella, ma era troppo avanti con gli anni per essere Elvira. Esitò, con la testa che le girava vorticosamente. No. Non poteva essere. Non poteva. Era impossibile. Belle non riusciva a guardarla, eppure non riusciva nemmeno a distogliere lo sguardo. Profondamente scioccata e con la sensazione che il mondo stesse rimpicciolendo attorno a lei, rimase pietrificata. Stava sognando? Aveva sbattuto la testa o qualcosa del genere? Era reale? Il silenzio si prolungò e Belle temette che non sarebbe mai più riuscita a respirare, ma alla fine, con un’esplosione di rumore, il sangue affluì verso le tempie, facendole martellare. Come se si stesse riprendendo da un incantesimo, boccheggiò, fece un passo indietro e andò a sbattere addosso a Oliver, che era apparso alle sue spalle. Le salì un groppo in gola e cercò di ricacciarlo indietro, ma iniziarono a bruciarle gli occhi e a quel punto si sciolse in un torrente di lacrime. Silenziose e devastanti. Aveva le vertigini, ma Oliver la sorresse e l’aiutò a mantenere l’equilibrio, e poi le porse un fazzoletto pulito. Mentre si asciugava gli occhi, Belle continuava a inghiottire le lacrime. Ora riusciva a mettere a fuoco l’intero giardino, con i tanti profumi deliziosi diffusi dal temporale, l’odore argilloso della terra, le foglie rinverdite sugli alberi e la nota fragrante dei fiori che erano sopravvissuti all’acquazzone. Al di là del nugolo di insetti sospeso sopra i cespugli carichi di pioggia, il temporale aveva lasciato il posto a un pomeriggio terso e cristallino.
In un primo momento, la donna inclinò la faccia per godersi il calore del sole e Belle riconobbe quel movimento familiare… oh, lo conosceva così bene. Poi, senza battere ciglio, con un’espressione calmissima, guardò Belle con i suoi occhi chiari e luminosi, come se fosse in procinto di sorridere ma stesse aspettando un segnale. “Da parte mia”, pensò Belle. “Sta aspettando che faccia il primo passo?”. Spostò il peso da un piede all’altro, sostenne lo sguardo della donna e, in quel momento, le fu tutto chiaro.
«Mamma?», sussurrò.
Diana annuì e mosse un passo in direzione di sua figlia.
«Ma tu sei…».
«Douglas decise che era la cosa migliore da fare».
Belle attese di scorgere il gran caos di passioni e ossessioni che un tempo aveva imperversato sotto la superficie della calma apparente di sua madre, ma non sembrava affiorare nulla, e si sentì confusa. Quella madre… quella madre con i capelli tanto ordinati e acconciati in un elegante chignon, quella madre con gli occhi chiari e la pelle perfetta, quella madre che aveva una postura così dritta e composta… chi era?
«Ma non sei mai venuta a cercarmi», sbottò allora, furibonda.
Sua madre fece un profondo respiro. «Sono venuta».
«Quando? Quando sei venuta?»
«Avevi quindici anni. Mi ero ripresa dalla mia malattia…».
«Ti eri ripresa? Ti eri ripresa?», la interruppe di nuovo Belle, travolta dalla rabbia e dal dolore che le stringevano un nodo alla gola. «Ma non sei tornata da noi».
«Io volevo vederti, ma tuo padre pensava che ti avrebbe scombussolata troppo, soprattutto quando ti aveva convinta del fatto che fossi morta. Diceva che ormai ti eri abituata all’idea».
Le lacrime ripresero a sgorgare, inarrestabili, e Belle le asciugò in fretta. «E tu hai lasciato che ti mandasse via? Io avevo bisogno di te, mamma. Io avevo bisogno di te».
Diana la guardò sconsolata e, anche se Belle poteva notare la devastazione negli occhi di sua madre, non riusciva comunque a tenere a bada la rabbia.
«Mi dispiace così tanto, amore mio».
«Dispiacersi non è sufficiente». Belle si voltò verso Simone e sentì di avere le guance in fiamme. In passato, non aveva mai saputo confrontarsi con la terra desolata della vita di sua madre. Lei e quella donna erano davvero la stessa persona?
Osservò attentamente Simone. «Quando ti ho scritto, perché non mi hai detto che mia madre era viva?»
«Stavo per farlo. Poi io e lei ne abbiamo parlato e ho deciso che sarei venuta in Birmania a dirtelo di persona. Non è il genere di notizia da comunicare con una lettera».
«Io ho insistito per venire», aggiunse Diana. «Morivo dalla voglia di riabbracciarti, ma non credevo che a te andasse di vedermi. Ecco perché non ho più avuto il coraggio di riprovarci. E poi Simone mi ha detto che eri qui».
«Volevo…», balbettò Belle. «Voglio…». E ricominciò a piangere.
Diana si precipitò dalla figlia che si afflosciò tra le sue braccia aperte. Mentre le due donne singhiozzavano, la realtà rimase sospesa, come se il loro pianto potesse non cessare mai. Alla fine, quando si calmarono, Diana sorrise tra le lacrime e asciugò le guance di sua figlia, proprio come se fosse stata una bambina.
«Sono così orgogliosa di te», le disse. «Così orgogliosa. Quando hai finito la scuola, ti ho mandato delle lettere a Cheltenham per spiegarti tutto, ma non mi hai mai risposto…».
Belle spalancò gli occhi. «Non ho mai ricevuto alcuna lettera».
«Forse Douglas…».
«Pensava di proteggermi?».
Diana annuì.
Poi, come calò il silenzio sulle tre donne dagli occhi umidi, Oliver prese la parola. «Ho messo in fresco dello champagne. Chi ne vuole un po’?».
Tra le risate e le lacrime, Belle riuscì a dire: «Mamma, ti presento Oliver, il tuo futuro genero».
Il mese successivo era volato e ormai era arrivato il giorno della vigilia delle nozze. La ciliegina sulla torta, se mai ce ne fosse stato bisogno, era stata la lettera da parte di Emily, il cui arrivo a Rangoon era previsto in giornata. Belle le aveva già scritto per darle la splendida notizia che Diana era ancora viva e che al momento anche lei si trovava in Birmania. I genitori di Oliver, nel frattempo, erano appena arrivati e avevano preso una suite all’hotel Strand. Ogni mattina, Belle e sua madre gironzolavano per il giardino prima che arrivassero le piogge pomeridiane, parlavano e si confidavano tutto ciò che era successo durante il lungo periodo di separazione. A volte Belle se l’era presa con sua madre, poi con suo padre, e descriverle le sofferenze che aveva vissuto da bambina era doloroso. Non riusciva a capire per quale motivo suo padre avesse intercettato le lettere di Diana. Quando gliel’aveva chiesto di nuovo, sua madre si era limitata a dire che un tempo lei e Douglas si erano amati, ma che la vita aveva cambiato entrambi. Il velo di tristezza negli occhi di Diana l’aveva dissuasa dall’insistere sull’argomento. Lettere a parte, e per quanto le era stato possibile, pian piano Belle aveva cominciato ad accettare il fatto che le cose dovevano essere andate così per una ragione ben precisa. Diana era riuscita a convincere la figlia che gran parte dei comportamenti di Douglas, quantunque a volte un tantino maldestri, erano dettati dalla volontà di proteggerla.
«E adesso stai davvero bene?», le aveva domandato Belle, guardandola negli occhi, quando era arrivata la pioggia ed erano fuggite a ripararsi in casa.
«Sì, sto davvero bene».
E Belle, avendo scorto la saggezza e la compassione negli occhi verdi della madre, aveva capito che era la verità.
Più tardi, cessata la pioggia e prima che calasse l’oscurità, Belle e Diana esplorarono il limitare del giardino, dove le rose si arrampicavano a profusione e scendevano a cascata. L’intero giardino, impregnato d’umidità, brillava dopo le piogge monsoniche. Diamanti di luce scintillavano sull’erba bagnata e il cielo riluceva di sfumature di rosa e lilla. Madre e figlia inspirarono a pieni polmoni la dolcezza che aleggiava nell’aria, ma nessuna delle due parlò di Elvira. Era come se non avessero il coraggio di menzionare il suo nome, nel timore che la magia dell’averla ritrovata viva potesse svanire e, con essa, anche la stessa Elvira. Parlarono invece del matrimonio, delle condizioni del Paese, di cosa sarebbe accaduto in futuro. Diana le parlò della strada verso la guarigione e del suo debito di gratitudine nei confronti di Simone e del dottor Gilbert, che le aveva restituito la vita. Belle le raccontò di Oliver e del suo lavoro. Anche se inizialmente era andata in Birmania piena di energie e speranze per la propria carriera, le cose erano andate in modo diverso. Aveva ottenuto una madre e un fidanzato, e stava per ritrovare anche una sorella. Cantare era ancora una parte importante della sua vita e sperava di continuare a farlo, ma adesso aveva anche una famiglia.
«La voce l’hai presa da me», disse Diana.
«Come gli occhi verdi e i capelli rossi», aggiunse Belle.
Diana sfiorò i capelli della figlia. «I tuoi sono più dorati dei miei».
Ma Belle non le prestava più ascolto. Stava osservando la porta sul retro della sua vecchia dolce casa, dove Oliver stava insieme a una donna che non aveva mai visto prima. La donna sorrideva e i suoi capelli, illuminati dal sole, erano ancora più rossi di quelli di Diana o di Belle.
«Elvira». La voce di Diana non era che un sussurro roco.
«Vai», disse Belle con estrema delicatezza, poi le diede una spintarella.
Diana girò la testa, sorrise a Belle e si mise a correre, più veloce di quanto avesse mai corso prima di allora, e con le braccia protese raggiunse la figlia che le era stata portata via ventisei anni prima e che aveva creduto di aver perso per sempre. Belle la seguì lentamente, volendo concedere a sua madre quei pochi preziosi momenti da sola con Elvira. Si voltò a guardare il tamarindo al quale era passata accanto. Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe andata a finire così?
Dopo qualche minuto, andò incontro a Emily e Diana e si fermò. Sua madre fece un passo indietro, e le due sorelle rimasero immobili, fissandosi a vicenda. Incantata e desiderosa di farsi avanti, ma pietrificata da quanto, nemmeno troppo tempo prima, le era parso impossibile, Belle si rese conto che ce l’aveva fatta. Non si era arresa, nemmeno quando era terrorizzata. Ora, non riuscendo a far altro che godersi sua sorella, ebbe il timore che le prendesse un colpo; il cuore palpitava e faceva le capriole, tanto che si dovette portare una mano al petto. E a quel punto l’incantesimo si ruppe. Emily si fece avanti e allungò le braccia, e dopo pochi secondi le due donne si stavano abbracciando e ridevano in mezzo a un fiume di lacrime.
C’erano così tante cose da dire, così tante questioni da risolvere, e tuttavia per Belle era impossibile parlare. Nessuna delle due sorelle sembrava sapere da dove cominciare. L’attimo si protrasse fino a quando, alla fine, si voltarono entrambe a guardare Diana, dopodiché le tre donne si incamminarono in silenzio verso casa, prendendosi a braccetto. Belle sentì agitarsi il passato, come se fosse improvvisamente tornato in vita, e capì che certe cose, almeno per il momento, erano troppo complesse per essere espresse a parole.
Arrivate alla porta, si voltarono a contemplare il giardino, soffuso d’oro dal sole morente.
«Amavo questo giardino», sussurrò Diana.
Belle ritrovò la voce. «L’ho capito non appena l’ho visto».
Emily guardò il terreno ai suoi piedi prima di alzare gli occhi verso Diana. «Mi spiace tanto per quello che è successo in questo posto».
Diana le prese una mano e gliela strinse. «Avremo tempo per parlare. Per adesso, voglio solo che crediate che ci siamo lasciate tutto alle spalle».
Ci fu qualche altro attimo di silenzio.
«Cambiando discorso», intervenne Belle con un sorrisetto, «so che non ti sto dando molto preavviso, Emily, ma non è che accetteresti di farmi da damigella d’onore?».
Dopo il matrimonio, Oliver e Belle decisero di non partire. Come avrebbero potuto, visto che Emily era appena arrivata, con solo tre settimane da passare a Rangoon e così tanti anni da recuperare. Una mattina presto, quando la giornata era ancora fresca e piena di promesse, Belle ed Emily erano sedute su una panchina sotto il tamarindo, intente ad ascoltare il venticello che smuoveva le foglie e a osservare gli uccelli che scendevano in picchiata di albero in albero.
«È qui che dormivi nella tua carrozzina il giorno in cui sei stata rapita», disse Belle. «Proprio sotto questo tamarindo».
Emily annuì, ma non rispose.
Avevano passato talmente poco tempo da sole, e in realtà Belle non sapeva come la facesse sentire tutto ciò che era accaduto. Era davvero felice di essere stata ritrovata, o una piccola parte di lei era contrariata dal fatto che le avesse stravolto la vita? Gliel’avrebbe voluto chiedere, ma non sapeva come, e poi Emily cominciò a parlare.
«A modo suo, Marie è stata una buona madre con me, o almeno ha fatto del suo meglio», disse, interrompendo il filo dei pensieri di Belle.
«Anche Diana», disse Belle con una certa titubanza. «Sebbene all’epoca non me ne rendessi conto. Non capivo. La giudicavo. La biasimavo».
«Eri una bambina».
Belle prese fiato e chiuse gli occhi, che d’un tratto avevano preso a bruciarle.
«Ora hai un’occasione per rimediare a tutto».
Belle annuì ed espirò lentamente, sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime.
«Quando ho letto che Marie mi aveva rapita proprio da questo giardino è stato… be’, non ci sono parole per descriverlo. Non c’è niente che ti prepari a uno shock capace di cambiarti così tanto la vita».
Calò un breve attimo di silenzio, nel quale Belle cercò di immaginare cosa avesse provato.
«Ero così arrabbiata», continuò Emily. «Ma mi sentivo anche triste e confusa. Mi era crollato il mondo addosso e tutto ciò che pensavo di essere era diventato una bugia. Soprattutto, non volevo crederci. Penso di non aver dormito per una settimana. Ma questo spiegava la depressione e l’ansia di cui Marie ha sofferto per tutta la vita».
«In che senso?».
Emily si strinse nelle spalle. «Alla base di tutto c’era il senso di colpa».
Ci fu un’altra lunga pausa prima che Belle rispondesse.
«Anche Diana è stata male per anni. L’avevano accusata di averti fatto del male».
Emily scrollò il capo e, quando parlò, le si spezzò un poco la voce. «Mi spiace così tanto per ciò che ha fatto Marie e per il modo in cui ha distrutto la tua famiglia. Non so se sarò mai in grado di accettarlo fino in fondo».
Belle la prese per mano.
«A mano a mano che metabolizzavo la verità, mi sono resa conto che Marie era tormentata dal rimpianto per quello che aveva fatto. Ecco perché si era ammalata così tanto».
«Anche Diana, benché mi senta fortunata, perché non solo è ancora viva, ma sta persino bene».
«L’abbiamo ritrovata entrambe, non è così?».
Belle sorrise, perché le tornò in mente il viso di sua madre. «Ha un aspetto meraviglioso, non trovi?».
Emily fece cenno di sì con la testa, ma Belle scorse qualcosa di strano nella sua espressione e, all’improvviso, si innervosì.
«Posso essere onesta?», domandò Emily.
«Ma certo».
«Be’, il problema è che non so cosa dire a Diana. Mi sento tremendamente combattuta. Vorrei imparare a conoscerla e non so spiegarti quanto sia importante per me averla incontrata di persona, ma dall’altro lato, e forse non dovrei, per certi versi mi sento ancora protettiva nei confronti di Marie. Ciò che ha fatto è imperdonabile, lo so, ma mi voleva bene».
Belle annuì e ci pensò bene prima di risponderle. «Diana per prima ne ha passate tante. Sono certa che capirà».
«Lo spero».
«E che mi dici di tuo padre? Cosa ne è stato di lui?».
Emily inspirò a fondo. «Purtroppo, mio padre si è sparato un colpo in testa un anno dopo aver lasciato la Birmania. Ero troppo piccola per ricordare qualcosa, ma mia madre era fuori di sé dal dolore e lo è stata per anni. Sono convinta che si ritenesse responsabile».
«Così tanti sensi di colpa».
«Sì, ma come ti ho detto, ha fatto del suo meglio, e qualche anno dopo, quando si è risposata, ho avuto un patrigno meraviglioso e premuroso, ed è stata una figura determinante per me».
«E adesso hai un bel bambino».
«Sì. La luce dei miei occhi. Non vedo l’ora di fartelo conoscere. Spero che tu e Oliver veniate presto a trovarci a New York. Abitiamo in una vecchia casa d’arenaria. È bellissima e ci sono stanze a non finire».
Belle sorrise. «Puoi scommetterci!».
Emily scoppiò a ridere. «Cielo, penso che potresti trasformarti in un’americana».
In tutta risposta, Belle inarcò le sopracciglia e si mise a ridere a sua volta. «E chi lo sa, magari alla fine potremmo venire a vivere lì. Anche se sarebbe triste lasciare questo posto».
«Posso immaginare».
«Sono sicura che un giorno o l’altro riuscirai a scendere a patti con i tuoi sentimenti per Marie. Non posso fare a meno di pensare che all’epoca dovesse essere molto disturbata».
«Sì. Non era una cattiva persona. Nient’affatto. Era soltanto una donna malata e malaccorta che ha commesso un gesto orribile e ne ha pagato le conseguenze per il resto della vita. La cosa tremenda è che non riesco ancora a perdonarla».
«Ci riuscirai. Con il tempo».
Emily chinò il capo. «Fa male, Belle».
«Lo so».
Ci fu un lungo attimo di silenzio, poi Emily strizzò gli occhi e guardò Belle, come se stesse valutando un’idea.
«Che c’è?», chiese Belle.
«Volevo ringraziarti».
«Per cosa?»
«Per tutto. Per avermi trovata».
«Ne sei davvero felice?».
A Emily brillavano gli occhi. «Ho sempre desiderato una sorella».
«Ma c’è dell’altro, non è così?»
«Ci sono ancora così tante cose con cui devo fare i conti. Un sacco di nodi da sciogliere, capisci?».
Belle riusciva a vedere la tristezza nello sguardo di Emily e capiva benissimo. Certo, non poteva essere tutto rose e fiori. Sua sorella avrebbe dovuto riconsiderare tutta la sua vita, un po’ come avrebbe dovuto fare anche lei.
«Potrai sempre parlare con me», disse. «Te lo prometto».
«Sì, non ho mai avuto nessuno con cui poterlo fare».
Mentre si sorridevano a vicenda, Belle capì che avrebbe sempre custodito gelosamente quel momento. Era una tregua, quel momento, un singolo istante negli assurdi alti e bassi della vita che forse avrebbe permesso al passato di mutare e dissolversi mentre sedevano insieme in giardino. Nonostante le emozioni contrastanti di Emily, c’era qualcosa di speciale nel condividere i profumi, appena sprigionati dalla pioggia, delle piante e dei cespugli ancora in fiore, e nell’osservare gli uccelli che volavano tra le fronde degli alberi. Sua sorella era viva, e quella era l’unica cosa che contava. Il regalo di una sorella. Quanto era fortunata. Quanto erano state fortunate tutte e due a essersi ritrovate, e Belle sperava che avessero tutti gli anni a venire per diventare amiche per la pelle. Anni per imparare a conoscere i rispettivi sogni e le speranze. Anni per scoprire i rispettivi difetti e le paure. Anni per supportarsi a vicenda a prescindere da cosa le aspettasse, persino – data l’incertezza della situazione – la possibilità di un’altra guerra. Niente avrebbe mai potuto cancellare la solitudine che entrambe avevano vissuto in passato, o gli orrori ai quali Belle aveva assistito, ma lei sapeva che gli anni che avevano ancora davanti a loro, in quel meraviglioso modo in cui la vita dava tanto quanto toglieva, alla fine avrebbero compensato quelli che avevano perduto.
Sarebbero diventate una famiglia e, visto quanto era stata burrascosa la sua infanzia, Belle non poteva chiedere di meglio. Era figlia, sorella, moglie, zia e, se tutto fosse andato secondo i piani, anche se al momento Oliver era l’unico a saperlo, presto sarebbe anche diventata madre… tra sette mesi, all’incirca. E le si stringeva il cuore per Diana, che finalmente avrebbe potuto dissipare qualunque riserva stesse ancora nutrendo rispetto al passato. Già amava il bambino che le stava crescendo dentro e adesso iniziava davvero a intuire l’angoscia che doveva aver provato sua madre quando era scomparsa Elvira. Tirò un profondo sospiro e poi, assorta nei suoi pensieri, cominciò a canticchiare tra sé e sé.
Emily le sfiorò molto delicatamente il braccio. «Cosa stai cantando?», le chiese.
Belle si voltò verso sua sorella e sorrise al ricordo. «Oh, è solo una canzoncina della mia infanzia». Poi lanciò un’occhiata alla casa.
«È un posto incantevole», disse Emily, seguendo il suo sguardo.
«Dovrebbe essere tua. Sei la maggiore».
«No, Belle, è tua», replicò Emily, poi strinse la mano di sua sorella. «Te la meriti. Se non fosse stato per te, a quest’ora non saremmo qui. È merito tuo e non so dirti quanto ti sono riconoscente. Ti chiedo soltanto: non perdiamoci più di vista».
Mentre guardava prima sua sorella e poi la sua nuova casa, a Belle si riempirono gli occhi di lacrime. Non era soltanto un posto incantevole, come aveva detto Emily. Era la casa in cui era nata la sua splendida sorella, il posto dal quale era stata portata via, e adesso era diventato il posto dove era stata ritrovata.
«Ero così spaventata al pensiero che non ti avrei mai trovata», disse Belle, «o che tu fossi morta».
«Be’, mi hai trovata eccome. E adesso non ti lascerò più andare».
Si alzarono insieme e passeggiarono per il giardino tenendosi a braccetto, godendosi il momento che Belle aveva tanto desiderato ma che aveva anche temuto non sarebbe mai arrivato. La sorella scomparsa era finalmente tornata a casa. «Grazie», sussurrò mentre il cuore le si riempiva di gratitudine. «Grazie».